La Francia del post-“fait majoritaire”: le nuove dinamiche di formazione del governo e lo scenario inedito del governo minoritario “di coesistenza”

1. Ci sono voluti 52 giorni dalle elezioni per conoscere il nome del nuovo Primo ministro francese, altre due settimane per apprendere la composizione del governo e ancora una decina di giorni per venire a conoscenza delle linee programmatiche (concordate, e neanche troppo, in sede di accordo post-elettorale). In totale, quasi tre mesi per delle formalità che normalmente venivano espletate in pochi giorni.
Sebbene si tratti di uno scenario che non avrebbe granché di sorprendente in Italia (si ricorderanno gli 89 giorni trascorsi tra le elezioni e la formazione del governo Conte I), è invece un copione completamente nuovo per la Francia, abituata a conoscere vincitori e vinti a pochi minuti dalla chiusura delle urne, complici un sistema elettorale, un’architettura istituzionale e un sistema dei partiti che avevano finora permesso, senza eccezioni, di veder emergere immediatamente dalle elezioni una maggioranza chiara e coerente.
Quanto successo da giugno impone pertanto già ad oggi un aggiornamento profondo dei manuali di diritto costituzionale e non c’è da dubitare che ulteriori novità seguiranno. Dopo lo scioglimento pronunciato la sera del 9 giugno in reazione ai risultati delle elezioni europee - il primo da quando esiste il quinquennato, nonché il primo contro la volontà della propria maggioranza - e dopo le elezioni del 30 giugno e del 7 luglio, la Francia si ritrova immersa in uno scenario del tutto inedito, né di maggioranza presidenziale, né di coabitazione, dove il “fatto maggioritario” che ne aveva caratterizzato il funzionamento dal 1962 senza soluzione di continuità è solo un ricordo, e dove la tenuta e la capacità di azione del governo sono appese ad un filo.
Le crisi, come noto, portano con sé al contempo ostacoli e occasioni, e di fatti questa situazione non soltanto permette di mettere in luce i limiti della Quinta Repubblica e di interrogarsi sulla capacità delle istituzioni di adattarsi al mutamento di contesto, ma ha altresì riacceso l’interesse del mondo politico e della dottrina sul tema delle riforme istituzionali (dall’introduzione del proporzionale, al passaggio alla Sesta Repubblica, all’idea di costituzionalizzare il sistema elettorale). Questo breve commento si limiterà invece a evidenziare le criticità legate al ruolo del Capo di Stato nella formazione del governo in uno scenario inedito nel quale le dinamiche proprie al parlamentarismo hanno vocazione ad applicarsi, e si interrogherà quindi sull’impatto della nuova configurazione politica sull’assetto istituzionale e sulle relazioni tra Presidente, governo e maggioranza parlamentare.

2. In un paese del tutto avulso dalle logiche della forma di governo parlamentare (il Presidente Macron ha lasciato trascorrere una decina di giorni prima di accettare le dimissioni del suo governo, e ancora un mese e mezzo prima di procedere a delle consultazioni), la formazione del governo è stata particolarmente laboriosa, rivelando tutti i limiti della Quinta Repubblica, calcata sulla presidenzializzazione del sistema politico e sull’esistenza di maggioranze monocolore.
La Costituzione del 1958 fa della nomina del Primo ministro un “pouvoir propre”, formalmente e sostanzialmente presidenziale, il cui esercizio non solo sfugge all’obbligo di controfirma, ma non è nemmeno subordinato ad alcuna procedura consultativa. Il solo limite all’esercizio di tale potere deriva dalla logica parlamentare, la quale ovviamente richiede che il Capo dello Stato nomini un governo che possa appoggiarsi su una maggioranza parlamentare. Tuttavia, la prassi della Quinta Repubblica e l’affermazione del “fatto maggioritario” (l’apparizione di una maggioranza netta, omogenea e disciplinata all’Assemblea nazionale) senza eccezioni dal 1962 hanno profondamente mutato la logica parlamentare, conducendo ad un’interpretazione delle norme sulla fiducia tale da escludere l’obbligatorietà del voto della fiducia iniziale, a dispetto del presente indicativo impiegato all’art. 49 comma 1.
Il governo è quindi pienamente legittimato dalla nomina presidenziale, e la fiducia parlamentare si presume, salvo approvazione di una mozione di sfiducia alla maggioranza assoluta dei membri della camera bassa. Di fatto, quando il fatto maggioritario ha coinciso con la maggioranza presidenziale, il Presidente ha potuto esercitare il potere di nomina con la massima discrezionalità, peraltro estendendo di fatto tale discrezionalità anche alla nomina dei ministri, sebbene la Costituzione faccia di quest’ultima un atto misto, subordinato alla proposta da parte del Primo ministro e controfirmato da quest’ultimo. Il governo era allora un governo presidenziale, incaricato di attuare il programma del Presidente. Nelle tre eccezioni in cui dalle urne è uscita vincente una maggioranza di colore opposto al Presidente, questi ha esercitato il proprio potere entro i limiti imposti dalla circostanza politica, nominando quindi il leader designato dalla maggioranza parlamentare.
Nella situazione inedita emersa dalle urne il 7 luglio, con un’assemblea suddivisa in tre grandi blocchi (la coalizione di sinistra del Nuovo fronte popolare, il blocco macronista e l’estrema destra del Rassemblement national e dei suoi alleati) cui si aggiunge qualche gruppo “cerniera”, e con una coalizione arrivata in testa forte di una maggioranza relativa significativamente più ridotta di quelle conosciute fino ad oggi, il Presidente si è trovato in una situazione differente: il suo potere di nomina non poteva considerarsi come pienamente discrezionale, in quanto la sua maggioranza era uscita sconfitta da un voto-sanzione a seguito dello scioglimento; tuttavia, non si è nemmeno sentito vincolato dal suffragio, ritenendo che il risultato del voto esprimesse più un rifiuto del Rassemblement national che un mandato di governo conferito ad una maggioranza chiaramente designata.
In questa circostanza, il Presidente ha dunque ritenuto, non senza qualche esitazione iniziale, di dover agire come un arbitro e mediatore tra le forze politiche, alla stregua dei Capi di Stato di altri sistemi parlamentari. La maniera di dirigere le dinamiche di formazione del governo, tuttavia, ha mostrato in tutta evidenza la difficoltà di adattare ad una concezione arbitrale la funzione presidenziale ormai caratterizzata dalla direzione dell’esecutivo e dalla determinazione dell’indirizzo politico.
In un primo momento, infatti, il Presidente ha rifiutato le dimissioni del proprio governo, non riconoscendo la vittoria di una formazione avversaria, ma piuttosto del fronte repubblicano di cui la sua stessa ex-maggioranza politica aveva fatto parte. Relativizzando così la sconfitta della propria formazione politica, ha quindi rivendicato il diritto di porre quest’ultima al centro di una possibile grande coalizione alla tedesca, rispondente ad un implicito mandato degli elettori che avevano voluto scongiurare il rischio di un governo degli estremi (ma escludendo così dalla sua proposta La France Insoumise che pure aveva partecipato al “fronte repubblicano” nell’alleanza di desistenze al secondo turno).
Fallito il tentativo di formare una grande coalizione che riunisse intorno ai macronisti la destra gollista, i socialisti, i comunisti e gli ecologisti, il Presidente si è rassegnato, ad oltre un mese e mezzo dalle elezioni (e dopo aver proceduto, in un inspiegabile silenzio, alla nomina del commissario europeo senza concertazione con le forze politiche maggioritarie all’assemblea) a iniziare le consultazioni. Durate pochi giorni, queste si sono risolte in un comunicato col quale il Presidente, a fronte del rifiuto della coalizione di sinistra di aprirsi ad un’alleanza di governo, ha dichiarato di non poter procedere alla nomina della persona designata da tale coalizione, in quanto un governo espressione della sola coalizione di sinistra “sarebbe immediatamente sfiduciato dagli altri gruppi che compongono l’assemblea” poiché “disporrebbe immediatamente di una maggioranza contraria di oltre 350 deputati” (così il comunicato ufficiale diffuso a seguito delle consultazioni).
Come noto, la situazione si è sbloccata qualche giorno dopo, con la nomina dell’ex-ministro gollista ed ex-commissario europeo Michel Barnier, incaricato di proporre un governo espressione di una coalizione formata dal centro-destra macronista e dalla destra gollista dei repubblicani. Le prove generali di questa coalizione si erano peraltro già tenute nell’elezione degli organi dell’assemblea, un mese e mezzo prima: in quell’occasione, infatti, l’ex-maggioranza macronista era riuscita ad eleggere, grazie ai voti dei repubblicani, dei propri rappresentanti in tutti i ruoli tradizionalmente attribuiti alla maggioranza – a cominciare dalla presidenza dell’Assemblea, la maggior parte delle presidenze di commissione e dei posti in giunta –, lasciando ai deputati della coalizione di sinistra i posti riservati all’opposizione (paradossalmente, in un momento in cui questa era la forza maggioritaria all’assemblea, il che porta a interrogarsi sulla pertinenza dello statuto dell’opposizione come concepito in Francia) e escludendo l’estrema destra dai posti-chiave.
Ora, pur ammettendo che, conformemente alla logica parlamentare e in assenza di maggioranze sufficientemente salde, è compito del presidente, attraverso meccanismi consultivi, di mediazione o di influenza come le consultazioni e i mandati esplorativi, cercare di promuovere la formazione di una più ampia maggioranza suscettibile di sostenere saldamente un governo, la posizione di Macron è criticabile sotto un duplice profilo. Da un lato, si noterà che il governo presieduto da Michel Barnier può contare su una maggioranza relativa anch’essa piuttosto ridotta, e che anch’esso è dunque esposto al rischio di sfiducia in quanto si trova immediatamente confrontato ad “una maggioranza contraria di oltre 350 deputati”. Dall’altra, è innegabile la difficoltà di concepire l’intermediazione del Presidente nella formazione del governo come quella di un presidente-arbitro tipico dei regimi parlamentari, dal momento che questi si è ritrovato ad essere nella posizione quantomeno problematica di arbitro e parte in causa, nominando un governo sostenuto dalla propria ex-maggioranza e prevalentemente composto da ministri di quest’ultima, al quale ha impresso un indirizzo politico. In definitiva, anche in questa circostanza inedita, è la logica della presidenzializzazione che ha prevalso nella formazione del governo, con il Presidente che ne è stato il principale artefice, pur non potendo più contare su una propria maggioranza. Non si tratta tuttavia di un governo presidenziale, incaricato di attuare il programma del Presidente, e le relazioni tra presidenza, governo e parlamento sono ancora tutte da definire.

3. Sebbene i ministri macronisti siano maggioritari nel governo, così come i deputati macronisti all’interno della maggioranza parlamentare, il governo presieduto da Michel Barnier è un governo fortemente marcato dalla presenza della destra gollista, che riunisce personalità ideologicamente anche molto distanti, al punto da essere stato definito da Macron un governo di “coesistenza” responsabile.
Se l’impronta presidenziale non sembra destinata ad arretrare come in una situazione di coabitazione e il programma di governo appare per ora rispondere a delle linee guida concordate col Presidente, è al Primo ministro Barnier, forte delle sue riconosciute qualità di negoziatore, che spetta trovare la misura del compromesso, sia all’interno del governo e della sua labile maggioranza relativa che, soprattutto, all’esterno.
Potendo contare su una maggioranza relativa di soli 213 deputati su 577 (che peraltro inizia già a spaccarsi sul sostegno alla legge di bilancio, con una trentina di deputati macronisti che hanno dichiarato di volersi opporre agli aumenti dell’imposizione fiscale annunciati), nemmeno il sofisticato arsenale di dispositivi del parlamentarismo razionalizzato concepito da Michel Debré nel 1958 basterà al governo. Nel primo momento della storia della Quinta Repubblica in cui tali disposizioni costituzionali si troveranno messe alla prova della situazione per la quale erano state concepite, esse rischiano di dimostrare, come l’aveva intuito lo stesso Mirkine-Guetzevitch all’inizio del secolo scorso, che non c’è razionalizzazione del parlamentarismo che possa assicurare l’attuazione del programma di governo davanti all’instabilità politica determinata dai partiti.
Il governo Barnier sarà dunque fisiologicamente dipendente dal sostegno esterno della sinistra o dell’estrema destra. La composizione del governo, le prime dichiarazioni e le vaghe linee programmatiche annunciate il 1° ottobre fanno tuttavia pensare che il sostegno per la legge di bilancio potrà trovarsi più facilmente tra le fila del Rassemblement national, al prezzo di qualche compromesso trovato grazie alle misure annunciate in materia di immigrazione e sicurezza. Sebbene infatti il governo rifiuti qualunque sostegno esplicito del Rassemblement national, ci sono stati diversi segnali di apertura in questi giorni: dal discorso di insediamento del Primo ministro che ha ripetutamente affermato e rimarcato di cercare il dialogo con qualunque forza politica, alle dichiarazioni del ministro dell’Interno che ha insistito sulla necessità di rafforzare le politiche su immigrazione e sicurezza a discapito dei vincoli derivanti dall’ordinamento internazionale e dai principi dello Stato di diritto, alla dichiarazione programmatica del 1° ottobre nella quale, tra le poche misure concrete annunciate, figuravano il prolungamento dei termini della detenzione amministrativa dei migranti in situazione irregolare e la costruzione di nuove prigioni. Il Rassemblement national sarà dunque con tutta probabilità l’ago della bilancia dell’azione del governo e altresì della sua eventuale caduta, in quanto i suoi deputati non intendono votare nell’immediato la sfiducia presentata dalla sinistra, ma si riservano di farlo in seguito… Intanto le discussioni sono accese: introdurre il proporzionale o rafforzare il maggioritario? Rafforzare la razionalizzazione o adattarsi al parlamentarismo? Cercare di restaurare la Quinta Repubblica o passare alla Sesta?
Nell’attesa delle presidenziali del 2027, la situazione francese ci offrirà ancora, c’è da scommetterci, del materiale sul piano politico e istituzionale. Ed è un peccato che ci sia voluta una crisi politica di quest’ampiezza per far prendere la misura della gravità della crisi istituzionale, ignorata fintanto che i presidenti avevano i numeri per governare.


Lo scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale francese, ennesimo esempio dello squilibrio dell’iperpresidenzialismo della Quinta Repubblica

La decisione annunciata dal presidente francese Emmanuel Macron la sera del 9 giugno ha destato grande sorpresa e sconcerto. Se, infatti, i risultati delle elezioni europee non hanno smentito le previsioni formulate dai sondaggi, niente lasciava presagire la reazione immediata del presidente con una risposta istituzionale di tale portata, tanto più che l’ipotesi dello scioglimento anticipato, invocata durante la campagna elettorale dai leader del Rassemblement national Jordan Bardella e Marine Le Pen, era stata esplicitamente esclusa quasi con scherno, biasimando l’errore di chi avrebbe preteso di nazionalizzare uno scrutinio europeo.
Da quanto tempo il presidente vagliasse tale ipotesi non è dato sapere. Si sa, invece, che la decisione definitiva sarebbe stata presa con pochi intimi consiglieri nei momenti immediatamente successivi alla diffusione dei risultati dello spoglio. Dopo averla comunicata ai ministri e ai presidenti delle assemblee e annunciata alla nazione con il discorso televisivo trasmesso in diretta alle 21 del 9 giugno, il presidente ha quindi firmato il decreto di scioglimento e, contestualmente, quello di indizione delle nuove elezioni. Mentre sorpresa e sconcerto, soddisfazione e paura, continuano a dominare i sentimenti dell’opinione pubblica, catapultata senza soluzione di continuità da un’elezione ad un’altra (brevissima) campagna elettorale, per i costituzionalisti è anche il momento dell’analisi. Questo scioglimento anticipato, il sesto nella storia della Quinta Repubblica e il primo dall’introduzione del quinquennato presidenziale, presenta infatti diversi profili di interesse dal punto di vista giuridico.

