Democrazia diretta contro democrazia rappresentativa? In Svizzera per la seconda volta il popolo boccia una legge sul clima

In Svizzera, nel Cantone Vallese in data 24 novembre 2024 si è votato sulla legge denominata “Loi sur le climat”, approvata a larga maggioranza dal Parlamento del Cantone nel dicembre del 2023. La legge si poneva l’obiettivo di anticipare, rispetto alla legislazione federale, il raggiungimento della neutralità climatica di 10 anni, quindi entro il 2040 anziché il 2050.
Il testo è stato tuttavia bocciato a seguito del referendum popolare, passato con il 55,83% dei voti contrari, contro il 44,17% dei voti favorevoli. L’iniziativa referendaria era stata promossa dall’UDC Vallesana, il partito di destra, maggioritario in Svizzera, e dall’associazione delle piccole e medie imprese del Cantone (l’Union Valaisanne des Arts et des Metiers), asserendo che vi fosse un onere economico eccessivo e che si trattasse di una normativa che si poneva obiettivi irrealistici e irraggiungibili, oltre che superflui, essendo già presente una legge federale per il raggiungimento della neutralità climatica.
Prima di addentrarsi nel commento della vicenda preme effettuare una sintetica analisi dell’ordinamento svizzero e, in particolare, delle modalità di democrazia diretta che in esso trovano realizzazione.
La Svizzera, più di qualsiasi altro Stato, è caratterizzata, infatti, da un elevato grado di partecipazione popolare, che si sviluppa con numerosi strumenti di intervento nella vita politica del paese.
Difatti, la Costituzione svizzera prevede l’istituto dell’iniziativa popolare (artt. 138-139b) e due diverse tipologie di referendum, obbligatorio (art. 140) e facoltativo (art. 141).
Nessuna delle due forme di referendum è soggetta ad alcun tipo di controllo giurisdizionale di ammissibilità, né vi è la fissazione di un quorum minimo di votanti da raggiungere, come accade invece in Italia
Il referendum facoltativo, in particolare, può essere promosso, entro 100 giorni dalla pubblicazione di una legge federale, mediante la raccolta da parte dei cittadini delle 50.000 firme necessarie per sottoporre la stessa al vaglio del voto popolare; nel caso che ci interessa, tuttavia, il referendum era su scala cantonale, richiedendosi la raccolta di 3.000 firme.
Che in Svizzera la volontà popolare ricopra un ruolo determinante è anche dimostrato dal fatto che la stessa Costituzione elvetica si apre con la dicitura “In nome di Dio Onnipotente, Il Popolo svizzero e i Cantoni (…) si sono dati la presente Costituzione” e che l’art. 1 mette il Popolo, insieme ai Cantoni, alla base della Confederazione svizzera.
Come già chiarito, l’istituto del referendum facoltativo è comunemente utilizzato nell’ordinamento elvetico, ma in questo caso la questione assume particolare interesse in quanto si tratta già della seconda occasione in cui il popolo svizzero boccia una legge finalizzata ad arginare gli effetti del cambiamento climatico, sconfessando una decisione presa in sede parlamentare.
Difatti, a giugno del 2021 i cittadini svizzeri si sono recati alle urne per votare sulla modifica della legge federale sul CO2 e, sempre a seguito di referendum facoltativo, anche in quel caso l’elettorato ha rigettato il testo legislativo.
Questi due eventi, l’uno accaduto a livello federale, l’altro a livello cantonale, costituiscono un’ottima opportunità per riflettere sul rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa e, nello specifico, per chiedersi se il popolo sia effettivamente in grado di decidere ciò che è meglio, non soltanto per il singolo individuo ma per l’intera collettività, in particolare con riferimento ad un argomento tanto delicato e complicato quanto quello climatico-ambientale.
Il tema, trattato in un’ottica ambientale, richiede che ci si interroghi su quali siano le minoranze e gli interessi da tutelare e se questi siano meglio rappresentati dalla maggioranza parlamentare o da quella popolare. È, difatti, fondamentale sottolineare che le questioni ambientali e climatiche richiedono una prospettiva rivolta non solo agli interessi presenti, ma anche a quelli futuri.
Tale necessità era già stata evidenziata nel 1987 nel Rapporto Brundtland, nel quale si evidenziava come le modalità di gestione della crisi climatica avvenissero in un contesto in cui le generazioni future non possono né votare né esprimersi, comportando automaticamente una concentrazione maggiore sulle esigenze dell’attualità, con una percezione in parte miope della realtà, che impedisce di avere una visione proiettata al futuro.

