Ylenia Citino
Libertà di espressione o “libertà di aggressione”? Il pugno di ferro della Corte Suprema del Brasile contro i social
1. Con un’ordinanza dell’8 ottobre 2024, a firma del giudice costituzionale Alexandre de Moraes, la Corte Suprema del Brasile (Supremo Tribunal Federal - STF) ha revocato la sospensione del funzionamento della piattaforma X Brasil Internet LTA di Elon Musk, già disposta il 30 agosto scorso con una decisione all’unanimità del primo collegio. La misura, che pone fine all’escalation, segue tutta una serie di iniziative che la Corte ha intentato contro il colosso di San Francisco.
Per alcuni, la piega che sta prendendo il potere giudiziario in Brasile nella lotta alla disinformazione online è un sintomo lampante dell’erosione della democrazia (Leite, 2023), legata a una Costituzione, quella del 1988, oramai ipertrofica (Benvindo, 2022) e, sotto molto profili, programmatica (Canotilho, 2001). Così, la censura imposta alle piattaforme social sarebbe una violazione del diritto di espressione e di informazione (Associação Nacional de Jornais, 2024). Per altri, invece, la Corte sta promuovendo una battaglia fondamentale contro figure come Musk, – autodefinitosi un “assolutista del free speech” – al fine di preservare un ordinamento di diritto posto costantemente sotto attacco dai populismi autoritari e danneggiato dall’incessante opera di deterioramento dell’opinione pubblica causata dalle fake news online.
In questo frangente, che offre un interessante esempio di intersezione tra diritti fondamentali e tutela della democrazia, il pendolo della giustizia sembra pericolosamente oscillare. Nel 2019, infatti, la Corte brasiliana ha avviato, a partire dall’iniziativa del suo presidente Dias Toffoli, la c.d. “Fake News Inquiry”, un’inchiesta di tipo penale volta a reprimere le molteplici condotte diffamatorie poste in essere tramite le piattaforme online dai sostenitori dell’allora presidente Bolsonaro. Da quel momento in poi, si è assistito all’espansione tacita delle competenze della Corte, che in molti non hanno esitato a definire “svolta autoritaria” (Neder Meyer, 2019).
2. Il percorso di rafforzamento dei poteri della Corte è legato, in particolare, a un nome. Il giudice Alexandre de Moraes, designato dall’ex Presidente di centro-destra Michel Temer, è gradualmente diventato la nemesi dei conservatori brasiliani e delle stesse piattaforme online accusate di non intervenire sulle condotte, individuali o di gruppo, finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica.
De Moraes (qui un suo ritratto dal Financial Times), incaricato di supervisionare l’inchiesta di Toffoli, ha derivato il proprio potere dall’articolo 43 del Regolamento della Corte, che prevede che “in caso di violazione della legge penale nei locali della Corte, il Presidente avvierà un'indagine, se questa coinvolge un'autorità o una persona soggetta alla sua giurisdizione, o delegherà questo incarico a un altro giudice”.
Il mandato di de Moraes consisteva nella conduzione di indagini sulla “diffusione di ‘fake news’” e sui modelli di finanziamento dietro a simili condotte di massa. Il giudice delegato avrebbe dovuto perseguire le calunnie online (denunciação caluniosa), le minacce e le altre condotte illegali a danno della Corte stessa, dei suoi membri e delle loro famiglie, a partire dalle indagini della Procura della Repubblica. Da ciò è scaturita una serie di azioni di censura della Corte, abbinata a un profluvio di critiche.
La conformità a Costituzione del potere esercitato dal STF con la Fake News Inquiry è stata, per esempio, messa in questione da un partito politico rappresentato al Congresso brasiliano e quindi legittimato a sollevare questione di costituzionalità astratta (controle abstrato de constitucionalidade). Nel 2020, la Corte, nel giudicare infondata la questione, ha riconosciuto che i fatti, consistenti nell’istigazione online a chiudere l’STF, le ripetute minacce di morte e le richieste di incarcerazione dei giudici costituzionali, nonché il mancato rispetto delle decisioni giudiziarie, rappresentavano non solo un oltraggio ai poteri costituiti (Poderes instituídos) ma anche un attentato contro lo stato di diritto e la democrazia, giustificando così le azioni intraprese.
3. Il perpetuarsi di tali condotte ha, poi, generato un ulteriore arroccamento della Corte, tanto da ricevere attacchi per aver cumulato in un solo organo poteri giudiziari, di polizia e di pubblica accusa. In particolare, si è biasimato il fatto che la Corte si fosse avvalsa del potere di applicare restrizioni indiscriminate alla libertà d’espressione attraverso ordini plurimi di rimozione di contenuti e ordini di sospensione e blocco di account dalle piattaforme social Twitter e Facebook.
All’apice della crisi, nell’agosto scorso è stato diffuso l’ordine di disattivazione totale del social X, conseguente alla mancata ottemperanza della richiesta di nominare un rappresentante legale nel territorio brasiliano. La messa al bando di X si aggiunge, perciò, a una casistica di sospensioni che in passato annoverava già Meta e Telegram.
Nell’accusare la piattaforma acquisita da Elon Musk di essersi trasformata in un megafono per le teorie cospirazioniste di centro-destra, il giudice de Moraes imponeva quindi una multa giornaliera di 50.000 reais alle persone e alle aziende che avessero tentato di frodare la decisione di shutdown del tribunale utilizzando sotterfugi tecnologici (come l'uso di VPN) al fine di continuare a utilizzare e comunicare attraverso X.
La controversia con X è terminata, da ultimo, con l’annuncio, il 9 ottobre, del ritorno della disponibilità della piattaforma in Brasile, dietro il pagamento di un’esosa multa da parte della tech company.
4. Secondo l’ultimo rapporto sulla trasparenza rilasciato da X, relativo al primo semestre del 2024, la piattaforma avrebbe accolto positivamente le richieste governative di rimozione di contenuti nel 71% dei casi. Il livello massimo di compliance si è registrato nei confronti dell’Unione Europea (80%) mentre è stato pari al 26% per i “Paesi terzi” – un dato che può riflettere un segnale di buona volontà successivo all'entrata in vigore del Digital Services Act, che ha comportato la designazione di X come Very Large Online Platform (VLOP).). Tuttavia, la genericità e laconicità del rapporto, a copertura globale ma lungo poche pagine, ostacolano una comprensione approfondita delle reali dinamiche di “censura” dei contenuti e di oscuramento dei profili sul territorio del Brasile.
Nella famosa ordinanza di sospensione già citata in apertura, la Corte ha sottolineato che la Costituzione del 1988 non permette di confondere la libertà di espressione con la “libertà di aggressione” o con “un’inesistente censura” poiché sussiste un “divieto costituzionale” di discorsi d’odio e di incitazione al compimento di atti antidemocratici. Pertanto, sostiene la Corte, qualsiasi entità privata che svolga la propria attività economica sul territorio nazionale è tenuta a rispettare l’ordinamento giuridico del Brasile e a conformarsi agli ordini diretti impartiti dalla magistratura brasiliana.
Questo, in pratica, comporta non solo il dovere per le società straniere di richiedere un’autorizzazione da parte del governo federale ad operare sul territorio e l’indicazione di un rappresentante atto a ricevere eventuali citazioni in giudizio. Ma altresì l’obbligo di eseguire (quelle che da noi sarebbero certamente irrituali) richieste di oscuramento fatte pervenire dai giudici costituzionali.