Una scadenza elettorale troppo vicina?
Il primo profilo, attualmente al vaglio del Consiglio costituzionale in quanto giudice elettorale delle legislative, concerne la data delle elezioni e le sue conseguenze in termini di organizzazione delle operazioni preelettorali.
Il decreto di indizione delle elezioni dell’Assemblea nazionale, pubblicato il 10 giugno, fissa la data del primo turno dello scrutinio al 30 giugno (anticipata al 29 nelle circoscrizioni d’Oltremare). Contro tale decreto sono stati presentati dodici ricorsi, tra l’11 e il 18 giugno, per motivi parzialemente diversi, ma tutti verosimilmente fondati su presunte violazioni di principi connessi col diritto di voto e la libertà delle elezioni.
L’articolo 12 della Costituzione francese, nel disciplinare lo scioglimento, dispone che le elezioni per il rinnovo dell’assemblea debbano tenersi entro un termine che va dai 20 ai 40 giorni a decorrere dallo scioglimento. Convocando gli elettori per il 30 giugno, il presidente ha optato per il termine più breve, che secondo alcuni dei ricorsi, non sarebbe pienamente rispettato con riferimento alle elezioni anticipate al 29 nelle circoscrizioni di Oltremare (sul dibattito in merito all’inizio del decorso del termine – la data di adozione del decreto, quella della pubblicazione, o il giorno successivo alla pubblicazione – si rinvia a questo commento). Ammettendo che la data fissata sia conforme all’articolo 12, viene contestato al decreto di aver violato altre disposizioni in materia elettorale, di natura legislativa e costituzionale.
L’associazione ADELICO (Association de défense des libertés constitutionnelles, fondata da giuristi e politologi sul modello dell’American Civil Liberties Union e molto attiva sul piano contenzioso) contesta in particolare l’impossibilità di rispettare i termini previsti dal Codice elettorale in materia di deposito delle candidature, in violazione dei principi di libertà e sincerità delle elezioni.
Vi sono invero due precedenti nei quali, investito di ricorsi di analogo tenore in occasione delle elezioni anticipate indette dal presidente Mitterand all’indomani della sua elezione nel 1981 e poi nel 1988, il Conseil aveva affermato che “le disposizioni di natura costituzionale prevalgono necessariamente, per quanto riguarda i termini disposti per l’organizzazione della campagna elettorale e la presentazione delle candidature, sulle disposizioni del Codice elettorale” (Dec. n. 81-1 ELEC, Delmas, ripresa poi dalla dec. n° 88-1027/1028/1029). Prendendo atto dell’incongruenza tra le disposizioni del Codice elettorale e l’art. 12, il Consiglio aveva peraltro osservato che le disposizioni sui termini in materia di operazioni preelettorali “non riguardano l’ipotesi di elezioni successive allo scioglimento anticipato”, facendo intendere che il legislatore avrebbe dovuto, per queste ultime, prevedere dei termini derogatori, che tuttavia non sono mai stati esplicitamente codificati, con grave vulnus della certezza del diritto in materia di libere elezioni e di esercizio delle libertà democratiche. A tal proposito, la QPC, indisponibile allora, potrebbe costituire uno strumento per contestare l’incostituzionalità delle disposizioni elettorali laddove non prevedono esplicitamente dei termini derogatori in caso di elezioni indette a 20 giorni dallo scioglimento. D’altronde, delle due l’una: o la fissazione di termini adeguati all’ipotesi più breve prevista dall’art. 12 è conforme agli altri principi costituzionali, e allora è bene che il legislatore sia obbligato a prenderne atto; o non lo è, e allora un’interpretazione alla luce di tali altre esigenze costituzionali si impone.
Per quanto le possibilità di successo di questi ricorsi appaiano scarse, gli argomenti a supporto di una domanda di rinvio dell’elezione non mancano. La Costituzione, infatti, non impone un termine preciso, ma fissa una finestra all’interno della quale le elezioni debbano svolgersi, al fine di assicurare una continuità alle istituzioni democratiche nel più breve tempo possibile, tanto più che per prassi anche il Senato sospende i suoi lavori a seguito dello scioglimento della camera bassa. Tale esigenza costituzionale va però conciliata con altri principi di egual rango. Nel corso della deliberazione che aveva portato a dichiarare legittimo il termine previsto dal decreto del 1981, Georges Vedel aveva ammonito sulla necessità “di prendere le dovute precauzioni affinché l’interpretazione data [...] non permetta, a causa di una decisione precipitosa, di infrangere la libertà o la sincerità del voto, ipotesi che si concretizzerebbe se gli elettori non avessero il tempo di essere informati sulle intenzioni e i programmi dei diversi partiti”. C’è perciò da chiedersi se non ci troviamo proprio davanti ad una di queste ipotesi, dato che lo scenario è completamente diverso da quello su cui il Consiglio è stato chiamato a decidere in passato. Nel 1981 e nel 1988, infatti, si usciva da campagne presidenziali nelle quali gli stessi partiti concorrenti per le legislative avevano potuto presentare dei programmi in materia di politica nazionale. Oggi invece le elezioni sono indette al seguito di una campagna per le elezioni europee e, per di più, si assiste ad una riconfigurazione dell’offerta politica, a destra come a sinistra. Meno di due settimane di campagna ufficiale, dal 17 al 28 giugno, con delle formazioni politiche parzialmente inedite, possono essere considerate sufficienti al corretto svolgimento di libere elezioni democratiche? Gli argomenti costituzionali a supporto di una domanda di rinvio non sembrano del tutto infondati.
Ma concretamente, il Consiglio potrebbe rinviare lo scrutinio? Si oppongono a questa possibilità altre considerazioni, di natura non strettamente giuridica. Al di là dell’opportunità di una decisione che vada ad incidere su un contesto politico così delicato (e che senz’altro esporrebbe l’organo a veementi critiche, in particolare da parte di quelle forze politiche che già mal sopportano la sua esistenza), vi sono ostacoli di ordine pratico: la difficoltà di organizzare uno scrutinio nel giorno delle celebrazioni del 14 luglio e la necessità di preparare l’apertura delle Olimpiadi che avrà luogo il 26 luglio. Sono probabilmente le ragioni per le quali il presidente si è premurato di indicare “l’urgenza” tra i fondamenti giuridici (e in questo caso anche fattuali, è il caso di precisare) sulla base dei quali è stato emanato il decreto (“vu l’urgence” appare tra i visa del decreto, dopo i riferimenti normativi). È però legittimo chiedersi: se le tempistiche rendevano così difficile l’organizzazione di una consultazione elettorale, non era forse auspicabile, anziché piegare le esigenze democratiche all’“urgenza” del contesto, adeguare invece le esigenze di strategia politica agli imperativi dell’agenda istituzionale e posticipare la reazione presidenziale ?
Si tratta di considerazioni che in parte esulano, per la loro componente politica, dalle finalità del presente commento, e tuttavia si intersecano con un’altra questione giuridica fondamentale. A chi spettava la valutazione in merito? È il presidente che prende da solo la decisione, in quanto gli articoli 12 e 19 fanno dello scioglimento un potere formalmente e sostanzialmente presidenziale, un pouvoir propre che questi esercita senza controfirma. Ma la Costituzione prevede procedure consultative volte ad assicurare la partecipazione di altri attori al procedimento di formazione della decisione presidenziale.  A questo proposito, si può deplorare una prassi che ha svuotato di senso tali consultazioni e che va oggi a confortare un esercizio solitario del potere presidenziale.

Una prassi che mortifica le consultazioni e avalla un esercizio solitario del potere presidenziale
L’articolo 12 prevede, al primo comma, che “il Presidente della Repubblica può, previa consultazione del Primo ministro e dei presidenti delle assemblee, pronunciare lo scioglimento dell’Assemblea nazionale”. L’articolo 19 include lo scioglimento tra gli atti che il presidente esercita senza controfirma.
Nel caso di specie, si è appreso dalla stampa e dal fotografo ufficiale dell’Eliseo come il Primo ministro Attal e la presidente della camera bassa Braun-Pivet siano stai informati della decisione presa, contestualmente ad altri ministri e membri della maggioranza presidenziale. Yaël Braun-Pivet avrebbe invocato proprio l’articolo 12, richiamando il presidente Macron al suo obbligo di consultarla in maniera privata e confidenziale, ottenendo così un breve scambio in un’altra stanza. Dopo averla annunciata agli esponenti della sua maggioranza, Macron ha quindi telefonato al presidente del Senato Gerard Larcher per comunicargli la decisione presa, della quale quest’ultimo ha “preso atto”. Tutti presi alla provvista dalla decisione, non solo hanno espresso il loro disaccordo, ma hanno lamentato in maniera più o meno esplicita il loro disappunto per l’impossibilità di formulare le proprie riserve prima della determinazione della decisione.
Non si tratterebbe di una rottura, ma di una prassi consolidatasi già in occasione delle precedenti decisioni di scioglimento, secondo la quale la consultazione era stata derubricata a mera informazione, suscettibile di essere comunicata ai tre organi simultaneamente, ed anche contestualmente ad altre persone. Il fatto che si tratti di una pratica invalsa sulla Quinta Repubblica non significa però che la si debba considerare come una consuetudine costituzionale legittima. Sembra si tratti piuttosto di una prassi contra constitutionem che priva la disposizione della sua ragion d’essere.
Sebbene consultazioni non vincolanti da parte di un organo cui appartiene l’interezza del potere decisionale possano sembrare una pura formalità, non si può non riconoscere come esse partecipino appieno alla composizione di quel delicato sistema di pesi e contrappesi che tende ad assicurare l’equilibrio tra i poteri e nel loro esercizio. Un sistema che è fatto non solo di poteri di agire e di impedire, ma anche di poteri di consigliare e di influenzare.
Una consultazione può concorrere a quest’equilibrio solo se è tale da consentire all’autorità consultata di esercitare una moral suasion, una magistratura di influenza, in modo da contribuire ad una decisione éclairée, grazie all’opinione di organi che i costituenti hanno ritenuto utile inserire nel circuito della decisione. La Costituzione francese dice, insomma, che il presidente può prendere da solo la decisione definitiva, ma che a tale decisione deve pervenire a seguito di un procedimento deliberativo che includa il dialogo con i rappresentanti della nazione, nonché di quell’organo nei confronti del quale la decisone sarà presa. Non si può che convenire con la presidente dell’Assemblea nazionale che una comunicazione collettiva sulla decisione già presa non corrisponde affatto ad una consultazione, che richiederebbe invece un confronto confidenziale faccia a faccia, nella quale la persona consultata possa quanto meno cercare di contribuire alla determinazione della decisione, al suo contenuto, alle tempistiche, all’anticipazione delle conseguenze, e non limitarsi a prendere atto di una volontà già fermamente consolidata.
Poiché ha il potere di decidere da solo, tanto vale che agisca da solo come gli sembra opportuno: questo il leitmotiv che accompagna le evoluzioni della prassi della Quinta Repubblica sotto il segno della presidenzializzazione, rafforzata di recente dagli imperativi dell’emergenza, dell’urgenza, della ricerca del più utile risultato nel più breve tempo. Aver snaturato, fino a di fatto sopprimere, tali consultazioni è sintomatico delle derive di questa presidenzializzazione, nella quale il capo dello Stato, rafforzato nei suoi poteri dalla lettera della Costituzione e dalla legittimazione data dall’investitura democratica, tende ad accentrare il potere decisionale fino ad allargare i limiti della sua funzione, che si tratti di esercitare pienamente i propri poteri, o di agire indirettamente attraverso quelli del suo governo (non si dimenticherà che si deve alla decisione del presidente, più che della Prima ministra, l’aver fatto uso di tutto l’arsenale di strumenti messi a disposizione del governo per far approvare la riforma delle pensioni). Il prezzo dell’efficienza e della governabilità, in Francia, è un sistema che manca gravemente di contropoteri e che finora deve il suo equilibrio quasi esclusivamente alla capacità di autoregolazione del monarque républicain, “capo di tutto e responsabile di niente”, come deplorava François Hollande, che pure come altri si è poi adattato al ruolo. Sono queste le istituzioni della Quinta repubblica che vengono lasciate in eredità alle forze politiche che democraticamente accederanno al potere, anche se lo scenario potrebbe cambiare in caso di coabitazione e/o di sparizione del fait majoritaire a seguito delle prossime elezioni, mettendo tra parentesi la prassi presidenzialista... perlomeno fino al 2027.


In Irlanda, la donna resta l’angelo del focolare all’interno della famiglia fondata sul matrimonio

