Luca Dettori
Mandati di arresto e giustizia globale: il nuovo corso della Corte Penale Internazionale
Il mandato d'arresto che giovedì 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant riveste un rilevante significato giuridico e politico e rappresenta una svolta nel panorama della giustizia internazionale: è la prima volta nella storia della Corte che un mandato d’arresto viene emesso contro personalità di uno Stato sostenuto dai paesi a democrazia occidentale.
La decisione di emettere i due mandati di arresto (cui si accompagna quello contro il comandante in capo dell'ala militare di Hamas, Diab Ibrahim al-Masri), richiesti il 20 maggio 2024 dal procuratore della Corte penale internazionale a una Camera preliminare della Corte, si inserisce in un percorso di rafforzamento della giustizia penale internazionale e di consolidamento del ruolo della CPI, che già nel 2023 aveva emesso un mandato di arresto contro Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, e contro Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissario per i diritti dei bambini presso l’ufficio del presidente della Federazione Russa, per crimini di guerra commessi in Ucraina.
Anche in questo caso si era trattato di una svolta, dal momento che mai un mandato era stato spiccato nei confronti del leader di un paese membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Entrambi i casi segnano un cambio di paradigma nel diritto internazionale penale e sembrano indirizzarsi, insieme a recenti decisioni della Corte internazionale di giustizia (CIG), nella direzione dell’apertura di un orizzonte giuridico in cui il diritto sovranazionale assume un ruolo di primo piano nella gestione dei conflitti internazionali in un contesto geopolitico carico di tensioni.
Infatti, in passato, sin dalla sua istituzione nel 2002, la CPI si era limitata a perseguire leader e capi militari quasi esclusivamente di Stati dell’Africa, incriminando oltre cinquanta individui, tra cui ventuno detenuti all’Aia, dieci condannati per crimini e quattro assolti. Questo approccio aveva sollevato critiche e sospetti di parzialità politica e di favoreggiamento delle strategie occidentali di «cambio di regime» in quel continente, tanto da essere accusata da alcuni paesi africani di essere uno strumento di neocolonialismo giuridico. La stessa Unione Africana ha spesso contestato la legittimità della CPI, come nel caso del mandato di arresto contro il presidente del Sudan Omar Al-Bashir, denunciato come un attacco all’autonomia politica del continente.
La mancata azione della CPI rispetto a presunte violazioni dei diritti umani attribuibili a rappresentanti di Stati occidentali, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, o di loro alleati, ha rafforzato quelle critiche e quei sospetti sulla percezione di un’applicazione selettiva della giustizia internazionale. Ad esempio, le indagini sulle torture nei programmi di detenzione della CIA, commessi in territori di Stati aderenti al Trattato e sulle presunte atrocità compiute da militari britannici in Iraq sono state archiviate nel 2021 per mancanza di prove sufficienti o per motivi procedurali. Invece, il mandato di arresto contro Putin, trattandosi di un atto rivolto per la prima volta contro il leader di una grande potenza e di uno Stato membro permanente del Consiglio di sicurezza, ha dimostrato che la Corte intende operare anche nei confronti di Stati di primario rilievo internazionale. Allo stesso modo, le recenti indagini avviate nei confronti di due leader israeliani hanno dimostrato che la Corte non esita a intervenire nemmeno nei confronti di rappresentanti di Stati a democrazia occidentale. Queste azioni contribuiscono a dissipare ancora di più i sospetti di una giustizia internazionale selettiva, evidenziando l'impegno della CPI a perseguire crimini di guerra ovunque e da chiunque essi siano commessi. In questo modo, la Corte sembrerebbe voler riaffermare la propria legittimità e indipendenza, sottolineando l'universalità dei principi del diritto internazionale.
Uno degli aspetti più controversi della vicenda dei recenti mandati di arresto riguarda la giurisdizione della CPI sui territori palestinesi. La questione affonda le sue radici nella decisione del 5 febbraio 2021 della Pre-Trial Chamber, che aveva confermato la possibilità per la CPI di esercitare giurisdizione sulla cosiddetta "Situazione nello Stato di Palestina". Nel corso del procedimento che ha condotto alla suddetta decisione, è stata consentita un’ampia partecipazione tramite memorie amicus curiae, presentate da decine di Stati, organizzazioni e individui, in risposta alla richiesta del Procuratore Fatou Bensouda. Questo approccio inclusivo aveva permesso di approfondire una serie di temi cruciali relativi alla portata e ai limiti della giurisdizione della CPI nei territori palestinesi, evidenziando il delicato equilibrio tra diritto internazionale, sovranità statale e tutela dei diritti umani. Le questioni di soglia nelle occasioni affrontate, e risolte nel senso di riconoscere l’esistenza della giurisdizione della Corte, riguardavano in particolare: se la Palestina si qualifichi come uno Stato autorizzato a conferire giurisdizione alla CPI; se gli Accordi di Oslo, che circoscrivono i poteri giurisdizionali penali dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nei riguardi dei cittadini israeliani, impediscano alla CPI di esercitare tale giurisdizione; se a Israele sia stata data un’opportunità sufficiente per condurre le proprie indagini penali nell’ambito del regime di complementarità della CPI, che dà priorità alle indagini domestiche purché trasparenti ed effettive rispetto ai procedimenti internazionali.
