Come (Non) Rendere Frontex Responsabile: Il Caso WS e Altri v Frontex (T-600/21)

Introduzione
Il ruolo di Frontex nella gestione integrata delle frontiere esterne dell’Unione Europea (UE) è aumentato considerevolmente nel tempo. L’Agenzia oggi dispone di un corpo permanente dispiegato ai confini esterni dell’Unione, dove autorità nazionali ed europee cooperano in operazioni dalla natura sempre più composita.
Tuttavia, all’aumento delle competenze non è corrisposto un aumento di controllo giurisdizionale sull’Agenzia. Diverse iniziative istituzionali hanno rivelato sistematiche criticità sull’operato di Frontex, in primis le investigazioni dell’Ombudsman Europeo e dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode, senza essere però accompagnate da una corrispondente giurisprudenza della Corte di Giustizia. La nota difficoltà di esercitare un controllo giurisdizionale sulle Agenzie UE di fronte alle corti nazionali ed europee rende infatti difficile sottoporre Frontex ad un adeguato controllo giurisdizionale. Le procedure intentate in passato, fra cui richieste di accesso ai documenti e ricorsi per carenza, sono sempre state respinte dalla Corte di Giustizia dell’UE.
Il 6 settembre 2023, il Tribunale dell’UE si è espresso per la prima volta su una richiesta di risarcimento danni per responsabilità extra-contrattuale di Frontex, affrontando una questione di diritto sostanziale correlata agli obblighi, vertenti in capo a Frontex stessa, di tutela dei diritti fondamentali. La procedura prevista dall’articolo 340 TFEU era considerata da tempo come la più praticabile forma di rimedio per violazioni dei diritti fondamentali ad opera di Agenzie UE.
Il caso WS e altri v Frontex però non si discosta dalle pronunce precedenti del Tribunale, in quanto la richiesta è stata giudicata inammissibile. Questo post descrive e commenta criticamente il caso, ulteriore occasione persa dalla Corte di Giustizia per colmare il vuoto giurisdizionale che impedisce un opportuno riconoscimento delle responsabilità di Frontex nello svolgimento delle sue funzioni.


Il Caso WS e Altri v Frontex: i Fatti
Il caso T-600/21 (WS e altri v Frontex) riguarda una richiesta di risarcimento danni contro Frontex presentata da un gruppo di rifugiati siriani. I rifugiati, arrivati sull’isola di Milos nell’ottobre 2016, furono rimpatriati in Turchia con un’operazione congiunta di Frontex e Grecia, pur avendo manifestato la volontà di fare richiesta d’asilo. In Turchia, i rifugiati ottennero un permesso di protezione temporanea, decidendo però di spostarsi poco dopo in Iraq, motivati dal timore che la Turchia potesse rimpatriarli in Siria.
Nel gennaio 2017 i rifugiati presentarono un reclamo al responsabile dei diritti fondamentali di Frontex (‘Fundamental Rights Officer’ – ‘FRO’) per il rimpatrio in Turchia, da loro giudicato illegale. La procedura richiese un secondo reclamo e quasi quattro anni per arrivare a conclusione, con scarsi risultati: da una parte, la polizia greca archiviò senza conseguenze un’investigazione interna i cui risultati non furono condivisi né con il FRO né coi ricorrenti. Dall’altra, il FRO concluse il reclamo nell’ottobre 2020 senza analizzare il ruolo di Frontex nell’operazione di rimpatrio, valutandone la condotta come generalmente conforme ai suoi obblighi.
I ricorrenti si rivolgevano quindi al Tribunale dell’UE con una richiesta di risarcimento in materia di responsabilità extracontrattuale secondo l’articolo 340 TFUE. Frontex era accusata di aver violato diversi diritti fondamentali dei ricorrenti ed il principio di non respingimento, non rispettando i suoi obblighi contenuti nel Regolamento 2016/1624/UE, nella Carta dei Diritti Fondamentali, nonché nelle Procedure Operative Standard e nel Codice di Condotta sulle operazioni di rimpatrio. I ricorrenti chiedevano un risarcimento per danni sia materiali, quali il costo del viaggio verso la Grecia e le spese sostenute una volta rimpatriati in Turchia ed in seguito in Iraq, che non materiali, in particolare la sensazione di angoscia e paura durante l’operazione di rimpatrio.


