Cittadinanza europea e adesione ai partiti politici nazionali: la Corte di giustizia condanna Polonia e Repubblica Ceca per inadempimento

1. Con le recenti sentenze riguardanti le cause “gemelle” C-808/21 e C-814/21, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha posto fine alla pluriennale vicenda riguardante la possibilità per i cittadini europei, residenti in uno Stato membro di cui non possiedono la cittadinanza, di partecipare alle elezioni comunali e a quelle del Parlamento europeo alle stesse condizioni dei cittadini di quello Stato e, in particolare, di aderire ad un partito o a un movimento politico.
Un intervento chiarificatore della Corte necessario ed atteso, tanto che soltanto pochi anni fa la Commissione europea ha avuto modo di richiamare sul punto ben undici Stati membri, ai quali ha chiesto, suscitando non poche resistenze, l’adeguamento della normativa interna a quella europea prevista dalle direttive 93/109/CE, sulle elezioni del Parlamento europeo, e 94/80/CE, sulle elezioni comunali. Nel 2021, solo la Repubblica di Polonia e la Repubblica Ceca non si erano ancora adeguate a quanto disposto dalla richiamata normativa europea e non erano riuscite a fornire, sul punto, sufficienti garanzie. Di qui il ricorso per inadempimento promosso, nel dicembre dello stesso anno, dalla Commissione europea dinanzi ai giudici di Lussemburgo, con il quale si contestava la perdurante incompatibilità con le direttive europee della normativa interna dei due Stati, che attribuiva (e tuttora, invero, attribuisce) il diritto di fondare o di divenire membro di un partito politico ai soli cittadini, escludendo i residenti titolari di cittadinanza europea.

2. Secondo la Commissione, la normativa nazionale si pone in contrasto con le disposizioni previste dall’articolo 22 TFUE, nella parte in cui è garantito ad ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro, pur non avendone la cittadinanza, l’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e del Parlamento europeo alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato in cui si svolge la consultazione elettorale. Secondo l’interpretazione della Commissione, l’art. 22 sancirebbe un «principio generale di parità di trattamento», che viene meno qualora il diritto di iscriversi ad un partito politico non sia previsto anche per i cittadini europei. Questo perché l’affiliazione ad un partito, come noto, garantisce numerosi vantaggi ai candidati, come, ad esempio, l’accesso alle strutture organizzative, l’utilizzo di risorse finanziarie e umane, nonché una maggiore visibilità grazie al più semplice accesso ai media.
Ad opinione dei governi della Polonia e della Repubblica Ceca, invece, non vi sarebbe alcuna violazione dell’art. 22 TFUE: in primis, perché lo stesso non sarebbe direttamente applicabile; in secundis, in quanto detti Stati, pur non permettendo l’adesione dei cittadini europei ai partiti, non ostacolerebbero l’elettorato passivo degli stessi, qualora candidati all’interno di liste elettorali proposte da partiti politici o da coalizioni di partiti politici. Gli stessi Stati ritengono, inoltre, che la possibilità per i cittadini europei di aderire ai partiti potrebbe finire per condizionare la democrazia interna alle formazioni e, di conseguenza, l’orientamento del movimento politico a tutti i livelli, incluse le decisioni da adottare in seno agli organi costituzionali e la formazione delle liste per le elezioni politiche. Polonia e Repubblica Ceca temono, inoltre, che la possibile iscrizione di cittadini europei ai partiti possa rappresentare un rischio per la loro «identità nazionale». Il riferimento all’identità nazionale sembra, tuttavia, fuori luogo: innanzitutto perché appare del tutto pretestuoso affermare che l’iscrizione ad un partito da parte di cittadini europei possa incidere financo sulle fondamenta religiose, storiche, culturali e sociali di un Paese, mettendo in discussione il carattere identitario di una Nazione.
