Le procedure “Paesi sicuri” tra potere politico e giurisdizionale. Note alle pronunce della Cassazione del dicembre 2024

Questo breve scritto intende commentare le decisioni della Corte di cassazione del dicembre 2024, che hanno affrontato il delicato tema del ruolo del giudice e della politica nella designazione dei c.d. Paesi sicuri (cfr. Cass., sez. I, sent. 19.12.2024, n. 14533; Cass., sez. I, ord. 30.12.2024, n. 22146).
Le sentenze sono state al centro del dibattito pubblico che ne ha proposto letture contradditorie e talvolta fuorvianti, ponendo in particolare l’accento sullo “scontro” tra il Governo e la Magistratura, accusata di intervenire al solo fine di contraddire le politiche della maggioranza in materia di immigrazione.
Al fine di fare chiarezza, prima di commentare le motivazioni delle decisioni, è opportuno delineare brevemente il quadro normativo e il contesto giurisprudenziale in cui si inseriscono.
Riguardo al contesto normativo, occorre ricordare che può essere considerato “sicuro”, ai sensi del diritto dell’UE, un Paese dove non vi siano «generalmente e costantemente persecuzioni» (art. 37 e allegato I, dir. 32/2013/UE, v. anche artt. artt. 61 e 62 del reg. 2024/1348/UE applicabile dal 2026). A livello interno, la designazione della lista dei Paesi sicuri, è stata prevista da un decreto interministeriale, almeno sino alla recente entrata in vigore del d.l. 158 del 2024 e del d.l. n. 145 del 2024 (conv. con l. n. 187 del 2024). La designazione di un Paese quale sicuro ha delle precise conseguenze procedurali. Le persone che provengono da un Paese sicuro possono essere, previa convalida, trattenute alle condizioni di cui all’art. 6 bis del d.lgs. 142/2015 sia in Italia, sia in Albania (art. 3, comma 3, l. 14/2024) e parallelamente soggette a procedure “accelerate” di riconoscimento della protezione (art. 28 bis, d.lgs. n. 25/2008), contraddistinte da una presunzione di non fondatezza della domanda e da termini ridotti, sia nella prima fase amministrativa (dove non è prevista la presenza di un legale), sia in quella giurisdizionale.
Per quanto riguarda il contesto giurisprudenziale, è utile sottolineare che le pronunce della Cassazione in commento rispondono a due precisi interrogativi già sollevati dai giudici ordinari - solo in parte risolti dalla sentenza della CGUE del 4 ottobre 2024 - che attengono all’ammissibilità del potere del giudice di sindacare la designazione, compiuta dal Ministero, di un Paese quale sicuro, nonché del giudice ordinario di disapplicare il D.M. contenente la lista dei Paesi sicuri, ove ritenga tale scelta illegittima.
Con la sentenza del 19 dicembre 2024 (Cass., sez. I, sent. 19.12.2024, n. 14533), la Cassazione risponde ad un rinvio pregiudiziale civile (art. 363-bis c.p.c.) promosso dal Tribunale di Roma che, alla luce della coesistenza di due orientamenti contrastanti tra le Sezioni specializzate domandava se «il giudice ordinario sia vincolato alla lista dei Paesi di origine sicura approvata con il D.M., o se il giudice debba (..) comunque valutare se il Paese incluso nell’elenco dei “Paesi di origine sicuri” sia effettivamente tale alla luce della normativa europea e nazionale vigente in materia» (Trib. Roma, ord. 01.07.2024, n. 22259).
Tale interrogativo si era posto alle Sezioni specializzate nel corso di giudizi concernenti prevalentemente richiedenti provenienti dalla Tunisia, Paese il cui livello di sicurezza è mutato nel corso degli ultimi anni. Alcune Sezioni hanno ritenuto la valutazione della sicurezza di un Paese una scelta strettamente riservata ai Ministeri competenti (Trib. Milano, decr. 1.12.2023 e 6.5.2024); al contrario, altri Tribunali hanno sindacato in giudizio la designazione ministeriale, disapplicando il D.M. alla luce della sussistenza di un contrasto tra la situazione della Tunisia e i canoni di sicurezza previsti dalla dir. 32/2013/UE (Trib. Firenze, decr. 20.9.2023 e 26.11.2023).