L’ottemperanza di X non pone fine alle attività di de Moraes, che, oltre a trovare il sostegno quasi incondizionato degli altri dieci giudici, è al momento impegnato anche su un altro fronte: le indagini sulle responsabilità costituzionali scaturite dall’assedio al Congresso brasiliano del gennaio 2023, svoltosi con un canovaccio simile a quello dell’assalto a Capitol Hill, dopo la diffusione della notizia che il presidente uscente Bolsonaro non era stato riconfermato vincitore.
5. Se, da un lato, la posizione costituzionale guadagnata in maniera poco convenzionale dalla Corte può destare preoccupazioni per l’estensione dei poteri che ha dimostrato di poter ricavare in via interpretativa, dall’altra parte non si può nemmeno giustificare l’atteggiamento di Elon Musk, che non ha risparmiato attacchi diretti contro il giudice brasiliano.
Il rifiuto pubblicamente espresso di rispettare la legge brasiliana rappresenta, infatti, proprio una di quelle forme di pressione pubblica poste in essere dalle compagnie multinazionali, consapevoli che quanto avviene nei propri reami virtuali è suscettibile di influenzare pesantemente la scena politica dei vari paesi, influendo sulla qualità della democrazia.
In attesa di poter verificare, come alcuni alludono che stia già avvenendo, se il pubblico endorsement di Donald Trump da parte di Elon Musk in piena campagna per le presidenziali comporti automaticamente una distorsione del free speech su X, non si può non tenere conto dei risultati di alcuni studi, tra cui Corsi, 2024, che hanno rivelato come gli algoritmi di X siano programmati in modo da favorire i contenuti “a bassa credibilità”, ossia, in parole povere, delle potenziali fake news. Questo perché alle notizie poco credibili si associa, di solito, un elevato engagement degli utenti.
La soluzione potrebbe rivelarsi semplice e a portata di mano. Come suggeriscono gli attivisti di Reporters Sans Frontières, sarebbe necessario colmare il vuoto regolatorio sulla libertà di espressione online anche in Brasile. Da un lato, quindi, bisognerebbe, sulla falsariga di quanto avvenuto già in Europa, indurre le piattaforme a cooperare per una maggiore trasparenza. Questo permetterebbe di imporre il monitoraggio dei rischi informativi che scaturiscono dall’uso abusivo dei social e di attuare un regime più o meno esteso di responsabilità (platform liability). Dall’altro, invece, sarebbe opportuno arginare gli abusi di potere delineando un quadro chiaro di competenze per le autorità giudiziarie nella lotta alla disinformazione, evitando che le Corti costituzionali, nel loro fondamentale ruolo di garanti delle Costituzioni, diventino, come paventato da Luis Roberto Barroso (2022), uno strumento nelle dinamiche del potere. In definitiva, la necessità di vigilare su tutte le parti coinvolte resta imprescindibile.
5 Novembre 2024
The Digital Services Act at the test bench
1. As we mark one year since the enactment of the Digital Services Act (DSA), it is now a fitting time to conduct an interim evaluation. This blog post provides a succinct overview of the first issues arising from its implementation, such as the enforcement timeline, the clarification on the subjective scope of application, the setting up of a functioning governance linking national competent authorities and the Commission, and future constitutional implications of the Regulation.
2. Given the complexity and broad impact of the subject matter it addresses, the DSA is characterized by a staggered and deferred application over time. Therefore, as of 16 November 2022 the implementation was only partial, involving a limited number of articles[1]. Among them, a notable one is Article 24(2) setting for platform providers the deadline of 17 February 2023 as the day starting from which they shall release public data concerning information on the ‘average monthly active recipients’ of the service in the Union.
Despite this initial voluntary disclosure obligation marks an important step forward, it is the full enforcement of the DSA, occurring next February, that will signify the culmination of an extensive process involving years of drafting and negotiations.
3. The problem of the subjective scope of application was one of the first challenges to be faced. The DSA’s heart is Section 5 lying, in fact, on the possibility of tackling systemic risks arising from big platforms. To this purpose, the designation of very large platforms is a paramount stage and the first round occurred on 17 July 2023. On this day, the Commission published its first ad hoc Decision drawing a list of 19 platforms and search engines that, based on data released by providers themselves, surpassed the 45 million monthly active users threshold. In particular, among the 17 ‘very large online platforms’ (aka VLOPs), we find very commonly used social networks (the two Meta platforms, LinkedIn, Pinterest, Snapchat, TikTok, Twitter (now ‘X’) and YouTube), online retailers and marketplaces (Amazon, AliExpress, Booking.com, Google Shopping and Zalando) and other web services such as Apple AppStore, Google’s app stores, Google Maps and Wikipedia. As for the ‘very large online search engines’ (aka VLOSEs), only two major platforms are included (Bing and Google Search). According to the specific timeline provisions, the DSA entered into application for such designated entities on 25 August 2023.
However, this decision has left both targeted companies and stakeholders disappointed. On the one side, Zalando and Amazon filed legal action before the Court of Luxembourg to ask for the annulment of the decision, arguing that online marketplaces shouldn’t be considered as potential avenues for the spread of disinformation based on the fact that they do not host third party content. On the other side, two opposite issues were raised. Firstly, the claim that active users’ data is based on voluntary disclosure by platform providers, thus it is not certified by an external independent body nor is based on a common methodology for counting users. The only reference is to be found in recital 77 of the DSA, establishing ways to qualify monthly active recipients in a given period of time and to determine their level of engagement and interaction with the platform in a way that avoids tracking individuals online. Consequently, facing many perplexities, the Commission, without adopting delegated acts pursuant to Article 33, released a document containing FAQs to answer providers’ difficulties. It is noteworthy to mention that these interpretive guidelines confirm the claim that a common methodology is absent, as it states that each platform, in spontaneously submitting a communication to a specific mailbox hosted by the Commission’s DG CNECT, shall explain the methodology adopted for counting its own active users.
Secondly, some big platforms are suspected of purposedly underestimating their traffic flow to avoid being counted as VLOPs or VLOSEs. Facing the evidence that a whole business sector such as adult entertainment – whose platforms are esteemed to cater for the needs of millions, if not billions of users – might have been included in the Commission’s list, requests to do so went completely unheard. Civil society associations argued the necessity that major platforms associated with the adult entertainment industry and operating within the EU’s jurisdiction should also adhere to the DSA, along with other relevant regulations.
Allegedly, the delay in disclosing user numbers by these platforms appeared to be a strategy to avoid designation, as exemplified by XVideos, which only belatedly reported having an average of 160 million monthly service recipients. Furthermore, considering this last figure, there is speculation that other well-known platforms within the same industry may have provided implausible user counts and could potentially escape inclusion in the next round of designations. Should this strategy be further replicated, it may undermine the DSA in its core mechanism.
4. Another important test is the finalization of the DSA’s monitoring and compliance governance, namely involving the designation of national Digital Services Coordinators (DSCs), the European Board for Digital Services (EBDS) pursuant to Article 61 and composed of high officials appointed by DSCs, as well as the network of vetted researchers and trusted flaggers. All of this will have to be accomplished before 17 February 2024. In a Recommendation from 10 October 2023, which will apply until the DSA finishes entering into force, the Commission urged Member States to fast-track their national implementation of the DSA concerning, in particular, the designation of DSCs, complaining also that the EBDS could not take shape accordingly. As underlined, the necessity to ensure the effectiveness of the DSA’s mechanisms since inception arises from the increasing global instability reverberating on the Union due to Russia’s war of aggression against Ukraine and unprecedented Hamas terrorist attacks. This situation, indeed, makes it even more important to secure a safe and monitored online environment, addressing risks related to the dissemination of illegal content in full respect of fundamental rights and freedom of expression.