Come è noto, la CPI può indagare su individui appartenenti a Stati non membri qualora i presunti reati siano stati commessi nel territorio di uno Stato membro. Sulla base di questo principio, la Corte ha stabilito che la Palestina, in quanto Stato parte dello Statuto di Roma, conferisce alla CPI giurisdizione sui crimini commessi nei territori occupati, nonostante Israele non sia uno Stato aderente. Un caso simile è quello dell'Ucraina, dove crimini attribuiti a personalità russe (un altro Stato non aderente) ricadono sotto la giurisdizione della Corte in virtù della ratifica ucraina (i cui effetti sono stati fatti decorrere dalla data di avvio dei negoziati per l’adesione della stessa Ucraina allo Statuto di Roma).
L’attuale Procuratore della CPI, Karim Khan, nella sua dichiarazione ufficiale, ha ribadito l’importanza della “complementarità” quale principio fondamentale dello Statuto di Roma, ma ha anche affermato che proprio quel principio comporta che, quando gli Stati coinvolti non dimostrano la capacità o la volontà di perseguire i crimini in modo credibile e imparziale, la CPI deve esercitare la competenza a perseguirli. Nel caso di Israele, Khan ha sostenuto che i procedimenti nazionali non soddisfano gli standard richiesti dallo Statuto di Roma e che questo impone l’intervento della Corte.
Ai sensi dell'articolo 58(1) dello Statuto, una Camera preliminare può emettere un mandato di arresto se ritiene che: (i) ci siano ragionevoli motivi per ritenere che la persona abbia commesso un crimine di competenza della Corte e (ii) l’arresto della persona appaia necessario per garantire la sua presenza al processo, per assicurarsi che la persona non ostacoli o metta in pericolo le indagini o i procedimenti della Corte oppure per impedire che la persona continui a commettere quel crimine o un crimine correlato che rientra nella competenza della Corte e che sorga dalle stesse circostanze.
Le indagini della CPI sulla guerra a Gaza si concentrano su presunte violazioni del diritto internazionale commesse durante il conflitto. Per Hamas, le accuse riguardano i crimini atroci commessi il 7 ottobre 2023, tra cui attacchi deliberati contro civili israeliani, stupri di massa e prese di ostaggi. Questi atti configurano gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e possono essere qualificati come crimini contro l’umanità e crimini di guerra (Statuto di Roma, rispettivamente art. 7 e art. 8). Per quanto riguarda invece le accuse contro Netanyahu e Gallant, la CPI ha ritenuto che le politiche israeliane a Gaza, tra cui il blocco totale di beni essenziali come cibo, acqua ed energia, violano il divieto di usare la fame come metodo di guerra, sancito dall’art. 8 dello Statuto. Inoltre, l’attacco deliberato contro la popolazione civile palestinese potrebbe configurare crimini contro l’umanità, trattandosi di azioni che appaiono parte di una politica statale sistematicamente volta a punire collettivamente i palestinesi, in violazione dei principi fondamentali del diritto umanitario. A queste accuse si aggiunge la giustificazione del mandato di arresto con riferimento alle esigenze processuali. La CPI ha ritenuto necessario il mandato per prevenire la reiterazione delle condotte criminose, che sembrano ancora in corso, e per fermare ulteriori crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Inoltre, la classificazione “segreta” dei mandati è stata adottata per proteggere i testimoni e garantire l’integrità delle indagini. La Camera ha però sottolineato che informare le vittime e le loro famiglie dell’esistenza dei mandati risponde al loro diritto alla giustizia e alla trasparenza. Infine, il mandato è ritenuto essenziale per garantire che Netanyahu e Gallant siano sottoposti a processo, permettendo così alla giustizia di svolgere il suo corso in conformità con il diritto internazionale.
Nonostante il peso simbolico delle azioni della CPI, l’esecuzione pratica dei mandati d’arresto rimane una sfida assai ardua, come dimostrano anche i precedenti. La Corte non dispone di una propria forza di polizia e dipende interamente dalla cooperazione degli Stati membri per eseguire gli arresti. Israele, come la Russia, non riconosce l’autorità della CPI e ha già rigettato le accuse come politicamente motivate. È improbabile che leader israeliani o russi vengano quindi consegnati alla Corte. Sebbene i 124 Stati parte dello Statuto di Roma siano giuridicamente obbligati ad arrestare i sospettati presenti nei loro territori e a trasferirli alla Corte, in conformità all’articolo 86 dello Statuto (che impone la piena cooperazione con l’istituzione), le grandi potenze come Stati Uniti, Cina e Russia che non aderiscono allo Statuto, ne limitano inevitabilmente l’efficacia globale.