La Cassazione, con la sentenza in commento, ha risolto tale “contrasto” giurisprudenziale con argomentazioni solide ed equilibrate.
Anzitutto la Corte delinea i confini del potere giurisdizionale e di quello politico in materia.
La politica deve svolgere un ruolo «a monte»: il Ministro degli Affari esteri, di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia, ha «il potere di stilare una lista di Paesi di origine sicuri per richiedenti protezione internazionale», potere che ricomprende «la scelta di inserire o meno un determinato Paese, che soddisfi i requisiti previsti dal legislatore» (par. 13). Ciò non significa, tuttavia, che tale scelta non sia giustiziabile, poiché il D.M. che individua i Paesi di origine sicuri non è – secondo la Cassazione - un atto politico «fuori dal diritto e dalla giurisdizione» (par. 13). Di conseguenza i giudici, pur non potendo evidentemente sostituirsi alle valutazioni del Ministero, detengono il compito di verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un Paese come sicuro, quali «garanti dell’effettività, nel singolo caso concreto, dei diritti fondamentali» (par. 4).
L’ammissibilità del sindacato giurisdizionale in materia – precisa la Corte di cassazione – costituisce una soluzione che discende peraltro “de plano” (par. 15) dalla sentenza della CGUE del 4 ottobre 2024, la quale ha affermato il potere del giudice di sindacare, anche d’ufficio, la designazione di un Paese quale sicuro, in forza del dritto al ricorso effettivo (art. 47 CDFUE) e al dovere istruttorio (art. 46 della dir. 32/2013/UE) che impone al giudice di esaminare in modo completo ed ex nunc gli elementi di fatto e di diritto alla base della procedura.
La Corte di cassazione, tuttavia, non si ferma al richiamo dei principi espressi dalla CGUE, ma specifica ulteriormente i confini del sindacato del giudice sulla designazione di un Paese quale sicuro, distinguendo due ipotesi.
La prima ipotesi riguarda il caso in cui la sicurezza del Paese di origine è contestata per rilievi di ordine generale. In tal caso, le ragioni a sostegno della domanda non riguardano una situazione individuale, ma generale appunto, concernente intere categorie di cittadini o zone di quel dato Paese. Di fronte a questa prima ipotesi, il giudice può procedere alla disapplicazione del D.M. nel caso in cui dimostri un contrasto manifesto tra la designazione del Paese di origine quale “sicuro” e i criteri di cui all’allegato I della dir. 32/2013, nonché ritenga che tale designazione rivesta un carattere rilevante e decisivo nell’ambito della controversia, avendo un impatto sulla concreta tutelabilità del diritto invocato in giudizio (par. 21.1).
La seconda ipotesi concerne il caso in cui il richiedente abbia invocato in giudizio «gravi motivi per ritenere che quel Paese non è sicuro per la sua situazione particolare», come prevede il comma 5 dell’art. 2-bis del d.lgs. n. 25/2008. Pertanto, come previsto dalla predetta norma, l’invocazione di elementi “individuali” e non relativi alla situazione generale del Paese determina di per sé il superamento della presunzione di sicurezza e «non richiede la disapplicazione del decreto ministeriale» (par. 21.2).
Qualche giorno dopo la sentenza appena commentata, la Cassazione è intervenuta nuovamente sul tema (Cass., sez. I, ord. 30.12.2024, n. 22146), pronunciandosi sul ricorso avverso l’ordinanza del 18 ottobre 2024 del Tribunale di Roma che non aveva convalidato i trattenimenti dei primi richiedenti diretti in Albania.
Pur decidendo di rinviare a nuovo ruolo con un’ordinanza interlocutoria, in attesa della decisione della CGUE sui numerosi rinvii pregiudiziali promossi dai giudici italiani su casi analoghi (ex multis Trib. Firenze, ord. 15.05.2024 e ord. 15.05.2024; Trib. di Bologna, ord. 24.10.2024; Trib. Roma, ord. 11.11.2024, n. 46690; Trib. Palermo, ord. 06.11.2024, nn. 763 e 764), la Cassazione non manca l’occasione di esprimersi su due aspetti molto discussi a seguito dell’ordinanza impugnata.
