Simone Pitto
Valutazione d’impatto ambientale ed emissioni indirette: la lettura estensiva e il “favor climatis” della UK Supreme Court nel caso Finch v. Surrey
1. La decisione in commento della Corte suprema del Regno Unito (di seguito anche “UKSC”) è destinata a collocarsi a pieno titolo tra quei precedenti individuati dalla dottrina come passibili di una certa circolazione a livello comparato (Carducci).
Il principio di diritto affermato da una Corte spaccata (con una maggioranza di tre giudici su cinque) è relativamente semplice ma avrà conseguenze indubbiamente rilevanti per la valutazione di impatto ambientale e climatico nel contesto europeo, specialmente per il settore oil and gas.
Secondo la UKSC, ai sensi della direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio (direttiva “VIA”) e del Town and Country Planning Environmental Impact Assessment Regulations 2017, il soggetto chiamato a svolgere la valutazione per un progetto – nella specie l’installazione di nuovi pozzi petroliferi – è tenuto a stimare l’impatto dello stesso sull’ambiente e sul clima includendo tutti gli effetti significativi diretti e indiretti. Tra questi ultimi, devono farsi rientrare anche le emissioni di gas serra future conseguenti non solo alla realizzazione dell’impianto ma anche alla combustione finale del materiale fossile prodotto una volta completato lo stesso (c.d. “downstream emissions”).
Va precisato che, anche dopo Brexit, la direttiva VIA nell’interpretazione ad essa attribuita in base al diritto eurounitario costituisce il principale riferimento ermeneutico per la controversia de qua, essendo sia la vicenda che ha originato la decisione sia la normativa applicabile del Regno Unito antecedenti alla Brexit (così anche Naglieri).
2. Vale la pena ripercorrere brevemente il contesto fattuale e normativo in cui si colloca la decisione. Siamo nel Surrey, nell’Inghilterra sud-orientale, e il contenzioso ha ad oggetto la richiesta rivolta alla Contea locale da un’impresa privata – la Horse Hill Developments Ltd. – al fine di chiedere il rilascio di un’autorizzazione amministrativa. Tale domanda aveva ad oggetto il mantenimento della gestione di due pozzi petroliferi già in uso e l’autorizzazione alle perforazioni necessarie ad aggiungere altri quattro pozzi petroliferi nel sito di Horse Hill. Il progetto doveva realizzarsi nell’arco di 25 anni e terminare con l’estrazione del greggio dal giacimento per un ventennio.
Per tale tipologia progettuale è richiesta la VIA in base alla direttiva 2011/92/UE ed al Town and Country Planning Environmental Impact Assessment Regulations 2017 (di seguito, per brevità, “TCPR”), cioè uno dei diversi statutory instruments utilizzati dal Regno Unito per l’implementazione della direttiva. L’impresa richiedente realizza una valutazione d’impatto tenendo conto delle emissioni di gas serra direttamente rilasciate all’interno del sito per tutta la durata progettuale. Non considera, tuttavia, le ulteriori emissioni che sarebbero state prodotte ad impianto ultimato per effetto dell’estrazione e, soprattutto, della combustione del petrolio. Questa metodologia valutativa, in un primo momento, è accolta dal Consiglio della Contea che concede i permessi per la realizzazione del progetto senza richiedere ulteriori adempimenti.
La decisione, tuttavia, viene impugnata da una residente dell’area di fronte alla competente High Court. Ad avviso della ricorrente, in sintesi, il progetto era stato autorizzato sulla base di una valutazione d’impatto incompleta, che non teneva in considerazione le emissioni derivanti dalla combustione del materiale petrolifero estratto dal sito. Pertanto, l’autorizzazione doveva considerarsi “unlawful” ai sensi della normativa in materia di VIA, siccome fondata su una valutazione ambientale solo parziale.