So far, only a limited number of Member States designated their DSCs, namely the Czech Republic, France, Germany, Ireland, Lithuania, the Netherlands and lately Italy. According to data circulated by some national authorities, a report was drawn analysing which other Member States may soon appoint more telecoms regulators as DSCs. Others may designate consumer protection authorities or competition authorities. Still, only further insight into the allotted financial budget will offer a plausible overview of the future consistency of the DSA’s overall governance system.
5. The constitutional implications of the DSA constitute a multifaceted dimension, which various authors, delving into the intricate relationship between platforms and public power, place under the umbrella term ‘digital constitutionalism’ (Fitzgerald, Lessig, Berman, Lemley, Suzor, Redeker et al., Waldron and subsequently by Celeste, De Gregorio, Pollicino). However, their approaches diverge significantly, ranging from crafting a constitutional bill of rights (Redeker) to constitutionalizing the digital landscape by constraining both public authorities and private entities from infringing upon fundamental rights (Celeste). Some authors propose reformulating established principles to address emerging online issues effectively (De Gregorio). Additionally, certain scholars suggest applying traditional constitutional principles through the horizontal effects doctrine and emphasizing the pivotal role of Courts in this evolving constitutional discourse (Pollicino).
This debate is rooted in the transnational, quasi-public dimension of platforms necessitating new constitutional patterns in upholding fundamental rights. However, it fails to crystallize into a coherent and unambiguous doctrine, prompting other commentators to caution against the potential erosion of the foundational principles of constitutionalism. While some highlight the risk of these principles being progressively supplanted by pseudo-universal values (Vigevani) or try to reconcile the various positions into a whole new compatible proposal (Golia) others swiftly dismiss the normative value of the concept of digital constitutionalism as a “faux ami” (Costello).
Nonetheless, this hard-to-grasp nature of platforms is an issue that the DSA tries to address by setting up a sophisticated blend of self-regulation, co-regulation, and hard-regulation strategies. It explicitly declares its intent to establish a ‘horizontal’ normative system, aiming to resolve key regulatory issues related to intermediary services within the European internal market. Pursuing the overarching goal of ‘ensuring a safe, predictable and trusted online environment’ (recital 9) the DSA is presented as a lex generalis acknowledging general principles, rather than another lex specialis with limited scope of application. Therefore, the term ‘horizontal’ alludes to a cross-sectoral approach, encompassing all subject areas to create a comprehensive framework.
In doing so, the DSA seeks to provide a holistic strategy, addressing all risks and challenges emerging from the online environment in a cohesive and thorough manner (for some criticism based on issues concerning the interplay with sectoral legislation, see Quintais and Schwemer). With such a composite horizontal system, DSA’s implementation still faces lots of challenges, such as the operationalisation of the whole risk-assessment architecture, the functioning and efficiency of platforms’ remedies for fundamental rights infringements, the necessity to find a harmonised definition of ‘illegal content’, not to mention the relationship between the DSA-based rights and the constitutional-based rights of each Member State. Finally, the adoption of a thorough voluntary approach questions DSA’s ability to achieve substantial transparency and accountability in platforms’ governance, inducing a potential conferral of public power to privately-owned platforms.
[1] As stated in Art. 93.2, “Article 24(2), (3) and (6), Article 33(3) to (6), Article 37(7), Article 40(13), Article 43 and Sections 4, 5 and 6 of Chapter IV shall apply from 16 November 2022”.
15 Novembre 2023
Cittadinanza “a punti” e social scoring: le pratiche scorrette dell’era dell’intelligenza artificiale
1. Con un recente comunicato stampa dell’8 giugno 2022, il Garante della Privacy ha annunciato l’apertura di tre istruttorie nei confronti di soggetti pubblici e privati che avrebbero avviato pratiche di profilazione sui propri cittadini. Secondo l’Autorità, i meccanismi predisposti comporterebbero l’instaurazione di «una sorta di “cittadinanza a punti”» da cui deriverebbero conseguenze giuridiche negative sui diritti e le libertà degli interessati, inclusi i soggetti più vulnerabili.
La prima iniziativa, denominata in maniera evocativa “Progetto Pollicino”, prevede meccanismi premiali per i cittadini che, almeno sedicenni, installino un’app di tracciamento della posizione (IoPollicino) per lasciare le loro “briciole digitali”. Il software trasmette in forma “volontaria e anonima” i dati sugli spostamenti degli utenti per consentire l’effettuazione di analisi sulla mobilità urbana. Lanciato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile, dal Ministero della transizione ecologica e dal Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, l’esperimento ha coinvolto per primo il Comune di Bologna, anch’esso interpellato dal Garante. Problematica è la “moneta” con cui i cittadini vengono retribuiti per la cessione dei dati, ossia premi messi in palio dai partner privati del Progetto. Attività rispetto alla quale il Garante si starebbe interrogando, non essendo chiare le modalità di trattamento dei dati né, quantomeno, la base giuridica di tali operazioni, posto che il consenso del cittadino non può essere considerato una condizione legittimante sufficiente.
Il comune di Bologna si fa notare anche per una seconda iniziativa di sapore orwelliano, lo “Smart Citizen Wallet”: in estrema sintesi, la pubblica amministrazione propone di attivare una “patente digitale” che sarebbe in grado di identificare i cittadini più virtuosi tra coloro che si registrano, sempre su base volontaria, in un innovativo quanto pervasivo sistema computazionale di sorveglianza e tracking. Esso assegna un punteggio più alto ai cittadini dalla condotta impeccabile per attribuire vantaggi economici da parte di soggetti terzi.
Infine, una terza iniziativa, del Comune di Fidenza, deriva dall’approvazione di un regolamento unico comunale in materia di edilizia residenziale pubblica (E.R.P.) che introduce un sistema di valutazione a punti dei nuclei familiari, denominato “carta dell’assegnatario”. Esso è finalizzato, come riporta il comunicato del Garante, «al riconoscimento di benefici e sanzioni, inclusa la risoluzione e/o la decadenza del contratto di locazione, con possibili conseguenze pregiudizievoli in capo a categorie di soggetti vulnerabili».
2. L’idea emergente di una cittadinanza “a punti”, i cui diritti e obblighi si ricollegano all’analisi dei big data attraverso sistemi di intelligenza artificiale, però, spinge a riconsiderare il valore che tale istituto senza tempo è destinato ad acquisire. In un’epoca in cui – volenti o nolenti, – il ricorso alle tecnologie diventa sempre più invasivo, il diritto costituzionale deve aprirsi a riflettere sulle conseguenze della penetrazione delle tecniche di intelligenza artificiale sulla dimensione privata, finanche intima, del singolo (Pollicino, 2020). A maggior ragione, quando di tali tecniche si avvalgono soggetti pubblici nel fornire servizi o prestazioni al cittadino.
Tutto ciò ricorda un po’ “Nosedive”, primo episodio della terza stagione della serie tecno-distopica “Blackmirror”, in cui la protagonista Lacie vive in una realtà sociale in cui il gradimento delle altre persone sui social media contribuisce all’acquisizione di una posizione economica e sociale più elevata. Lì, una nuova tecnologia installata nei telefoni di tutti i cittadini permette di assegnare a chiunque un punteggio sino a cinque stelle, identificando la persona attraverso lenti biometriche. Ne esce fuori un quadro in cui le relazioni umane sono falsate, improntate a una finta gentilezza o persino reverenza, in funzione dell’accrescimento della popolarità personale. Inevitabilmente, la protagonista finisce in una serie di vicende che, per futili ragioni, le fanno perdere popolarità e il suo punteggio, diventato ormai basso, la spinge ai margini di questa società manierata. Scopre, così, che le persone con un social score inferiore sono dei reietti a cui lo Stato può negare impunemente i diritti base, ad esempio le cure sanitarie.
