Benedetto Croce, Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, a cura di C. Nitsch, Giuffrè, Civiltà del diritto, 2016
Quando venne pronunciata, tra l’aprile e il maggio del 1907, la memoria crociana sulla Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia si inscriveva a pieno titolo nel dibattito tardo ottocentesco sulla crisi della filosofia del diritto, che aveva visto coinvolti, tra gli altri, Ravà, Vanni e, in particolar modo, Petrone, che aveva in una certa misura posto in questione l’esistenza stessa di una «filosofia del diritto». Inseritosi in un dibattito aperto, il breve scritto di Benedetto Croce era, a sua volta, destinato ad aprirne un altro che avrebbe visto coinvolti, su fronti opposti, non solo gli esponenti dell’idealismo italiano – nelle sue due declinazioni – ma, più in generale, buona parte dei cultori della filosofia del diritto, influenzando – in modo più o meno diretto – il dibattito giuridico fino a tempi relativamente recenti.
Il 3 maggio del 1907, Croce inviava a Gentile «le bozze della […] memoria sulla filos. del diritto, che è un excursus del […] lavoro sull’etica» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, Mondadori 1981, p. 245). Egli mostrava, così, di considerare in una certa misura la Riduzione quasi come un lavoro preparatorio alla Filosofia della pratica, che avrebbe visto la luce un anno dopo. Questo giustificherebbe, come sottolinea Carlo Nitsch nella bella prefazione a questa nuova edizione, da lui curata, la scelta di non inserire la Riduzione nel Corpus delle opere progettato dallo stesso Croce, confermando anche «il fermo convincimento crociano, secondo il quale il primo getto di un lavoro, in seguito rielaborato e integralmente superato nella sistemazione dell’opera compiuta, non avesse poi un’autonoma dignità scientifica né, pertanto, una propria vita editoriale» (p. VIII). È, tuttavia, lo stesso curatore ad evidenziare, nell’ampio scritto preposto al testo, in cui vengono delineati accuratamente i rapporti della Memoria pontaniana con la Pratica – anche attraverso un confronto con altri testi crociani che ebbero gestazione e vicende editoriali simili – che «quanto proviene dall’originaria redazione della memoria accademica risulta, nella nuova versione, in larga parte rimeditato e riscritto» (p. XII). Entra dunque in campo una questione capitale nell’ambito della sistematizzazione degli scritti crociani: la Riduzione può essere legittimamente considerata esclusivamente come una scala da utilizzare per giungere sul terreno, più compiuto, della pratica, o ha la dignità di un testo a sé stante, vivente di una sua autonomia? A entrambe le ipotesi si può dare, a seconda del punto di vista e con modalità irriducibili, una risposta in certo modo affermativa. Senza dubbio si deve, però, rimarcare la vastissima eco che le tesi esposte nella Memoria del 1907 ebbe già prima che il pensiero crociano sul diritto giungesse alla sua definitiva esposizione nella terza parte della Filosofia della pratica. Una eco che trova testimonianza, peraltro, in uno dei testi che, ricalcando la scelta crociana di porlo in appendice alla seconda edizione della Riduzione – avvenuta ad opera di Adelchi Attisani nel 1926 – viene riproposto in questa nuova edizione. Penso, come è evidente, alle Obiezioni intorno alla mia teoria del diritto, che Croce pubblicò per la prima volta sulla «Critica» del 1908.
La tesi crociana è nota, e non occorre, dunque, spendere più di poche parole per ricordarla. Rispondendo alla questione sull’esistenza o meno di una filosofia giuridica intesa come ambito filosofico particolare, Croce andava verso l’esclusione di questa possibilità. Al tempo stesso, egli escludeva la possibilità di ricondurre la filosofia del diritto nell’ambito della morale. Quest’operazione rischiava di cadere in vere e proprie «contradizioni» nel tentativo di unire e distinguere diritto e morale. In particolare, Croce non considerava utili a tracciare la distinzione i criteri di «coattività» ed «esteriorità» che avrebbero caratterizzato il diritto. Per di più, sottolinea Croce, esistono «diritti immorali […] e l’immoralità non toglie ad essi il carattere di diritti», così, «l’abile usuraio raggira e spoglia l’ingenuo che gli capita tra le branche; e, nel far ciò, esercita un diritto, che la legge protegge» (p. 39). Croce ammette, è vero, che le azioni giuridiche siano, in gran parte, anche azioni morali, ma avverte: «si può sempre distinguere il lato giuridico dal morale; appunto perché il lato giuridico può aversi anche privo della moralità» (p. 41). Non alla morale si deve, dunque, ricondurre il diritto, bensì all’economia intesa come categoria filosofica dell’utile. Con l’attività economica il diritto condivide il non essere «né morale né immorale, ma condizione prima di ogni attività morale od immorale» (p. 41). Questa, per grandissime linee, la tesi esposta da Croce.