3. La Corte di prime cure rigetta il ricorso, rilevando che la valutazione delle emissioni derivanti dalla combustione del materiale fossile non rientri nell’ambito di applicazione della direttiva VIA. Con una successiva decisione del febbraio 2022, la England and Wales Court of Appeal (Civil Division) conferma l’esito del primo arresto, valorizzando il fatto che l’estensione della valutazione oltre le sole upstream emissions avrebbe dovuto essere richiesta dal Consiglio di Contea, il quale ha invece optato per escludere la valutazione delle downstream emissions. Inoltre, secondo il giudice dell’impugnazione, per determinare se l’impatto ambientale in questione rientri o meno nell’ambito di applicazione della direttiva 2011/92/UE e della normativa nazionale del 2017, occorre guardare al significato di “effetti” e in particolare di “effetti indiretti” nonché al grado di connessione necessario per ricollegare, dal punto di vista fattuale ed eziologico, il progetto ai suoi potenziali effetti. Queste valutazioni, secondo la Corte, si risolvono però in questioni di fatto la cui decisione spetta unicamente all’autorità di pianificazione competente. Pertanto, la Court of Appeal conferma la prima decisione, non ritenendo sussistente alcuna violazione di legge da parte dell’autorità amministrativa.
4. La Corte suprema, invece, giunge ad una diversa conclusione. L’autorizzazione amministrativa è ritenuta illegittima siccome fondata su una valutazione che non tiene conto delle downstream emissions, mentre queste ultime devono considerarsi ricadenti nell’ambito di applicazione della direttiva VIA e, di talché, essere debitamente conteggiate.ì
La valutazione della Corte poggia essenzialmente sui seguenti pilastri motivazionali:
- secondo la UKSC, in caso di autorizzazione del progetto, sarebbe inevitabile che il petrolio prodotto sia raffinato e, prima o poi, bruciato liberando emissioni di gas serra. Pertanto, le emissioni derivanti dalla combustione devono considerarsi effetti del progetto, atteso che rappresentano conseguenze certe in caso di autorizzazione e possono essere precisamente stimate sulla base delle attuali conoscenze scientifiche (cfr. punti 45, 79 ss.). Di conseguenza, ad avviso del collegio giudicante, “the resulting effects on climate are not merely likely but inevitable”.
- per la Corte suprema, diversamente da quanto ritenuto dalla Court of Appeal, non può esservi spazio per una valutazione da parte dell’autorità amministrativa sull’esistenza di una sufficiente connessione causale tra il progetto e le downstream emissions; una tale lettura della direttiva VIA sarebbe per la UKSC irragionevole, laddove condurrebbe a risultati troppo diversificati tra autorità amministrative e progetti differenti;
- la direttiva VIA, nel prendere in considerazione gli effetti indiretti sull’ambiente e il clima, non prevede alcun limite geografico per la stima dell’impatto ambientale e climatico di un progetto. Pertanto, il fatto che le emissioni da combustione del petrolio non vengano prodotte nell’area del progetto da autorizzare non vale ad escluderle dal novero delle emissioni che devono essere conteggiare in sede di VIA (cfr. punti 101 ss.);
- i piani nazionali in materia di riduzione delle emissioni, infine, non hanno rilevanza rispetto alla determinazione dell’ambito di applicazione della direttiva VIA. Essi possono essere considerati dalle autorità chiamate ad autorizzare un progetto ma mai per limitare l’ampiezza della valutazione d’impatto ambientale, la quale rimane esclusivamente disciplinata dalla direttiva. La ratio sottesa a tale disciplina, ad avviso della Corte, è infatti quella di consentire che le decisioni pubbliche di rilievo ambientale siano prese nel quadro di una piena trasparenza e informazione pubblica rispetto all’impatto del progetto sull’ambiente e il clima (punti 140 ss. della sentenza).