La realtà, come è ovvio, a volte supera la fiction: senza dover richiamare alcuni noti esempi di regimi non democratici (come il sistema di social scoring messo in atto in Cina: Liang & Chen, 2022), basta guardare ai tragici effetti dei modelli statunitensi di credit scoring basati su algoritmi biased per valutare la solvibilità dei clienti: acuti studi hanno dimostrato come il negato accesso al credito e la persecuzione creditizia abbiamo aumentato le diseguaglianze sociali (O’Neil, 2016). Il punteggio ai cittadini attraverso l’estrazione (mining) dai big data è ormai pratica diffusa anche nel cuore degli Stati europei. Un ulteriore esempio è dato dall’Olanda, colpita dallo scandalo del progetto SyRI (Systeem Risico Indicatie), che ha condizionato l’accesso a determinate prestazioni sociali all’assenza di condotte fiscali illecite, salvo poi perseguire ingiustamente (per un errore tecnologico) circa 20 mila famiglie.
3. Il problema, nondimeno, sta nella compatibilità di questi dispositivi di profilazione, implicanti sorveglianza attiva e premialità della cittadinanza, con il nostro sistema di diritti e principi fondamentali. Un sistema che vede un ancoraggio sicuro nel Codice della privacy (il decreto legislativo del 30 giugno 2003, n. 196) e nel General Data Protection Regulation (GDPR), che ha rivoluzionato la materia. Il Garante, che veglia sulla conformità dei trattamenti dei dati al Regolamento, ha da tempo riconosciuto che la raccolta di dati per finalità di profilazione psicologica certamente rientra tra le attività più pervasive di violazione della privacy (v. ad esempio l’ordinanza del 14 giugno 2019 che ha pesantemente sanzionato Facebook).
A livello europeo, inoltre, nell’aprile 2021 è stata avanzata una proposta per la regolamentazione dell’intelligenza artificiale (COM/2021/206 final) che, fra le pratiche di IA oggetto di divieto assoluto, inserisce proprio quelle volte all’attribuzione di “punteggi sociali” per finalità generali da parte di autorità pubbliche. Infatti, il rischio derivante da tali pratiche discende dal fatto che i comportamenti vagliati per ottenere indicazioni sull’affidabilità del cittadino spesso non hanno nulla a che vedere con il contesto finale per il quale l’autorità li utilizza ovvero provocano conseguenze “sproporzionate” o “ingiustificate” rispetto alla condotta iniziale.
Nel momento in cui la proposta europea dovesse essere approvata, ogni attività di IA che operi collegando conseguenze giuridiche sfavorevoli al possesso di caratteristiche legate alla personalità dell’individuo sarà catalogata come rischio “inaccettabile” e dunque vietata. Il coinvolgimento di pubbliche autorità esclude che in questi casi si possa invocare la “scusante” della profilazione a fini di marketing: il cittadino non può essere considerato alla stregua di un cliente o di un consumatore. Non può, pertanto, essere oggetto di manipolazioni, fidelizzazioni e profilazioni che vedano, come risultato finale, l’esasperazione dei profili discriminatori che probabilmente, nell’intenzione degli ideatori, ci si era proposti, forse ingenuamente, di combattere.
4. Così, dunque, rispetto ai casi oggetto di istruttoria da parte del Garante della privacy si può sostenere che all’istituto della cittadinanza si stiano pericolosamente affiancando logiche di mercato, che mirano a targettizzare la popolazione con l’obiettivo di estrarre dati (Zuboff, 2019). Agli strumenti tradizionali di governance democratica si accompagnano logiche di accumulazione informativa dando luogo a una sovrapposizione di confini tra il pubblico e il privato e creando interdipendenze fra soggetti pubblici e sponsor. Il rischio, allargando il campo visivo, è che tali processi vadano a detrimento di quelle categorie della società più sfavorite, poco compatibili con gli obiettivi di profitto e di marketing. Tali eventualità sono state drammaticamente sottolineate da vari studi e position paper (Wang & Tucker, 2021; Camera dei Deputati, Dossier n. 57, 2021), che fanno notare come l’opacità dei processi algoritmici di elaborazione dei dati e la distorsione nella progettazione dei sistemi possano indubbiamente provocare – come nel citato caso olandese, – discriminazioni, sottorappresentazioni di alcuni gruppi sociali, svantaggi a carico di specifiche categorie di cittadini, trasgredendo i più elementari principi costituzionali, con l’aggravante dell’assenza di una responsabilità “umana” diretta.
22 Giugno 2022
Libertà d’espressione: la Lista Pannella ottiene ristoro da una doppia pronuncia della Corte EDU
Con due sentenze, rese pubbliche il 31 agosto 2021, la prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato l’Italia in materia di libertà d’espressione. In particolare, nel caso Associazione Politica Nazionale Lista Marco Pannella e Radicali Italiani c. Italia (Ricorso n. 20002/13, a seguire “il primo caso”), la Corte emette una decisione di accoglimento parziale, rigettando la lamentata violazione dell’art. 10 CEDU ma, al contempo, riconoscendo l’assenza di un ricorso effettivo, come previsto dall’art. 13 CEDU. Quanto al caso Associazione Politica Nazionale Lista Marco Pannella c. Italia (Ricorso n. 66984/14, d’ora in poi “secondo caso”), si rappresenta una decisione di accoglimento pieno, certificando il mancato rispetto del pluralismo informativo in ambito televisivo.
Il primo ricorso nasce da vicende che risalgono alla fine delle elezioni del 2008, anno in cui la RAI annuncia che verranno soppresse le Tribune politiche, trasmissioni aventi natura di comunicazione politica in cui, nei periodi non interessati da campagne elettorali o referendarie, i “soggetti politici” venivano invitati a esprimere le proprie idee e informare i cittadini mediante forme di contraddittorio (qui la Delibera del 2002 che le disciplinava). Tuttavia, il potere di regolamentazione spettante in via esclusiva alla Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (d’ora in poi, Commissione per la vigilanza) a partire da quell’anno non viene più esercitato. La mancanza di istruzioni impedirà, quindi, alla RAI la riprogrammazione delle Tribune.
Secondo le due associazioni ricorrenti, l’inerzia parlamentare avrebbe provocato una violazione della libertà di manifestare liberamente le loro opinioni, impedendo loro di partecipare a dibattiti su argomenti politici estremamente significativi.
Un primo nodo che la Corte EDU è chiamata a sciogliere riguarda, dunque, la qualificazione dei soggetti interessati come “politici”, poiché i frequenti mutamenti di denominazione dei movimenti della cd. galassia radicale avevano sovente, come sottolinea il Governo italiano, provocato problemi di imputabilità degli atti (e conseguentemente, dei diritti).
In effetti, secondo quanto risulta dal Testo coordinato della delibera sulla comunicazione politica e messaggi autogestiti in periodo non interessato da campagne elettorali o referendarie, approvato dalla Commissione per la vigilanza nel 2002, la disciplina delle tribune politiche tematiche atta ad assicurare l’accesso paritario all’informazione e alla comunicazione politica può essere applicata ai soli c.d. soggetti politici.
