La direttiva sul lavoro tramite piattaforma e la subordinazione secondo l’Unione europea

Il 24 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato definitivamente la Direttiva sul lavoro tramite piattaforme digitali, risolvendo definitivamente uno stallo politico che, presentatosi inatteso nel dicembre precedente, minacciava il buon esito di una proposta presentata ormai più di due anni fa. Un percorso così travagliato, in cui le ultime settimane di trattative sono state decisive, ha portato a un testo di compromesso, accusato da alcuni di aver diluito eccessivamente la portata innovativa della proposta iniziale, e che tuttavia rappresenta un sostanziale passo avanti per la tutela dei diritti dei lavoratori europei.
La proposta di direttiva, lanciata nel dicembre 2021, rientra nel solco del piano d’azione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, un documento programmatico proposto dalla Commissione Juncker e proclamato dal Consiglio dell’Unione europea, dalla Commissione e dal Parlamento al vertice di Göteborg del 2017. Il Pilastro è un testo di per sé non vincolante, che ribadisce e riformula, organizzandoli in venti punti, alcuni principî e diritti sociali fondamentali già presenti nell’acquis dell’Unione europea, con l’intento di ribilanciare l’Unione monetaria con una maggiore attenzione per la dimensione sociale e, più in generale, di garantire condizioni di vita e di lavoro più eque per i cittadini europei. L’iniziativa aveva inizialmente ricevuto una tiepida accoglienza, venendo talvolta tacciata di scarsa ambizione, in quanto si limitava a ribadire e in parte a riformulare principî già ampiamente acquisiti del diritto sociale dell’Unione, utilizzando uno strumento, quello della proclamazione congiunta, che non ha alcuna efficacia vincolante e riveste un significato quasi esclusivamente politico.
In maniera piuttosto sorprendente, il Pilastro, negli anni successivi, è passato a ricoprire un ruolo sempre più centrale per il rilancio dell’idea di Europa sociale e, sotto il mandato di von der Leyen, ha guidato l’azione della Commissione in un periodo di intenso attivismo legislativo in quest’area: a partire dalla Direttiva (UE) 2019/1152 su condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e dalla Direttiva (UE) 2019/1158 sull’equilibrio tra vita e lavoro, entrambe approvate tra la fine dell’VIII e l’inizio della IX Legislatura, la Commissione von der Leyen ha infatti dato seguito alla propria azione ispirata al Pilastro con alcune proposte di legislazione particolarmente rilevanti e discusse. Tra i risultati più incisivi di questa inattesa stagione di nuova legislazione sociale, vi è senza dubbio la Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati, frutto di intensissime negoziazioni tra istituzioni e parti sociali, protrattesi per anni.
La Direttiva sul lavoro tramite piattaforme rientra appieno nel contesto appena descritto: in particolare, come espressamente indicato dal terzo considerando, essa si rifà al diritto di accesso a eque condizioni di lavoro, indipendentemente dal tipo di rapporto, nonché al diritto di informazione e a quello di protezione della salute e dei dati personali sul posto di lavoro, tutti proclamati nel Capo II del Pilastro (“Condizioni di lavoro eque”).
Nello specifico, la direttiva intende affrontare in maniera specifica il problema della qualificazione del rapporto che lega i lavoratori alle piattaforme di lavoro: si tratta non soltanto dei riders o di altre persone impiegate in forme di lavoro via app, ma più in generale di chiunque svolga una prestazione in favore di una piattaforma di lavoro digitale, anche da remoto. Lo scopo della direttiva richiede, evidentemente, una limitazione del campo di applicazione incentrata sulla nozione di “piattaforma di lavoro digitale”, che viene definita (art. 2) come qualsiasi soggetto che fornisca un servizio commerciale che: a) è fornito almeno in parte a distanza con mezzi elettronici; b) è fornito su richiesta del destinatario; c) comporta, quale componente necessaria ed essenziale, l’organizzazione del lavoro di persone fisiche; d) comporta l’uso di sistemi di monitoraggio automatizzato o di sistemi decisionali automatizzati.