Nel caso in esame, si pone altresì la questione di come conciliare gli obblighi convenzionali nascenti dallo Statuto di Roma, che hanno lo scopo di rendere efficace la funzione della Corte (e quindi di assicurare l’arresto di Netanyahu, Gallant così come di Putin), con quelli consuetudinari in materia di immunità degli organi statali, che i destinatari dei mandati di arresto potrebbero invocare per il fatto di ricoprire o aver ricoperto cariche istituzionali. In tale prospettiva, l’articolo 27 dello Statuto di Roma assume una portata dirimente, affermando l’irricevibilità di qualsivoglia forma di immunità, inclusa quella derivante dallo status ufficiale, quale causa di esclusione della responsabilità penale dinanzi alla Corte. Tale previsione, innovativa rispetto alla tradizionale configurazione delle immunità sovrane nel diritto internazionale consuetudinario, incarna un principio di rilevanza paradigmatica: la subordinazione delle prerogative istituzionali alla giustiziabilità dei crimini internazionali più gravi. Tuttavia, le indicazioni offerte dalla prassi applicativa risultano, ad oggi, piuttosto limitate. Emblematico è il caso di Omar Al Bashir, contro il quale la Corte aveva emesso due mandati di arresto — nel marzo 2009 e nel luglio 2010 — che non gli hanno impedito di viaggiare liberamente in diversi Paesi senza subire alcuna misura restrittiva. Questo episodio ha evidenziato l’incapacità della Corte di dare concreta attuazione ai propri mandati in assenza di un supporto internazionale coordinato. Pertanto, sebbene l’articolo 27 rappresenti una pietra miliare nell’affermazione della giustizia penale internazionale, la prassi dimostra che il principio della responsabilità individuale, pur consacrato normativamente, resta spesso inefficace a causa delle resistenze geopolitiche e delle lacune strutturali nel sistema di cooperazione tra Stati. Tale contrasto tra la forza normativa dello Statuto e le difficoltà della sua applicazione pratica evidenzia le sfide ancora aperte per il consolidamento di un sistema giuridico sovranazionale capace di superare le inerzie della politica internazionale.
Questo comunque non fa venir meno la necessità di riflettere sulla portata dello strumento del mandato di arresto all’interno del sistema internazionale, in un contesto in cui si assiste a un’accentuazione del concetto di “giustizia politica”. Tale strumento assume un valore simbolico e giuridico cruciale e sembra possedere una potenziale capacità di rimodellare le dinamiche delle relazioni internazionali e di ridefinire gli equilibri tra sovranità statale e responsabilità individuale (L. Ferrajoli). L’attivismo della CPI rappresenta senza dubbio un’evoluzione significativa del diritto internazionale, segnando il passaggio dalla mera regolamentazione dei rapporti interstatali, tradizionalmente gestita dalla CIG, alla giurisdizionalizzazione della responsabilità penale individuale (W.A. Schabas; P. Akhavan; K. Ambos). Sebbene le due corti si occupino di ambiti distinti – la CIG rivolta alla gestione delle controversie tra Stati sovrani e la CPI orientata alla perseguibilità dei crimini internazionali commessi da individui – le due corti contribuiscono insieme a consolidare un sistema giuridico multilivello capace di disciplinare sia le condotte statali sia quelle personali.
Nel contesto del diritto internazionale, i processi discorsivi e giudiziari delle istituzioni come la CIG e la CPI rivestono un ruolo cruciale, ma complesso. Le attività delle due corti rappresentano strumenti fondamentali per consolidare il diritto internazionale quale parametro normativo universale nella gestione dei conflitti armati e delle relative implicazioni.
La combinazione tra responsabilità individuale e statale offre una prospettiva innovativa per ridurre l’impunità e vincolare le condotte, sia personali sia governative, a norme giuridiche condivise. Questa sinergia potrebbe rafforzare il ruolo del diritto internazionale anche nei confronti di Stati influenti, consolidandone la funzione quale architrave di un ordine globale più giusto. Molto dipenderà dalla capacità della CIG e della CPI di affermare la loro imparzialità e neutralità e dal formarsi di un livello di cooperazione internazionale capace di superare divisioni geopolitiche e interessi politici particolari. Peraltro, per poter rispondere alle esigenze risultanti da situazioni sempre più caratterizzate da asimmetrie di potere e dall’ibridazione delle forme di conflitto, è immaginabile che l’attivismo delle Corti internazionali le porti sempre più a oltrepassare i limiti della semplice verifica retrospettiva delle responsabilità per muoversi sul terreno della sensibilizzazione e della promozione di immediati interventi preventivi e misure reattive (R. Teitel; C. Marxsen and A. Peters).