Qualora, invece, gli Stati avessero voluto più correttamente riferirsi ad un rischio per la “tenuta” dei principi di organizzazione posti a fondamento di ciascuna esperienza (traducendosi l’identità nazionale ex art. 4.2 TUE nella «struttura fondamentale, politica e costituzionale» dei Paesi membri), non sarebbe comunque chiaro in che modo potrebbero questi essere intaccati in via immediata dall’iscrizione di un cittadino europeo ai partiti nazionali, visto che tra la partecipazione di quest’ultimo alle attività promosse dal movimento politico e la decisione idonea ad incidere sui principi in questione si frappongono ostacoli di non poco conto che è superfluo in questa sede richiamare. Va considerato inoltre che, nel caso in cui un partito volesse attentare ai principi fondamentali di un ordinamento, esso potrebbe essere messo al bando e sciolto dal Tribunale competente (nel caso della Polonia, ad esempio, dal Tribunale costituzionale, ai sensi dell’art. 188 Cost.). Sembrerebbe trattarsi perciò dell’ennesimo utilizzo strumentale e manipolatorio, oltre che volutamente ambiguo, del concetto di identità nazionale, non nuovo per gli Stati guidati da forze politiche populiste, fautrici di una “militarizzazione” del diritto costituzionale.
Pertanto, quello che sembrano temere i due Stati non è, a ben vedere, uno stravolgimento dell’identità nazionale, ma, più semplicemente, il condizionamento della funzione di indirizzo politico.
La Commissione contesta ovviamente le argomentazioni dei due Stati e considera che non sia sufficiente per il cittadino europeo poter essere candidato in una lista proposta dai partiti politici, in quanto lo stesso avrebbe minori possibilità di occupare una posizione vantaggiosa nella lista elettorale e si ritroverebbe, inoltre, candidato con un programma alla cui stesura non ha partecipato. Secondo la Commissione, oltretutto, l’esclusione della possibilità di adesione ad un partito potrebbe costituire un ostacolo alla libertà di associazione prevista dalla CEDU. Ad opinione del massimo organo esecutivo europeo, il divieto di iscrizione ad un partito politico non può essere giustificato neppure dal “pericolo” che i cittadini europei possano influenzare la politica nazionale degli Stati, giacché né la Polonia, né la Repubblica Ceca sono state in grado di fornire prove sufficienti in tal senso.

3. La Corte di giustizia, nell’accogliere il ricorso proposto dalla Commissione europea, accertando così la violazione dell’art. 22 TFUE da parte di Polonia e Repubblica Ceca, ha colto l’occasione per chiarire la portata della disposizione richiamata. Questa, pur non facendo riferimento alcuno alla possibilità di iscrizione ad un partito politico, esprime chiaramente la necessità che l’elettorato attivo e passivo, nell’ambito delle elezioni comunali e del Parlamento europeo, sia previsto alle stesse condizioni per i cittadini dello Stato e i cittadini europei, prevedendo, così, un divieto di discriminazione in base alla cittadinanza. I giudici, inoltre, evidenziano come l’omesso riferimento al diritto di adesione al partito politico da parte delle direttive 93/109/CE e 94/80/CE non giustifichi comunque condotte discriminatorie nei riguardi dei cittadini di altri Stati membri.
La Corte precisa, poi, che l’art. 22 TFUE andrebbe letto in combinato disposto con gli artt. 20 e 21 TFUE, collegando così il diritto di voto (attivo e passivo) allo status di cittadino dell’Unione e alla libertà di circolazione e di soggiorno. Oltre a ciò, non va dimenticato quanto stabilito dall’art. 10 TUE, a norma del quale il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa; la stessa disposizione riconosce il diritto dei cittadini dell’Unione ad essere direttamente rappresentati nel Parlamento europeo e a partecipare alla vita democratica europea. Per di più, l’art. 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione contempla la libertà di associazione, anche a livello politico; i partiti hanno, come noto, una funzione vitale nell’ambito del sistema democratico rappresentativo e la qualifica di membro di un partito contribuisce senza dubbio all’esercizio di quello che si definisce «diritto di eleggibilità». Si presuppone, inoltre, che affinché l’esercizio delle libertà democratiche da parte dei cittadini europei sia svolto in maniera eguale ai cittadini dello Stato in cui essi risiedono, vi debba essere un pari accesso ai mezzi predisposti in tal senso dall’ordinamento. Alla luce di un’interpretazione complessiva degli articoli esaminati, la Corte ritiene che i cittadini europei debbano avere un pari accesso ai mezzi di cui dispongono i cittadini, inclusa la possibilità di iscriversi ai partiti politici. Non sembra inutile menzionare in questa sede anche la giurisprudenza della Corte EDU, che ritiene legittima una limitazione del diritto di associazione partitica unicamente per ragioni urgenti ed imperative, che non sembrano sussistere nel caso di specie.