Come già notato, il testo inizialmente proposto dalla Commissione presentava delle differenze rilevanti rispetto alla versione approvata dai co-legislatori: proprio il requisito alla lett. d) è il frutto di un’aggiunta successiva. Da un punto di vista descrittivo, è effettivamente vero che la presenza di sistemi di controllo e direzione automatizzati è una caratteristica tipica del modello di molte piattaforme operanti nella gig economy; tuttavia, soprattutto in alcune forme più specializzate di crowd work, tale ulteriore condizione non pare essenziale affinché si ponga un problema di corretta qualificazione del rapporto di lavoro e di garanzia di migliori condizioni per i lavoratori. L’effetto dell’aggiunta di tale requisito non appare comunque in grado di limitare in maniera significativa il campo di applicazione della direttiva, ma testimonia le difficoltà incontrate in sede di Consiglio, dove Grecia ed Estonia sono state convinte a votare favorevolmente solo a seguito di modifiche in senso favorevole alle piattaforme, mentre Francia e Germania hanno mantenuto il loro voto contrario anche di fronte al testo finale
Al centro della direttiva era, ed è rimasto, un meccanismo di rideterminazione dello status del lavoratore basato su una presunzione legale di subordinazione. Aveva fatto molto discutere l’iniziale proposta della Commissione, per cui una persona fisica che avesse lavorato per una piattaforma di lavoro digitale sarebbe stata qualificata come lavoratore dipendente una volta riscontrata la presenza di almeno due di cinque parametri, o indici presuntivi, tra i quali la “determinazione effettiva del livello della retribuzione” e la “effettiva limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere lavori per terzi”. Tale meccanismo automatico, giudicato da molti troppo rigido e incapace di riflettere la realtà del caso concreto, non è sopravvissuto nel testo finalmente approvato da Consiglio e Parlamento: l’art. 4 della direttiva richiede infatti agli Stati membri di stabilire misure effettive per accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro per come definito dalla legge, dalla contrattazione collettiva o dalla prassi del singolo Paese, “tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia”.
Tale formula non deve sorprendere, poiché ricorre identica nella Direttiva sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili: si tratta, come ricordato, del primo strumento normativo in ordine cronologico a dar seguito al Pilastro europeo dei diritti sociali.  Anche in questo caso la proposta iniziale della Commissione, che conteneva una vera e propria definizione europea di lavoratore, non è giunta inalterata al termine del proprio iter e i promotori dei diritti dei lavoratori si sono dovuti accontentare di un meno ambizioso, ma comunque significativo, rinvio alla giurisprudenza Lawrie-Blum. In altri termini, è vero che, a scapito delle grandi premesse, non si è giunti in questo primo quinquennio post-Pilastro a una nozione uniforme di subordinazione che tuteli in tutti i ventisette Stati i lavoratori in maniera uniforme, e anzi i criteri discretivi continuano a rimanere nel dominio degli Stati membri. Tuttavia, è indubbio che con la Direttiva trasparenza prima, e ancor più con la Direttiva sulle piattaforme digitali di lavoro, si sta progressivamente realizzando una convergenza su una definizione di lavoratore imperniata sulla verifica del potere direttivo del datore di lavoro e, soprattutto, sulla prevalenza della sostanza sulla forma, elementi sicuramente vicini alla sensibilità del diritto del lavoro di Paesi come Italia, Spagna e Francia.
Gli Stati membri non saranno quindi più vincolati alla valutazione quasi matematica degli indici presuntivi, ma dovranno pur sempre stabilire una presunzione relativa di subordinazione, con inversione dell’onere della prova nel caso in cui siano accertati “fatti che indichino controllo e direzione”. Nella pratica, molto poco dovrebbe cambiare per la maggioranza dei Paesi europei, compresa l’Italia, dove il lavoratore, autonomo secondo la previsione del contratto sottoscritto con l’impresa, può chiedere in giudizio la riqualificazione del rapporto di lavoro facendo perno proprio sulla presenza del potere datoriale di direzione. Tuttavia, pur ridimensionato rispetto alla proposta del 2021 e comunque ancorato al rispetto delle singole prassi nazionali, il requisito imposto dalla direttiva comporterà di un passo avanti significativo, in grado di innalzare il livello di tutela soprattutto nelle frange meno protette della forza lavoro. Sarà poi da valutare l’attuazione della direttiva negli Stati membri che, ad oggi, non hanno meccanismi effettivi che permettano al lavoratore di ripristinare il corretto inquadramento del rapporto di lavoro.
Le tutele garantite al lavoratore non si esauriscono però con la presunzione di subordinazione. Poiché, come detto, il management algoritmico (l’automazione dell’esercizio di uno o più poteri datoriali) è una caratteristica intrinseca del lavoro attraverso piattaforma per come definito dall’art. 2, il capo III della direttiva introduce misure volte a migliorare la trasparenza e la protezione dei dati personali dei lavoratori. In particolare, i lavoratori, i loro rappresentanti e, su richiesta, le autorità competenti devono ricevere informazioni sull’uso sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati, tra cui lo scopo di tali sistemi e i parametri utilizzati per adottare le decisioni (art. 9). Si tratta, in molti casi, di previsioni che già possono essere ricavate da altri strumenti normativi dell’Unione europea, tra cui il GDPR e la Direttiva trasparenza. Tuttavia, una loro precisazione è senz’altro opportuna, anche tenendo conto della tendenza di alcune piattaforme ad aggirare le regole applicabili, soprattutto nel campo della privacy. In questo senso, è significativo il divieto, stabilito all’art. 7, di trattare dati personali relativi allo stato emotivo e psicologico dei lavoratori, dati relativi a conversazioni private, in particolare con rappresentanti sindacali, e dati che permettano di prevedere il futuro esercizio di diritti fondamentali (si legga, qui, diritti sociali, come il diritto allo sciopero, alla contrattazione collettiva, alla libertà sindacale).