In tal senso, il ruolo delle corti appare destinato ad estendersi sempre più al di là della risoluzione di controversie e a concretarsi anche nell’orientare gli Stati verso un rispetto immediato delle norme fondamentali del diritto internazionale. Questa evoluzione del ruolo delle Corti, e più in generale del diritto internazionale, dipenderà ovviamente dalla capacità della comunità internazionale di rafforzare la cooperazione multilaterale e dalla disponibilità a sostenere la legittimità e l’autorità delle istituzioni giuridiche sovranazionali L.R. Helfer and A.M. Slaughter; H.H. Koh). Resta il fatto che solo attraverso un impegno largamente condiviso si potrà promuovere una governance globale basata sul primato del diritto rispetto alla politica e alle logiche geostrategiche.
10 Dicembre 2024
di Luca Dettori
Il crescente ruolo strategico della Corte internazionale di giustizia nel conflitto israelo-palestinese
La Corte internazionale di giustizia (Cig), in un parere espresso il 19 luglio 2024, ha affermato che le politiche e le pratiche adottate da Israele nei territori palestinesi occupati (TPO) di Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza violano il diritto internazionale e devono cessare il più rapidamente possibile. Tale parere non attiene al caso, ancora in corso di definizione, portato dinanzi alla Cig dal Sudafrica, che accusa Israele di genocidio nella sua offensiva a Gaza.
Nel caso in esame, la Cig si è pronunciata al termine di un procedimento durato 18 mesi in cui sono stati auditi oltre 50 stati, tra cui la Palestina, ma non Israele, e al quale hanno partecipato anche tre organizzazioni internazionali, dopo che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 dicembre 2022 aveva espressamente richiesto alla Cig, con la risoluzione 77/247 di esprimere un parere sulle “conseguenze legali derivanti dalla continua violazione da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione, dalla sua prolungata occupazione, insediamento e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967”.
Dunque, il primo aspetto interessante della pronuncia è che le domande specifiche poste dal Consiglio di Sicurezza riguardavano non solo Israele e Palestina, ma anche l’eventuale intervento delle Nazioni Unite e questioni più ampie di pace e sicurezza internazionale, così come alcuni obblighi erga omnes degli Stati.
Partendo dal presupposto che, secondo il diritto internazionale, l'occupazione è caratterizzata dalla sua natura temporanea al fine di ristabilire la legge e l'ordine ed eliminare le minacce, pur non stabilendo limiti temporali precisi che possano alterare lo status legale dell'occupazione, il parere della Cig contiene un'analisi su vari livelli dell'occupazione israeliana dopo la guerra dei sei giorni del 1967 (par. 6 del parere). È importante notare che la Cig ha evitato di pronunciarsi sulla legittimità dell'occupazione iniziale del 1967. Pertanto, la Corte distingue tra l'illegalità della presenza continua di Israele nei TPO - una conclusione giuridica chiave - e l'illegalità dell'occupazione stessa dei TPO, su cui non si esprime apertamente. I giudici della Corte rilevano che un'occupazione non può essere usata come forma di controllo indefinito e che “non può trasferire il titolo di sovranità alla potenza occupante” (par. 105). Inoltre, lo Stato occupante ha il “dovere di amministrare il territorio a beneficio della popolazione locale” (par. 105). Sulla base di tali principi, la Cig dichiara che l'occupazione prolungata da parte di Israele non soddisfa le condizioni di necessità e proporzionalità dello jus ad bellum e di fatto nega la fondatezza dell'argomentazione giustificativa israeliana che collega l’occupazione a ragioni di sicurezza e legami storici con il territorio, rendendone, pertanto, inevitabilmente illegale la prosecuzione.
Questa conclusione appare un continuum del parere consultivo del 2004 della stessa Cig sulle “Conseguenze Legali della Costruzione di un Muro nel Territorio Palestinese Occupato”, in cui la Corte aveva stabilito che le pratiche israeliane attorno alla barriera di separazione costituivano de facto un’annessione e violavano il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione.
Questa volta, tuttavia, la Corte ha aggiunto un altro punto all'analisi e ha esaminato una gamma più ampia di politiche e pratiche israeliane esercitate nei TPO, stabilendo che questi atteggiamenti violano il divieto di acquisizione di territorio con la forza e il diritto all'autodeterminazione, così come specifiche disposizioni del diritto internazionale umanitario.
La Corte ha altresì affermato che tutti gli Stati sono tenuti a non riconoscere come legittima la presenza di Israele nei TPO e a non fornire alcun sostegno o assistenza per mantenere tale situazione. Inoltre, ha evidenziato che le organizzazioni internazionali, inclusa l’Onu, dovrebbero valutare le modalità più appropriate e adottare le misure necessarie per porre fine a questa occupazione illegale. In tale contesto, la Cig ha voluto sottolineare l'urgenza e la necessità di un intervento coordinato a livello internazionale per affrontare e risolvere una situazione ormai divenuta intollerabile. A riprova della gravità della questione, si segnala che è la prima volta che la Cig si pronuncia sulla legittimità dell'occupazione nel contesto del conflitto israelo-palestinese, che perdura da 57 anni.