In primo luogo, la Corte chiarisce che anche il giudice della convalida (e non solo quello competente per le procedure di asilo) è titolare del «potere-dovere di esercitare il sindacato di legittimità del decreto ministeriale, nella parte in cui inserisce un certo Paese di origine tra quelli sicuri, ove esso contrasti in modo manifesto con la normativa europea e la legge italiana».
In secondo luogo, la Corte di cassazione affronta il tema della compatibilità con il diritto UE della designazione dei Paesi sicuri con eccezioni di categorie di persone. Secondo il Collegio tale aspetto, non essendo stato affrontato dalla CGUE del 4 ottobre 2024, non può dirsi di per sé contrario al diritto Ue. Un margine di sindacato giurisdizionale sulla designazione di Paesi di origine sicuri con eccezioni personali residuerebbe solo in «ipotesi limite» (par. 17.3), ovvero in casi in cui il giudice non si trovi di fronte a mere “eccezioni personali”, quanto piuttosto a «persecuzioni costanti, endemiche o generalizzate» (par. 17.2).
Si tratta di due punti di rilievo poiché numerose disapplicazioni sono avvenute e continuano ad avvenire proprio in giudizi di convalida di trattenimenti, in Italia e in Albania, nonché nei confronti di cittadini provenienti da Paesi, come il Bangladesh e l’Egitto, designati sicuri con eccezioni di categorie di persone (es. comunità lgtq+).
In sintesi, dalle sentenze commentate emerge che i giudici competenti per le procedure accelerate o per la convalida dei trattenimenti nell’ambito delle medesime procedure sono legittimati a disapplicare il D.M. “Paesi sicuri”, solo nel caso in cui la designazione:

  • rilevi per motivi di ordine generale;
  • abbia carattere rilevante (ovvero sia oggetto delle contestazioni del richiedente) e decisivo (ovvero sia tale da poter determinare il rigetto della domanda);
  • contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione previsti dall’art. 2-bis del d.lgs. n. 25/2008 e dall’art. 37 della dir. 2013/32/UE e del suo allegato I e sia decisiva ai fini dell’esito del procedimento.
  • metta in luce la presenza di persecuzioni endemiche, tali da costituire una ipotesi limite.

Queste precise indicazioni non sembrano essere state valorizzate nei giudizi successivi. Bisogna segnalare però che, nel frattempo, la lista dei Paesi sicuri è stata codificata in una fonte di rango primario (d.l. n. 145 del 2024, conv. con l. n. 187 del 2024), superando così il contesto normativo a cui facevano riferimento le sentenze della Cassazione.
I giudici che, a partire dal gennaio del 2025, si sono trovati a confrontarsi con il nuovo decreto-legge “Paese sicuri” non sembrano aver limitato il proprio sindacato a sole ipotesi limite, impegnandosi a dimostrare il contrasto manifesto con i criteri della direttiva, il carattere rilevante o decisivo della designazione. Piuttosto, i giudici hanno essenzialmente fondato le loro decisioni ancora una volta sui principi espressi dalla CGUE nella sentenza del 4 ottobre del 2024, agendo secondo i rimedi propri del rapporto tra diritto UE e fonti interne di rango primario: la disapplicazione, nei casi in cui hanno ritenuto di trovarsi di fronte ad un contrasto con i principi Ue ad effetto diretto (il diritto al ricorso effettivo), il rinvio pregiudiziale, nei casi di questioni interpretative del diritto UE (es. casi di designazione di Paesi sicuri con eccezioni personali), tralasciando invece – forse inopportunamente come si dirà – il rimedio della questione di costituzionalità.