Nessuna festa a Dublino l’8 marzo: mentre in Place Vendôme a Parigi si celebrava l’ingresso del diritto all’aborto nella Costituzione francese, per la Costituzione irlandese la donna resta l’angelo del focolare all’interno della famiglia fondata sul matrimonio. Contrariamente a quanto lasciato presagire dai primi sondaggi, che vedevano la maggioranza della popolazione piuttosto favorevole alle modifiche costituzionali proposte, l’elettorato irlandese ha respinto gli emendamenti volti a modificare le disposizioni in materia di famiglia e di doveri domestici della donna, ritenute dal Governo (di centrodestra) e dalla maggioranza parlamentare obsolete e inadeguate all’evoluzione della società.
I cittadini e le cittadine irlandesi erano chiamati a votare su due distinti progetti di emendamento aventi ad oggetto l’articolo 41 della Costituzione, relativo alla famiglia.  La procedura di revisione prevista all’articolo 46 della Costituzione del 1937 prevede infatti che i progetti di revisione costituzionale, una volta approvati in termini identici da entrambe le camere del parlamento, siano sottoposti a referendum. Presentati dal governo l’8 dicembre 2023 e approvati da una larga maggioranza transpartisana del parlamento il 24 gennaio, il trentanovesimo e il quarantesimo emendamento alla Costituzione sono stati quindi sottoposti al voto popolare come “emendamento sulla famiglia” (“family amendment”) e “emendamento sulla cura” (“care amendment”).
Il primo proponeva una doppia modifica all’articolo 41, volta ad estendere la garanzia costituzionale che tale articolo accorda alla famiglia fondata sul matrimonio anche ad altre forme di famiglia fondate sulla convivenza e su rapporti durevoli di fatto, ferma restando la speciale protezione che la Costituzione riserva all’istituto del matrimonio. A tal scopo, si proponeva di aggiungere, al primo comma del primo paragrafo - il quale dispone che “Lo Stato riconosce la famiglia come l'unità naturale, primaria e fondamentale della società, e come un'istituzione morale dotata di diritti inalienabili ed imprescrittibili, antecedenti e superiori ad ogni iscrizione nel diritto positivo” - una formulazione più inclusiva mediante un inciso, dopo la parola “famiglia”, secondo cui questa è “fondata sul matrimonio o su altri rapporti durevoli”. La modifica complementare mirava a sopprimere, al primo comma del terzo paragrafo, l’inciso secondo cui la famiglia è fondata sul matrimonio. Sarebbe rimasta invariata, tuttavia, la disposizione secondo cui “Lo Stato si impegna ad accordare una speciale protezione all’istituto del matrimonio e a tutelarlo contro gli attacchi”.
Il ruolo della donna nella società era invece al centro del quarantesimo emendamento, presentato come “care amendment”, che mirava a cancellare dalla Costituzione ogni riferimento alla protezione della “vita domestica” e dei “lavori domestici” della donna in due disposizioni che riservavano ad essa il monopolio (o piuttosto il fardello) della cura domestica e familiare. L’emendamento proponeva quindi di abrogare in toto il secondo paragrafo dell’articolo 41, secondo cui “lo Stato riconosce che con la sua vita domestica la donna fornisce allo Stato un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato” e che “lo Stato si sforzerà pertanto di garantire che le madri non siano costrette, per necessità economica, a svolgere un lavoro trascurando i loro doveri domestici”, e di sostiuirlo con un nuovo articolo 42B, secondo cui “Lo Stato riconosce che la prestazione di assistenza reciproca dei membri di una famiglia in ragione dei vincoli che esistono tra loro, fornisce alla società un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato, e si impegna a sostenere tale prestazione.”
Con un’affluenza di poco superiore al 44%, entrambe le proposte sono state rigettate (con una maggioranza di no pari rispettivamente al 67% per l’emendamento sulla famiglia e al 74% per quello sulla cura) e l’articolo 41 resterà pertanto invariato.
Si tratta di una battuta d’arresto nel percorso di modernizzazione dell Costituzione del 1937, fortemente marcata dall’influenza cattolica e dal modello patriarcale della società, dopo il successo delle riforme volte dapprima a consentire (1996) e poi a semplificare l’accesso al divorzio (2019), a legalizzare l’accesso all’aborto (1992 e 2018), a consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso (2015) e a sopprimere dal testo costituzionale i riferimenti alla blasfemia (2018), tutte approvate per via referendaria.
Il rigetto dei referendum costituisce una sonora sconfitta non solo, sul piano politico, per il governo e per tutti i partiti che avevano sostenuto gli emendamenti, ma anche indubbiamente, sul piano sociale, per tutti coloro che si erano mobilitati in favore di un’adeguazione del dettato costituzionale ai principi di uguaglianza e parità di genere. Le proposte di modifica costituzionale traggono infatti ispirazione da alcune delle raccomandazioni formulate dall’Assemblea dei cittadini del 2020-2021 sull’uguaglianza di genere e sembravano godere del sostegno di una maggioranza dell’elettorato, sebbene meno ampia di quanto ci sarebbe potuti aspettare.
Le ragioni vanno probabilmente ricercate nella mancanza di chiarezza quanto ai termini e ai possibili effetti delle revisioni. Se infatti la società irlandese sembra maggioritariamente favorevole agli obiettivi prefissi – il riconoscimento di altre forme di famiglia e la rimessa in discussione degli obblighi domestici della donna posti come limite alla sua realizzazione sociale extrafamiliare -, un certo scetticismo si è diffuso quanto all’effettività della revisione e ad una possibile eterogenesi dei fini.
Per quanto riguarda il primo quesito, la vaghezza del riferimento alle altre forme di famiglia ha potuto far temere un’eccessiva devalorizzazione delle forme istituzionalizzate di famiglia e la potenziale apertura a qualunque tipo di relazione, malgrado il mantenimento della clausola di “speciale protezione” per il matrimonio.
Quanto al quesito sulla cura familiare, si è potuto avvertire un certo timore che la cancellazione del riferimento alla funzione di cura assolta dalle donne avrebbe potuto eliminare il fondamento di diritti sociali a garanzia di funzioni effettivamente ampiamente svolte da quest’ultime, in particolare dalle madri. La disposizione oggetto della proposta di abrogazione, infatti, era indubbiamente marcata da una visione patriarcale della famiglia fondata sul breadwinner family model e su una rigida concezione della ripartizione dei ruoli di genere, secondo cui alla donna sarebbero riservate funzioni domestiche che la relegherebbero principalmente alla sfera familiare, non potendo la sua implicazione pubblica andare a detrimento degli obblighi domestici. Tuttavia, sebbene formulata in termini sessisti che non possono che suonare obsoleti e contrari ai principi di uguaglianza e di parità abbracciati dalle moderne società democratiche, questa disposizione costituiva anche il fondamento delle particolari garanzie della donna e della madre lavoratrice, come se ne trovano in un gran numero di costituzioni democratiche del primo e secondo dopoguerra (basti pensare al comma 11 del preambolo della Costituzione francese del 1946 o all’art. 6 co. 4 della Costituzione tedesca o all’art. 31 della Costituzione italiana).
Ora, in una società che resta comunque marcata (come ancora peraltro la maggior parte, per non dire tutte, le società odierne) da una più forte implicazione della donna nell’assolvimento dei compiti domestici e familiari, l’abrogazione di tali disposizioni senza la controparte di opportune garanzie quanto agli obblighi positivi assunti dallo Stato per agevolare la conciliazione della vita professionale e familiare ha fatto temere, più che un progresso, un possibile peggioramento delle condizioni della donna lavoratrice.
“Era nostra responsabilità convincere la maggioranza delle persone a votare ‘sì’ e chiaramente non ci siamo riusciti”, ha detto l’allora capo del Governo Varadkar, assumendo la responsabilità della sconfitta. Ma probabilmente non si è trattato solo di una mancanza sul piano della comunicazione pedagogica, ma anche e soprattutto sul piano delle politiche proposte a completamento della riforma costituzionale, insufficienti a rassicurare sul mantenimento di garanzie minime per coloro che (in gran parte tra le donne) continueranno ad assumere il carico degli obblighi domestici. Rimane il fatto che, sebbene questi emendamenti avesso una portata ampiamente (ma non esclusivamente) simbolica e cavalcassero una tendenza alle strategie genderwashing per coprire le mancanze dei governi in termini di politiche concrete per la parità, l’Irlanda ha perso un’occasione per rimuovere un altro mattone del solido e ancora ben stabile paradigma patriarcale e eteronormativo della famiglia e della società.


Il Consiglio costituzionale francese e la riforma delle pensioni, o dell’occasione mancata di comportarsi da “cour constitutionnelle de référence”

Non succede spesso che il Consiglio costituzionale francese si trovi a pronunciare decisioni tanto attese quanto quella resa il 14 aprile scorso sulla legge recante la riforma delle pensioni, in un contesto sociale e politico quanto mai delicato.
Senza grandi sorprese, la decisione avvera il pronostico formulato dalla maggior parte degli esperti. Il Consiglio ha infatti dichiarato conforme alla Costituzione l’essenziale della riforma, a cominciare dalla disposizione che prevede l’aumento dell’età legale di accesso alla pensione da 62 a 64 anni, e ha censurato soltanto alcuni articoli considerati come “cavalieri sociali”, ovvero disposizioni prive di tenore finanziario indebitamente inserite in una legge di finanziamento della previdenza sociale.
Pur prevedendo quasi unanimemente una risposta marcata dal self-restraint tipico del giudice costituzionale francese, tuttavia, un gran numero di costituzionalisti si è speso in editoriali e commenti, nelle settimane precedenti la decisione, per immaginare, suggerire o auspicare come questi avrebbe potuto rispondere alle censure invocate, alcune delle quali appaiono, ci sembra, particolarmente fondate. Ed è proprio questa considerazione a guidare le considerazioni che seguono. In questo breve commento, infatti, dopo aver brevemente riassunto il dispositivo della decisione, non si intende analizzarne in dettaglio la motivazione, ma piuttosto cimentarsi in un esercizio in qualche modo opposto, per illustrare non tanto cosa il Conseil ha detto, bensì cosa avrebbe potuto dire.

1. La decisione del Conseil, o l’arte del “come ne usciamo?”
Per commentare l’approccio della Corte corte costituzionale italiana nella stagione caratterizzata dal più spiccato self restraint, Tania Groppi osservava che la preoccupazione che accompagnava i giudici costituzionali in camera di consiglio in quegli anni sembrava essere “come ne usciamo senza decidere? Come ne usciamo senza esporci?”. Ebbene, si direbbe che tale interrogativo non abbia mai davvero abbandonato il Consiglio costituzionale francese che, salvo rare eccezioni, ha fatto del “non decidere” e del “non esporsi” la cifra della sua giurisprudenza, in particolare in sede di controllo preventivo (al punto che alcuni costituzionalisti sono arrivati a domandarsi se tale meccanismo meriti ancora di essere mantenuto in vita).
Anche in questo caso il Consiglio ha essenzialmente validato l’operato della maggioranza – e in particolare dell’esecutivo, che si è servito di tutti gli strumenti offertigli dal parlamentarismo razionalizzato della Quinta Repubblica per forzare l’approvazione della legge – riducendo al minimo il proprio controllo sulla costituzionalità della procedura e limitandosi ad un’interpretazione letterale delle disposizioni costituzionali.
I ricorsi delle minoranze parlamentari, presentati rispettivamente dai deputati del Rassemblement national e dai deputati e dai senatori dell’opposizione di sinistra, contestavano sia il contenuto della riforma, per motivi essenzialemente di equità sociale e di valutazione economica, sia soprattutto le procedure utilizzate per l’adozione della legge.
Non ci attarderemo sui primi che, per quanto fondati sulle disposizioni del bloc de constitutionnalité in materia di uguaglianza e diritti sociali, possono ritenersi di natura più spiccatamante politica e dunque difficilmente idonei a fondare una dichiarazione di incostituzionalità : non ci si poteva aspettare, insomma, che il Conseil dichiarasse contrario alla Costituzione l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni.
Più interessanti dal punto di vista dell’interpretazione giuridica sono invece le censure legate a motivi procedurali. Riassumendo, venivano contestati: l’utilizzo abusivo della procedura speciale prevista dall’art. 47-1 della Costituzione per le leggi di finanziamento della previdenza sociale, la violazione del principio costituzionale di “chiarezza e sincerità del dibattito parlamentare” in ragione del cumulo di procedure limitative della deliberazione parlamentare nonché della trasmissione di informazioni erronee al Parlamento e, infine, la presenza di disposizioni di contenuto non budgetario e dunque, per natura, non conformi al contenuto di una legge di finanziamento della previdenza sociale.
Il Consiglio ha accolto unicamente quest’ultima censura e ha dichiarato incostituzionali sei “cavalieri sociali”, tra i quali le disposizioni in materia di agevolazione dell’impiego dei lavoratori senior. I Sages hanno invece rigettato tutti gli altri profili con delle motivazioni alquanto laconiche che si limitano ad affermare che, sebbene si riconosca il fondamento dei motivi di censura (come il fatto che la riforma delle pensioni “avrebbe potuto figurare in una legge ordinaria”, par. 11; “la circostanza che alcuni ministri abbiano fornito [...] delle estimazioni inizialmente erronee sull’ammontare delle pensioni”, par. 65; “il carattere inabituale” del cumulo di procedure coercitive, par. 70), nessuna disposizione costituzionale risulta espressamente violata.

2. L’occasione mancata per comportarsi da “cour constitutionnelle de référence” e rafforzare la fiducia nella giustizia costituzionale
Giuridicamente mal motivata, pericolosa per la democrazia parlamentare o per il destino della giustizia costituzionale, marcata da un eccesso di zelo nei confronti dell’esecutivo: sono solo alcune delle critiche alla decisione apparse in un elevato numero di editoriali a firma di autorevoli costituzionalisti. Di certo non lusinghiere per l’istituzione che, sotto l’egida del suo Presidente Laurent Fabius, vorrebbe diventare una “corte costituzionale di riferimento”. Ora, la critica alle decisioni di un organo di giustizia costituzionale è consustanziale ad uno Stato di diritto e l’espressione di critiche, siano esse da parte della dottrina, dell’opinione pubblica o di altre istituzioni, non mina di per sé la legittimità dell’organo. Tuttavia, questa decisione rappresenta indubbiamente per il Conseil un’occasione mancata per affermarsi come corte costituzionale capace di elevarsi a garante di una lettura sistemica e sostanziale della Costituzione, assolvendo una funzione contromaggioritaria in un sistema fortemente squilibrato in favore dell’esecutivo a causa della coesistenza di dispositivi di forte razionalizzazione del parlamentarismo, di un sistema elettorale che – seppur con l’indebolimento del “fatto maggioritario” nell’attuale legislatura – assicura all’esecutivo il sostegno di una maggioranza parlamentare coesa e della presidenzializzazione del regime.
Com’è noto, infatti, al fine di rafforzare l’esecutivo e di scongiurare le derive del parlamentarismo conosciute sotto la Terza e la Quarta Repubblica, la Costituzione del 1958 ha dotato il governo di un ricco arsenale di strumenti di pressione sul Parlamento nel corso del procedimento legislativo: ruolo predominante nella determinazione dell’ordine del giorno delle camere, poteri di controllo sull’esercizio del diritto di emendamento dei parlamentari, voto bloccato, procedure speciali per le leggi finanziarie, procedure accelerate per mettere fine alla navette, possibilità di dare l’ultima parola alla camera bassa, questione di fiducia su un progetto di legge.
L’affermazione del fatto maggioritario e la progressiva presidenzializzazione del regime hanno invero reso parzialmente superflui alcuni di questi dispositivi, che hanno invece ritrovato tutta la loro utilità in un momento di crisi di quell’elemento strutturale della Quinta Repubblica che è il fatto maggioritario, con l’apparizione di una maggioranza soltanto relativa a sostegno del governo guidato dalla Prima ministra Borne. Così, per l’approvazione della riforma delle pensioni, la Prima ministra ha fatto uso di tutti questi dispositivi, a cominciare dalla scelta dello strumento legislativo finanziario, che apriva la strada a procedure particolarmente favorevoli al governo. Ora, se ognuna di queste procedure è di per sé perfettamente legittima in quanto prevista dalla Costituzione, l’utilizzo contestuale e cumulativo di tutte le procedure può destare qualche dubbio.

3. L’utilizzo cumulativo di procedure parlamentari facenti ostacolo allo svolgimento delle prerogative parlamentari essenziali
Era questo il motivo per cui i ricorrenti contestavano la violazione del “principio di chiarezza e di sincerità del dibattito parlamentare”, in quanto il cumulo delle diverse procedure utilizzate sarebbe stato di ostacolo “al corretto svolgimento del dibattito democratico” e al pieno esercizio del diritto di emendamento (par. 66-67).
Sono chiamati in causa: l’utilizzo della procedura dell’articolo 47-1, che ha imposto all’Assemblea nazionale di interrompere la lettura del testo dopo soli venti giorni quando aveva proceduto all’esame di due soli articoli; la limitazione del tempo di parola al Senato, combinata al rigetto di un gran numero di subemendamenti e soprattutto all’attivazione del “voto bloccato” per far deliberare la camera alta su tutto il testo in un solo voto, impedendo qualunque emendamento; l’utilizzo, infine, della preziosa quanto famigerata procedura della fiducia su un progetto di legge prevista dall’art. 49 co. 3 della Costituzione, che permette di interrompere ogni discussione sul testo e di farlo considerare come approvato senza voto da parte dei deputati, a meno che una mozione di censura non sia approvata alla maggioranza assoluta... L’utilizzo combinato di tutti questi dispositivi ha fatto sì che una riforma cruciale nel dibattito sociale e politico sia stata promulgata senza una vera deliberazione parlamentare e senza che la camera bassa ne abbia esaminato più di due articoli (respingendo peraltro il secondo).
Con un argomento prettamente formale e letterale, il Consiglio ha però respinto queste censure, limitandosi a constatare che nessuna disposizione costituzionale impedisce espressamente l’impiego cumulativo di tutte queste procedure e che pertanto “sebbene l’utilizzo combinato delle procedure adottate abbia un carattere inabituale [...], esso non ha reso la procedura legislativa contraria alla Costituzione” (par. 70). Si potrebbe invece obiettare che, sebbene niente lo vieti espressamente nella lettera della Costituzione, un’interpretazione sistematica e sostanziale porta a riconoscere che la razionalizzazione del parlamentarismo prevista dalla Costituzione ha inteso conciliare la governabilità con un altro principio fondamentale dello Stato di diritto, che è la possibilità per il Parlamento di esercitare la propria funzione e che, pertanto, un cumulo di procedure che arrivi a impedire alle assemblee il minimo esercizio delle loro prerogative fondamentali potrebbe considerarsi come un abuso non conforme alla Costituzione.
Stupisce, inoltre, che la trasmissione di informazioni scorrette da parte dei ministri alle assemblee non sia stata considerata elemento idoneo a nuocere alla “chiarezza e sincerità del dibattito parlamentare”: se non è questa un’ipotesi di applicazione di tale principio, ci si può davvero chiedere quale sia la vocazione di questo vago principio di enucleazione giurisprudenziale che il Consiglio ha formulato come garanzia dell’espressione della volontà generale, salvo poi utilizzarlo quasi esclusivamente in favore dell’esecutivo per giustificare le limitazioni al diritto di emendamento di fronte ai fenomeni di ostruzionismo.