5. Di diverso avviso, rispetto alla maggioranza della Corte, è Lord Sales che condivide la lettura offerta dai giudici dei gradi precedenti. Nella propria opinione dissenziente, il giudice rileva i rischi insiti nell’affidare ad una pluralità di autorità locali e regionali (invece che al governo nazionale) la valutazione della riconducibilità delle downstream emissions agli effetti climatici indiretti del progetto. Vieppiù, secondo il giudice dissenziente, le emissioni “a valle” non risultano in realtà contemplate come effetti indiretti nell’impianto della direttiva VIA. Lord Sales, al riguardo, ritiene sia da far prevalere un’interpretazione letterale della direttiva, atteso che gli effetti indiretti del progetto dovrebbero essere pur sempre “effetti”, mentre le downstream emission non rientrerebbero, almeno secondo una “natural interpretation” della normativa unionale, tra gli effetti del progetto de quo.
6. Dal punto di vista degli effetti rispetto alla vicenda de qua, la decisione non implica automaticamente il diniego dell’autorizzazione per il progetto, potendo incidere solo sul piano procedimentale. Il Consiglio di Contea sarà quindi tenuto a richiedere una nuova valutazione di impatto che tenga conto delle emissioni tralasciate dall’impresa richiedente ma, una volta ricevuta la stima aggiornata, sarà libero di autorizzare comunque il progetto (nello stesso senso Naglieri, p. 7).
7. Più in generale, la decisione della Corte suprema pare costituire un esempio di quella tendenza favorevole ad un’interpretazione estensiva e in “favor climatis” delle norme ambientali che costituisce la ragione del successo della c.d. litigation strategy nel settore. Un’interpretazione che, tuttavia, ha spesso ad oggetto (come in questo caso) norme pensate in origine in un’ottica forse non interamente coincidente, con conseguenti difficoltà ermeneutiche.
Sotto altro profilo, tali tipologie di interventi giudiziali possono talvolta condurre a dubbi interpretativi sulla portata immediata dei principi di diritto affermati, almeno se non accompagnate da successivi interventi normativi di carattere più sistematico.
Un primo aspetto d’interesse della decisione riguarda la lettura attribuita al concetto di effetti indiretti e alla valutazione del grado di connessione causale richiesta per far rientrare una determinata tipologia di impatto ambientale nell’ambito di operatività della direttiva VIA. Si tratta di profili sui quali si concentrano, peraltro, anche le obbiezioni della dissenting opinion.
La mancata definizione di effetti diretti e indiretti di un progetto (i quali, ai sensi dell’art. 3, lett. b, riguardano però, pacificamente, anche il clima) da parte della direttiva lascia in effetti un margine interpretativo piuttosto ampio.
A rigore, la valutazione estensiva del riferimento normativo agli “effetti indiretti” alla quale perviene la Corte suprema pare in effetti suffragata da plurimi elementi.
In primo luogo, dall’esigenza di favorire un’ampia informazione sugli effetti di un progetto incidente sull’ambiente; una finalità a propria volta strumentale al miglioramento della protezione della salute umana (cfr. considerando 14 della direttiva) e delle decisioni ambientali, nel rispetto del principio 10 della Dichiarazione di Rio, nonché all’esercizio dei c.d. diritti di democrazia ambientale di cui alla Convenzione di Aarhus (cfr. considerando nn. 18-20 della direttiva).
In secondo luogo, la lettura della UKSC trova conferma nell’interpretazione lata dell’ambito di applicazione della direttiva e del ruolo del giudice nazionale in materia già fornita dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (cfr. Corte di giustizia C-72/95, Aannemersbedrijf P K Kraaijeveld BV v Gedeputeerde Staten van Zuid-Holland e, soprattutto, C-2/07, Abraham v Wallonia).
Ma anche altre corti sono giunte a conclusioni non distanti da quelle della UKSC.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, nella causa Grande Camera, sent. 9 aprile 2024, n. 53600/20, V.K.S. and others v. Switzerland (cfr. Assanti), ha di recente richiamato un rapporto dello Special Rapporteur on Human Rights and the Environment secondo cui – in base al sistema internazionale di protezione dei diritti umani – gli Stati sono titolari di procedural obligations con riguardo alla valutazione dell’impatto climatico di piani, politiche e proposte e devono includere nella relativa valutazione “both upstream and downstream effects (i.e. both production- and consumption-related emissions)”.