Come precedentemente accennato, per formulare un parere così incisivo, la Corte ha esaminato la conformità al diritto internazionale di diverse politiche e pratiche di Israele, riscontrandone l’illiceità sostanziale. In particolare, la Cig ha stabilito che il trasferimento di coloni attraverso la confisca o requisizione di ampie aree di terre palestinesi viola l'articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento o la deportazione forzata di massa da territori occupati. Inoltre, ha rilevato l'incapacità sistematica di Israele di prevenire o punire gli attacchi dei coloni contro il popolo palestinese, nonché l'uso eccessivo della forza, in violazione degli obblighi previsti da vari trattati internazionali, tra cui l'articolo 46 delle Regole dell'Aia, l'articolo 27 della Quarta Convenzione di Ginevra e gli articoli 6(1) e 7 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR).
La Cig ha anche sottolineato come l'illegalità delle politiche e pratiche israeliane si manifesti attraverso la sistematica discriminazione del popolo palestinese, evidenziata dalla privazione delle risorse naturali e dall'impedimento al diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale. L'articolo 3 della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD) richiede agli Stati di "condannare la segregazione razziale e l'apartheid e di impegnarsi a prevenire, proibire ed eliminare tali pratiche". In questo contesto, la Cig ha richiamato il termine 'apartheid' (par. 225) esclusivamente in riferimento a quanto sostenuto da alcuni terzi intervenienti nel procedimento, i quali avevano qualificato in tal modo la condotta di Israele. Tuttavia, la Corte si è astenuta dal formulare essa stessa una tale qualificazione, non entrando nel merito della soddisfazione del requisito specifico necessario per configurare tali pratiche come apartheid, piuttosto che come mera segregazione razziale.
In seguito a tali determinazioni, la Cig ha formalizzato le conseguenze giuridiche sia per Israele che per le altre parti interessate. Ha sancito l’obbligo per Israele di cessare tutte le attività illecite nei TPO il più rapidamente possibile e di risarcire i danni. Tale risarcimento include la restituzione delle terre e dei beni immobili confiscati a persone fisiche o giuridiche sin dall'inizio dell'occupazione nel 1967, nonché dei beni culturali e delle risorse sottratti ai palestinesi e alle istituzioni palestinesi, inclusi archivi e documenti. Inoltre, ha richiesto l'evacuazione di tutti i coloni dagli insediamenti esistenti e lo smantellamento delle sezioni del muro eretto da Israele nei TPO, nonché il ripristino del diritto di ritorno per i palestinesi sfollati durante l'occupazione, consentendo loro di tornare ai loro luoghi di residenza originari.
Un aspetto significativo del parere della Cig riguarda l’approccio verso la Striscia di Gaza. Sebbene Israele abbia ritirato le sue forze e smantellato gli insediamenti a Gaza nel 2005, la Cig ha esteso il suo parere consultivo a tutta la regione, inclusa appunto Gaza. Per giustificare questa inclusione, la Cig ha esaminato se il diritto dell'occupazione belligerante fosse applicabile a Gaza anche dopo il 2005, basandosi sulle condizioni tradizionali di occupazione stabilite dall'articolo 42 del Regolamento dell'Aia del 1907 e dalla giurisprudenza della stessa Cig, ad esempio nel caso "Hostages" e “Congo v. Uganda”. La Corte ha concluso che Israele esercita ancora significativi elementi di autorità su Gaza, inclusi il controllo delle frontiere terrestri, marittime e aeree, le restrizioni al movimento di persone e merci, la riscossione delle tasse e il controllo della zona cuscinetto, concludendo che questa situazione è assimilabile ad una occupazione de facto e continua a sussistere anche dopo il 7 ottobre 2023, facendo così rientrare Gaza a pieno diritto all’interno dei TPO di cui si chiede la liberazione.
La rilevanza storica della pronuncia risiede nel fatto che la Cig sembra riconoscere un obbligo della comunità internazionale non solo a riaffermare il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, ma anche a garantirne la concreta attuazione. Pur avendo il carattere non vincolante proprio dei pareri consultivi della Cig, questa pronuncia, per la tendenza politico-decisionista che esprime, rappresenta un significativo riassestamento del ruolo e dell’influenza delle Corti internazionali in un contesto di frammentazione del panorama geopolitico.
La presa di posizione della Cig, per la nettezza con la quale definisce la situazione legale dei TPO, potrebbe produrre l’effetto di intensificare l'isolamento di Israele a livello internazionale, spingendo governi e parlamenti di tutto il mondo a rivedere le loro posizioni e a incrementare le pressioni diplomatiche, portando così all’aumento del numero di Stati che riconoscono la Palestina, come dimostrano i casi recenti di Spagna, Norvegia e Irlanda.