La Sentenza del Tribunale dell’UE
L’organo competente in prima istanza per i ricorsi presentati da persone fisiche, come nel caso di specie, è il Tribunale: contro le decisioni di questo è possibile proporre appello avanti la Corte di Giustizia.
Nella sentenza, il Tribunale ricorda le tre condizioni cumulative necessarie per verificare la responsabilità extracontrattuale di un’istituzione UE stabilite da tempo nella sua giurisprudenza: la condotta deve essere illecita, il danno effettivo e deve esserci un collegamento causale fra la condotta illecita ed il danno subito (paragrafo 52).
Sottolineando la natura cumulativa delle condizioni, il Tribunale non analizza l’eventuale illeceità della condotta di Frontex, ma si focalizza sull’ultima condizione, cioè sulla consequenzialità tra il danno dichiarato dei ricorrenti e le azioni dell’Agenzia (paragrafo 56). Il Tribunale ritiene che i ricorrenti abbiano fatto una “assunzione incorretta” nel ritenere che in mancanza di Frontex non sarebbero stati rimpatriati in Turchia (paragrafo 62). I giudici ritengono il ruolo di Frontex non determinante bensì ancillare, limitandosi a fornire supporto tecnico ed operativo agli Stati Membri, i quali mantengono piena sovranità nel merito delle decisioni di ritorno (paragrafo 64-65). Di conseguenza, non è possibile stabilire il collegamento diretto tra la condotta di Frontex e i danni subiti dai ricorrenti (paragrafo 66). Per rafforzare il ragionamento il Tribunale specifica che la condotta di Frontex non si qualifica come conditio sine qua non per l’insorgere del danno, in quanto questo è il risultato delle scelte fatte dai ricorrenti, in primis quella di immigrare irregolarmente in Grecia (paragrafi 67-68).
Venendo a mancare una delle tre condizioni cumulative per la responsabilità extra-contrattuale di Frontex, rimangono assorbiti gli altri profili e la richiesta di danni viene quindi respinta nella sua interezza (paragrafo 72).


Commento alla Sentenza
La sentenza risolve sbrigativamente una questione molto complessa, quale il ruolo di Frontex in un contesto di gestione europea integrata delle frontiere, dove l’Agenzia e le autorità nazionali hanno responsabilità condivise (articolo 5, Regolamento 2016/1624/EU).
Il caso riguarda tre conseguenti livelli di azione, ben individuati da Joyce De Coninck: la decisione di non analizzare le domande di asilo, la decisione di ritorno, e l’esecuzione di tale decisione. Come si evince nei paragrafi 6 e 15 della sentenza, e dall’Expert Opinion resa dal team legale dei ricorrenti, nonché come evidenziato da numerosi commenti al caso, i ricorrenti erano interessati a stabilire la responsabilità di Frontex nell’ambito dell’operazione di ritorno effettuata congiuntamente alla Grecia, e le possibili violazioni di diritti fondamentali durante il suo svolgimento. Tuttavia, il Tribunale limita arbitrariamente la sua analisi alle prime due azioni, di chiara competenza esclusiva della Grecia.
Appare quindi necessario analizzare il livello d’azione non toccato dal Tribunale, cioè l’esecuzione dell’operazione di rimpatrio. Stabilire chi sia responsabile e per quale azione durante i rimpatri condivisi è un’impresa notoriamente difficile, data la poca trasparenza delle operazioni dove i piani di intervento dei singoli attori sono intrecciati. Tuttavia, c’è un ambito in cui il ruolo di Frontex ha una rilevanza tale da creare un collegamento diretto tra la sua condotta ed il danno subito dai ricorrenti: il ruolo di coordinamento, nel caso di specie rimasto inadempiuto.
Frontex infatti deve assicurare, assieme allo Stato Membro responsabile, “il rispetto dei diritti fondamentali” e del “principio di non respingimento” durante tutte le operazioni condivise (art. 28(3) Regolamento 2016/1624/EU). La difesa di Frontex in merito, cui il Tribunale aderisce, è che il suo ruolo sia meramente di supporto e quindi si limiti a eseguire gli ordini dell’autorità nazionale coinvolta. Tuttavia, come è stato osservato da Melanie Fink, il rispetto dei diritti fondamentali prevede per Frontex non solo un obbligo negativo, ovvero di astenersi dal violarli, ma anche positivo, per cui deve adoperarsi affinché non avvengano violazioni sotto la sua supervisione, anche se commesse da altri. Numerose disposizioni e misure sono strumentali a Frontex per l’adempimento di tale obbligo: da monitoraggio e reporting, (artt. 8, 14, 28, 29, 34 e 40 Regolamento 2016/1624), alla terminazione delle operazioni di rimpatrio o delle attività dell’Agenzia en toto in Stati Membri dove avvengono violazioni sistematiche di diritti fondamentali (art. 4(3) del Codice di Condotta e art. 25(4) Regolamento 2016/1624). Di conseguenza, anche in caso di mera assistenza in un’operazione condivisa, Frontex non è sollevata dalle responsabilità in caso violazioni di diritti fondamentali durante il rimpatrio. Al contrario, ignorare la responsabilità di Frontex nella supervisione delle operazioni di rimpatrio vanificherebbe l’utilità di istituire una tale agenzia, trasformandola in un’estensione passiva delle guardie di frontiera nazionali.
Nel caso di specie, Frontex non ha messo in atto nessuna di queste azioni prima, durante o dopo il rimpatrio dei ricorrenti. Eppure, nell’esecuzione dei suoi compiti, l’Agenzia avrebbe avuto l’autorità di interrompere o sospendere l’operazione di rimpatrio condivisa se l’avesse ritenuta in contrasto coi diritti fondamentali (art. 4(3) del Codice di Condotta). Una situazione che risulta quantomeno plausibile nel caso di specie, dove i ricorrenti hanno denunciato il non accoglimento della loro domanda di asilo e il timore di essere rimpatriati in Turchia, paese che difficilmente si qualifica come “paese terzo sicuro” e che hanno abbandonato il prima possibile. In questo scenario la condizione di collegamento diretto tra condotta e danno risulterebbe – contrariamente a quanto sostenuto da Frontex e affermato dal Tribunale - verificata: se Frontex avesse esercitato la sua autorità interrompendo l’operazione, i ricorrenti non avrebbero subito i danni materiali e non durante e conseguenti al rimpatrio.
Contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, i danni subiti non derivano quindi solamente dalle scelte dei ricorrenti (affermazione, peraltro, dai tono paternalistici), ma anche dalla decisione delle autorità greche di rimpatriarli e di Frontex di assistere e non interrompere l’operazione.
Una volta stabilito il collegamento, rimarrebbe da valutare l’ultima condizione, ovvero se il rimpatrio costituisca un atto illecito, da verificare alla luce della direttiva rimpatri, e se l’illecito sia sufficientemente grave da far emergere la responsabilità non-contrattuale di Frontex. Come si è detto, invece, il Tribunale ha preferito escludere ogni responsabilità di Frontex, in ragione della valorizzazione del ruolo della Grecia e dei ricorrenti stessi, privandoli di qualsiasi compensazione.