4. L’utilizzo indebito della procedura riservata alle leggi di finanziamento della previdenza sociale
Soprattutto, ci sembra fosse fondata l’altra censura: quella sull’utilizzo abusivo di una procedura inadatta alla legge in questione. La riforma delle pensioni è stata infatti proposta dalla Prima ministra nella forma di una legge rettificativa di finanziamento della previdenza sociale (“loi de financement rectificative de la sécurité sociale” di seguito LFRSS), legge alla quale la Costituzione riserva una procedura particolare caratterizzata da indubbi vantaggi per il governo. Questa scelta è stata contestata in quanto si tratterebbe di un utilizzo abusivo e improprio, mediante il quale il governo avrebbe scelto non la procedura adatta in funzione dell’oggetto della legge, ma piuttosto la procedura più conveniente per raggiungere l’obiettivo dell’approvazione di una riforma (ritenuta urgente) in tempi stretti. Alla procedura per l’adozione di una LFRSS, la Costituzione riserva infatti un esame accelerato, di una durata massima di cinquanta giorni, al termine dei quali il governo è abilitato ipso iure ad adottare le misure contenute nel progetto di legge mediante ordonnance (un atto del governo che normalmente richiede una legge di abilitazione). Inoltre, mentre la questione di fiducia prevista all’articolo 49 co.3 può essere di regola utilizzata per un unico disegno di legge per sessione parlamentare, essa può invece essere utilizzata illimitatamente nella procedura di adozione di una LFRSS o di una legge finanziaria.
La ricerca dell’efficienza nella scelta dello strumento normativo non costituisce di per sé un’irregolarità. Parlare di utilizzo improprio e abusivo implica pertanto che detta procedura sia utilizzata non in ragione del contenuto del testo proposto, ma unicamente in ragione dei vantaggi procedurali che essa comporta. Il Consiglio ha però rigettato questi argomenti sulla base di un’interpretazione strettamente letterale dei contenuti imposti dalla legge organica sulle leggi di finanziamento della previdenza sociale. Si è cosi accontentato di verificare che la legge in questione contiene anche disposizioni che portano su spese e entrate della previdenza sociale per l’anno 2023, ignorando completamente il fatto che, per il resto, la legge contiene una riforma di ben più ampio respiro, le cui conseguenze sociali e economiche superano di gran lunga l’ambito di applicazione di una legge rettificativa per l’anno in corso. Anzi, il Consiglio non lo ignora, ma avalla la scelta governativa, limitandosi a sottolinere, secondo la sua massima abituale, che “se è vero che le disposizioni relative alla riforma delle pensioni avrebbero potuto figurare in una legge ordinaria [...] non compete al Consiglio costituzionale sostituire la propria discrezionalità a quella del legislatore a questo proposito”. Perché in effetti, e qui veniamo all’altra nota dolente, è stato il legislatore, e quindi in definitiva il Parlamento, a validare questa scelta governativa. Ma nella situazione di forte squilibrio tra i poteri che è stata presentata, con l’ascendente del governo sul Parlamento dato dalla combinazione tra fatto maggioritario e razionalizzazione del parlamentarismo e con l’utilizzo combinato delle procedure soprarichiamate, il giudice costituzionale può davvero lasciare alla maggioranza parlamentare la garanzia delle esigenze costituzionali del dibattito democratico?
Avallando questo utilizzo indebito della procedura della LFRSS, il Consiglio ha creato un precedente preoccupante che potrà essere invocato da questo o dai governi successivi per far approvare qualunque riforma di contenuto anche lontanamente finanziario e sociale (ma non lo sono poi quasi tutte?) attraverso un procedimento fortemente limitativo delle esigenze democratiche del dibattito parlamentare. La questione che si pone è quindi: ma il Consiglio avrebbe potuto fare diversamente, senza addentrarsi in delicate valutazioni di natura più politica che giuridica? Ebbene, seppure si possono comprendere le ragioni dell’eccesso di prudenza del Conseil, in linea con la sua storia e la sua collocazione all’interno delle istituzioni francesi, ritengo che da un giudice costituzionale ci si possa attendere di più, in particolare in un momento in cui la giustizia costituzionale e la sua capacità di difendere lo Stato di diritto sono rimesse in discussione.
Davanti ad un banco di prova così importante, ciò che è legittimo attendersi da una corte costituzionale è che sia in grado di erigersi a garante delle esigenze democratiche alla base del sistema costituzionale anche in un momento polico e sociale delicato, facendo atrazione di ogni valutazione di opportunità politica. Ciò che è legittimo attendersi è che sappia affermare che la legge di finanziamento della previdenza sociale non può essere un bazar nel quale infilare qualunque articolo si desideri trattare. Ciò che è legittimo attendersi è che sappia indicare al governo, e dunque al Presidente che indirettamente dirige o conferma la scelta del ricorso alle procedure richiamate, che le disposizioni costituzionali in materia di produzione normativa non possono essere utilizzate come una cassetta degli attrezzi dalla quale estrarre l’arnese che più conviene, per raggiungere l’obiettivo con il minore sforzo possibile davanti a questa vecchia e farraginosa istituzione che è la democrazia, tanto più in un sistema come quello della Quinta Repubblica che manca gravemente di contropoteri effettivi. Le dichiarazioni di inammissibilità dei referendum proposti contro la riforma dimostrano d’altronde come neanche questo strumento sia idoneo ad assolvere una funzione contromaggioritaria.


Una nuova frontiera del dialogo tra giurisdizioni: la Cassazione rimette alla Corte costituzionale una q.l.c. fondata sul parere consultivo della Corte EDU in materia di GPA

1.Malgrado la mancata ratifica da parte dell’Italia, il Protocollo n. 16 alla CEDU apre nuove possibilità di dialogo anche per le giurisdizioni italiane, sebbene ad esse sia ancora preclusa la facoltà di rivolgersi direttamente al giudice europeo mediante la nuova procedura consultiva.

È quanto emerge dall’ordinanza n. 8325 del 29 aprile 2020, con cui la Prima sezione civile della Corte di cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale in materia di gestazione per altri (GPA) e riconoscimento di atti di nascita stranieri, la cui non manifesta infondatezza è essenzialmente fondata sul parere reso il 10 aprile 2019 dalla Corte EDU su domanda della Cassazione francese.

L’ordinanza di rimessione contesta la costituzionalità degli artt. 12, co. 6, della legge n. 40 del 2004, 18 del d.p.r. n. 396 del 2000 e dell’art. 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 del 1995 nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del cosiddetto genitore d’intenzione non biologico nell’atto di stato civile di un minore nato mediante gestazione per altri. Tale lettura ostativa al riconoscimento del provvedimento straniero è dettata, com’è noto, dalla sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, con la quale le Sezioni Unite hanno sancito che “il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento […] con cui sia accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione […] trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità […] qualificabile come principio di ordine pubblico”. Pertanto, alla luce di tale interpretazione, l’unica possibilità per il riconoscimento del legame tra genitore intenzionale e figlio nato mediante GPA è costituita dall’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d) della legge n. 184/1983.

Circa un mese prima della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite, era però intervenuto il primo parere reso dalla Corte EDU, su richiesta della formazione plenaria della Cassazione francese che si trovava a decidere una questione analoga. Tale parere (sul quale sia permesso rinviare al nostro commento in questa rivista) stabiliva innanzitutto l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e il genitore intenzionale in nome del superiore interesse del minore e, per quanto attiene alle modalità di tale riconoscimento, ammetteva che esso potesse avvenire attraverso la trascrizione integrale dell’atto di nascita straniero ovvero mediante una procedura di adozione, purché questa soddisfi le condizioni di effettività e celerità che consentano che il legame tra il figlio e il genitore intenzionale possa essere riconosciuto “al più tardi nel momento in cui si è concretizzato”.

I giudici del rinvio ricordano che l’orientamento dettato dalle Sezioni Unite nell’esercizio della loro funzione nomofilattica costituisce il diritto vivente al quale i giudici di sezione, così come i giudici di merito, dovrebbero conformarsi. Essi osservano, tuttavia, che l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo nel parere del 10 aprile 2019 “impone scelte ermeneutiche differenti da quelle adottate dalle Sezioni Unite” ponendosi quindi “in conflitto con il diritto vivente in Italia” (p. 17 dell’ordinanza). Stretti nel dilemma di doversi adeguare all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite ovvero procedere ad un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, e ritenendo di non poter ignorare né l’una né l’altra esigenza, i giudici di sezione scelgono di non rimettere la questione alle Sezioni Unite, come previsto dall’art. 374 co. 3 c.p.c. (“Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”), ma di adire invece la Corte costituzionale affinché essa si pronunci sulla conformità del diritto vivente italiano rispetto ai parametri costituzionali e convenzionali invocati (p. 17-20 dell’ordinanza). Si innesca così un dialogo polifonico al quale partecipano direttamente il giudice del rinvio e il giudice costituzionale e, indirettamente, il giudice europeo e la massima formazione della Cassazione, le cui voci vanno a costituire il diritto vivente, convenzionale e nazionale, di cui la Corte costituzionale dovrà tenere conto.

2.Per quanto attiene al merito dell’ordinanza, il sospetto di incostituzionalità delle disposizioni censurate è fondato su due profili (p. 15-17), per i quali l’orientamento sancito dalle Sezioni Unite si porrebbe in conflitto con l’art. 117 per violazione degli art. 8 CEDU e di diverse disposizioni convenzionali a tutela dell’interesse del minore, nonché con gli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione, interpretati anch’essi alla luce della giurisprudenza europea (p. 20-30).

Il primo di tali profili concerne l’elevazione del divieto di GPA a principio di ordine pubblico, con la conseguente impossibilità di legalizzarne gli effetti sullo status filiationis del minore nato mediante tale pratica, che si traduce in un’ingiustificata compressione dei diritti di un soggetto, il minore, che non ha in alcun modo posto in essere la condotta contraria all’ordine pubblico. Parafrasando le parole usate dal giudice europeo nel parere citato, i giudici di legittimità osservano quanto messo in luce da tempo da gran parte della dottrina e da un certo orientamento dei giudici di merito: “se è legittimo che uno Stato parte della Convenzione imponga misure dissuasive nei confronti dei propri cittadini che intendano ricorrere all’estero a forme di procreazione vietate nel proprio territorio, […] tuttavia non è consentito agli Stati di adottare misure che incidano negativamente sulla situazione soggettiva di chi nasce da una gestazione per altri e abbiano l’effetto di negare i diritti inviolabili connessi alla identità personale del minore e alla sua appartenenza al nucleo familiare di origine” (p. 16). Il divieto assoluto di trascrizione, a prescindere da una valutazione concreta caso per caso, è quindi contrario al principio dell’interesse superiore del minore in quanto ha delle ripercussioni giuridiche pregiudizievoli non solo per i genitori, che hanno consapevolmente deciso di incorrere nelle conseguenze giuridiche della loro condotta, ma anche e soprattutto per i figli che di tale condotta non sono responsabili e che si trovano così ad essere sanzionati per le colpe dei loro genitori.

Il secondo profilo di conflitto attiene alla modalità di riconoscimento dello status filiationis prevista dall’ordinamento italiano mediante l’adozione in casi particolari, la quale “non risulta affatto [idonea] a garantire quelle condizioni di celerità e di effettività ritenute dalla Corte di Strasburgo le condizioni imprescindibili per qualificare la modalità alternativa alla trascrizione rispettosa del diritto alla tutela della vita privata e familiare del minore” (p.16). Quanto alle condizioni di celerità, infatti, l’adozione richiede un lungo e complesso iter processuale e decisionale, durante il quale il minore versa in quella situazione di incertezza giuridica sulla sua condizione personale che per la Corte EDU dovrebbe essere il più breve possibile. Ma è soprattutto in relazione all’effettività che l’istituto dell’adozione in casi particolari non soddisfa i requisiti imposti dal parere, in quanto consente un riconoscimento del legame di filiazione non equiparabile all’adozione piena né tantomeno alla trascrizione (p.  31-32). Non possiamo che condividere tali rilievi, che peraltro avevamo avuto modo di muovere in termini analoghi in altra sede.

3.Al di là dei profili di merito, si vuole sottolineare ancora una volta l’importanza assunta dal parere del giudice europeo nell’argomentazione della non manifesta infondatezza della questione. Tutta la motivazione ruota infatti intorno ad esso, assunto sia come elemento che va ad integrare il parametro interposto (3.1), sia come strumento di interpretazione delle stesse disposizioni costituzionali, secondo una tecnica ermeneutica assiologicamente orientata ispirata al pluralismo costituzionale, che postula che le norme a tutela dei diritti sancite nei diversi ordinamenti comunicanti non vanno interpretate secondo criteri di gerarchia, ma si integrano e si completano in via ermeneutica (3.2).

3.1. Il giudice rimettente precisa innanzitutto di non poter prescindere dal parere della Grande Camera della Corte EDU poiché, sebbene esso non abbia efficacia vincolante né per la Francia né per ordinamenti terzi, “costituisce un giudizio astratto teso a chiarire in via preliminare il contenuto delle norme convenzionali, fornendo quindi un ausilio ai giudici nazionali” (p.11). La procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 assolve infatti una doppia funzione pregiudiziale e nomofilattica, andando quindi a spiegare degli effetti quantomeno persuasivi sugli ordinamenti di tutti gli Stati membri della Convenzione. Come precisato dal rapporto esplicativo del Protocollo, infatti, “i pareri consultivi […] andranno a fare parte della giurisprudenza della Corte, insieme alle sentenze e alle decisioni. L’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli contenuta in tali pareri consultivi sarà analoga nei suoi effetti ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte nelle sentenze e nelle decisioni” (par. 27 del rapporto esplicativo).

L’argomentazione dell’ordinanza in commento appare perciò senza dubbio fondata su tale punto, dal momento che, chiamate a adempiere ad un obbligo di interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata nell’esercizio della loro attività ermeneutica, le giurisdizioni nazionali non possono esimersi dal tenere conto di una pronuncia che, per quanto non giuridicamente vincolante, ha il preciso scopo di chiarire la portata delle norme convenzionali.

3.2.  L’interpretazione data dal giudice europeo a tali norme, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, va d’altronde ad orientare non solo la lettura delle disposizioni convenzionali direttamente oggetto della pronuncia, ma anche delle disposizioni contenute negli altri cataloghi dei diritti di egual tenore che il giudice nazionale si trova a dover applicare in un sistema integrato di tutela dei diritti. Così, nell’ordinanza di rinvio, anche i parametri costituzionali di cui agli articoli 2, 3, 30 e 31 sono interpretati alla luce delle norme convenzionali e, in particolare, della loro portata giurisprudenziale illustrata nel parere citato. Per i giudici della Prima sezione, infatti, la CEDU e la Carta dei diritti dell’Unione europea vanno a formare insieme con la Costituzione “il cosiddetto ordine pubblico costituzionale”, che raccoglie i “diritti fondamentali dell’individuo, manifestazione di valori supremi e vincolanti della cultura giuridica che ci appartiene” (p. 22). Dato il tenore sostanzialmente costituzionale di tali norme, pertanto, qualunque conflitto tra esse – o, melius, tra le interpretazioni ad esse date dai giudici chiamati a svolgere una funzione nomofilattica – non può essere risolto applicando il criterio gerarchico, ma mediante una conciliazione che si avvalga di un’interpretazione integrata e assiologicamente orientata delle stesse.

Ciò non vuole ovviamente dire, come temono alcuni, che la funzione nomofilattica in materia di diritti fondamentali sia definitivamente “esternalizzata” in capo alla Corte europea, ma che la voce del giudice europeo vada a contribuire all’interpretazione integrata delle norme a tutela dei diritti, senza fare appello ad una difficilmente ammissibile gerarchia tra giudici e tantomeno tra norme. Ed è proprio in quest’ottica che la ratifica del Protocollo n. 16 offrirebbe alle più alte giurisdizioni nazionali uno strumento prezioso, che permetterebbe loro di partecipare in maniera diretta, attraverso una forma di dialogo istituzionalizzato, alla formazione della giurisprudenza europea e all’armonizzazione del diritto europeo dei diritti fondamentali nello spazio CEDU.