L’art. 2 li definisce in maniera alquanto precisa, distinguendo l’ambito nazionale da quello regionale. Con riguardo al primo, sono certamente soggetti politici quelle forze politiche che trovano una proiezione in un corrispondente gruppo parlamentare costituito alla Camera o al Senato, nonché quelle, diverse dalle prime, che hanno “eletto con proprio simbolo almeno due rappresentanti al Parlamento europeo”. Fanno parte della categoria altresì le forze politiche che hanno membri delle Camere riferibili alle minoranze linguistiche o, ancora, i componenti del gruppo misto in uno dei due rami del Parlamento (da considerare, però, come una forza politica unica). Infine, anche i Comitati promotori di un referendum abrogativo sono definibili come “soggetti politici”, a condizione che la Corte di Cassazione abbia definitivamente accertato la legittimità della campagna referendaria e che la comunicazione politica riguardi temi ad essa correlati. Quanto all’ambito regionale, esulando dal presente discorso, si rimanda al testo integrale dell’articolo appena citato.
Il rilievo circa l’assenza della denominazione “partiti politici” da questa fonte secondaria di regolamentazione non è certo una questione di lana caprina: già con la sent. n. 225 del 1974 la Corte costituzionale aveva indirettamente segnato i limiti del ricorso a tale appellativo, evitando con ogni cautela di farvi riferimento. Cosicché, nell’esprimere un invito a legiferare in materia di comunicazione radiotelevisiva e pluralismo informativo, essa si rivolgeva al Parlamento affinché la regolamentazione dei programmi di informazione e culturali fosse realizzata attraverso la predisposizione di “direttive” atte a rispecchiare “la ricchezza e la molteplicità delle correnti di pensiero”. Inoltre, nell’attuazione dell’art. 21 Cost., essa auspicava che l’accesso alla radiotelevisione potesse essere imparziale nei confronti di tutti i “gruppi politici, religiosi, culturali nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società”, avvertendo che gli organi direttivi “dell’ente gestore” non dovessero essere “costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo”.
I partiti, insomma, non venivano menzionati una sola volta, tant’è che la chiarificazione di questa ambiguità che avvolge, forse intenzionalmente, la stessa nozione di soggetti politici viene differita all’ultimo momento utile, ossia il contenzioso presso i tribunali. Nella specie, infatti, è il Tar del Lazio che, investito dalla questione dalle due associazioni ricorrenti, con sent. n. 8064 del 2001, riconosce alla sola Lista Marco Pannella la qualità di “soggetto politico”, conformemente all’art. 7 del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. Quanto ai Radicali Italiani, la Corte europea non sembra accogliere l’argomentazione del Governo italiano, fondata sul fatto che i Radicali per statuto non possono presentare candidati alle elezioni. Differentemente, essa insiste sull’interrogativo se i medesimi possano essere qualificabili come vittima potenziale di una violazione della Convenzione. E in tal senso, esclude l’argomentazione volta a estromettere un comitato referendario, in quanto non portatore di un interesse attuale in periodi anteriori o posteriori alla celebrazione del referendum. Piuttosto, la Corte afferma che il ricorrente non può qualificarsi come “vittima” ai sensi dell’art. 34 CEDU, a meno che non sia stato direttamente leso dall’azione o dall’omissione in discussione o rischi di subirne gli effetti in futuro. Tale principio, già riconosciuto nel caso Monnat c. Svizzera viene applicato alla fattispecie concreta per escludere dal giudizio i Radicali Italiani.
Laddove, poi, con una serie di argomentazioni tecniche, la Corte respinge l’idea che la soppressione di una trasmissione televisiva abbia come effetto la limitazione del diritto di espressione di un movimento politico, giudicando che gli effetti di tale atto si rivolgono indistintamente a tutta la platea dei soggetti politici, e non a carico di uno solo (si vd. VgT c. Svizzera e TV Vest c. Norvegia) al contrario, riconosce la violazione del diritto ad un ricorso effettivo. La Lista Pannella, infatti, si è trovata davanti al rifiuto del giudice amministrativo a conoscere della questione, motivato dal fatto che la decisione della Commissione di vigilanza fosse un atto politico e, come tale, insindacabile in quanto rientrante nel discrezionale margine di apprezzamento parlamentare.
Alla luce di ciò, non può trascurarsi il fatto che la sentenza in commento, che pure contiene un “regolamento dei conti” di vicende alquanto risalenti, può avere echi molto attuali. La non appellabilità delle decisioni della Commissione di vigilanza costituisce, infatti, un vulnus strutturale da sanare subito, possibilmente entro novembre, data in cui la sentenza diventerà definitiva e certe forze politiche attualmente rappresentate in Parlamento avrebbero tutto l’interesse a guadagnare uno strumento ulteriore a corredo del right to dissent. A maggior ragione, è fortemente inappagante il vuoto di gravame a seguito di inerzia della Commissione stessa, poiché il mancato impulso può, come nella specie, impedire la riprogrammazione di una trasmissione televisiva, provocando delle variazioni ai formati tradizionali di sviluppo del dibattito politico.
Un tassello decisivo, ma giustamente assente, nel puzzle disegnato da questo arresto riguarda l’individuazione del soggetto chiamato a verificare in seconda battuta la legittimità delle decisioni della Commissione di vigilanza. Per soddisfare i requisiti della CEDU, il ricorso dovrebbe essere azionabile presso un’autorità terza, imparziale e indipendente, avvalendosi di una procedura che assicuri il rispetto dei principi del giusto processo e la possibilità di intervento di tutte le parti interessate. Una vocazione naturale a rivestire tale ruolo potrebbe essere rintracciata nell’AGCOM, ma c’è chi, come Bultrini, estensore del primo ricorso, ritiene che il compito meglio potrebbe essere svolto dalla figura, di creazione svedese ma ancora assente dal panorama istituzionale italiano, dell’Ombudsman.
Rievocando in maniera sommaria i fatti del secondo caso, invece, va detto che la Lista Pannella ha lamentato l’esclusione in un dato periodo dai mezzi di informazione (telegiornali nazionali e talk show televisivi), in spregio ai principi di imparzialità e di pluralismo dell’informazione. Investita dalla questione, l’AGCOM sceglie per due volte di non dar seguito al ricorso, giudicando che l’associazione aveva fruito di un tempo di antenna e di parola sufficiente, se paragonato ad altre forze politiche che difettavano di rappresentanti nelle istituzioni parlamentari. Il TAR del Lazio annulla la delibera impugnata n. 137/10/CSP con sent. 8064/2011, statuendo che l’AGCOM non aveva tenuto in dovuta considerazione il fatto che, per effetto di un accordo politico, la Lista Marco Pannella aveva ben nove rappresentanti eletti, iscritti però all’interno del gruppo Partito Democratico. Pertanto, la medesima non poteva essere assimilata ad una qualsiasi forza politica priva di eletti. Se questo assunto non può ampliare lo spettro definitorio della nozione di “soggetto politico” ut supra, certamente però è ritenuto idoneo a fondare una pronuncia che denuncia la carenza di motivazioni della delibera AGCOM.
Dopo una richiesta di ottemperanza, l’AGCOM emette un ulteriore provvedimento di archiviazione degli atti (n. 474/12/CONS), ritenendo che la figura dell’“accordo politico” non esiste nel tenore logico e letterale delle disposizioni che regolano la materia. Al massimo, “dimostra che [il partito democratico] ne incorpora e rappresenta le istanze a livello parlamentare e a livello mediatico”, cosicché il tempo attribuito al PD non può essere disgiunto da quello calcolato per i radicali.