Così, solo pochi giorni dopo le sentenze della Cassazione il Tribunale di Catania ha disapplicato il decreto legge in un caso riguardante un cittadino proveniente dall’Egitto (Trib. di Catania, 4 gennaio 2025, n. 60), mentre la Corte di appello di Roma non ha convalidato il trattenimento di 49 persone dirette in Albania, provenienti dal Bangladesh e dall’Egitto, proponendo rinvio pregiudiziale alla CGUE (Corte app. Roma, 31.01.2024, n. 478).
Il sistema di garanzia giurisdizionale dei diritti è oggi «improntato a un concorso di rimedi» tra i quali «il sindacato accentrato di costituzionalità non si pone in antitesi con un meccanismo diffuso di attuazione del diritto europeo, ma con esso coopera nella costruzione di tutele sempre più integrate» (C. cost. sent. 1 del 2025). Pertanto, i giudici ordinari, come la stessa Corte di cassazione, avrebbero ben potuto valutare, in luogo della disapplicazione e del rinvio pregiudiziale, un’altra strada, quella della proposizione di una questione di costituzionalità, trattandosi di questioni con chiaro «tono costituzionale» (C. cost. sentt. 181 del 2024, 1 del 2025), che coinvolgono diritti sanciti non solo dal diritto UE, ma anche dalla Costituzione italiana, come il diritto al ricorso effettivo (art. 47 CDFUE, art. 24 Cost.) o il diritto d’asilo (art. 18 CDFUE, art. 10, comma 3 Cost.).
Tale strada avrebbe avuto il vantaggio di andare “oltre” alla soluzione del singolo caso concreto, ed eventualmente, di ottenere, in caso di declaratoria di incostituzionalità, una pronuncia della Corte costituzionale con efficacia erga omnes; non solo, tale strada avrebbe potuto consentire alla stessa Corte costituzionale «di disporre eventualmente, essa, il rinvio pregiudiziale, in caso di rilievo costituzionale assoluto» (N. Zanon, 2024), uniformando e rafforzando i vari e non sempre efficaci quesiti pregiudiziali posti dai giudici ordinari.
Qualche certezza in più sui confini del sindacato del giudice in materia si potrà sicuramente cogliere grazie all’imminente decisione della CGUE sui plurimi rinvii pregiudiziali dei tribunali italiani (e non solo), che sarà discussa nell’udienza fissata per il 25 febbraio 2025.
Con tutta probabilità nemmeno l’attesa sentenza della CGUE costituirà l’ultimo tassello di questa vicenda, visto che il Governo ha già palesato l’intenzione di presentare un nuovo decreto legge volto, fra l’altro, ad abrogare ogni riferimento alle procedure “Paesi sicuri” dalla legge di ratifica del protocollo Italia-Albania (l. 14 del 2024, cfr. Intervento del 12 febbraio 2015 del Ministro Piantedosi alla Camera dei Deputati), rendendo così (non dis)“applicabile” la disciplina e consentendo, una volta per tutte, l’avvio del progetto albanese. Vedremo se vi sarà ancora spazio per una questione di costituzionalità.


La riforma del sistema comune europeo di asilo: prospettive e criticità

L’8 giugno e il 4 ottobre 2023 il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo sul pacchetto di riforme del sistema comune europeo di asilo.
Si tratta, secondo la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, di «una vera svolta» che consentirà all’Ue di portare a compimento la riforma tanto attesa entro la fine della legislatura.
Il percorso, avviato già nel 2020 grazie al Patto europeo sulla migrazione, ha subito una lunga battuta d’arresto dovuta alla “storica” inconciliabilità delle diverse posizioni degli Stati membri in materia: la richiesta di misure di solidarietà obbligatoria, da parte dei Paesi dell’area mediterranea situati sulla frontiera esterna, sottoposti alla pressione delle migrazioni via mare, come Italia e Grecia; il timore dei movimenti secondari dei Paesi dell’Europa centrale, come la Germania; l’opposizione continua e di principio dei paesi Visegrad (cfr. Savino, 2023).