La Corte suprema del Regno Unito si mostra però attenta anche agli approdi interpretativi raggiunti dalla giurisprudenza di corti straniere. Viene citata in particolare la sentenza Kilkenny Cheese Ltd., 2022, IESC 8, 2 IR 173, della Irish Supreme Court del 2022: in tale controversia ci si chiedeva se, nella valutazione d’impatto ambientale di un impianto caseario, dovessero essere incluse anche le emissioni necessarie alla produzione del latte utilizzato dall’impianto, nonché gli effetti ambientali dell’incremento della domanda di latte sul mercato conseguenti all’assorbimento della materia prima da parte del caseificio. In quel caso, la risposta offerta dalla Corte irlandese era stata negativa: la Corte aveva infatti ritenuto la connessione causale tra la realizzazione del progetto e l’impatto ambientale “entirely elusive, contingent and speculative”.
Nel caso Greenpeace Nordic v. The State of Norway, citato ai parr. 168 ss. della sentenza in commento, una delle questioni controverse riguardava proprio la considerazione delle downstream emissions derivanti dal consumo finale del combustibile fossile nella valutazione d’impatto ambientale relativa all’autorizzazione di un impianto petrolifero. La Corte norvegese, con una sentenza del gennaio 2024, aveva affermato che tali emissioni dovevano essere conteggiate quali effetti del progetto. A sostegno dell’assunto, la Corte nordica aveva parimenti valorizzato da un lato, l’irrilevanza del dato geografico e del luogo (anche off-site) in cui le emissioni venivano prodotte e, dall’altro, il fatto che la combustione del petrolio costituisce una caratteristica naturale dello sviluppo di un impianto petrolifero. Ciò giustifica l’inclusione delle emissioni derivanti dalla combustione, poiché “If combustion emissions are not included, this will mean that the provisions of the EIA Directive on the assessment of indirect climate impacts from petroleum operations will in practice have no real content”. Entrambi i profili vengono pressocché interamente ripresi nella decisione della Corte suprema del Regno Unito.
8. Riguardo al secondo aspetto sopra evidenziato – e cioè ai possibili dubbi interpretativi relativi all’applicazione immediata dei principi di diritto espressi – alcuni punti della decisione in commento lasciano spazio ad incertezze riguardo alle conseguenze dirette per gli operatori e le amministrazioni pubbliche interessate.
Un primo aspetto concerne il rischio di dubbi sull’estensione della valutazione di impatto ambientale delle downstream emissions e degli altri effetti indiretti nei casi dubbi.
Con riferimento al punto della motivazione riportato sub (a), invero, sia la Corte suprema sia la Corte d’appello sembrano sicure del fatto che “The whole purpose of extracting fossil fuels is to make hydrocarbons available for combustion”. Da ciò, la Corte desume la possibilità di calcolare con un sufficiente grado di affidabilità, in base alle conoscenze scientifiche disponibili, l’entità di emissioni prodotte dalla combustione del petrolio, conoscendo la quantità indicativa di materiale che verrà prodotta dall’impianto. Tale conclusione, a ben vedere, potrebbe valere unicamente per una tipologia di bene destinato, con alta probabilità, alla sola combustione e non ad altra funzione. Secondo la Corte il petrolio ha queste caratteristiche, diversamente, ad esempio, dall’acciaio che ha anche altri usi.
A ben vedere, tuttavia, una tale lettura presuntiva potrebbe astrattamente far salva la prova contraria: l’impresa richiedente potrebbe così giustificare l’esclusione delle downstream emissions dalla valutazione qualora sia possibile dedurre e provare una destinazione alternativa del petrolio prodotto, diversa dalla combustione. Malgrado oltre l’80% del petrolio sia in media destinato a tale scopo, anch’esso può avere usi diversi dalla combustione, seppur la maggior parte di questi conduca comunque a conseguenze aventi un impatto ambientale e climatico. Il riferimento è ad esempio alla produzione di materiale plastico, gomma, prodotti chimici, lubrificanti, asfalto e bitume, prodotti farmaceutici, isolanti, cosmetici e tessuti. La valutazione delle emissioni downstream di un prodotto destinato a una pluralità di usi diversi potrebbe quindi risultare non così semplice nel caso in cui il richiedente deduca plurime destinazioni finali per il bene.