Conclusione
Il Caso WS e altri v Frontex, la prima azione per danni nei confronti di Frontex, aveva tutti gli ingredienti per diventare un momento cardine nel processo di responsabilizzazione dell’Agenzia: il caso costituiva senz’altro l’occasione al Tribunale per analizzare nel merito il ruolo di Frontex durante le operazioni condivise di rimpatrio, che per la loro natura di forte impatto sulle condizioni e, potenzialmente, i diritti fondamentali delle persone respinte, richiederebbero particolare attenzione dalle autorità giurisdizionali. Era anche l’occasione per meglio definire i rispettivi ruoli di attori nazionali ed europei coinvolti in attività di gestione integrata delle frontiere. Allo stesso tempo, l’azione per danni si poteva qualificare come valida via per una maggiore realizzazione del diritto di accesso effettivo alla giustizia (art. 47 Carta dei Diritti Fondamentali, art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) delle persone, non cittadine dell’Unione, sotto la giurisdizione dell’UE e degli Stati Membri.
Il Tribunale ha invece preferito non affrontare la questione. Il caso conferma la reticenza del Tribunale a intervenire in maniera risolutiva in materie fortemente politicizzate quali la gestione delle frontiere esterne dell’UE.
Peraltro, in mancanza di adesione dell’UE alla Convenzione Europea per i Diritti Umani, la Corte di Giustizia UE è l’unico organo giurisdizionale competente a valutare le azioni delle agenzie UE. Conseguentemente, solo un intervento risolutivo della Corte di Giustizia può colmare il vuoto di controllo giurisdizionale su Frontex. La Corte deve infatti portare chiarezza sulla responsabilità legali delle Agenzie UE, visto il loro crescente ruolo, anche in procedimenti direttamente impattanti la vita e i diritti fondamentali delle persone. La speranza è che la Corte, chiamata in causa da un ricorso nel caso in esame, finalmente affronti la questione in maniera organica e costruttiva, riconoscendo il ruolo di Frontex in un contesto di responsabilità condivisa, finora solamente menzionato ma mai riconosciuto nella giurisprudenza. Nel frattempo, il Tribunale si dovrà presto pronunciare su altri due casi riguardanti possibili violazioni dei diritti fondamentali compiute da Frontex in Grecia, una richiesta danni per un operazione di espulsione collettiva ed un ricorso per carenza riguardo alla mancata sospensione del finanziamento delle attività dell’Agenzia nel Mare Egeo.