Si può osservare difatti come le vere vittime del cambiamento climatico ‒ seppur si tratti di un fenomeno che impatta su tutti ‒ siano spesso le fasce più vulnerabili della popolazione e, soprattutto, le generazioni future. Soggetti, dunque, che non hanno voce in Parlamento, che non possono accedere agli istituti di democrazia diretta ed i cui interessi, molto probabilmente, non vengono presi in considerazione dai cittadini che vanno a votare. È dunque abbastanza evidente che le tematiche ambientali vadano affrontate altresì in una prospettiva intergenerazionale.
La difficoltà degli Stati di concentrarsi anche su esigenze future è un concetto che era già stato espresso in maniera estremamente chiara dall’ex presidente tedesco Richard von Weizsäcker, affermando che “ogni democrazia è fondata sulla glorificazione del presente e sul rifiuto del futuro”.
Tuttavia, se è vero che da un lato gli Stati tendono a considerare principalmente gli interessi, anche economici, presenti, è anche vero che, nel caso del Cantone Vallese, sembrerebbe invece che sia stato proprio il potere pubblico, attraverso il Parlamento cantonale, a voler tutelare gli interessi ambientali futuri, mentre i cittadini si sono preoccupati maggiormente della situazione presente e di eventuali oneri economici, di cui temevano le ricadute.
Pur riconoscendo che la stessa Corte EDU ha denunciato e sanzionato lo Stato svizzero per il mancato rispetto degli obblighi in materia climatica, con la sentenza Verein Klimaseniorinnen Schweiz et autres c. Suisse, resta significativo notare come, in due occasioni distinte – nel 2021 con la legge sul CO2 e nel 2024 con la “Loi sur le climat” – gli interessi ambientali siano stati meglio tutelati dalla democrazia rappresentativa, solo per essere poi sconfessati dalla volontà popolare.
La Corte EDU, d’altra parte, non ha preso in considerazione il ruolo determinante del voto popolare nell’ordinamento svizzero e le specifiche situazioni territoriali, che hanno condotto alcuni Cantoni a integrare la protezione climatica nelle loro costituzioni. Nel caso di specie, quindi, la mancata approvazione della “Loi sur le climat” non sembra avere un impatto rilevante sugli obblighi internazionali della Svizzera e sul seguito della pronuncia di condanna, in quanto si trattava soltanto di anticipare per la neutralità climatica un obiettivo già fissato a livello federale.
In questo contesto, è interessante osservare come sia nel 2021 sia nel 2024 le ragioni che hanno portato alla vittoria del “no” erano legate a motivazioni principalmente finanziarie ed economiche.
Difatti, sui quotidiani svizzeri si legge che, nel caso del Vallese, il popolo era preoccupato dei costi che l’anticipazione del raggiungimento della neutralità climatica avrebbe comportato. In particolare, molti ritenevano che il piano fosse eccessivamente ambizioso e che avrebbe “gonfiato” l’apparato statale, portando a obiettivi considerati irrealistici, le cui conseguenze economiche sarebbero ricadute sulla popolazione. La “Loi sur le climat”, tuttavia, non inseriva nuove tasse né introduceva nuove imposte e/o accise ed anzi, la stessa prevedeva espressamente misure di finanziamento nel bilancio ordinario cantonale, a partire da un importo iniziale di 100 mila franchi svizzeri.
Le perplessità davanti a tale esito sono dunque molteplici ed evidenziano come non sempre i cittadini siano in grado di comprendere a pieno le potenzialità e gli impatti di nuove discipline legislative.
In parte, sia dalle due votazioni referendarie, sia dai commenti che sono seguiti alla citata pronuncia della Corte EDU, sembrerebbe che il popolo svizzero non sia particolarmente interessato alle tematiche ambientali (si v. anche G. Grasso e A. Stevanato, 2024).
Nel caso specifico, si aggiunge un’apparente incomprensione della legge, con preoccupazioni infondate su costi inesistenti in base alla sua disciplina. Questo nonostante le votazioni in Svizzera avvengano, prevalentemente, per corrispondenza e siano accompagnate da un opuscolo informativo, predisposto dalle autorità, che, nel caso di specie, evidenziava gli aspetti principali della legge, le conseguenze del cambiamento climatico in Svizzera e nel Vallese e includeva anche le ragioni del comitato referendario, spiegando perché fossero infondate.
Sorge dunque spontaneo domandarsi come mai i cittadini del Vallese, pur essendo stati correttamente informati sulle ragioni alla base della legge e sugli effetti drastici del cambiamento climatico sulla popolazione del Cantone, abbiano comunque deciso di bocciare la disciplina legislativa.