Un successivo giudizio di ottemperanza dà ancora una volta ragione alla Lista Marco Pannella ma i tempi di antenna forniti a titolo compensatorio dalla RAI non sono ritenuti sufficienti. Da qui, il ricorso alla Corte europea che, dopo aver analizzato la legislazione interna e la pratica pregressa dell’AGCOM, constata il mancato rispetto del “principio di autonoma considerazione” delle trasmissioni di c.d. infotainement, cardine della prassi dell’AGCOM sul pluralismo informativo. Diversamente dalle trasmissioni di comunicazione politica, infatti, queste ultime non devono sottostare a rigidi criteri di ripartizione matematica dei tempi ma, nondimeno, devono rispettare il principio generale che situazioni simili devono essere trattate in maniera eguale. Inoltre, il dovere di cronaca desumibile dall’art. 21 Cost. solo può essere costituzionalmente compatibile in quanto fornisca una completa, obiettiva e attendibile rappresentazione delle diverse istanze politico-istituzionali. Ciò non sarebbe avvenuto nel caso di specie, poiché il mancato rispetto delle decisioni del TAR avrebbe provocato un pregiudizio morale alla ricorrente, inficiando il libero dispiegarsi del dibattito politico. Il monito contenuto nella pronuncia della Corte europea è grave e solenne: richiamando i casi Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia e Manole et al. c. Moldova, essa dichiara che non vi è democrazia senza pluralismo. In conclusione, il ristoro pecuniario di questa condanna, tutto sommato, può essere ritenuto modesto (12 mila euro), ma non vi è dubbio che le ripercussioni future della pronuncia saranno tutt’altro che di minima portata. Per citare solo tre spunti, basti pensare al risalto che viene dato ai c.d. accordi politici per la qualifica di soggetto avente diritto ad un accesso paritario ai mezzi di comunicazione televisivi; alla esortazione che la Corte compie all’Italia sulla governance dei media statali, invocando il binomio pluralismo-democraticità; nonché alla considerazione che per la seconda volta, dopo il caso Centro Europa 7 S.r.l., la Corte EDU diventa giudice d’appello delle decisioni di un’Autorità indipendente nazionale, appurando, con un controllo “di legittimità”, alcune gravi carenze motivazionali.
23 Settembre 2021
Sospensione di un partito membro dal PPE per mancato rispetto dello stato di diritto: il caso Fidesz, compromesso tattico o soluzione intempestiva?
Il caso Fidesz è un paradigmatico indicatore delle tensioni politico-costituzionali che stanno mettendo a dura prova l’efficacia delle iniziative in ambito europeo per la tutela dello stato di diritto. Sino ad oggi, infatti, la pratica benevolenza adottata verso le cd. new democracies, uscite da un passato autoritario e attratte nel sistema eurounitario, ha comportato un monitoraggio poco severo della compliance ai criteri politici di adesione (cd. criteri di Copenhagen), salvo forse il caso del Meccanismo di Cooperazione e Verifica (MCV) che sorveglia Romania e Bulgaria. Tuttavia, la regressione rispetto allo stato di diritto intervenuta in alcuni paesi dell’Europa centro orientale, fra cui in particolare Polonia e Ungheria, è diventata sempre più conclamata in seguito al rafforzamento di partiti populisti che operano ostentatamente in maniera inconciliabile con i principi della democrazia liberale (cfr. lo studio di G. Halmai, SSSUP Working Papers, 2017).
L’imminenza delle elezioni europee sta, inoltre, contribuendo ad inasprire i toni del dibattito lasciando presagire una possibile nuova proliferazione di quei regimi ibridi che, secondo la brillante intuizione di Levitsky e Way, possono essere definiti di “autoritarismo competitivo”. Il caso Fidesz integra bene la fattispecie, dato che in qualità di partito al governo ha posto in essere una serie di condotte e promosso riforme legislative e costituzionali che intaccano valori insopprimibili dell’Unione (core values).
Una valutazione politica dell’impatto di tali condotte sul rispetto dello stato di diritto è stata compiuta dall’assemblea del Partito Popolare Europeo che, con decisione non unanime, ha da ultimo votato la sospensione del movimento di Orbán, ai sensi dell’art. 9, comma 2 dello statuto interno, a causa delle sue tendenze antidemocratiche e della recente campagna di antagonismo contro le istituzioni di Bruxelles e contro lo stesso Jean Claude Juncker, presidente del PPE. Tale decisione, presentata come frutto di una “autosospensione”, comporterà una serie di conseguenze sulla posizione degli eurodeputati ungheresi nel PPE: con effetto immediato, infatti, nessuno di loro potrà più partecipare alle riunioni del partito, mantenervi alcun incarico né votare una qualsivoglia deliberazione.
La soluzione compromissoria, conseguente alla bocciatura della proposta radicale dell’espulsione, deriva dalla necessità del supporto di Fidesz affinché lo Spitzenkandidat Manfred Weber possa seriamente puntare alla presidenza della Commissione. Mantenere Fidesz nella famiglia dei popolari europei consentirebbe, inoltre, di circoscrivere ulteriori manovre antidemocratiche di Orbán, una circostanza che tuttavia sino ad oggi non ha trovato riscontri fattuali. È pur vero che una conventio ad excludendum contro gli ungheresi potrebbe, all’opposto, provocare un sospingimento del partito verso un conservatorismo ancora più netto, inducendolo ad allearsi con analoghi movimenti europei in ascesa per la creazione di un fronte unico sovranista. Del resto, lo stesso Orbán non nasconde le sue affinità con il movimento polacco Giustizia e Libertà (PiS).
La poco energica decisione che ha portato al congelamento dei rapporto federativo con Fidesz induce a pensare che sul PPE si rifranga solo debolmente l’importante richiamo contenuto nel reg. n. 1141 del 2014 e ripreso dal successivo reg. n. 673 del 2018, sui partiti politici europei. Nel secondo considerando, infatti, fra gli scopi della riforma figura sempre quello di «incoraggiare e assistere i partiti politici europei [...] nel loro sforzo di creare un legame forte tra la società civile europea e le istituzioni dell'Unione e in particolare il Parlamento europeo». La sospensione di Fidesz, se da un lato non soddisfa pienamente i fautori di una linea di rigore tesa all'estromissione di un partito membro la cui condotta non sia più rispettosa dei valori fondamentali, potrebbe quantomeno consentire di eludere l’attivazione delle competenze di accertamento da parte dell’Autorità per i partiti politici europei di cui al regolamento del 2014. Questa, infatti, verificando il rispetto delle condizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. c del medesimo, può legittimamente revocare la registrazione di un partito a livello europeo qualora non rispetti, nel suo programma e nelle sue attività, i valori fondativi dell’UE. Consequenziale sarebbe anche la decadenza a beneficiare del finanziamento a carico del bilancio dell’Unione europea o l’eventuale comminazione di sanzioni pecuniarie. L’art. 10 del succitato regolamento, che regola minuziosamente la procedura che l’Autorità deve seguire in questa ipotesi, prevede due preclusioni: da un lato, la verifica non può avvenire entro due mesi dalla celebrazione di nuove elezioni europee e, dall’altro, la revoca della registrazione può essere disposta «solo in caso di violazione manifesta e grave». La sospensione di Fidesz potrebbe dunque metaforicamente rappresentare una restitutio in integrum operata spontaneamente dal PPE per evitare qualsiasi misura sanzionatoria sul proprio conto.
Nonostante le pressioni degli altri partiti (si pensi agli attacchi provenienti dall’Alde o dall’SPD tedesco, verosimilmente più strumentali all’indebolimento del PPE), i popolari europei, scegliendo di collocare Fidesz nell’inedito limbo della sospensione, per ragioni numeriche e di tattica politica, di fatto hanno mostrato di non avere il coraggio per condurre funditus una palingenesi che possa contribuire davvero ad un riavvicinamento delle istituzioni europee alla società civile. La decisione definitiva sulle sorti del partito di Orbán è rinviata. Dopo le elezioni europee si costituirà un comitato di tre probiviri che valuteranno con rapporto scritto il rispetto delle condizioni imposte di “democraticità”.