Nell’ambito della procedura consultiva, infatti, la giurisdizione richiedente è chiamata a presentare “[le] sue considerazioni sulla questione, compresa ogni valutazione che possa aver compiuto della questione” (Rapporto esplicativo, par. 12). In questo modo, una dinamica bottom-up va a sostituire la dinamica up-bottom che caratterizza la formazione della giurisprudenza europea in sede contenziosa e, soprattutto, il modello decisione-sanzione è sostituito da un confronto preventivo improntato alla logica del dialogo, mediante il quale un giudice propone un’interpretazione e l’altro la avalla o ne suggerisce una correzione, senza che per questo il giudice proponente sia sanzionato. Con queste considerazioni non si vuole dare della procedura consultiva una lettura irenica che la elevi, per il suo carattere dialogico, a panacea di tutti i conflitti tra Strasburgo e giudici nazionali. Il concetto stesso di “dialogo tra giudici”, d’altronde, non esclude il conflitto: nell’ambito giudiziario, come nella vita, il dialogo è innanzitutto confronto tra più voci, eventualmente discordanti, ciascuna delle quali vuole affermare la fondatezza della propria posizione. Ma com’è stato giustamente 18, il conflitto può essere benefico, in quanto può servire a pervenire ad una sintesi tra posizioni divergenti, come l’ha mostrato la saga Taricco nella risoluzione del contrasto tra norme costituzionali interne e diritto dell’UE.

Secondo questa prospettiva, la ratifica del Protocollo n. 16 permetterebbe alle alte giurisdizioni italiane di avvalersi della procedura consultiva per proporre una soluzione del conflitto tra diritto vivente italiano e giurisprudenza europea che sia improntata ad un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In mancanza di tale strumento, tuttavia, ora spetta alla Corte costituzionale trovare la soluzione a tale conflitto, non mediante l’applicazione di un criterio gerarchico, ma grazie ad un’interpretazione integrata delle disposizioni costituzionali e convenzionali, alla luce di tutte le voci che hanno partecipato, direttamente o indirettamente, al dialogo sulla questione.


La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale

Con un comunicato dell’11 gennaio la Corte costituzionale ha annunciato alcune importanti novità procedurali atte a consentire alla “società civile [di] far sentire la propria voce sulle questioni di costituzionalità”. Mediante una delibera dell’8 gennaio, le Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte hanno infatti subito tre ordini di modifiche, rispettivamente in materia di intervento di terzi, amicus curiae e audizione di esperti.
Per quanto riguarda l’intervento dei terzi, se fino ad oggi l’articolo 4 si limitava a prevedere la possibilità di intervento nel giudizio incidentale da parte di “altri soggetti”, viene codificata la giurisprudenza costante secondo cui tali soggetti devono essere “titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio”. Un nuovo articolo 4-bis va poi a disciplinare “le modalità di accesso agli atti del giudizio da parte dei terzi intervenienti”.
Il nuovo articolo 4-ter aprirà invece “ai cosiddetti amici curiae: soggetti istituzionali, associazioni di categoria, organizzazioni non governative”, prevedendo che “qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per offrire alla Corte elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto al suo giudizio”. Il deposito di amicus curiae costituirà dunque un canale di partecipazione al processo distinto dall’intervento del terzo in senso stretto.
La terza via per la partecipazione della società civile al giudizio è infine rappresentata dall’audizione di esperti, disciplinata dal nuovo articolo 14-bis, che consentirà alla Corte di fare appello a “esperti di chiara fama” per “acquisire informazioni su specifiche discipline” mediante un confronto “in camera di consiglio, alla presenza delle parti del giudizio”.
La presidenza della giudice Marta Cartabia si apre dunque con un importante riassetto del processo costituzionale nel segno dell’apertura e della trasparenza. Sebbene tali novità siano state presentate dalla stampa come una rivoluzione che porta il marchio della neoeletta presidente, esse in realtà sono il risultato di un’evoluzione già avviata da tempo, che esprime la volontà collegiale della Corte di aprire le proprie porte a soggetti diversi dalle parti in grado di dare un contributo al giudizio e, soprattutto, di portare maggiore trasparenza e coerenza su delle prassi poco lineari che avevano fino ad ora caratterizzato l’istruttoria e il processo costituzionale.
I primi segnali di questa evoluzione si erano registrati nel corso dell’ultimo anno e mezzo, se non espressamente nella giurisprudenza (anche se qualche decisione si era parzialmente discostata dalla giurisprudenza consolidata: v. commento su questo blog), in alcune attività interne e esterne della Corte che avevano anticipato il percorso di modifica. Ci riferiamo, in particolare, al provvedimento del 21 novembre 2018 dell’allora presidente Giorgio Lattanzi sull’accesso agli atti da parte dei terzi e al Seminario di studi tenutosi al Palazzo della Consulta il 18 dicembre dello stesso anno, che testimoniano una volontà di trasparenza e dialogo nella riorganizzazione del giudizio costituzionale, nel metodo oltre che nel risultato.
Trasparenza: dal provvedimento del Presidente sulla prassi in materia di intervento alla modifica delle n.i. Mediante una lettera del 21 novembre 2018 indirizzata alla cancelleria (provvedimento definito “anomalo” da attenta dottrina che avrebbe auspicato che una novità di tale portata venisse introdotta mediante “una modifica delle Norme integrative, se non pure della stessa legge 87 del 1953”: v. commento di A. Ruggeri in ConsultaOnline), il Presidente Lattanzi aveva chiesto di mettere fine alla prassi che consentiva l’accesso agli atti della procedura ai terzi che presentassero un’istanza di intervento, prima della decisione sull’ammissibilità dello stesso. Fino ad allora, infatti, la decisione sull’ammissibilità degli interventi veniva pronunciata al momento dell’udienza pubblica o della camera di consiglio sul merito della questione. Nelle more di tale decisone, ai terzi veniva consentito di accedere agli atti, così da poter argomentare, nelle proprie memorie, sia sulla legittimazione del proprio intervento che sul merito della questione in piena conoscenza degli atti della procedura.
Come messo in luce dalla dottrina, tale prassi permetteva che anche gli interventi destinati ad essere dichiarati inammissibili potessero entrare almeno temporaneamente nel giudizio. Ciò aveva favorito l’emergere di una forma ufficiosa di partecipazione, in quanto molti soggetti, in particolare enti portatori di interessi collettivi, continuavano a presentare le proprie memorie di intervento consapevoli del fatto che, malgrado il loro rigetto ufficiale al momento dell’udienza, esse avrebbero avuto modo di essere lette e prese in considerazione, seppur non ufficialmente. La soluzione prospettata dall’allora Presidente consisteva nel consentire al terzo di presentare, in un primo momento, unicamente gli argomenti a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, prevedendo quindi una riunione in camera di consiglio per decidere su tale istanza e, solo in un secondo momento, consentire l’accesso agli atti esclusivamente ai terzi ammessi.
La codifica agli articoli 4 e 4-bis delle “modalità di accesso al giudizio da parte dei terzi intervenienti” e della previsione che essi possano “eventualmente essere autorizzati ad accedere agli atti del processo costituzionale anche prima dell’udienza” ha dunque il merito di disciplinare definitivamente con chiarezza - e attraverso una fonte normativa apposita - una prassi che si collocava finora in una zona grigia. Per una piena coerenza della riforma nel suo complesso, le n.i. dovrebbero disciplinare anche la fissazione dell’udienza in camera di consiglio ai fini della decisione sull’ammissibilità degli interventi, subordinando all’esito di tale decisione l’accesso agli atti da parte dei terzi, ma è probabile che, sebbene non emerga espressamente dal comunicato, tale previsione sia effettivamente inclusa nella redazione definitiva dei nuovi articoli 4 e seguenti.
Alla categoria più nutrita di terzi non ammessi a intervenire, ovvero gli enti esponenziali portatori degli interessi al centro della questione, fino ad oggi considerati dalla Corte come titolari di “meri indiretti, e più generali, interessi, connessi ai loro scopi statutari” (ord. allegata alla sent. n. 237/2019), viene aperta la nuova via del deposito degli amicus curiae.
La nuova redazione degli articoli 4 e seguenti distingue infatti, come auspicato da parte della dottrina, tra terzo interveniente e amicus curiae accordando loro due statuti processuali distinti in ragione di una differente legittimazione alla partecipazione.
L’intervento dei primi, ammessi sulla base del loro “interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio”, risponde infatti alle esigenze di garanzia del giusto processo e del diritto di difesa, come più volte ribadito dalla stessa Corte che ha fondato sull’articolo 24 Cost. la propria giurisprudenza in materia. Tali terzi acquisiscono perciò uno statuto e poteri processuali analoghi a quelli delle parti. Ai terzi ammessi in qualità di amicus curiae, invece, viene consentito il deposito di memorie, ma non la partecipazione all’udienza. La loro partecipazione infatti non è fondata sul diritto di difesa, ma su una facoltà accordata dal collegio in ragione del contributo che essi possono apportare al giudizio.
Dialogo: il confronto con la dottrina (e con il diritto comparato) nel seminario di studi organizzato dalla Corte costituzionale. La Corte ha mostrato una spiccata volontà di dialogo anche nel metodo di adozione della riforma, che è stata preceduta da un confronto con la dottrina sulle esperienze del diritto comparato. Le modifiche apportate alle norme integrative hanno così potuto trarre ispirazione dalle relazioni e dagli interventi presentati in occasione del seminario su “Interventi di terzi e ‘amici curiae’ nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, anche alla luce dell’esperienza delle altre Corti nazionali e sovranazionali”, tenutosi al Palazzo della Consulta il 18 dicembre 2018.
La modifica introdotta agli articoli 4 e seguenti, e in particolare l’introduzione dell’art. 4-ter, riprende la soluzione del doppio binario per la partecipazione di terzi e amici curiae, evocata dalle relazioni di Tania Groppi (v. relazione su ConsultaOnLine) e di Giampaolo Parodi, incentrate sul confronto della prassi italiana con alcune esperienze di diritto comparato. Il nuovo articolo 14-bis sull’audizione di terzi esperti sembra invece ispirarsi, oltre che alle procedure in vigore dinanzi alla Corte costituzionale tedesca, alla proposta avanzata dalla relazione di Valeria Marcenò la quale, ritenendo che l’apertura del giudizio risponda più ad un’esigenza di acquisizione di elementi fattuali e informazioni tecniche da parte della Corte che ad una reale esigenza di partecipazione della società civile, suggeriva di formalizzare l’acquisizione di informazioni da parte di esperti, che avviene oggi per lo più attraverso canali informali, prevedendo la possibilità di disporre un’audizione nel corso dell’udienza.
Trasparenza e dialogo nel comunicato dell'11 gennaio. La volontà di trasparenza e dialogo emerge infine con evidenza nella modalità di diffusione data a queste novità procedurali. La Corte, in linea con le sue attuali strategie di comunicazione, ha fatto precedere la pubblicazione delle modifiche alle n.i. sulla Gazzetta ufficiale da un comunicato pubblicato sul proprio sito, destinato alla stampa e, da lì, ad un pubblico molto più ampio di quello composto dagli addetti ai lavori. E l’ha fatto dando un titolo eloquente a tale comunicato – “La Corte si apre all'ascolto della società civile” – volto ad esaltare la volontà di apertura di un organo che – dal Viaggio nelle carceri e nelle scuole, alle novità procedurali qui illustrate e alle altre iniziative di comunicazione – vuole mostrare ai cittadini la propria funzione di garante dei diritti e al contempo rappresentante del corpo sociale in grado non solo di risolvere antinomie giuridiche ma anche di recepire le istanze e gli argomenti della società civile, in un’epoca in cui esso è chiamato sempre più spesso a decidere su questioni che vanno a incidere nella vita quotidiana di tutti noi.
Verso un processo costituzionale più aperto. Cosa cambierà dunque, concretamente, in termini di apertura del giudizio alla società civile all'indomani dell'entrata in vigore di queste modifiche? Sul piano dell’intervento, non ci dovrebbero essere grandi sorprese: dal momento che la riforma va a codificare la giurisprudenza costante, l’unica novità dovrebbe rinvenirsi nel fatto che non dovremmo aspettarci, almeno nel breve termine, oscillazioni dal dubbio fondamento come quelle che, recentemente, hanno consentito l'intervento di alcuni enti esponenziali che non sembravano soddisfare il requisito della titolarità di un interesse qualificato inerente in maniera diretta al giudizio (si vedano gli interventi dell'UCPI, sent. n. 180/2018, e del Consiglio nazionale del notariato, sent. n. 13/2019); tali soggetti potranno oramai essere ammessi, ma mediante il deposito di amicus curiae di cui all'art. 4-ter.
Proprio l’entrata in vigore di quest’articolo costituirà la più grande innovazione in termini di partecipazione, non solo in quanto consentirà la formale ammissione delle memorie sistematicamente presentate da sindacati, associazioni di categoria e di tutela dei diritti che fino ad oggi restavano nelle maglie della fase grigia della procedura, ma soprattutto in quanto potrà suscitare l’effetto di una “chiamata alla partecipazione”, andando così a incrementare il numero di istanze di intervento e la platea di enti esponenziali e soggetti istituzionali che bussano alle porte della Corte.
Pensiamo alle questioni suscettibili di interessare maggiormente la società civile e l’opinione pubblica, dalla procreazione assistita, al fine vita, alla tutela dell’ambiente, etc. L’allargamento della partecipazione su tali questioni va visto senz’altro, ad avviso di chi scrive, come un progresso, in quanto permetterà alla Corte di trattarle in piena conoscenza di fatti, informazioni tecnico-scientifiche e dati statistici presentati da esperti e enti che ben conoscono il contesto applicativo delle norme oggetto di giudizio e, quel che più conta, di farlo nel pieno rispetto della trasparenza e del contraddittorio, così che tali acquisizioni possano espressamente figurare nella motivazione. Se la nostra Corte costituzionale non ha forse bisogno di una rinnovata legittimazione, che le è assicurata dal fondamento costituzionale della sua funzione e dalla sua attività di garante dei diritti nella storia repubblicana, queste modifiche potranno indubbiamente incrementare la legittimazione e l’accettabilità delle sue decisioni, in quanto trasparenza della procedura e completezza della motivazione sono i due strumenti mediante i quali un organo giurisdizionale costruisce la legittimazione della propria giurisprudenza.