Le nuove proposte mirano espressamente a bilanciare “responsabilità” e “solidarietà”, colmando lo squilibrio esistente nella gestione delle domande: si pensi che, nel 2022, sono state presentate in Germania 243.000 richieste, in Italia 83.000, mentre in altri Paesi europei non se ne contano nemmeno 10.000 (cfr. dati Eurostat 2022).
Nello specifico, il processo di riforma dovrebbe concludersi, dopo i negoziati con il Parlamento europeo, con l’approvazione di tre proposte di regolamento: il regolamento sulla gestione dell'asilo e della migrazione, il regolamento volto ad introdurre una procedura comune di protezione internazionale, il regolamento sulle situazioni di crisi.
Quale sarà l’impatto concreto delle novità normative? Quali conseguenze comporteranno per gli Stati europei nella gestione della migrazione? E sui diritti delle persone in arrivo? (cfr. (Gatta, Maiani, in corso di pubblicazione 2023)
Per rispondere a tali quesiti è opportuno analizzare alcuni punti chiave dei testi in via di approvazione: a) la mancata modifica dei criteri previsti dal Regolamento Dublino; b) la previsione di un meccanismo di solidarietà; b) l’introduzione delle procedure di frontiera.

La (mancata) riforma del Regolamento Dublino
Nel modificare il c.d. Regolamento Dublino III (Reg UE 604/2013), la proposta approvata dal Consiglio europeo non supera il criterio del c.d. primo ingresso, uno dei punti – da sempre – più discussi del sistema comune di asilo europeo.
È noto che, tra i criteri per individuare lo Stato membro competente all’esame della domanda di protezione, il Regolamento Dublino prevede il c.d. criterio del primo ingresso che assegna la competenza delle procedure di asilo ai Paesi in cui la domanda è stata registrata (art. 3, par. 2 Reg UE 604/2013; art. 8 par 2 proposta di Regolamento sulla gestione della migrazione).
Tale criterio ha l’effetto di riversare sui Pasi situati sulla frontiera esterna, come Italia, Grecia e Spagna, una enorme responsabilità nell’identificazione delle persone in arrivo e nella gestione delle domande di asilo, configurando un sistema lontano dal principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità, previsto all’art. 80 TFUE in materia di asilo.
Anche nella prassi questo sistema ha generato criticità tali da minare le fondamenta dello stesso sistema Schengen, messo a dura prova dall’incapacità degli Stati situati sulla frontiera esterna di gestire la pressione migratoria, nonché dalle ripetute “chiusure” delle frontiere interne dei Paesi del nord Europa, intimoriti dai movimenti secondari (D’Amico, 2020).
Eppure di tale riforma non vi è traccia nel nuovo pacchetto approvato dal Consiglio: la gerarchia dei criteri di competenza rimane invariata e i Paesi di primo ingresso, come l’Italia, continueranno ad avere la responsabilità delle procedure (Ecre, 2023). Le ragioni di tale mancanza sono da ricercare non solo nella storica opposizione dei Paesi del Nord Europa, ma anche in un affievolimento di tale richiesta da parte dei Paesi situati sulla frontiera esterna. In particolare, a differenza dei Governi precedenti, il Governo italiano in carica non ha insistito per la modifica del criterio del primo ingresso, mirando piuttosto al potenziamento delle politiche del non arrivo e di esternalizzazione delle frontiere (Savino, 2023). Non è un caso che proprio nel Consiglio europeo dell’8 giugno 2023 il Governo italiano abbia posto le basi per la visita di Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen in Tunisia in vista dell’accordo, di  cui si dirà a breve.

Solidarietà obbligatoria ma flessibile
La proposta di regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione introduce un nuovo meccanismo di solidarietà, per bilanciare le responsabilità degli Stati europei nella gestione delle domande di asilo.
Sui siti istituzionali tale meccanismo viene ripetutamente descritto come obbligatorio, ma flessibile: obbligatorio perché tutti i Paesi Ue dovranno mettere in campo misure di solidarietà; flessibile perché saranno gli Stati a scegliere quali misure di solidarietà adottare.