Instrumentalisation package: derogation and confinement as the blueprint for the future EU migration policy

1. Introduction

Despite the political and academic consensus over the necessity to change the EU migration policy after the 2015 “migration crisis”, it has been so far impossible to find an agreement on a common reform proposal. Even the last reform attempt of the Von der Leyen Commission, the New Pact on Migration and Asylum, is stalling in spite of the Realpolitik approach adopted.
Before the Ukrainian war prompted the EU to surprisingly and quickly adopt an effective solidarity scheme to welcome people escaping from Ukraine, the migration debate gravitated around EU efforts to contrast a “new” phenomenon: the instrumentalisation of migration flows. It is arguable that such a phenomenon still constitutes the biggest concern of EU leaders in the field of migration. Even if the EU institutions are presenting the solidarity approach deployed in Ukraine as the blueprint for the future EU migration policy, the recent negotiating efforts of the Commission and the Council have been focused elsewhere: on the instrumentalisation package, whose content and legislative developments are tackled in this blogpost.
The concept of migration instrumentalisation is not new in migration studies. While it lacks a universal definition, it generally refers to a low-cost strategy where countries with few other strategic advantages push people across borders to destabilise or coerce a target state. Many migratory phenomena targeting the EU external borders in the past years can be defined as migration instrumentalisation: from Turkey's unilateral (yet brief) suspension of the EU-Turkey Statement in March 2020 to Morocco’s suspension of border checks at the Spanish exclaves of Ceuta and Melilla during the summer of 2021.
While these past events were tackled almost exclusively at the national level, with the external political support of the EU, one recent humanitarian crisis led to a different development: facing the increase of arrivals from Belarus during the winter of 2021, EU institutions took not only political but legal action as well. Consequently, for the first time, the concept of instrumentalisation was introduced in the EU legal framework.

2. The Instrumentalisation Package: context and content

In the second half of 2021, irregular border crossings of the Eastern European land border started to increase: while in the years before arrivals rarely surpassed one thousand units, in a few months almost 9000 arrivals were detected. Such a sharp increase was directly influenced by the Belarus regime, which facilitated the passage of third-country nationals through its territory as a retaliation to the packages of sanctions imposed by the EU after the fraudulent August 2020 presidential elections.
The EU Member States bordering Belarus (Lithuania, Poland, and Latvia) individually adopted a set of harsh emergency measures focused on the defence of their borders and legitimizing pushbacks of people found in the proximity of the border areas. Despite the criticisms raised by international organizations and NGOs, the Commission triggered the procedure of article 78(3) TFEU to propose a set of emergency measures allowing involved Member States to suspend many EU standards concerning asylum and hosting procedures to react to the so-called “hybrid attack” performed by the Belarus regime against the security of the Union.
The proposed emergency measures were the first step towards the institutionalisation of the concept of instrumentalisation of migration in EU law. Only two weeks after the emergency measures proposal was published, the Commission presented the “instrumentalisation package”, where the most salient elements of the emergency measures were grouped into two legal texts: the Proposal for a Regulation addressing situations of instrumentalisation in the field of migration and asylum (Instrumentalisation Regulation) and the proposal of a reform of the Schengen Borders Code (SBC Reform).
The SBC Reform legally defines instrumentalisation as “a situation where a third country instigates irregular migratory flows into the Union […] where such actions are indicative of an intention of a third country to destabilise the Union or a Member State”. Building upon this definition, the Instrumentalisation Regulation outlines the activation procedure and measures to adopt when facing an “instrumentalisation situation”. The most noticeable element of the measures proposed is their derogatory nature: in its essence, the regulation contains a list of derogations from the Common European Asylum System (CEAS), allowing the intensification of border controls, the standard application of border procedures and the de facto detention of asylum seekers.