NB: La pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della delibera col testo delle norme modificate è intervenuta il 22 gennaio, quando il presente commento era già stato trasmesso e in attesa di pubblicazione. Esso si fonda perciò sul comunicato e non sul testo integrale delle norme oggetto di riforma, che potete trovare qui di seguito:

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-01-22&atto.codiceRedazionale=20A00443&elenco30giorni=true

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Prima applicazione della procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 CEDU: Dalla Corte EDU chiarimenti in chiaroscuro sull’obbligo di trascrizione dei figli nati da GPA

Il 12 ottobre scorso la Cassazione francese è stata la prima giurisdizione europea a richiedere un parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la procedura prevista dal Protocollo n. 16. Tale procedura, improntata ad una logica di dialogo e collaborazione tra giudici nazionali ed europei, consente alle più alte giurisdizioni degli Stati parte della CEDU di richiedere alla Corte di Strasburgo, nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad esse, un parere non vincolante sull’interpretazione o l’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 1 Protocollo n. 16).
La richiesta formulata dai giudici francesi verteva sull’interpretazione da dare all’art. 8 CEDU circa l’esistenza di un obbligo di trascrizione degli atti di nascita dei figli nati all’estero mediante gestazione per altri (si veda il commento in questo sito).
In passato, infatti, la Cassazione aveva confermato la legittimità del rifiuto di trascrizione dell’atto di nascita di due gemelle nate negli Stati Uniti a seguito di una GPA nell’ambito del progetto genitoriale di una coppia di cittadini francesi, rispettivamente padre biologico e madre intenzionale delle neonate. La vicenda era quindi giunta dinanzi alla Corte EDU, la quale aveva condannato la Francia per violazione dell’articolo 8 CEDU in relazione al rispetto della vita privata delle due figlie, che include il diritto all’identità, al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla nazionalità. A seguito di tale pronuncia, i coniugi e le loro figlie avevano potuto adire, in Francia, la Corte del riesame delle decisioni civili, che aveva quindi rinviato la questione all’Assemblea plenaria della Cassazione. È nell’ambito di tale procedimento che la massima giurisdizione civile francese si è rivolta a Strasburgo.
La Corte di cassazione francese ha posto ai giudici europei diverse domande. Innanzitutto, ha richiesto se il rifiuto “di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un figlio nato all’estero a seguito di una GPA nella parte in cui esso indica come madre legale la madre intenzionale, laddove la trascrizione è invece ammessa nella parte in cui indica quale padre il padre biologico” costituisse una violazione dell’art. 8 CEDU. Ha altresì richiesto se tale valutazione debba tener conto della circostanza che il figlio sia stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale e, in caso di risposta affermativa alla prima domanda, se lo Stato possa rispettare gli obblighi imposti dall’art. 8 consentendo l’adozione da parte della madre intenzionale invece che la trascrizione integrale dell’atto di nascita.
Si noti che la questione verteva unicamente sul riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre intenzionale, dal momento che, per conformarsi alla giurisprudenza europea in materia, l’ordinamento francese aveva già iniziato a consentire la trascrizione degli atti di nascita dei figli nati mediante GPA con l’indicazione del padre intenzionale, ove questi fosse altresì il padre biologico.
Il parere reso dalla Corte EDU il 10 aprile 2019, dopo circa 6 mesi dalla richiesta, si articola in due parti, che rispondono all’an e al quomodo della questione e che costituiscono rispettivamente la parte chiara e la parte oscura della pronuncia.
Quanto alla prima (par. 35-47), la Corte dà una risposta affermativa e priva di tentennamenti per quanto riguarda l’an della questione, ovvero l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale. E lo fa malgrado l’assenza di un consenso europeo sul punto, in nome dell’interesse superiore del minore.
Riferendosi ai propri precedenti Mennesson e Labassee, la Corte osserva infatti che il mancato riconoscimento del legame di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio pone quest’ultimo “in una forma di incertezza giuridica riguardo la sua identità nella società” che può arrecargli dei pregiudizi gravi. Il minore, in particolare, incorre nel rischio di non avere accesso alla nazionalità della madre e, di conseguenza, ad un titolo di permanenza nello Stato di residenza di quest’ultima; può vedere ridotti i propri diritti di successione e non tutelata la propria relazione con la madre in caso di separazione dei genitori o di morte del padre; non è tutelato, infine, nel caso in cui la madre intenzionale si rifiuti di contribuire al suo mantenimento e alle sue cure (par. 40). Pertanto “l’impossibilità generale e assoluta di ottenere il riconoscimento del legame di filiazione tra un figlio nato da una gestazione per altri all’estero e la madre intenzionale non è conciliabile con l’interesse superiore del minore” (par. 42).
Si noti peraltro che, in apertura del proprio ragionamento, la Corte ha ridefinito e circoscritto la questione posta dai giudici francesi, limitandola alla fattispecie oggetto del giudizio, che concerne il rapporto di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio concepito grazie ai gameti del padre – biologico e intenzionale – e agli ovociti di una donatrice. Ha quindi lasciato da parte, almeno in un primo momento, la seconda domanda posta dai giudici francesi (che chiedevano se il fatto che il figlio fosse stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale dovesse essere tenuto in conto), salvo poi rispondervi comunque in poche righe qualche paragrafo più in basso. Alla fine della motivazione sull’an della questione si legge, infatti, che l’esigenza di garantire il riconoscimento del legame tra il figlio e la madre intenzionale, sancita con riferimento al caso in questione, “vale a fortiori” nel caso in cui il figlio sia stato concepito con i gameti della madre intenzionale (par. 47).
Rispondendo ai primi due quesiti posti dai giudici francesi, la Corte chiarisce dunque che, in casi come quello in questione e a prescindere dalla provenienza degli ovuli fecondati, il diritto alla tutela della vita privata garantito dall’art. 8 impone agli Stati di consentire il riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale indicata nell’atto di nascita estero come madre legale.
Si esclude peraltro che gli Stati possano appellarsi al margine di apprezzamento per sfuggire a tale obbligo. Sebbene, infatti, la motivazione dia atto dell’assenza di un consenso europeo sul punto “malgrado una tendenza a consentire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione tra i figli nati da GPA e i genitori intenzionali”, essa ricorda che “quando è in gioco un aspetto particolarmente importante dell’identità di una persona, quale […] la filiazione” il margine di apprezzamento statale è necessariamente ristretto (par. 43-44).
Lo stesso margine ristretto non si applica però al quomodo. È quanto sancisce la Corte nella seconda parte del parere (par. 48-59), che è quella caratterizzata da minore chiarezza.
Per quanto riguarda le modalità di adempimento dell’obbligo derivante dall’art. 8, la Corte afferma che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento in ragione delle diverse soluzioni offerte dai vari ordinamenti, i quali optano gli uni per la trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori intenzionali, gli altri per l’adozione del figlio da parte del genitore intenzionale non biologico (par. 51). Secondo la Corte, entrambe le modalità possono risultare idonee a tutelare l’interesse del minore, purché permettano che il legame tra il figlio e il genitore intenzionale “possa essere riconosciuto al più tardi nel momento in cui si è concretizzato” (par. 52 e 54).
Ed è qui che la motivazione della Corte si fa poco chiara. Essa afferma infatti che non si può direttamente dedurre, dall’obbligo di riconoscimento del legame tra madre intenzionale e figlio, un obbligo di trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori (par. 50 e 53), dal momento che anche una procedura di adozione può rispondere all’esigenza di tutela dell’interesse del minore (par. 54). Precisa tuttavia che la durata dell’incertezza giuridica nella quale versa il figlio deve essere il più breve possibile (par. 49) e che spetta alle autorità nazionali il compito di valutare concretamente caso per caso che la soluzione offerta dall’ordinamento sia idonea a garantire il riconoscimento effettivo e tempestivo del legame di filiazione legalmente stabilito all’estero.
Ora, se è vero che “ciò che conta è che ci sia un meccanismo effettivo che permetta, secondo la valutazione delle circostanze del caso, il riconoscimento del legame tra figlio e madre intenzionale al più tardi dal momento in cui esso si è concretizzato” (par. 52), difficilmente si vede come una procedura d’adozione, che richiede perlomeno qualche mese, possa soddisfare tale esigenza. Ed infatti, per far salva - almeno in teoria - la possibilità di soddisfare le esigenze dell’art. 8 mediante l’adozione, la Corte sembra considerare tale termine come non perentorio, aggiungendo una condizione temporale ben più vaga quando afferma che “la procedura di adozione può rispondere a questa necessità ove […] le sue modalità di esecuzione permettano una decisione rapida, così da evitare che il minore sia mantenuto a lungo in una situazione di incertezza giuridica quanto al legame [di filiazione]” (par. 54).
Inoltre, con particolare riferimento all’ordinamento francese, la Corte osserva che, sebbene la quasi totalità delle domande di adozione da parte del coniuge del genitore biologico venga attualmente accettata, tale procedura è riservata alle coppie sposate ed è sottoposta ad alcune condizioni, come il consenso della portatrice, che non garantiscono in ogni caso il riconoscimento del legame di filiazione. La Corte demanda dunque ai giudici di valutare caso per caso se l’adozione possa essere sufficiente a garantire il rispetto dell’art. 8.
Sembra perciò evidente che, nelle ipotesi in cui l’adozione non sia consentita dall’ordinamento (con riferimento quindi alle coppie non sposate o, se pensiamo ad ordinamenti diversi dalla Francia, alle coppie unite da un istituto diverso dal matrimonio), i giudici dovranno imporre la trascrizione. Questa soluzione prospettata dalla Corte solleva peraltro un’altra questione cruciale, che non tratteremo in questa sede, che è quella della violazione del principio di uguaglianza tra figli che possano beneficiare della trascrizione integrale del proprio atto di nascita e figli che vedano riconosciuto il proprio rapporto col genitore non biologico unicamente tramite l’adozione, la quale non garantisce loro identiche garanzie.
La valutazione della conformità all’art. 8 CEDU si fa invece più complessa nell’ipotesi in cui l’adozione sia legalmente possibile, poiché i giudici dovranno allora valutare se l’interesse del minore è sufficientemente tutelato con riferimento alle modalità e ai tempi di attesa per la pronuncia definitiva della stessa. Ma quale termine può considerarsi ragionevolmente accettabile prima che un figlio possa legalmente considerare sua madre madre? Per quanto l’incertezza giuridica che lo porta a non avere una madre legale, a non poterne acquisire la nazionalità, a non vedere tutelato il suo rapporto di filiazione, può perdurare senza che l’interesse superiore del minore ne sia pregiudicato?  Il parere della Corte mantiene il riserbo sul punto. Ai giudici, caso per caso, l’ardua sentenza.
Senza voler prematuramente avanzare previsioni generali sui risvolti della nuova procedura introdotta dal Protocollo n. 16, questa prima applicazione consente di formulare alcune considerazioni sul suo utilizzo da parte dei diversi attori coinvolti.
Dalla prospettiva della giurisdizione richiedente, innanzitutto, questa prima richiesta di parere non sembra volta a sciogliere un reale dubbio interpretativo riguardante il caso di specie, ma piuttosto a ottenere un avallo al proprio orientamento giurisprudenziale, a sua volta ispirato alla giurisprudenza europea pregressa. La Cassazione francese, infatti, aveva già modificato la propria giurisprudenza a seguito della condanna pronunciata nei confronti della Francia nel caso Mennesson; essa pertanto, allo stato attuale della giurisprudenza e delle legislazioni europee - e considerato che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva ritenuto soddisfacenti le misure adottate dallo Stato francese e chiuso la procedura di controllo dell’esecuzione delle condanne nei suoi confronti -, avrebbe facilmente potuto ritenere che una soluzione conforme al proprio recente orientamento rispettasse gli obblighi convenzionali. Tuttavia la suprema corte francese mirava verosimilmente ad ottenere una dichiarazione di principio sul fatto che, in ogni caso, l’obbligo di trascrizione riguardasse unicamente il padre biologico.
Il rilievo del parere al di là del caso di specie e la portata oggettiva e generale della procedura sono d’altronde testimoniati dall’interesse manifestato da terze parti: sono infatti intervenuti nel procedimento, come consentito dall’art. 3 del Protocollo n. 16, i governi di tre Stati terzi nonché diversi centri di ricerca e organizzazioni non governative.
La motivazione della Corte EDU, dal canto suo, ha invece cercato di limitare, almeno formalmente, la portata oggettiva della propria pronuncia, rispondendo in maniera piuttosto vaga ai quesiti riguardanti la questione di principio evocata. Sebbene infatti la Corte sottolinei che “[l’]interesse [del parere consultivo] è altresì quello di fornire alle giurisdizioni nazionali delle indicazioni su delle questioni di principio […] applicabili in casi simili”, essa poi, come abbiamo sottolineato, costruisce la propria motivazione intorno al caso di specie. Alle “indicazioni su questioni di principio applicabili in casi simili”, invece, vengono dedicate soltanto tre righe (par. 47), che rispondono in maniera quantomeno insoddisfacente, poiché si limitano a chiarire che l’obbligo di riconoscimento del legame di filiazione sussiste a maggior ragione nei casi in cui il figlio sia stato concepito con ovociti della madre intenzionale, senza però chiarire se in tali casi le modalità di adempimento siano sottoposte allo stesso margine di apprezzamento o se invece l’esistenza di un legame biologico con entrambi i genitori intenzionali abbia per effetto una riduzione del margine e il conseguente obbligo di trascrizione integrale dell’atto di nascita.
In questa prima applicazione della procedura consultiva, dunque, la Corte sembra non volersi far imbrigliare dalla portata oggettiva, per quanto non vincolante, del proprio parere, in favore di un impiego maggiormente concreto che, conformemente agli obiettivi fissati dal Protocollo n. 16 e all’esigenza di celerità di una procedura pregiudiziale, la conduca a formulare risposte puntuali alle questioni circoscritte sollevate dai casi di specie e non a fornire chiarimenti generali sugli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione. Soltanto una pratica più consolidata, tuttavia, potrà dirci quale sarà il reale apporto di questo strumento nell’architettura delle relazioni tra giudice europeo e ordinamenti nazionali.


GPA e trascrizione degli atti di nascita:
La Cassazione francese richiede il primo parere consultivo alla Corte EDU

