Claudia Bianca Ceffa
“Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Per la Corte europea di Strasburgo la promozione dei valori di una società democratica può legittimare, ancora una volta, il divieto dei simboli religiosi a scuola
1. Che si tratti di laicità o di neutralità poco cambia. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, anche nell’ambito di un ordinamento improntato non a una laicità “negativa” come, ad esempio, quella francese, svizzera o turca, bensì ad un più “elastico” principio di neutralità, come nel caso di specie quello belga, le autorità statali possono, a buon titolo, vietare agli studenti di esibire a scuola simboli o indumenti a valenza religiosa se il loro intento è di impedire a questi ultimi di essere sottoposti a pressioni sociali e di preservare, così, le loro libertà fondamentali e l’ordine pubblico.
Più in particolare, ad avviso dei giudici di Strasburgo, un divieto di tale tenore non si pone, di per sé, in contrasto con l’articolo 9 della Convenzione europea – che, come noto, tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione – e con i valori che ne sono alla base, potendo senz’altro costituire un provvedimento proporzionato e necessario in una società democratica, in quanto rispondente a quel grado di compromesso (e alle conseguenti concessioni richieste a livello personale) giudicato imprescindibile per salvaguardare la promozione dei suoi ideali e dei suoi valori, fra i quali, in primis, quello del pluralismo.
Questo è quanto emerge dalla sentenza Mikyas e altri c. Belgio del 16 maggio 2024 in cui la seconda Sezione della Corte europea ha respinto, giudicandolo irricevibile, il ricorso presentato da tre giovani donne musulmane alle quali era stato impedito di indossare il velo islamico, conformemente alle proprie convinzioni religiose, durante gli anni in cui avevano frequentato come studentesse due diversi istituti scolastici facenti parte del sistema di istruzione ufficiale organizzato dalla Comunità fiamminga. Conformemente, infatti, alla delibera del Consiglio dell’istruzione ufficiale di tale Comunità dell’11 settembre 2009, valida per il circuito di tutte le quattordici scuole comunitarie del Maasland, il regolamento scolastico degli istituti frequentati dalle ricorrenti conteneva un espresso divieto per gli studenti di portare sulla propria persona qualsiasi simbolo di convinzione religiosa o filosofica durante le attività scolastiche, eccezion fatta per le lezioni di religione e di moralità non confessionale costituzionalmente garantite (art. 24, § 1, comma 4, Cost.).
Sebbene all’atto dell’iscrizione, i genitori delle studentesse fossero stati informati dell’esistenza di quello specifico divieto nell’ambito del regolamento scolastico – previsto in ossequio al dovere costituzionale, facente capo ad ognuna delle tre comunità federate del Belgio, di organizzare un insegnamento neutrale nel rispetto delle concezioni filosofiche, ideologiche o religiose dei genitori e degli studenti (art. 24, § 1, comma 3, Cost.) – gli stessi, in un secondo momento, decidevano di rivolgersi alle autorità nazionali per fare dichiarare illegittima la regola contestata, in quanto contraria al diritto di libertà religiosa delle proprie figlie. Insoddisfatte della decisione della Corte d’Appello di Anversa, che aveva annullato la sentenza di primo grado a loro favorevole e dopo aver ricevuto da un avvocato della Corte di Cassazione belga un parere negativo sulle concrete possibilità di successo di un eventuale ricorso presso la stessa, le ex studentesse, ormai diventate maggiorenni, si convincevano a rivolgersi direttamente alla Corte europea di Strasburgo, lamentando la violazione degli articoli 8, 9 e 10 della Convenzione, nonché dell’art. 2 del Protocollo n. 1, presi separatamente e in combinato disposto con l’articolo 14.
2. Occorre fin da subito precisare come proprio questa scelta da parte delle ricorrenti di non aver voluto interpellare la Corte di Cassazione, motivata dalla convinzione da parte di queste ultime di aver ricevuto un parere inequivocabilmente sfavorevole al riguardo, sia stata alla base della dichiarazione di irricevibilità della domanda per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in relazione a tutti gli articoli invocati diversi da quello incentrato sul diritto di libertà religiosa, non avendo le dirette interessate, a giudizio della Corte europea, sviluppato nelle sedi nazionali, esplicitamente o sostanzialmente, argomenti giuridici relativi a tali diritti, né avendo, del resto, lo stesso avvocato presso la Corte di Cassazione esaminato contestazioni diverse da quelle relative alla libertà religiosa nel valutare le possibilità di successo di un eventuale ricorso.
Con specifico riguardo alle censure rivolte nei confronti dell’art. 9 della Convenzione, invece, i giudici europei hanno ritenuto superfluo valutare la soddisfazione di tale adempimento, non potendo in ogni caso considerarsi ricevibili le doglianze presentate. Infatti, pur non mancando la Corte anche in questo frangente di ricordare il proprio ruolo sussidiario rispetto alle autorità giurisdizionali interne, a suo avviso l’infondatezza di simili contestazioni doveva ritenersi già chiara in virtù della propria pregressa giurisprudenza caratterizzata dal riconoscimento agli Stati membri di un ampio margine di apprezzamento in relazione alla possibilità di vietare a scuola il porto di simboli religiosi agli studenti oltre che agli insegnanti.