Inoltre, il parere della Cig sembra aprire una nuova fase del diritto internazionale relativo alle occupazioni militari. In passato la valutazione sul piano giuridico dell’occupazione israeliana si era sempre concentrata sulla possibilità di considerare Israele Stato aggressore nel conflitto del 1967 e così la questione della legittimità dell’occupazione ha sempre finito con l’essere condizionata dal fatto che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non ha mai adottato una risoluzione che configurasse quel conflitto come aggressione israeliana, mentre alcune risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu, formulate principalmente in termini politici, hanno considerato sì l’occupazione illegale, ma senza collegarla direttamente a un atto di aggressione.
Con il suo parere, invece, la Cig dichiara che l’occupazione israeliana, inizialmente giustificata come difensiva, è degenerata in una violazione del divieto di annessione di territori in spregio al divieto di uso della forza. In questo modo, considerando nella sua dinamica temporale la condotta israeliana, la Corte inaugura una nuova modalità, più complessa e più efficace, di valutazione della legittimità delle occupazioni militari e con il suo attivismo prova a promuovere un rafforzamento degli strumenti giurisdizionali internazionali e un ruolo più incisivo del diritto nella risoluzione dei conflitti tra gli Stati.
11 Settembre 2024
di Luca Dettori
Il “Caso Sudafrica vs. Israele” davanti alla Corte internazionale di giustizia: analisi e implicazioni
Venerdì 26 gennaio 2024, la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ha emesso un'ordinanza di misure provvisorie sul caso Sudafrica vs Israele. Ai sensi dell'art. 41 della Convenzione, la Corte ha stabilito che Israele deve adottare "tutte le misure in suo potere per prevenire e punire l'incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio". Inoltre, la Corte ha insistito sul fatto che Israele deve consentire gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e riferire sulla questione dinanzi alla Corte entro un mese.
La Cig tuttavia non ha ordinato a Israele di interrompere i combattimenti e non ha imposto un cessate il fuoco, come richiesto dal Sudafrica, nonostante Israele e Hamas hanno raggiunto un'intesa di base sulla maggior parte dei termini dell'accordo sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.
Il procedimento in questione ha avuto inizio l'11 e il 12 gennaio 2024, quando si sono svolte le udienze pubbliche per l’esame della denuncia presentata il 29 dicembre 2023 dal Sudafrica contro Israele, ai sensi dell’art. IX della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, alla quale i due Paesi hanno aderito, rispettivamente, nel 1998 e nel 1950. Il Sudafrica ha accusato Israele di "atti di genocidio contro il popolo palestinese, commessi o tollerati dal Governo e dall’esercito” (Ricorso par. 2).
Tale azione legale è prevista dalla Convenzione, che consente agli Stati membri di intraprendere azioni per prevenire il genocidio e obbliga le parti ad adottare misure preventive e punitive. L’art. II della Convenzione stabilisce che per configurare il crimine di genocidio devono sussistere due elementi: un elemento soggettivo (mens rea), cioè l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso e un elemento oggettivo (actus reus), costituito da atti di: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di suoi membri, sottoposizione di questi a condizioni di vita volte a provocare la distruzione totale o parziale del gruppo; imposizione di misure per impedire nascite nel gruppo o trasferire forzatamente bambini del gruppo.
Nello specifico il Sudafrica ha accusato Israele di cinque atti di genocidio: l'uccisione di massa di palestinesi, l'inflizione di gravi danni mentali e fisici, l'espulsione e il displacement forzato, l'attacco al sistema sanitario di Gaza e l'applicazione di misure intese a prevenire nascite all'interno del gruppo.
Consapevole che la Cig potrebbe impiegare anni per emettere una sentenza definitiva, il Sudafrica aveva chiesto alla Corte di emanare misure provvisorie, ai sensi dell’art. 41 del suo Statuto, incluso l’ordine per Israele di sospendere da subito le operazioni militari a Gaza.
Il Sudafrica sostiene di avere un obbligo legale di prevenire il genocidio in quanto parte contraente della citata Convenzione e di poter invocare per questo la giurisdizione della Corte (Ricorso, par. 3 e 16). Nella sua richiesta di misure provvisorie, al fine di stabilire prima facie la giurisdizione della Corte, il Sudafrica ha sottolineato proprio tale suo obbligo di prevenzione (Ricorso, par. 127).
Quella presentata costituisce la quinta causa per genocidio nella storia della Corte.
La prima fu intentata dalla Bosnia-Erzegovina contro la Serbia-Montenegro il 20 marzo 1993: la Corte assolse quest’ultima ritenendo che non vi fossero prove sufficienti che il genocidio fosse stato ordinato dagli organi di Stato serbi. Il 17 gennaio 2015, la Croazia accusò di genocidio la Serbia-Montenegro che, a sua volta, rivolse la medesima accusa alla Croazia: la Corte respinse entrambe le accuse per mancanza di prove.