La saga giurisprudenziale francese sulla trascrizione degli atti di nascita dei figli nati all’estero mediante gestazione per altri (GPA) si arricchisce di un nuovo avvincente episodio che non mancherà di destare interesse, nell’osservatore italiano, non solo per la questione di merito – sulla quale si attende la pronuncia delle Sezioni Unite – ma anche per alcuni aspetti procedurali degni di nota nell’ottica del rapporto tra sistemi, all’indomani dell’entrata in vigore del Protocollo n° 16 alla CEDU (non ancora ratificato dall’Italia).
Con la decisione n° 638 del 5 ottobre 2018, la Cassazione francese si è infatti avvalsa per la prima volta della nuova procedura di richiesta di parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, prevista dal Protocollo n° 16, entrato in vigore il 1° agosto 2018 nei 10 Paesi che l’hanno ad oggi ratificato. E l’ha fatto, inoltre, nell’ambito di un’altra procedura recentemente introdotta nell’ordinamento francese, che consente il riesame di una decisione civile definitiva a seguito di condanna da parte della Corte di Strasburgo.
La vicenda che ha dato luogo al lungo feuilleton giudiziario, che va avanti da oltre 15 anni, prende vita dalla richiesta di trascrizione in Francia dell’atto di nascita di due gemelle nate negli Stati Uniti a seguito di una GPA nell’ambito del progetto genitoriale di una coppia di cittadini francesi, i coniugi X e Y, rispettivamente padre biologico e madre intenzionale delle neonate. L’atto di nascita, che indicava entrambi i coniugi quali genitori, era stato annullato per “contrarietà alla concezione francese dell’ordine pubblico internazionale” (da ultimo, Corte d’appello di Parigi, 18 marzo 2010 e rigetto del ricorso per cassazione, 6 aprile 2011). I coniugi avevano quindi adito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con una decisione del 26 giugno 2014 (Mennesson c. France), aveva condannato la Francia per violazione dell’articolo 8 in relazione al rispetto della vita privata delle due figlie nate da GPA, che include il diritto all’identità, al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla nazionalità.
A seguito della riforma del Codice dell’organizzazione giudiziaria francese ad opera della legge n° 2016-1547 del 18 novembre 2016 (e in particolare dell’emendamento definito “emendamento X” proprio con riferimento al procedimento in questione), i coniugi hanno potuto richiedere il riesame della decisione francese. La loro domanda è stata accolta dalla Corte del riesame delle decisioni civili, che ha quindi rinviato la questione all’Assemblea plenaria della Cassazione. Chiamata a decidere sulla legalità dell’annullamento della trascrizione, l’Assemblea plenaria ha ritenuto che, alla luce delle molteplici pronunce della Corte di Strasburgo degli ultimi anni, la questione non fosse di facile soluzione, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore non biologico, e ha quindi deciso di rivolgersi a Strasburgo.
In Francia, la GPA è vietata dalla cd. “legge bioetica”, n° 94-653 del 29 luglio 1994, la quale ha inserito nel codice civile le disposizioni che prevedono la nullità e la contrarietà all’ordine pubblico di qualunque convenzione avente ad oggetto una gestazione per conto di altri (art. 16-7 e 16-9 cod.civ). La trascrizione degli atti di nascita formati all’estero è disciplinara dall’art. 47 del codice civile, il quale dispone che un atto di stato civile redatto all’estero fa fede, salvo ove emerga “che tale atto è irregolare, falsificato o che i fatti ivi dichiarati non corrispondono alla realtà”.
Sulla base di questi riferimenti normativi la Cassazione ha in un primo momento considerato che la trascrizione degli atti di nascita di figli nati all’estero mediante GPA fosse contraria all’ordine pubblico internazionale (Cass. 1a sez. civile, 6 aprile 2011) e, in un secondo momento, che essa costituisse una frode alla legge che vieta la GPA (tra le altre, Cass, 1a sez. civ., 13 settembre 2013). Per quanto riguarda poi la possibilità di pervenire al riconoscimento della filiazione mediante adozione, la Cassazione ha mantenuto fino all’anno scorso la propria giurisprudenza, costante sin dagli anni 90, contraria all’adozione da parte del genitore intenzionale del figlio nato mediante GPA.
A seguito delle pronunce della Corte europea che avevano condannato la Francia per la mancata trascrizione dei figli nati all’estero da GPA, in particolare le sentenze Mennesson e Labassée del 26 giugno 2014, la Cassazione francese aveva parzialmente riformato la propria giurisprudenza: con due sentenze del 3 luglio 2015, aveva ritenuto che la conclusione di un contratto di GPA non ostasse di per sé alla trascrizione dell’atto di nascita estero (si ricordi anche la cd “circolare Taubira” del 25 gennaio 2013, con cui l’allora Guardasigilli raccomandava tale interpretazione ai fini dell’attribuzione di un certificato di nazionalità francese ai nati all’estero da GPA). Tuttavia, come rilevato dalla Corte di Strasburgo in un’ulteriore sentenza di condanna nei confronti della Francia, tale giurisprudenza non garantiva alcun riconoscimento del rapporto di filiazione (Corte EDU, Laborie c. Francia, 17 gennaio 2017).
In ossequio a tale giurisprudenza, la massima giurisdizione civile aveva quindi ulteriormente modificato la propria posizione con due decisioni del 5 luglio 2017, nelle quali aveva distinto la posizione del genitore biologico da quella del genitore intenzionale: ne risultava un obbligo di trascrizione parziale dell’atto con l’indicazione della filiazione nei confronti del padre biologico e una conferma invece della legittimità del rifiuto di trascrivere l’indicazione del genitore intenzionale. A quest’ultimo viene tuttavia aperta la via dell’adozione, in riforma della precedente giurisprudenza che faceva del ricorso alla GPA un ostacolo all’adozione del figlio del coniuge.
La posizione espressa dalla Cassazione nella più recente giurisprudenza si fonda, come da essa espressamente affermato, sull’interpretazione data, e condivisa dalla dottrina francese maggioritaria, alle sentenze della Corte di Strasburgo Labassée e Mennesson, che sembra confortata dalla sentenza della Grande Camera Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017. Da esse sembra infatti emergere con chiarezza che l’art. 8 della Convenzione imponga, in nome dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento del legame di filiazione col genitore biologico, mentre un tale obbligo non sembra sussistere nei confronti del genitore intenzionale che non abbia alcun legame biologico col figlio.
Ci si sarebbe pertanto potuti aspettare una soluzione al caso di specie in linea con questa giurisprudenza, e tuttavia la formazione plenaria della Cassazione ha preferito dichiararsi incerta circa l’interpretazione convenzionalmente conforme e avvalersi della nuova procedura consultiva. I giudici del Quai de l’horloge hanno quindi richiesto alla formazione consultiva di Strasburgo se lo Stato eccede il proprio margine di apprezzamento “rifiutando di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un figlio nato all’estero a seguito di una GPA nella parte in cui esso indica come madre legale la madre intenzionale, laddove la trascrizione è invece ammessa nella parte in cui indica quale padre il padre biologico”. Hanno altresì richiesto se il fatto che il figlio sia stato concepito o meno con dei gameti della “madre intenzionale” debba essere preso in conto e, ove il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale fosse da considerarsi un obbligo convenzionale, se lo Stato possa non incorrere nella violazione dell’art. 8 della Convenzione consentendo l’adozione da parte della madre intenzionale.
Alla luce della giurisprudenza richiamata, ci sembra che lo scopo di queste interrogazioni non sia tanto - o almeno non solo - quello di evitare, grazie ad una consultazione preventiva, un’ennesima condanna dello Stato francese a posteriori, ma soprattutto quello di dare consacrazione all’interepretazione interna, adeguatamente indicata nella decisione di rinvio, facendo appello alla funzione nomofilattica dei giudici europei.
L’impiego di questa procedura costituisce dunque un esempio di dialogo costruttivo, conformemente all’ambizione e all’aspirazione originaria dello strumento previsto dal Protocollo n° 16 che - giova ricordarlo – prevede l’emanazione di un parere che non è vincolante né per la giurisdizione richiedente né per la stessa Corte di Strasburgo, la quale potrà, se adita successivamente sulla medesima questione in sede contenziosa, discostarsi dal parere reso.
Si nota dunque come, attraverso tale strumento, le corti nazionali non si pongano in una posizione subordinata rispetto alla giurisdizione di Strasburgo, ma possano invece innescare una dinamica orizzontale di collaborazione - o di confronto-scontro secondo i casi - ai fini dell’interpretazione degli obblighi convenzionali. Attraverso tale procedura, che istituzionalizza una forma di dialogo diretto, i giudici nazionali possono infatti partecipare attivamente e formalmente al processo di determinazione degli standard europei di protezione dei diritti garantiti dalla CEDU, invece che esserne i meri recettori.
Come nel caso di specie, il ricorso a questo strumento potrà quindi essere cruciale nella determinazione del margine di apprezzamento statale, affinché questo sia percepito meno come un limite imposto “dall’alto” che come il risultato di una sintesi tra argomentazioni giudiziarie. Ma la dinamica dialogica, nei rapporti tra giurisidizioni come nella vita, non implica solo scambi pacifici, bensì anche conflittuali. Si pensi in particolare alle ipotesi in cui la Corte europea, che fa dell’interpretazione evolutiva uno dei capisaldi della propria giurisprudenza, ritenga opportuno discostarsi dai propri precedenti, nel parere consultivo, per ridurre il margine di apprezzamento precedentemente accordato. Essa potrebbe così scatenare una certa resistenza da parte della giurisdizione nazionale, la quale potrebbe legittimamente scegliere di non adeguarsi al parere, con motivazione adeguata, e preferire incorrere nel rischio di una successiva condanna pur di innescare un dialogo, seppur conflittuale, sulla determinazione del margine.
Se le manifestazioni di disaccordo e i colpi di forza non possono certo essere esclusi, lo strumento ha comunque tutte le potenzialità per favorire una certa armonizzazione oltre che, secondo quella che è l’ambizione principale del Protocollo, una riduzione dei contenziosi. L’epilogo della vicenda francese delle trascrizioni dei nati da GPA, che finora ha dato luogo a un ripetuto botta e risposta tra il Palais des droits de l’homme e il Quai de l’horloge in sede contenziosa, sarà un ottimo banco di prova in tal senso.


Sull’intervento dell’Unione delle Camere Penali nel giudizio di costituzionalità delle norme in materia di astensione degli avvocati: Verso un timido allargamento del contraddittorio agli enti esponenziali?

Il 10 luglio 2018 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme in materia di astensione dalle udienze da parte dei difensori di persone in stato di custodia cautelare o di detenzione (sent. n. 180/2018).
Nel merito, la Corte ha ritenuto incostituzionale, per violazione dell’art. 13 Cost., la disposizione dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146 nella parte in cui, rinviando al codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, consente l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, con ovvie ripercussioni sulla durata di quest’ultima, stabilendo che il procedimento prosegua malgrado l’astensione dell’avvocato solo ove l’imputato lo richieda espressamente. Limitando la questione alla fattispecie riguardante gli imputati sottoposti a custodia cautelare - e non i detenuti -, la Corte ha sanzionato tale disciplina nella misura in cui essa istituisce una regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà, in violazione della riserva di legge stabiolita dall’art. 13 Cost.
Al di là dell’importanza della decisione nel merito, la sentenza è altresì degna di nota per un aspetto procedurale. La Corte costituzionale ha infatti ritenuto ammissibile l’intervento dell’Unione delle Camere Penali Italiane (di seguito UCPI). Se si tratta di una decisione di ammissibilità inedita per l’UCPI (come dalla stessa affermato in un comunicato), essa costituisce altresì una grande novità nella giurisprudenza costituzionale in materia di intervento, tradizionalmente marcata da una tendenza alla chiusura ai terzi.
Per quanto la Corte citi i propri precedenti e si avvalga della tecnica del distinguishing per limitare la portata della decisione e iscriverla così nella continuità della propria giurisprudenza, la decisione segna indubbiamente un importante passo in avanti in materia di ammissione del terzo, e in particolare del terzo portatore degli interessi di una categoria.
Per comprendere appieno la portata della decisione di ammissibilità di quest’intervento, è utile richiamare brevemente la giurisprudenza in materia, che ha visto un’evoluzione articolatasi essenzialemente in tre fasi.
Nel silenzio dei testi normativi, che non avevano previsto alcunché sull’intervento dei terzi, la prima fase, dal 1956 ai primi anni Novanta, è stata caratterizzata da un approccio di chiusura (fatta salva un’eccezione, nel 1982, definita tale dalla Corte stessa), fondato sul principio della corrispondenza formale tra parti del giudizio a quo e parti del giudizio ad quem.
Gli anni Novanta sono stati invece segnati da una fase che potremmo definire sperimentale, nella quale la Corte ha iniziato ad ammettere una serie di eccezioni al principio della non ammissibilità degli interventi, in favore sia di terzi persone fisiche che di organizzazioni sindacali, professionali o religiose. Prima di tutto sono stati ammessi gli interventi di persone fisiche che avrebbero subito direttamente gli effetti della decisione nel giudizio a quo, e la cui ammissione era dunque fondata sul diritto di difesa, in nome del quale “non [si può] ammettere, alla luce dell’art. 24 della Costituzione, che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive senza che vi sia la possibilità giuridica per i titolari delle medesime posizioni di <difenderle> come parti nel processo stesso” (n. 314/1992). Le fattispecie di ammissibilità degli interventi ricondotte all’esigenza di tutela del diritto di difesa sono state poi enumerate nella motivazione della decisione n. 315/1992, che ha stilato il catalogo delle tre eccezioni fino ad allora riconosciute. Negli anni successivi, tuttavia, la Corte ha esteso il catalogo delle eccezioni al di là delle ipotesi sistemizzate in tale decisione, ritenendo ammissibili degli interventi da parte di enti esponenziali rappresentativi degli interessi di una categoria. In questa fase, mentre gli interventi da parte di associazioni di difesa di diritti non sono mai stati ritenuti ammissibili, la Corte si è invece mostrata più sensibile alle domande di intervento da parte di ordini professionali (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, sent. n. 456 del 1993; Consiglio nazionale forense sent. 171/1996), associazioni di categoria (SIAE, sent. n. 108/1995) o enti rappresentativi degli interessi dei propri membri (Unione delle comunità ebraiche italiane, UCEI, sent. n. 235/1997).
A seguito di questa fase di apertura, caratterizzata da un approccio casuistico e dalla totale assenza di criteri predefiniti di ammissibilità degli interventi, la Corte è sembrata tornare sui propri passi, nel corso degli anni Duemila, e ciò malgrado la codificazione degli interventi del terzo nelle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale in occasione della riforma del 2004. In questa nuova fase di chiusura, le sole eccezioni alla regola dell’inammissibilità degli interventi sono state fondate sul diritto di difesa, essenzialmente in favore di persone (fisiche o giuridiche) la cui sfera giuridica potesse essere direttamente lesa dagli esiti della pronuncia sul giudizio a quo. Come ricordato dalla Corte nella sentenza in commento, “la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo” ma, prosegue la Corte, “a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – quando l’intervento è spiegato da soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura”.
In applicazione di questo adagio, la Corte ha sistematicamente respinto gli interventi da parte di enti esponenziali che chiedessero di prendere parte al giudizio in nome del proprio scopo statutario, volto alla difesa degli interessi coinvolti nel giudizio. Il ventaglio dei gruppi i cui interventi sono stati dichiarati inammissibili va dagli ordini professionali, ai sindacati e agli altri gruppi di categoria, alle associazioni per i diritti civili e ad altri gruppi in difesa dei diritti dei propri membri. La loro funzione di rappresentazione dei diritti di una categoria e l’indicazione della difesa di tali diritti quale scopo statutario non sono ritenuti idonei a fondare l’interesse a intervenire: per la Corte, tali formazioni sociali “non sono titolari di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia” nella misura in cui “il rapporto sostanziale dedotto in causa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti privati parti del giudizio a quo” (Corte cost. n. 76/2016). Laddove il terzo non sia dunque suscettibile di subire direttamente gli effetti della decisione sulla propria situazione giuridica, la circostanza che esso sia un ente esponenziale che indichi la difesa giudiziaria dei diritti di una determinata categoria quale scopo della propria esistenza è considerata un mero interesse fattuale, non giuridicamente qualificato ai fini della partecipazione al giudizio costituzionale. Per quanto riguarda i gruppi portatori degli interessi di una categoria professionale, le uniche eccezioni nelle quali sono stati ammessi sono quelle in cui gli effetti della decisione di costituzionalità sul giudizio a quo avrebbero prodotto degli effetti diretti sulla sfera giuridica degli stessi, o perché l’eventuale annullamento della norma censurata avrebbe rimesso in discussione l’esistenza stessa dell’ente (Corte cost. ord. n. 200/2015) o per l’unitarietà della situazione sostanziale dell’ente interveniente rispetto all’ente parte del giudizio e pertanto ammesso alla medesima procedura (Corte cost. sent. n. 178/2015).
È alla luce di questa giurisprudenza ormai consolidata che la decisione in commento va inquadrata.
Nel caso di specie, la Corte fonda di fatti su di essa l’ammissibilità dell’intervento, insistendo sul rispetto dei propri precedenti e limitando così la portata innovatrice della pronuncia. Osserva infatti la Corte che “la posizione dell’interveniente, pur estranea al giudizio a quo, è suscettibile di restare direttamente incisa dall’esito del giudizio della Corte” poiché “l’interveniente è una delle associazioni che hanno sottoposto alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati” (par. 4 cons.dir). Seppur ermetica, la motivazione dell’ammissione dell’intervento sembra però celare diversi criteri di ammissibilità che meritano di essere messi in luce.
Ciò che qualifica l’interesse ad intervenire del terzo, e differenzia dunque la sua posizione rispetto a quella di un qualunque ente esponenziale rappresentativo della categoria dei destinatari della norma oggetto, è che la UCPI è coautrice delle norme del codice di autoregolamentazione a cui rinvia la disposizione censurata. Non è tuttavia ben chiaro in che modo la UCPI, in quanto associazione coautrice di tali norme, subirebbe “direttamente e irrimediabilmente” gli effetti della sentenza, dal momento che il codice di autoregolamentazione, una volta ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia, costituisce una vera e propria normativa subprimaria, alla quale sono dunque sottomessi allo stesso titolo tutti i destinatari della legislazione vigente che ad essa rinvia. Il criterio di ammissibilità qui formulato dalla Corte - la partecipazione ad un procedimento finalizzato all’adozione di “una vera e propria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali” (par. 17) - sembra pertanto costituire un criterio autonomo e alternativo rispetto a quello riservato ai titolari di “un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia”. E si noterà peraltro che tale criterio, così formulato, potrebbe allora trovare applicazione, come suggerito in passato da una parte della dottrina, anche nelle ipotesi in cui gli enti esponenziali intervenienti siano stati coinvolti nella procedura di adozione di un atto normativo, pur senza esserne formalmente gli autori.
La Corte prosegue poi con un’affermazione che sembra celare un ulteriore criterio di ammissibilità, fondato sulla funzione di rappresentanza del terzo. Si legge infatti che “un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul giudizio a quo produrrebbe necessariamente un’immediata incidenza sulla posizione soggettiva dell’UCPI, ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati penalisti”. Per quanto nessuna congiunzione leghi in un rapporto di causalità il fatto che la UCPI sia l’ente rappresentativo dei penalisti alla conseguenza che essa subirà necessariamente gli effetti della pronuncia, questa frase suona come un obiter che attribuisce alla funzione di rappresentanza una certa considerazione sul piano della qualificazione della posizione del terzo. Non sarebbe peraltro la prima volta: nella fase di sperimentazione nel corso degli anni Novanta, infatti, la Corte aveva già avuto modo di considerare la funzione di rappresentanza assolta dagli ordini professionali quale elemento da prendere in considerazione nella valutazione dell’ammissibilità dei loro interventi (Corte cost. sent n. 171/1996).
Ci sembra dunque che, sebbene la decisione sull’ammissibilità dell’intervento sia espressamente fondata sulla giurisprudenza consolidata, qualche elemento di novità si possa rinvenire nel criterio della partecipazione al procedimento di adozione di una norma e nella funzione di rappresentanza assolta dal terzo. Elementi che, certo, dovranno trovare conferma in pronunce future e che, se così fosse, potrebbero denotare un timido allargamento delle porte del contraddittorio nel giudizio costituzionale in favore degli enti esponenziali.
Un tale approccio, che va senz’altro accolto con favore nell’ottica di un giudizio costituzionale più aperto e trasparente, potrebbe peraltro non essere circoscritto alle sole associazioni di categoria, ma essere invece esteso a diversi enti esponenziali che, con una certa regolarità, chiedono di intervenire nei giudizi concernenti gli interessi di cui sono portatori.
In un recente studio abbiamo potuto mettere in evidenza l’importanza quantitativa di tali interventi. Malgrado il consolidato approccio di chiusura nei confronti degli interventi da parte di associazioni, sindacati e ordini professionali, questi continuano a bussare alle porte della Consulta ogniqualvolta una questione di costituzionalità è suscettibile di incidere sui diritti e gli interessi di cui sono portatori ben oltre i confini del solo giudizio a quo. Se tali tipi di intervento rappresentavano una minoranza rispetto al totale delle istanze di intervento ricevute dalla Corte fino al 2008, nell’ultimo decennio essi costituiscono il 65% degli interventi depositati, complice la diffusione di tecniche di strategic litigation e il crescente interesse degli enti esponenziali per la promozione dei diritti nell’ambito giudiziario. Ciò siginifica che gli enti esponenziali sono già in qualche modo attori del giudizio costituzionale, a dispetto della loro formale esclusione, e ciò con un evidente vulnus alla trasparenza della procedura, che vede le loro memorie di intervento “entrare” momentaneamente nel giudizio e nella disponibilità dei giudici costituzionali, fino alla dichiarazione di inammissibilità, salvo poi non poter essere formalmente versate agli atti ove dichiarate inammissibili.
Dopo l’occasione persa del 2008, quando la Corte non ha ritenuto di dover modificare la disciplina dell’intervento all’interno della nuova versione delle Norme integrative, è forse venuto il momento di affrontare la questione, quanto meno in via giurisprudenziale. Questa pronuncia potrebbe allora costituire un primo passo in tal senso.