Fidesz non è nuovo a simili caveat: un precedente di rilievo risale alla “risoluzione d’emergenza” adottata dal PPE al congresso di Helsinki del novembre 2018. Un documento sofferto, in cui si inscriveva il quintessenziale timore dei partiti europei a subire gli effetti delegittimanti del disincanto dei cittadini nei vari Stati membri, provocato dalla persistente incapacità delle istituzioni europee a trovare soluzioni condivise al problema del deficit democratico e dalla sempre maggiore presa dell’euroscetticismo. Di tale ultimo contagioso sentimento si fa, appunto, portavoce anche il partito di Viktor Orbán, pur essendo affiliato al PPE. La sua temeraria strategia politica mira, infatti, a sfidare le basi su cui poggia l’architettura europea e quella stessa dimensione di “pace e giustizia” data da molti per scontata. L’Europa, si proclamava nella risoluzione del PPE, è fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, del pluralismo, tutti egualmente messi a rischio – in una maniera “che non ha precedenti” – dai populismi e dagli estremismi nazionalisti.
La risoluzione di Helsinki suona quasi come una presa di coscienza del PPE, visto che contiene la vibrante riaffermazione di principi, come quello della libertà accademica (“a cornerstone of democracy”), conculcati dalle pesanti restrizioni disposte “in alcuni Stati membri”. Non si compie un diretto riferimento all’Ungheria, ma è sembrato evidente che la malcelata allusione faceva da contraltare alle doglianze manifestate contro Budapest in un altro importante documento, il rapporto Sargentini. Approvato da una larghissima maggioranza nel Parlamento europeo (con una rilevante spaccatura, tuttavia, all’interno dello stesso PPE), l’addebito mosso dall’on. Sargentini e giudicato da Orbán come frutto di un “abuso di potere” ha messo in luce aspetti controversi e serie violazioni allo stato di diritto presenti nel sistema costituzionale e nello spazio giuridico ungherese. Da ciò conseguirebbe un’automatica violazione dei valori iscritti nel generico ma irretrattabile e “supercostituzionale” articolo 2 del TUE. Le apprensioni dei relatori vanno dall’integrità del sistema giudiziario e della Corte costituzionale al sistema elettorale, dalla libertà di espressione, di religione, di insegnamento accademico e di associazione (si pensi alla controversia sulla Central European University legata a Soros), sino al problema dell’immigrazione, del diritto di asilo e delle discriminazioni a carico delle minoranze rom ed ebree.
L’approvazione storica di questo documento dal Parlamento europeo ha attivato la procedura di cui all’art 7 TUE. Pensata per casi eclatanti, quella che nella vulgata comune è stata identificata come “opzione nucleare” oggi sembra non possedere più una natura eminentemente “eventuale”. Lo è però la sua conclusione, poiché gli ostacoli procedurali da superare non sono di second’ordine.
Il Trattato di Nizza, preconizzando l’indebolimento della democrazia costituzionale in alcuni Stati, aveva provato a rafforzare tale meccanismo di tutela, anticipando la soglia d’inizio dall’ipotesi di “seria violazione” al semplice “rischio di violazione”. Eppure le misure preventive di cui all’art. 7.1 TUE, una volta innescate, difficilmente potranno avere seguito per varie ragioni. In primo luogo, investito dalla questione, il Consiglio non ha un termine per decidere. Tutto dipende dalla volontà della presidenza di turno di mettere in discussione la votazione. In secondo luogo, dopo il contradditorio con lo Stato “imputato”, condizione necessaria è che si raggiunga in seno al Consiglio una maggioranza di quattro quinti, soglia diabolica che, peraltro, non conduce all’adozione di sanzioni ma soltanto di ulteriori raccomandazioni. L’Ungheria potrebbe contare sull’appoggio del gruppo di Visegrad (si consideri che la Polonia di Jaroslaw Kaczynski è anch’essa sotto le lenti del meccanismo preventivo) e di altri paesi “a rischio”.
In terzo luogo, l’accertamento di cui all’art. 7.1 non conduce a nulla se non si attiva anche il meccanismo sanzionatorio di cui all’art. 7.2 che prescrive un nuovo contraddittorio, nel caso sia constatata una “seria e persistente violazione”. Solo allora seguirà un voto – stavolta – unanime del Consiglio europeo, condizione per passare alla fase scandita dal comma 3, che abilita il Consiglio, a maggioranza qualificata, a comminare la regina delle sanzioni: la sospensione da tutti i diritti di Stato membro (sul funzionamento dell’art. 7 può essere utile la seguente grafica).
La difficile realizzabilità pratica di questa procedura ha, peraltro, condotto alla formulazione di una proposta della Commissione europea finalizzata a dotarsi di un arsenale sanzionatorio più efficace e spedito. Nel dibattito sul bilancio settennale dell’Unione, è stata avanzata l’idea di condizionare l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello stato di diritto, una decisione a cui i paesi di Visegrad si oppongono strenuamente. Polonia ed Ungheria, ad esempio, sono grandi beneficiari di trasferimenti europei, soprattutto nell’ambito della Politica Agricola Comune e della politica di coesione e sono entrambi “in osservazione speciale” a causa del voto di cui all’art. 7.1 TUE.
4 Aprile 2019
Tendenze del semipresidenzialismo francese alla luce del discorso di Macron a Versailles
L’8 gennaio 1790, nove mesi dopo il suo insediamento come Presidente, George Washington, in ottemperanza all’art. 2, sez. III della Costituzione degli Stati Uniti, indirizzava al Congresso in seduta comune il suo primo messaggio annuale. In realtà, quello che poi, grazie alla fortunata espressione di Roosevelt, sarebbe divenuto il discorso sullo stato dell’Unione, aveva radici ben più antiche, risalenti alle monarchie medioevali. Da un’epoca in cui il Sovrano convocava il Parlamento per illustrare le politiche che intendeva perseguire, la tradizione si è consolidata, poi, nel sistema anglosassone, ove il suddetto discorso, in costanza dell’assolutismo, assumeva talvolta i tratti di un avvertimento, quasi per ricordare alla riottosa assemblea dei Comuni che al Monarca, e soltanto ad esso, spettava l’ultima parola sulle decisioni relative alla vita del Paese.
Lo Speech from the Throne era usualmente proferito in maniera orale e, salvo eccezioni, dal Re in persona. Fu questa, probabilmente, la ragione che spinse Washington ad aprire la tradizione americana con un messaggio scritto e consegnato al Congresso. Un discorso declamato in persona avrebbe rischiato di rievocare i costumi di quella madrepatria da cui con tanta determinazione era stata ottenuta l’Indipendenza.
Nell’epoca attuale, la mediatizzazione e la personalizzazione della vita politica rendono sempre più impellente la ricerca di occasioni per tracciare pubblicamente un bilancio o per esteriorizzare una certa linea d’azione. La decisione del neo eletto Presidente francese, Emmanuel Macron, di parlare al cospetto delle Camere riunite a Versailles, e non all’Eliseo, fa riaffiorare in modo sottile quella consuetudine monarchica di cui Washington aveva inteso sbarazzarsi. Tuttavia, note di folclore a parte, è opportuno compiere qualche considerazione sulla sostanza del discorso, visto che, in alcuni punti, il Presidente ha annunciato di voler compiere importanti riforme. Se effettuate, come promesso, il volto politico-istituzionale della Francia potrebbe mutare profondamente.