Di contro, per massimizzare l’estensione dei principi affermati, si potrebbe forse valorizzare il ruolo giocato dalla combustione di determinati beni (come il petrolio, il gas, o il carbone) nel raggiungimento dell’attuale livello di emissioni di gas serra nel pianeta; ovvero, ancora, il carattere quantitativamente trascurabile degli altri possibili usi (comunque in larga parte suscettibili di rilevante impatto ambientale), avuto riguardo ai dati statistici disponibili.
Sembra in effetti maggiormente rivolto in tale direzione il ragionamento della Corte norvegese nella decisione sopra citata, che valorizza i caratteri specifici del petrolio e del carbone (cfr. punto n. 84 della sentenza della Corte di Oslo).
In ogni caso, per attribuire una portata sistematica alla decisione e chiarire alcuni possibili dubbi scaturenti dalla sua immediata applicazione, potrebbe risultare opportuno un intervento del legislatore, anche al fine di evitare il rischio di valutazioni disomogenee tra diverse amministrazioni, evocato anche nella dissenting opinion.
Di ciò sembra pienamente consapevole anche il Governo britannico: a fine agosto 2024, richiamando la decisione della Supreme Court, il Governo di Downing Street si è affrettato ad annunciare l’avvio di un piano ambientale rivolto al settore oil and gas per fornire linee guida agli operatori, affermando che “[t]he guidance is necessary in light of a Supreme Court ruling that has implications for the assessment of new development consents”. Che il settore sul quale la decisione impatta risulti tutt’ora strategico lo si apprezza anche nelle parole del Ministro dell’energia Michal Shanks, secondo il quale – nelle more della transizione energetica del Regno Unito – il comparto oil and gas continuerà a giocare un ruolo importante nei decenni a venire.
9. Ulteriori profili della decisione della Corte suprema del Regno Unito paiono di rilievo.
La sentenza ha il merito di ricondurre la lettura estensiva attribuita alle norme in tema di valutazione d’impatto ai principi generali che regolano la materia e, in particolare, alla necessaria massimizzazione dell’informazione ambientale, la quale risulta strumentale all’assunzione delle migliori decisioni incidenti su ambiente e clima, nonché all’esercizio dei diritti procedurali in materia ambientale.
L’arresto contribuirà, inoltre, a rinvigorire le iniziative giudiziarie di attivisti e associazioni per la salvaguardia del clima nei confronti di produttori di combustibili fossili. In Finch v. Surrey, infatti, la Corte sembra superare un argomento – ricorrente in altre cause – relativo all’asserita impraticabilità di una valutazione d’impatto ambientale inclusiva degli effetti a lungo termine e su ampia scala geografica di un progetto. Se ne trova un esempio nella decisione del 2021 della Scottish Court of Session, che vedeva coinvolte British Petroleum (BP) e Greenpeace. Anche in quel caso l’oggetto del contendere verteva sull’allegata insufficienza della valutazione d’impatto climatico di un progetto di estrazione petrolifera per mancata considerazione delle downstream emissions. In tale occasione, tuttavia, il giudicante aveva rilevato l’impraticabilità di una valutazione d’impatto comprensiva degli effetti locali e globali dell’uso del combustibile da parte del consumatore finale (cfr. par. 68).
Di contro, in Finch la UKSC afferma che le downstream emissions sono da considerarsi, in ogni caso, come effetti del progetto e che la valutazione d’impatto, in base alla direttiva, non è subordinata a limiti di carattere geografico; pertanto, viene chiarito che gli operatori non possono invocare il carattere oneroso della valutazione di impatto ambientale e climatico di un progetto per esserne esonerati.
24 Settembre 2024
di Simone Pitto