Del resto, anche in considerazione del fatto che i singoli Stati sono da sempre reputati i migliori decisori per la regolamentazione dei rapporti fra dimensione statale e religiosa, i giudici di Strasburgo hanno spesso dato prova, in passato, di condividere le finalità perseguite dalle autorità nazionali per il tramite di simili divieti, in particolare quando diretti a evitare che la manifestazione da parte dei vari utenti del servizio scolastico delle proprie convinzioni religiose si possa trasformare in un atto di ostentazione in grado di costituire fonte di pressione ed esclusione. Così, ad esempio, è stato in occasione delle sentenze Dahlab c. Svizzera (15 febbraio 2001), Leyla Şahin c. Turchia (10 novembre 2005), Dogru e Kervanci c. Francia (4 dicembre 2008) e ancora tutte le volte in cui i giudici europei si sono interfacciati con la legge francese del 15 marzo 2004 di divieto nelle scuole pubbliche di signes et tenues qui manifestent ostensiblement une appartenance religieuse.
In aggiunta e con riferimento al caso specifico, la Corte europea, dopo aver ricordato che l’intera vicenda si era innestata nell’ambito dell'insegnamento ufficiale della Comunità fiamminga, ha osservato come il divieto generale di portare segni visibili di convinzione negli istituti da essa organizzati fosse già stato ritenuto dalla stessa Corte costituzionale compatibile con il principio di neutralità (sentenza del 15 marzo 2011) in risposta, tra l’altro, ad una questione pregiudiziale sollevata dal Consiglio di Stato belga proprio in riferimento alla decisione dell’11 settembre 2009 del Consiglio ufficiale di istruzione della Comunità fiamminga. In quell’occasione, infatti, la Corte costituzionale del Belgio aveva rimarcato come la nozione di “neutralità” contenuta nell'articolo 24, § 1, comma 3, della Costituzione – a prescindere dal contenuto minimo consistente nella precisazione del rispetto delle concezioni filosofiche, ideologiche o religiose dei genitori e degli alunni – non dovesse essere intesa in senso statico e indipendente dai cambiamenti nella società, potendo, invero, costituire una base legittima sia per «il riconoscimento e l’apprezzamento positivo della diversità di opinioni e atteggiamenti», sia per la preservazione del «l’attenzione ai valori comuni». Adattabile, dunque, in virtù delle specifiche circostanze e nella prospettiva di creare un ambiente educativo plurale e all'altezza delle sfide poste dalla crescente diversità religiosa nella società, il principio di neutralità belga all’interno del contesto scolastico assume diverse declinazioni, potendo alternativamente consistere sia in un dovere di astensione – inteso come divieto di discriminare, favorire o imporre convinzioni filosofiche, ideologiche o religiose – sia in un obbligo positivo di preservazione dei valori fondanti della società democratica, come ad esempio un divieto di esibizione di elementi marcatamente religiosi. Tale giurisprudenza, ricorda la Corte europea, è stata in seguito rafforzata da un’ulteriore pronuncia della Corte costituzionale del Belgio che, con la sentenza n. 81 del 4 giugno 2020, ha confermato la legittimità della presenza di un divieto di simbologia religiosa esteso agli studenti anche nell’ambito di un istituto di istruzione superiore organizzato dalla città di Bruxelles, nei confronti della quale (così come nei riguardi di tutti i comuni e le province), si badi, la norma costituzionale non pare rivolgere alcun obbligo di neutralità strettamente inteso al pari, invece, di quello gravante sulle scuole direttamente organizzate dalle Comunità federate.
3. Dunque, il sistematico utilizzo della dottrina del margine di apprezzamento, unito all’eterogeneità delle modalità di relazione fra Stati e dimensione religiosa all’interno del Consiglio d’Europa – basti ricordare, a tal proposito, la diversa impostazione adottata dallo Stato italiano in relazione alla possibilità di mantenere il crocifisso appeso ai muri delle aule scolastiche, così come confermato anche dalla nota sentenza Lautsi c. Italia – ha convinto i giudici europei, ancora una volta, a giustificare misure restrittive dei diritti riconosciuti dalla Convenzione quando adottate dagli Stati membri per tutelare valori e principi propri di una società democratica, fra i quali, però, quello rappresentato dal pluralismo, sembra essere destinato a un progressivo “addomesticamento” in ragione di approcci nazionali volti a perseguire una rigorosa – ma, forse, altrettanto inverosimile, specie in una società multiculturale come quella contemporanea – idea di neutralità.
12 Giugno 2024