In particolare, ai sensi dell’art. 44 bis, gli Stati possono scegliere se porre in essere misure -  definite “di pari valore”, quali: la ricollocazione di richiedenti e (in alcuni casi) di beneficiari di protezione; contributi finanziari diretti a potenziare il settore dell’accoglienza o della gestione delle frontiere; misure di solidarietà alternative «e incentrate sullo sviluppo di capacità, sui servizi, sul sostegno al personale di frontiera». Inoltre, la proposta di regolamento sulle situazioni di crisi consente agli Stati membri di richiedere misure per fronteggiare l’emergenza, comprese «misure per sostenere il rimpatrio, attraverso la cooperazione con i Paesi terzi» (art. 7x lett e).
Se l’obbligatorietà di questo meccanismo costituisce un passo avanti, la discrezionalità, lasciata ai singoli Stati, potrebbe vanificare o, comunque, ridurre gli effetti positivi sugli Stati di frontiera.
Tra le misure di solidarietà indicate dall’art. 44 bis, lo strumento che consentirebbe di alleviare realmente il carico dei Paesi di “primo ingresso” è quello della ricollocazione, ovvero il trasferimento dei richiedenti asilo verso altri Stati europei al fine dell’esame della domanda di protezione (cfr. art. 2 lett. u).
È tuttavia facile immaginare che la maggior parte degli Stati opti per misure meno gravose, come la concessione di contributi finanziari o di misure di sostegno agli Stati di frontiera. Queste forme di sostegno potrebbero non essere risolutive in termini di alleggerimento dell’onere di gestione delle persone in arrivo, ma anzi potrebbero avere l’effetto di affollare ulteriormente i centri delle frontiere esterne, le cui condizioni non assicurano, già oggi, le garanzie minime di rispetto dei diritti umani, come dimostra una recente condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (C. Edu, I Sez, J.A. e altri contro Italia, 30/06/2023, cfr. Galicz, 2020 ).

Le procedure di frontiera
La proposta di regolamento sulle procedure comuni di asilo prevede una delle novità più problematiche del pacchetto di riforma.
Esso infatti rende, in alcuni casi, obbligatorie le procedure di frontiera, sino ad oggi facoltative, prevedendo il trattenimento in attesa della decisione sulla domanda di protezione, con lo scopo di accertare il diritto di ingresso nel territorio dello Stato.
Si tratta di procedure accelerate (termini dimezzati) per il riconoscimento della protezione internazionale, contraddistinte da presunzioni di non fondatezza della domanda e che si applicheranno alle richieste presentate in frontiera o nelle zone di transito. A seguito della riforma, gli Stati membri saranno obbligati ad attivare tale procedura nel caso in cui il richiedente abbia fornito false informazioni, rappresenti una minaccia per la sicurezza nazionale, o appartenga a uno Stato terzo per il quale il tasso di accoglimento delle richieste di asilo sia inferiore al 20% al livello europeo (art. 41b(1)).
Tale riforma non farà altro che potenziare quanto già previsto in Italia per mano del Decreto Sicurezza I (c.d. D.l. n. 118 del 2018, art. 9) e dal Decreto Cutro (C.d. D.l. n. 20 del 2023, art. 7 bis).
Quest’ultimo ha previsto una specifica procedura accelerata nei casi di domanda di frontiera presentata da un cittadino/a di un Paese c.d. sicuro, durante la quale è previsto il trattenimento dello straniero che non abbia consegnato il passaporto oppure che non presti idonea garanzia finanziaria (cfr. art. 6 bis D.lgs. n. 142 del 2015, Decreto interministeriale del 14 settembre 2023. A prescindere dalle decisioni di alcuni giudici nazionali, criticabili per ragioni che non possono essere approfondite in questa sede (D’Amico, 2023), si ritiene che tali procedure, accompagnate da forme di trattenimento “in ingresso” nel territorio dello Stato, siano molto problematiche alla luce dei principi costituzionali, per diverse ragioni.