Principio di fraternità e aiuto umanitario ai migranti irregolari: dal Conseil constitutionnel un’importante pronuncia sul “reato di solidarietà”

La decisione del Conseil constitutionnel n° 2018-717/718 QPC del 6 luglio 2018 era delle più attese e, alla luce della sua portata, possiamo dire che le aspettative erano ben riposte: sebbene le richieste dei ricorrenti siano state solo parzialmente soddisfatte, il giudice delle leggi francese ci offre una pronuncia ricca di spunti, che va a incidere sensibilmente sull’impianto della legislazione in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare in un momento in cui la questione migratoria è al centro del dibattito in tutti i paesi europei.
Riconoscendo al terzo elemento del motto della Repubblica francese - Liberté, égalité, fraternité - pieno rango costituzionale, il Conseil constitutionnel ha parzialmente censurato le disposizioni in materia di “aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno irregolari di uno straniero in Francia” (art. 622-1 del Codice dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo, di seguito CESEDA, secondo l’acronimo francese), affermando che un atto umanitario nei confronti dello straniero irregolarmente presente nel territorio non può costituire reato.
Le questioni prioritarie di costituzionalità (QPC) oggetto della decisione erano sorte nell’ambito di due procedimenti penali che avevavo suscitato un grande clamore mediatico e un’importante mobilitazione da parte della società civile. In uno di essi, in particolare, era stato condannato a quattro mesi di reclusione Cédric Herrou, l’agricoltore che, in qualità di portavoce di diverse associazioni umanitarie operanti nella Valle della Roya, aveva dato ospitalità ad alcuni stranieri in situazione irregolare, diventando così il simbolo del sostegno ai migranti e della lotta contro la politica migratoria alla frontiera franco-italiana. La sua condanna aveva dunque riacceso il dibattito sul cosiddetto “reato di solidarietà”.
Oggetto delle QPC erano infatti gli articoli L. 622-1 e L. 622-4 del CESEDA che configurano rispettivamente il reato di aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno irregolari di uno straniero in Francia e le ipotesi di esclusione dello stesso.
L’articolo L. 622-1 prevede una sanzione di cinque anni di detenzione e di 30 000 euro di multa per chiunque si renda colpevole di favoreggiamento dell’ingresso, della circolazione o del soggiorno di uno straniero in situazione irregolare, al di fuori delle ipotesi scriminanti previste all’articolo L. 622-4. Quest’ultimo enumera infatti le fattispecie di esclusione del reato, applicabili però ai soli atti di aiuto al soggiorno e non all’ingresso o alla circolazione. La sussistenza del reato è innanzitutto esclusa quando l’aiuto al soggiorno è offerto da un familiare (punti n° 1 e n° 2 dell’articolo). In caso invece di aiuto offerto da una persona fisica o giuridica diversa dai familiari, tale atto non costituisce reato solo se “non ha dato luogo ad alcun corrispettivo diretto o indiretto” e purché si tratti “di consulenze giuridiche o di prestazioni di ristoro, alloggio o di cure mediche destinate a garantire allo straniero delle condizioni di vita dignitose e decenti, o di qualunque altro aiuto atto a preservare la dignità o l’integrità fisica dello stesso” (punto n° 3).
Quest’ultima ipotesi di esclusione della fattispecie penale era stata inserita nel 2003 (legge n° 1119 del 26 novembre 2003) per dare attuazione alla cosiddetta “clausola umanitaria” prevista dalla direttiva 2002/90/CE, che lasciava agli Stati la possibilità di non perseguire gli atti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare compiuti a scopo umanitario. Diversi giuristi e varie associazioni e istituzioni avevano allora osservato che la clausola umanitaria codificata all’art. L. 622-4 costituiva un’attuazione a minima della facoltà accordata agli Stati dalla direttiva europea, in quanto, da un lato, limitava la sua applicazione al solo aiuto all’alloggio e, dall’altra, subordinava l’applicabilità della clausola all’assenza di “corrispettivi indiretti” e alla necessità di garantire la “dignità” dello straniero. Dalla vaghezza di queste due nozioni era derivata una giurisprudenza oscillante, che aveva spesso portato all’incriminazione di associazioni senza scopo di lucro per atti cui era stato nondimeno riconosciuto un corrispettivo indiretto o per l’assenza della necessarietà dell’atto al fine di preservare la dignità dell’immigrato (si veda il dossier a cura dell’associazione GISTI, Groupe d’information et de soutien des immigré·e·s: https://www.gisti.org/spip.php?article1399).
Le QPC rinviate ai giudici costituzionali francesi traducono dunque in termini giudiziari le critiche da tempo mosse dal mondo dell’associazionismo umanitario nei confronti di un dettato legislativo che avrebbe per effetto di confondere aiuti umanitari e traffico di migranti. Al fianco dei due principali ricorrenti, Cédric Herrou e Pierre-Alain Manonni, anche lui militante in un’associazione umanitaria, sono di fatti intervenute dinanzi al giudice costituzionale dodici associazioni di sostegno ai migranti, che hanno così portato all’interno del procedimento incidentale gli argomenti di circa quattrocento associazioni signatarie di un manifesto per l’abolizione del reato di aiuto agli immigrati in situazione irregolare (http://www.delinquantssolidaires.org/le-manifeste).
I ricorrenti e le numerose associazioni intervenute sostenevano che le disposizioni citate fossero contrarie ai principi di fraternità e di uguaglianza, nella misura in cui, innanzitutto, non includevano tra le ipotesi scriminanti “qualsiasi atto puramente umanitario che non dia luogo ad alcun corrispettivo diretto o indiretto” e, inoltre, limitavano l’applicabilità delle scriminanti alla sola fattispecie dell’aiuto al soggiorno, escludendo quindi qualunque esenzione per i reati di aiuto all’ingresso e alla circolazione.
La risposta del Conseil può essere riassunta in quattro punti principali.
1) Consacrazione del principio costituzionale di fraternità. Innanzitutto, i Sages riconoscono per la prima volta valore costituzionale al principio di fraternità, incluso nel motto della Repubblica iscritto all’articolo 2 della Costituzione e richiamato altresì dal Preambolo e dall’art. 72-3, che fanno riferimento all’ “ideale comune di libertà, d’uguaglianza e di fraternità”. Il principio di fraternità, secondo i giudici costituzionali, ricomprende “la libertà di aiutare l’altro, a scopi umanitari, a prescindere dalla regolarità del suo soggiorno sul territorio nazionale” (par. 7 e 8). Tuttavia, questa libertà va conciliata con l’obiettivo di ordine pubblico di lotta contro l’immigrazione irregolare, che costituisce un obiettivo di valore constituzionale (par. 9 e 10). Tale premessa consente al Conseil di passare quindi al vaglio la conciliazione operata dal legislatore per valutarne la conformità a Costituzione.
2) Incostituzionalità parziale, nella parte in cui non si estendono all’aiuto alla circolazione le scriminanti previste per l’aiuto al soggiorno. I giudici costituzionali rilevano che il combinato disposto degli articoli precitati non prevede alcuna scriminante per l’aiuto all’ingresso e alla circolazione. Ora, se la limitazione della libertà di aiutare il prossimo in nome della lotta all’immigrazione irregolare appare giusitificata con riferimento agli atti di favoreggiamento dell’ingresso irregolare di stranieri, essa appare invece eccessiva con riferimento all’aiuto alla circolazione dello straniero già presente sul territorio, in quanto tale atto “non ha necessariamente come conseguenza, alla differenza dell’aiuto all’ingresso, di far nascere una situazione illecita” (par. 12). Pertanto, se il reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare, ancorché ispirato a fini umanitari, deve ritenersi costituzionalmente legittimo, esso è invece inconstituzionale nella parte in cui non estende all’aiuto alla circolazione l’applicazione della clausola umanitaria prevista per l’aiuto al soggiono (par. 13).
3) Riserva d’interpretazione volta a includere tra le ipotesi scriminanti “ogni atto a scopo umanitario”. Inoltre, i giudici costituzionali accolgono parzialmente anche l’altro motivo di censura addotto dai ricorrenti, considerando che la formulazione della clausola umanitaria non garantisce in termini chiari e non equivoci il rispetto della libertà di aiutare l’altro, che è da considerarsi una componente del principio di fraternità.
Piuttosto che procedere ad una dichiarazione d’incostituzionalità, tuttavia, i giudici formulano qui una “riserva di interpretazione”, ovvero, attraverso quella che potremmo definire una pronuncia manipolativa di rigetto, propongono l’interpretazione constituzionalmente conforme della norma contestata. Si legge infatti, al paragrafo 14 della decisione, che la lista delle ipotesi di esclusione della fattispecie delittuosa di cui all’art. L. 622-4, per essere conforme al principio di fraternità, dovrà essere interpretata in maniera tale da includere “ogni altro atto di aiuto apportato ad uno scopo umanitario”. Nel rispetto di questa riserva di interpretazione, spetterà ora ai giudici - e, se lo riterrà opportuno, al legislatore in sede di modifica delle disposizioni in vigore - determinare quali atti vadano qualificati come aiuti a scopo umanitario.
4) Effetto differito della dichiarazione di inconstituzionalità e riserva interpretativa transitoria. La dichiarazione d’incostituzionalità delle disposizioni che limitano le scriminanti all’aiuto al soggiorno non ha però effetto immediato. Il Conseil constitutionnel ha preferito differire l’abrogazione della parte della disposizione ritenuta inconstituzionale al 1° dicembre 2018, avvalendosi della facoltà di modulazione degli effetti temporali delle proprie decisioni accordatagli dall’articolo 62 della Costituzione. Per mettere fine all’incostituzionalità con effetto immediato, i giudici costituzionali avrebbero dovuto spingersi oltre il loro ruolo di legislatore negativo, formulando una riserva interpretativa additiva che aggiungesse al dettato legislativo l’applicabilità delle scriminanti con riferimento agli atti di aiuto alla circolazione degli stranieri irregolari. Tuttavia, una tale tecnica decisoria non è propria al giudice delle leggi francese, che è solito adottare un approccio di grande deferenza nei confronti della discrezionalità del legislatore e fa dunque ricorso alle riserve additive solo eccezionalmente e con portata meramente transitoria (ed è questo il caso, si vedrà, anche in questa occasione). I Sages hanno così preferito limitarsi a dichiarare l’incostituzionalità dei termini “al soggiorno irregolare” iscritti all’art. 622-4 che enumera le ipotesi scriminanti, con la conseguenza che tale dichiarazione di incostituzionalità, senza un intervento da parte del legislatore, porterebbe ad estendere l’applicazione delle scriminanti a tutti gli atti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che si tratti dell’ingresso, della circolazione o del soggiorno. Spetta dunque al legislatore, entro il 1° dicembre 2018, riscrivere la disposizione secondo le indicazioni impartitegli da giudice costituzionale (par. 23).
Tuttavia, al fine di conciliare il rispetto nei confronti della discrezionalità del legislatore con l’esigenza di far cessare immediatamente un’incostituzionalità rilevata nell’applicazione della legge penale, i Sages formulano una riserva di interpretazione transitoria, imponendo ai giudici di applicare le ipotesi di esclusione del reato anche agli atti di aiuto alla circolazione “accessoria al soggiorno”, ovvero quando lo straniero è già presente nel territorio (par. 24).
Alla luce di questa riserva transitoria, il differimento degli effetti si riduce ad una questione di forma che riguarda i rapporti tra giudice delle leggi e legislatore, mentre le conseguenze giudiziarie della pronuncia sono immediate e chiare. Il reato di solidarietà continua ad esistere solo con riferimento all’aiuto all’ingresso nel territorio, mentre ogni atto di aiuto all’alloggio o alla circolazione dello straniero irregolare compiuto a scopi umanitari non può più essere penalmente perseguito. E ciò in nome di un principio di fraternità che cessa di essere solo un motto, per assumere il rango di un vero e proprio principio costituzionale di cui il legislatore deve tenere conto non solo nei rapporti fra cittadini, ma anche fra cittadini e stranieri. Per il Conseil constitutionnel dunque “fra i quattro mari, tutti gli uomini sono fratelli”, come recita un bel proverbio vietnamita, e da ciò deriva il diritto di ognuno di comportarsi fraternamente con un altro essere umano senza che la legge lo sanzioni per questo. Così formulato, d’altronde, tale principio non sembra certo essere esclusivo al blocco di costituzionalità francese e estraneo alla tradizione del costituzionalismo europeo. Le riflessioni sulle politiche europee in materia di regolazione dell’immigrazione dovrebbero forse ripartire da qui.