Il terzo caso fu quello delle accuse rivolte dal Gambia allo Stato del Myanmar l’11 novembre 2019 riguardo allo sfollamento forzato della popolazione Rohingya e alla conseguente crisi umanitaria. La Corte emise un’ingiunzione provvisoria contro il Myanmar, ritenendo che i diritti del gruppo Rohingya fossero in pericolo imminente e irreparabile e dichiarando che il Myanmar avrebbe dovuto assumere provvedimenti per impedire la commissione di azioni di genocidio ai sensi della Convenzione.
Il 25 febbraio 2022, poco dopo l’invasione da parte della Russia, l’Ucraina accusò davanti alla Corte il Governo russo di utilizzare il genocidio come pretesto per giustificare l’invasione e chiese un arresto immediato delle operazioni militari. La Russia, infatti, aveva giustificato l’invasione iniziale affermando di voler proteggere la popolazione di etnia russa del Donetsk e del Luhansk dal genocidio avviato dal Governo ucraino. Di fronte alla richiesta dell’Ucraina, la Corte, il 16 marzo 2022, ingiunse alla Russia di sospendere immediatamente le operazioni militari sul territorio dell’Ucraina e a entrambi gli Stati di astenersi da ogni atto capace di aggravare o di estendere la controversia instaurata davanti alla Corte. L’iniziativa del Sudafrica è diversa da quella dell'Ucraina, perché il Sudafrica non è stato direttamente colpito dalla presunta condotta di Israele. Per questo motivo, la Corte nel caso russo si è concentrata sullo ius ad bellum, l’ingiustizia della guerra in sé, mentre nel caso israeliano ha guardato alle attività di combattimento, riconoscendo dunque ad Israele una guerra di auto-difesa. Invece, il caso è assimilabile all’azione intrapresa dal Gambia contro il Myanmar e sembra mostrare una tendenza emergente a rivolgersi alla Corte per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su conflitti in corso e sulle emergenze umanitarie.
Seguendo l'esempio del Gambia (Ricorso Gambia c. Myanmar, par. 56) per la violazione della Convenzione sul genocidio, il Sudafrica ha basato la sua legittimazione ad agire sulla dottrina dell'erga omnes partes. Questa dottrina consente a uno Stato parte di un trattato che tutela diritti comuni di far rispettare tali diritti anche se lo Stato non è direttamente interessato dalla violazione. Nella sua richiesta, il Sudafrica sottolinea la natura di jus cogens della proibizione del genocidio e il carattere erga omnes e erga omnes partes degli obblighi imposti agli Stati dalla Convenzione sul genocidio.
Nella giornata di venerdì, la Corte non ha preso una posizione definitiva sul presunto genocidio di Israele a Gaza, affermando che la decisione riguarda solo la plausibilità dei diritti reclamati dal Sudafrica. La Corte ha dichiarato che la questione di genocidio sarà affrontata nella fase successiva di merito. Nella fase attuale, la Corte ha valutato se esiste un rischio reale e imminente di pregiudizio irreparabile ai diritti protetti dalla Convenzione sul Genocidio, concludendo che le azioni di Israele a Gaza soddisfano questo criterio, nonostante gli sforzi per minimizzare i danni ai civili.
Il caso mostra implicazioni più ampie per il diritto internazionale dei diritti umani e per la Cig stessa. Avendo infatti la Corte deciso di procedere nel merito, si consolida ulteriormente la legittimazione erga omnes partes come un nuovo e importante strumento di tutela dei diritti, chiarendo che le sue decisioni nei casi precedenti non sono state eccezioni.
Nel caso Gambia contro Myanmar la Corte si era basata considerevolmente sulle conclusioni del rapporto redatto da una missione internazionale incaricata dell’accertamento dei fatti, così come sulle risoluzioni dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che facevano riferimento a tale rapporto, per stabilire che il diritto dei Rohingya in Myanmar alla protezione da atti di genocidio e il diritto del Gambia di pretendere il rispetto della Convenzione sul genocidio da parte del Myanmar erano "plausibili".
A differenza di Myanmar, Israele ha presentato prove sostanziali per sostenere che i responsabili decisionali hanno cercato di distinguere nella loro pianificazione e nei loro ordini tra civili e combattenti.