Anzitutto, è difficile comprendere come queste ultime possano dirsi coerenti con l’art. 10, comma 3 della Costituzione, il quale garantisce il diritto di ingresso “nel territorio della Repubblica” (Benvenuti, 2007; ex multis Cass., sez. I, sent. n. 25028/2005. Cass., Sez. Unite, 26 maggio 1997, n. 4674) a coloro che si trovano nell’impedimento delle libertà democratiche sancite dalla Costituzione Italiana; la stessa norma, peraltro, impone un esame individuale delle situazioni di impedimento dell’esercizio delle libertà costituzionali, non rilevando in alcun modo la cittadinanza, né tanto meno la probabilità di accoglimento della richiesta, presupposti invece previsti dalle nuove norme europee.
Inoltre, è discutibile una previsione così estesa del trattenimento “in ingresso” che, seppur consentito dalle fonti sovranazionali (art. 5 CEDU lett. f),  costituisce pur sempre una misura limitativa della libertà personale di cui all’art. 13 della Costituzione e che comporta «quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui» (C. Cost. sent.n. 105 del 2001). Per tale ragione il trattenimento dello straniero alla frontiera dovrebbe essere disposto quale extrema ratio e non certo quale modus operandi generalizzato di accertamento del diritto di ingresso nel territorio dello Stato.

L’esternalizzazione delle frontiere: Libia, Tunisia, Albania..
Per comprendere a fondo il significato della riforma, essa deve essere letta alla luce della dimensione esterna dell’Unione (Gatta, Maiani, in corso di pubblicazione 2023). Infatti, oltre alle misure appena descritte volte a proteggere i confini “fisici” europei, l’azione dell’Unione e di alcuni Stati membri si è estesa al di là del Mediterraneo, concludendo accordi con i Paesi di transito dei migranti per fermare le partenze e contrastare l’immigrazione irregolare.
Per quanto riguarda l’Italia si deve ricordare che è stato tacitamente rinnovato il Memorandum Italia-Libia (2017, 2020 e 2023), i cui pregiudizievoli effetti sui diritti umani dei migranti sono ormai noti e denunciati dalle organizzazioni internazionali e dai giudici. Il nostro Paese è inoltre stato il primo sostenitore del Memorandum of Understanding on a strategic and global partnership between the European Union and Tunisia, siglato nel luglio 2023.  Dal testo dell’accordo - fondato su cinque pilastri non specificamente dedicati alla migrazione (agricoltura, economia circolare, transizione digitale, trasporto aereo, investimenti) - non si evincono con chiarezza gli effetti che esso avrà sulle politiche del non arrivo. Secondo alcune associazioni, l’accordo rischia di replicare le terribili conseguenze del Memorandum Italia-Libia. Su questa scia, il 7 novembre 2023, l’Italia ha concluso un accordo con l’Albania la quale, come si apprende da notizie di stampa, accoglierà in due centri le persone salvate in mare dalle autorità italiane.

Un’occasione persa?
In definitiva gli accordi europei sin qui descritti, confermano la tendenza dell’Unione a rafforzare le frontiere esterne e le politiche del non arrivo, senza però risolvere alcuni nodi cruciali che minano l’effettività del sistema comune europeo di asilo.
Da un lato, la riforma, non superando il criterio del primo ingresso previsto dal Regolamento Dublino III, non sembra risolvere alla radice lo squilibrio di responsabilità fra Stati nella gestione delle domande di asilo.
Dall’altro, la riforma non fa alcun cenno alla previsione di vie legali di accesso alla protezione internazionale che consentano ai richiedenti protezione di raggiungere l’Europa in modo sicuro e regolare (es. i visti umanitari, reinsediamenti, corridoi umanitari cfr. Siccardi, 2022). L’assenza di un quadro comune in materia di vie legali di accesso alla protezione, costringe persone potenzialmente beneficiarie del diritto di asilo a viaggiare verso l’Europa in modo irregolare, a mettersi nelle mani di trafficanti di esseri umani e a rischiare la vita nelle acque nel Mediterraneo (Siccardi, 2021), dove dal 2014 ad oggi sono morte 28.000 persone (cfr. dati OIM, 2023).
La riforma non avrà purtroppo l’effetto di porre fine a una delle più gravi tragedie umanitarie del nostro tempo.