3. The instrumentalisation package: less harmonisation and protection standards
If approved, the Instrumentalisation package would majorly impact the harmonisation of national rules under a common migration policy, which is the core objective of the EU competence on migration matters. The “derogation by law” envisaged would allow Member States not to comply with core provisions of the CEAS, leading to more disaggregation in the implementation of EU law. Moreover, the activation process enabling Member States to enforce such derogations is highly discretionary and vaguely defined. The definition of instrumentalisation provided by the SBC reform is excessively broad and vague, with many ambiguous terms: first, there is no reference to any quantitative indicator which could hint at what constitutes an “irregular migratory flow”. Second, no criterion on how to evaluate the intention of a third country to “destabilise the Union or a Member State” is outlined: how can anyone assess the motives of the actions of a foreign country?
Furthermore, the authorization procedure outlined in article 7 consists of a political decision where both Member States and the Commission enjoy great discretionary powers. Member States can ask for authorization to apply the regulation to the Commission, which assesses the situation “based on the information provided by the requesting Member State.” It is up to the Member State to select the information it deems necessary to corroborate its stance, while there is no indication of the criteria the Commission should follow for making the assessment. The final step of the procedure, the adoption of an Implementing Decision by the Council, reinforces the political nature of the procedure, from which the European Parliament is completely excluded.
Within this context, any migration flow targeting a Member State could be construed for the Instrumentalisation Regulation to apply. Therefore, the plausible frequent activation of the regulation could disrupt the already fragile common migration policy.
If approved, the regulation package would also negatively impact the standards of protection for asylum seekers crossing the border.  Most of the derogations are aimed at preventing third-country nationals to leave the border area, starting with the four-week extension for countries to register applications for international protection (normally 3-10 days) to the extension of the scope of the border procedure (the analysis of an asylum claim at the border) to everyone crossing the border and its prolongation from 12 to 16 weeks. Throughout all these procedures, which could amount to up to 20 weeks and during which it is forbidden to leave the border area, asylum seekers are most likely going to be detained. The instrumentalisation Regulation does not specify the facility where the post-arrival procedures should take place. However, as asylum seekers are not allowed to leave the border premises, it is likely that Member States will standardly recur to de facto detention. To further worsen the hosting conditions, the Instrumentalisation Regulation allows Member States to set lower standards for the reception of asylum seekers about their basic needs. Furthermore, no exception nor favourable treatment is envisaged for vulnerable groups and minors.
Against this background, the necessity and proportionality of the derogations provided by the Instrumentalisation Regulation are questionable. However, the Commission did not run any impact assessment of the proposals, despite their disruptive potential on the overall Eu migration policy and their adverse effect on asylum seekers.

4. Which future for the Instrumentalisation Package?
Despite the generalised criticisms from NGOs and civil society and the change of approach witnessed during the Ukrainian crisis, EU leaders are keeping the instrumentalisation package at the top of the CEAS reform agenda.
Under the Czech Presidency (June-December 2022), the Council adopted a general approach to the SBC reform further broadening the definition of “instrumentalisation situation” by adding non-state actors as potential perpetrators of instrumentalisation. On the Instrumentalisation Package instead, the Council did not reach a majority on a draft compromise proposal, which would have further increased Member States’ discretion in the authorisation procedure, obliging the Commission to initiate it in case the Member State brings “conclusive evidence demonstrating the existence of” an instrumentalisation situation.
Now, it is unclear what future the Instrumentalisation Regulation will have. However, the Council has shown its commitment to stick to the instrumentalisation narrative to push forward the reform of the common migration policy. A reform centred on the intensification of border controls and the confinement of arriving asylum seekers at the border. The Commission seems to agree: Ahead of the February European Council, President Von der Leyen sent a letter to the Member States urging them to agree on a set of immediate actions in the migration field mirroring the content of the instrumentalisation package: strengthening the external borders, standardising border procedures and improving migration and return management. Following the advice, the European Council restated the fight against instrumentalisation as a priority, calling the Commission to mobilise substantial EU funds and means to support Member States in reinforcing border protection capabilities and infrastructure.

5. Conclusion
Looking at the efforts from the Commission and the Council to push forward the derogatory measures outlined in the instrumentalisation package, it can be argued that the instrumentalisation narrative that monopolised the migration debate at the end of 2021 is being only temporarily shadowed by the Ukrainian solidarity approach.
Despite the welcoming protection scheme designed for those escaping from Ukraine (which is rightfully deserving praise), the reform of the common migration policy is following a different route. Such a route might have several names, “fight against smuggling”, “fight against instrumentalisation” or “reinforcement of migration management capabilities”, but it is built of the same material: the confinement of people crossing the border in the border area and the facilitation for Member States not to respect EU standards in poorly defined crisis situations.