Qualche parola bisogna, invece, spenderla per dare conto delle reazioni suscitate da questo testo. Per ragioni di brevità, mi limiterò a un accenno, rimanendo, peraltro, confinato nel campo dell’idealismo italiano. Alla citata lettera del 3 maggio, Giovanni Gentile rispondeva a stretto giro, il 7 dello stesso mese, non risparmiando all’amico le osservazioni che questi gli aveva sollecitato. Non ci troviamo ancora nella fase che vide fronteggiarsi i due capiscuola dell’idealismo italiano, è tuttavia opportuno fare un rapido accenno alle osservazioni di Gentile perché aiutano a ben inquadrare alcuni dei temi del dibattito che vide coinvolta la memoria crociana. Gentile si focalizza principalmente su due punti: «se l’attività economica è attività pratica […] in cosa potrà consistere il suo carattere differenziale rispetto all’attività morale?», e ancora, «se in ogni istituto giuridico si può distinguere, come tu accenni, il lato etico e il lato economico, perché ridurre il diritto al solo elemento economico?» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce. III. 1907-1909, Sansoni 1976, p. 68). Gentile avanzava, poi, perplessità circa la correttezza dell’introdurre elementi di empiricità (l’abile usuraio, il giudice corrotto, ecc.) in una trattazione che, a suo parere, si sarebbe dovuta mantenere su un piano puramente teorico. Gentile aggiungeva di scrivere «alla rinfusa», dichiarando il suo bisogno di ritornare sull’argomento. Pure, in queste righe di Gentile c’è buona parte del dibattito che le tesi di Croce avrebbero originato, non solo in ambito idealista. Per chi voglia leggerle tenendo a mente le vicende che negli anni seguenti avrebbero segnato i rapporti scientifici – ma anche, più tristemente, personali – di Croce e Gentile, e le esamini, dunque, dalla posizione indubbiamente avvantaggiata di chi può avere contezza di eventi che, al momento di questo scambio epistolare, dovevano ancora verificarsi, vi si trova anche altro. In nuce, in una forma certo ancora embrionale e che per essere sviluppata avrebbe dovuto attendere ancora almeno un lustro, vi si trova, infatti, la manifestazione di due sensibilità filosofiche e metodologiche diverse, rispetto alle quali non ha alcun senso chiedersi quale fosse la maggiore. Fu, forse, – e Carlo Nitsch non manca opportunamente di sottolinearlo – anche per queste ragioni che nel 1926 Croce diede seguito alla proposta di Adelchi Attisani di far conoscere alla Riduzione una nuova edizione. Da un lato vi era, certo, la necessità di difendersi dalle accuse mossegli da quelli che, con sprezzante definizione, chiamava gli «scolaretti pappagalli» di Gentile, che gli imputavano di avere sviluppato i suoi concetti filosofici all’ombra di quest’ultimo. Dall’altro vi era, però, forse, anche la necessità di fornire ai propri seguaci, che contro agli attualisti vivevano, in una certa misura, nella condizione di ecclesia pressa, nuova linfa. La ripubblicazione del testo del 1907 rispondeva a entrambe queste esigenze.
Rileggendo oggi, a più di un secolo dalla sua pubblicazione, la Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia è anche a questi aspetti che bisogna far correre il pensiero. Non solo a un testo che ridisegnava il concetto filosofico di diritto, attribuendo dignità filosofica a un aspetto, quello economico, che spesso era stato ignorato dalla filosofia, ma anche – e forse più ancora che alle questioni intrasistematiche – al dibattito in cui questo scritto si inserisce. Dibattito che non fu solo giuridico, né esclusivamente filosofico. La Riduzione ci fornisce una chiave di accesso a un clima culturale, e a dispute che coinvolsero una buona parte dell’intellighenzia italiana nella prima metà del secolo scorso. Uno dei meriti che, tra gli altri, bisogna riconoscere alla scelta di Giuffrè di ripubblicare il testo è, dunque, senz’altro, quello di farci riaprire lo sguardo su quel dibattito.