La Corte evidenzia, inoltre, come gli argomenti avanzati dai due Stati, tra i quali quello riguardante la possibilità per i cittadini europei di candidarsi “da indipendenti”, non siano in linea con il diritto europeo. Questo in considerazione del fatto che sono gli stessi membri dei partiti a individuare i candidati alle elezioni, nonché la loro posizione nelle liste, e pertanto vi è il rischio che agli “indipendenti” sia riservata una posizione meno favorevole. Non secondaria è anche la questione economica: in particolare nel caso della normativa polacca, risulta evidente che i partiti abbiano una maggiore disponibilità di fonti di finanziamento per le campagne elettorali e, di conseguenza, maggiori possibilità di sostenere i candidati appartenenti al proprio movimento politico.
Per quanto concerne il tema del rispetto dell’identità nazionale (rectius: dell’impatto sul circuito dell’indirizzo politico), la Corte ritiene non fondate le osservazioni degli Stati sul rischio che i cittadini europei iscritti ai partiti politici nazionali possano incidere sulla determinazione della politica interna. La Corte, a questo proposito, ricorda che agli Stati non è fatto divieto di prevedere «norme particolari» volte ad escludere i non-cittadini dalle procedure decisionali interne al partito riguardanti questioni aventi rilievo nazionale (si pensi, a questo proposito, alla designazione dei candidati alle elezioni nazionali, ma anche all’elezione delle cariche di vertice dei movimenti politici).
I giudici europei ribadiscono anche l’importanza che il principio democratico riveste all’interno dell’ordinamento europeo. La democrazia rappresentativa deve essere egualmente “accessibile” a tutti coloro che godono dell’elettorato passivo, anche in considerazione del fatto che l’elezione di cittadini europei in uno Stato diverso da quello di cui hanno la cittadinanza contribuirebbe ad accreditare il Parlamento europeo come organo rappresentativo del complesso dei cittadini europei, e non di singoli corpi elettorali nazionali.

4. Parte della dottrina polacca si è chiesta se la possibilità di aderire ai partiti politici da parte di cittadini europei potesse contrastare con il dettato costituzionale. Sino ad oggi è stata sempre data una lettura restrittiva dell’art. 11 della Costituzione, a norma del quale «la Repubblica di Polonia garantisce la libera costituzione e il libero agire dei partiti politici», ritenendosi il diritto de qua non estendibile ai non cittadini (interpretazione che, peraltro, si ritrova nella legge sui partiti politici).
Già da qualche anno, tuttavia, alcuni studiosi si sono interrogati sulla possibilità di interpretare la Costituzione in maniera conforme al diritto europeo, e, di conseguenza, sulla possibilità di modificare la normativa interna sul diritto di iscrizione ai partiti politici. La risposta, perlopiù positiva, è stata supportata anche dall’interpretazione del Consiglio legislativo (organo consultivo del Consiglio dei ministri).
L’opzione paventata dalla CGUE, quella cioè di escludere i cittadini europei dall’attività di partito riguardante esclusivamente le questioni nazionali, ha trovato peraltro una certa eco in dottrina: Dąbrowski, pur ritenendo possibile la soluzione affacciata dai giudici europei, fa notare che l’art. 37 Cost. prevede anche la possibilità di estendere con legge a tutti coloro che si trovano sotto l’autorità della Polonia le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione (compresa la libertà di associarsi in partiti).
Alla luce di quanto si è detto, in capo ad entrambi gli Stati coinvolti sorge ora l’obbligo di approvare una nuova legge sui partiti politici che permetta ai cittadini europei di aderirvi, partecipando alle loro attività e contribuendo, così, alla determinazione delle politiche rilevanti sul piano europeo, su quello locale ed eventualmente anche su quello nazionale.