Assai significativa è poi, da un punto di vista procedurale, la previsione di cui all’art. 17, di un diritto di accesso delle autorità nazionali a informazioni quali il numero delle persone che lavorano tramite la piattaforma, il loro inquadramento contrattuale, la remunerazione media, etc. Anche in questo caso si tratta di poteri di cui alcune autorità nazionali già godono: in particolare, il Garante per la protezione dei dati personali italiano ha già in alcuni casi utilizzato in maniera particolarmente pervasiva ed efficace i propri poteri ispettivi nei confronti di alcune piattaforme. Tuttavia, nello spirito di un innalzamento complessivo ed uniforme del livello di protezione per i lavoratori tramite piattaforma, che passa anche attraverso un enforcement efficace in sede amministrativa, le specificazioni contenute nella direttiva non possono che essere le benvenute.
Infine, tra le disposizioni con il maggiore potenziale innovativo vi sono sicuramente gli artt. 10 e 11, che prevedono l’obbligo di supervisione umana per i sistemi automatizzati e il diritto del lavoratore di spiegazione e revisione delle decisioni da parte di un agente umano. Tali articoli esplicitano e specificano il contenuto dell’art. 22 GDPR e rendono più semplice per il lavoratore accedere a un procedimento interno di revisione della decisione che lo abbia penalizzato (si pensi, nel caso più grave, alla decisione di disattivare l’account). Si tratta di un indubbio rafforzamento della posizione del lavoratore nel rapporto con la piattaforma, fortemente voluto dai sindacati europei. Molto spesso, infatti, il carattere forzatamente impersonale e inspiegabile delle decisioni dell’algoritmo non fa che aumentare, con strumenti tecnici ancor prima che economici, la disparità di potere tra datore di lavoro e lavoratore.
Sia consentita un’ultima riflessione di carattere generale non già sul contenuto della direttiva, ma sul suo posto nel diritto del lavoro dell’Unione europea. Appare evidente, infatti, che la Direttiva sulle piattaforme digitali di lavoro va letta nel contesto del Pilastro europeo dei diritti sociali: non si tratta di un’iniziativa isolata, bensì di uno strumento che si integra in un complesso di iniziative con un fine comune ed ispirate a un insieme principî ben precisi. Che in questo caso al centro dell’attenzione fossero i lavoratori della gig economy è frutto dell’emergenza sociale che ha colpito questa categoria di lavoratori negli anni recenti e dell’assenza, negli ordinamenti degli Stati membri, di strumenti specifici idonei ad affrontarla. Tuttavia, disposizioni come quelle contenute sul management algoritmico impongono una riflessione de jure condendo: sarebbe opportuno estendere le medesime tutele a tutti i lavoratori subordinati, indipendentemente dalla presenza di una piattaforma nel rapporto di lavoro? Le trasformazioni del lavoro tramite piattaforma sono state infatti talvolta tradotte nell’area del lavoro standard, e sistemi decisionali e di controllo automatizzati operano nella quotidianità di molti più lavoratori di quelli interessati dalla direttiva.
Come detto, poi, la direttiva non opera nel vuoto, ma dovrà inserirsi in un contesto normativo già piuttosto intricato: un tema fondamentale che andrà affrontato nei mesi e negli anni a venire riguarda il coordinamento della Direttiva sul lavoro tramite piattaforma e gli altri strumenti di diritto dell’Unione europea, magari non specificamente rivolti ai lavoratori, e tuttavia egualmente applicabili: si pensi al Regolamento sull’intelligenza artificiale (i sistemi decisionali sono in genere sistemi di intelligenza artificiale), al GDPR (i dati personali dei lavoratori sono essenziali per il modello di business delle piattaforme), al Digital Services Act o al Regolamento P2B. Il rischio, in questo caso, è di incontrare casi di contrasto tra norme, in cui le previsioni tendenzialmente più favorevoli ai lavoratori della direttiva qui in commento potrebbero perdere efficacia a fronte di regole più permissive stabilite in altri settori dell’ordinamento, in particolare nel Regolamento sull’intelligenza artificiale.