Israele ha affermato che il modo in cui sta conducendo la guerra sia una chiara dimostrazione della sua volontà di evitare di commettere genocidio. Davanti alla Corte, Israele aveva analizzato le misure richieste dal Sudafrica e aveva mostrato come la Corte avesse rigettato richieste simili in precedenza, a cominciare dal caso Bosnia-Erzegovina. Aveva inoltre invocato il suo diritto di auto-difesa, basato sul fatto che nessuno Stato è obbligato dalla legge a subire passivamente un attacco, indipendentemente dal fatto che la fonte dell'attacco sia uno Stato o un soggetto non statale e aveva quindi respinto l'attribuito intento genocida come "completamente mancante" e basato solo su "asserzioni casuali". Israele aveva esortato la Corte ad applicare i principi in base ai quali "le misure non devono andare oltre ciò che è necessario per raggiungere il loro scopo, non devono causare un pregiudizio irreparabile ai diritti del resistente e di evitare qualsiasi impressione di parzialità". Tuttavia, data la situazione a Gaza, era difficile immaginare che la Corte si sarebbe astenuta dall’imporre almeno alcune misure provvisorie, anche se non identiche a quelle richieste dal Sudafrica. Infatti, la Corte non ha accettato la richiesta del Sudafrica di sospendere immediatamente le operazioni militari di Israele a Gaza, ordinando però a Israele di astenersi da atti di genocidio contro i palestinesi; prevenire l'incitamento al genocidio; garantire l'assistenza umanitaria; prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove delle accuse e presentare una relazione di conformità a queste misure entro un mese. Si tratta di situazioni che Israele sostiene di stare già attuando, ma dovrà fornire evidenti prove che stia colpendo strutture militari, evitando per quanto sia possibile la popolazione civile, argomentando che il modo in cui Hamas è immersa nella popolazione rende molto difficile evitare vittime civili.
La fase delle misure provvisorie è più agevole rispetto alla fase di merito. Il basso standard di prova e la natura temporanea delle decisioni nelle misure provvisorie sono dovuti all'urgenza del processo. In questa fase la Corte si basa su prove limitate e decisioni provvisorie, senza analisi dettagliate. Tuttavia, nella fase di merito, specialmente per casi di genocidio, la Cig richiede un alto standard di prova assai difficile da dimostrare. Affinché venga dichiarata l'esistenza di un genocidio, il modello di condotta deve indicare inequivocabilmente l'intento genocida e le accuse devono essere supportate da prove completamente conclusive.
Ad ogni modo, le misure provvisorie della Cig sono vincolanti per gli Stati coinvolti. Inoltre, le sue decisioni sono definitive e non appellabili secondo l'articolo 94(1) della Carta delle Nazioni Unite e l'articolo 60 dello Statuto della Cig. Tuttavia, non avendo i mezzi coercitivi per imporle, se uno Stato non dovesse ottemperare, sarebbe necessaria una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
La decisione della Cig rappresenta un momento storico e un importante passo nel quadro del diritto internazionale dei diritti umani. Sebbene non abbia posto fine immediatamente alle operazioni militari a Gaza, gli sviluppi non riguardano più eventi politici, come risoluzioni del Consiglio di Sicurezza o raccomandazioni dell'Assemblea Generale. Ciò che emerge per la prima volta sono obblighi vincolanti imposti dal diritto internazionale che Israele è tenuta a rispettare.
Questo caso solleva cruciali questioni sulla responsabilità degli Stati nel prevenire e punire il genocidio, stabilendo un precedente importante per la legittimazione erga omnes partes. La decisione avrà sicuramente impatti duraturi sul modo in cui la comunità internazionale affronta le violazioni dei diritti umani e le crisi umanitarie in situazioni di conflitto. La Cig rimane un faro di giustizia globale, ma la sua efficacia nel garantire la pace e la giustizia dipenderà dalla cooperazione degli Stati membri e dal rispetto delle sue decisioni.
30 Gennaio 2024
di Luca Dettori
L’interruzione volontaria della gravidanza: da privilegio in base allo status civile a diritto della persona. Il cammino verso la modernità della Corte Suprema indiana
This paper explores the controversial issue of the assertion of reproductive rights in India, with a focus on the central role that the Indian Supreme Court has assumed in the assertion, development and safeguarding of these rights. Specifically, the shift in the legal parameter used by the Court will be highlighted: from an initial emphasis on the right to privacy to an argumentative priority centred on the dignity of women. The paper opens with an examination of the historical evolution of Indian legislation on the termination of pregnancy, without neglecting to specify the political, social and cultural context surrounding the succession of laws and pronouncements of the Supreme Court over time. Reviewing some of the Supreme Court's most emblematic judgments on reproductive rights, this paper argues that these judgments have been crucial in challenging restrictive provisions of the MTP Act, often through the use of comparison as a means of validating its arguments. In fact, the Court has gradually, also through cross-fertilisation, placed increasing emphasis on the dignity of women as a fundamental aspect in assessing the constitutionality of abortion laws. In order to guarantee this access to pregnancy termination in India, it is necessary to challenge entrenched socio-cultural conditions, including the societal stigma and discrimination faced by women, inadequate healthcare facilities and regional disparities in this area. The very recent X v. NCT Delhi judgment is only the latest example of this Court activism, which has allowed an unmarried woman to terminate her pregnancy within the twenty-four weeks stipulated in Section 3(2)b of the MTP Act, noting that failure to recognise this right would constitute a violation of the constitutional principle of equality. In doing so, the Supreme Court assumed the role of the demiurge of a more advanced and modern vision of reproductive rights and access to voluntary termination of pregnancy.
25 Maggio 2023
di Luca Dettori