Sembra invero paradossale che un tema come quello del cambiamento climatico, che ha degli effetti visivamente evidenti – si pensi allo scioglimento dei ghiacciai – venga spesso respinto proprio da coloro che ne subiscono le conseguenze dirette, percependolo come una questione elitaria distante dalla loro realtà quotidiana. Le perplessità sorgono ancora di più in quanto proprio quest’estate in Vallese si sono viste le conseguenze del cambiamento climatico, che hanno colpito duramente il territorio cantonale.
Al riguardo sorge spontaneo osservare come ad oggi, soprattutto mediante l’utilizzo dei social network, vi sia un sovraccarico informativo che da un lato porta spesso ad una lettura superficiale degli eventi e dall’altro facilita la diffusione delle c.d. fake news.
Con riferimento alla votazione in esame, difatti, la diffusione di numerose notizie false ha avuto un ruolo significativo. In particolare, alcuni quotidiani svizzeri hanno riportato che i cittadini del Cantone sono stati influenzati dalla convinzione errata che l’entrata in vigore della legge avrebbe comportato una riduzione della produzione di carne e l’eliminazione dei vecchi fuoristrada, già vietati dalla normativa vigente. Appare evidente che i cittadini, oltre a essere stati condizionati da questo tipo di disinformazione, abbiano orientato il proprio voto sulla base di interessi personali e immediati.
A ciò si aggiunga che nella votazione in esame vi è stata una certa incoerenza; infatti, lo stesso giorno si è votato anche su una legge federale che prevedeva l’ampliamento delle autostrade. E, se da un lato, i cittadini nella votazione sulla “Loi sur le climat” hanno deciso di tutelare i propri interessi, dall’altro, il 52,7% degli aventi diritto a livello federale e il 54.19% in Vallese hanno votato contro l’ampliamento delle autostrade, nonostante tale legge fosse sostenuta, a livello federale, dagli stessi partiti che hanno incitato a bocciare la legge per l’anticipazione della neutralità climatica.
Preme altresì evidenziare come le decisioni referendarie siano spesso influenzate da molteplici fattori esterni, tra cui la tendenza ad utilizzare questioni polarizzanti per mobilitare l’opinione pubblica. Un esempio significativo è il prossimo referendum sull’iniziativa popolare promosso dall’UDC per limitare la popolazione della Svizzera ad un massimo di 10 milioni di abitanti. La campagna si presenta come un’azione per la sostenibilità ambientale e fa leva principalmente su tematiche legate all’immigrazione. Un approccio simile si è osservato anche nel referendum sull’iniziativa popolare per l’ampliamento delle autostrade appena citato in cui si è fatto appello a questioni finanziarie e, ancora una volta, all’immigrazione. Tali esempi dimostrano come le narrative polarizzanti possano condizionare significativamente l’esito delle consultazioni popolari, a prescindere dal contenuto legislativo effettivo.
Alla luce di quanto è emerso a seguito della votazione in Vallese, sembrerebbe che la tutela delle minoranze e degli interessi della popolazione nelle tematiche ambientali siano maggiormente garantiti dalla democrazia rappresentativa (e dai suoi organi), che da quella diretta. Difatti, chi oggi è chiamato a esprimersi su decisioni ambientali spesso tende a privilegiare i propri interessi concreti, trascurando l’importanza di proteggere gli interessi futuri e i diritti delle generazioni che verranno.
Nel contesto delle decisioni ambientali e climatiche, ai cittadini si deve richiedere che la loro partecipazione attiva alla vita politica vada oltre gli interessi di breve termine e si impegni a tutelare anche gli interessi e i diritti delle generazioni future e dei soggetti più vulnerabili.
A proposito dell’istituto al centro di questo commento ci si riporta a un noto monologo di Giorgio Gaber, che segnalava ironicamente che il referendum “è una pratica di democrazia diretta, non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro giudizio su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla variante di valico Barberino Roncobilaccio ha effettivamente qualche difficoltà. Per fortuna deve dire solo sì se vuol dire no, e no se vuol dire sì, in ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla”.
In un ordinamento come quello elvetico, che ha conosciuto, sin dal suo sorgere, un larghissimo impiego di questo strumento e in generale delle forme della democrazia diretta, prima a livello cantonale e poi in ambito federale, e nel quale davvero “tutti possono esprimere il loro giudizio su tutto”, il punto di equilibrio si è sempre misurato richiedendo alla partecipazione dei cittadini, oltre al semplice esercizio del diritto di voto, di diventare consapevolezza e responsabilità collettiva. Le vicende ambientali e climatiche dimostrano che questo tentativo non è sempre riuscito.