Nel riassumere il poderoso messaggio, si segnala, in relazione al Parlamento, l’annuncio di una riforma intesa a ridurne i membri di un terzo, eleggendoli «con una dose di proporzionale» ed evitando quanto più possibile il cumulo dei mandati. L’obiettivo è disporre di un’assemblea «in cui il lavoro diventa più fluido, dove i parlamentari si possono circondare di collaboratori più preparati e più numerosi». Viene quasi da pensare ad un Parlamento amministrato come una start-up: la navette sarebbe «semplificata» per far fronte alle esigenze di urgenza che i tempi lunghi dei lavori parlamentari non riescono ad appagare; i testi di legge più importanti sarebbero sottoposti a una «valutazione d’impatto» entro due anni dalla loro entrata in vigore; quelli meno importanti potrebbero essere votati in commissione; le procedure parlamentari dovrebbero essere «adattate agli obiettivi» e l’attività complessiva sarebbe «vivificata da una rotta chiara»; quanto al Presidente della Repubblica “in Parliament”, diventerebbe fisso l’appuntamento di fronte al Congresso per un suo «rendiconto annuale».
Rispetto al potere giudiziario, poi, il Presidente proclama di voler abolire la Corte di Giustizia, non ritenendo più attuale l’esistenza di una «giurisdizione d’eccezione» riservata al giudizio sulla responsabilità ministeriale. Per potenziare la separazione tra esecutivo e giudiziario, inoltre, si intende rinforzare il ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura, limitando l’intervento dell’esecutivo nelle nomine dei magistrati del cd. parquet (la carriera dei pubblici ministeri).
Se queste riforme dovessero essere osteggiate dal Parlamento, nel quale, ad ogni modo, Macron vanta una maggioranza senza precedenti, il Presidente rivela che non esiterebbe ad appellarsi alla volontà del popolo, per mezzo di un referendum. Un popolo le cui aspirazioni verso una democrazia più partecipativa sarebbero, peraltro, assecondate dall’obiettivo di facilitare il ricorso alla petizione popolare. Siglando un patto coi cittadini, la più alta carica dello Stato aspira a ricreare, con qualche ridondanza demagogica, quel patto di fiducia su cui si fonda la sua «Repubblica contrattuale».
Rileva, infine, una nuova ed insolita configurazione del rapporto fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri. È il primo, infatti, a «fissare il senso del quinquennato», a cui il secondo dovrà, successivamente, dar corpo, dirigendo l’azione del governo. L’agenda politica del nuovo Presidente della Repubblica si snoderà attraverso «obiettivi chiari», assegnati, secondo un meccanismo a cascata, al Primo ministro, e da questi ai suoi Ministri, tenuti ad un rendiconto annuale al Presidente stesso: «questo è il circolo virtuoso dell’efficacia». Anche qui i richiami ad una realtà gerarchizzata di tipo aziendale, con valutazioni “a performance”, sembrano piuttosto evidenti.
La domanda legittima che l’analisi di questo discorso può far sorgere, dunque, è la seguente: fino a che punto l’attitudine decisamente forte della presidenza Macron rientra nel fisiologico tasso di variabilità che da sempre ha caratterizzato lo svolgimento pratico della forma di governo francese? E quanto è plausibile la tesi di una virata verso una VI Repubblica, più presidenziale?
Bisogna considerare, infatti, che, come l’esperienza costituzionale italiana, anche quella francese è stata connotata da una serie di “modificazioni tacite” che, in via di prassi, consuetudine o convenzione, hanno riempito gli spazi vuoti della Costituzione, per rendere politicamente viabili e concordanti le relazioni interorganiche nell’esecutivo. La Francia, tuttavia, rispetto all’Italia, ha storicamente assistito allo scontro-incontro fra l’esigenza di razionalizzare il Parlamento e quella, opposta, di irrobustire il Presidente. Su questo si basava, infatti, il patto costituente stipulato dopo la crisi algerina nel 1958: un equilibrio camaleontico che, con un complicato meccanismo di freni reciproci, sarebbe stato capace di impedire il ripetersi dell’assemblearismo, da un lato, e del bonapartismo, dall’altro. A conferma di ciò, si rammenti l’osservazione di Pinelli (Dir. e Soc., 1981) per cui il compromesso insito nella Costituzione della V Repubblica non sarebbe, come nelle altre carte costituzionali, incentrato sui rapporti economici e sociali, bensì proprio sull’organizzazione costituzionale.
È qui che si trova il nervo scoperto dell’assetto politico-istituzionale francese: le molteplici letture dei “paletti” costituzionali hanno fatto in modo che, nel corso degli anni, la struttura diarchica dell’esecutivo si configurasse in modo sempre nuovo, sino a condurre un’illustre dottrina a formulare il concetto di “ultrapresidenzialismo”, sperimentato nei lunghi periodi di maggioranze del Presidente (Troper, Revue du droit public, 1989). La teoria della preminenza “a fasi alterne”, tuttavia, si fonda su dinamiche politiche assolutamente fattuali, mai codificate in norme organizzative.
Inoltre, rispetto alle tre scuole di pensiero cui si ispira la V Repubblica, nell’ambito della regolamentazione dei poteri fra esecutivo e legislativo, è possibile trovare almeno un punto di contatto con le tendenze manifestate nel discorso di Versailles. Non è, infatti, agli insegnamenti di Michel Debré o di Boris Mirkine-Guetzevitch che Emmanuel Macron è tributario, quanto, piuttosto, all’influsso del movimento gaullista. L’appello al popolo di Macron è volto, in modo analogo alle vicende di De Gaulle, a superare un paventato stallo fra esecutivo e legislativo, rivolgendosi ad una più onnicomprensiva assise popolare, in chiave antipartitica e antiassembleare. La vocazione referendaria, dunque, rammenta quello spirito teso a superare le divergenze procedurali e ostruzionistiche dentro le istituzioni con strumenti eccezionali, pronti ad essere “normalizzati”. Il Presidente dichiara, infatti, che non esiterà a porre alla Nazione la sua singolare questione di fiducia, nel tentativo di ingiungere, con i ritmi incalzanti e drammatici della spettacolarizzazione politica, un proprio ed autonomo indirizzo.
A prima vista, dunque, sembrerebbe essere di fronte a un prototipo nuovo: il dualismo dell’esecutivo ritradotto in chiave unipersonale, in cui il Primo Ministro, marginalizzato al ruolo di puntuale rendicontatore, vivrebbe all’ombra di un Capo di Stato, clef de voute di tutto il sistema. Lo stesso Parlamento potrebbe risultare ridimensionato dall’esito sorprendente del “fenomeno maggioritario alla francese”, visto che, nel secondo turno delle legislative, si è prodotta una maggioranza numericamente molto forte, identificata nel movimento rinnovatore del Presidente. E così potrebbe risultare confermato l’adagio “si veut le Président, si veut la loi”. La rottura già verificatasi di alcune prassi parlamentari, come quella dell’attribuzione all’opposizione di almeno due Vicepresidenze dell’Assemblea, induce a pronosticare un uso certo non indulgente delle prerogative procedurali, in nome di quell’efficacité che tanto rappresenta il vessillo ispiratore del nuovo corso politico.
Sarebbe legittimo obiettare a quanto detto sinora che, in ogni caso, la costituzione francese prevede espressamente che l’esercizio della sovranità popolare avvenga mediante la rappresentanza e anche i referendum, così che il ricorso allo strumento referendario non sarebbe poi una novità nello scenario politico-costituzionale dell’Esagono. Inoltre, in assenza di cohabitation, è del tutto normale che il Presidente della Repubblica si trovi in una condizione di netta supremazia, e sia capace di imporre al Primo Ministro i propri desiderata. Basti pensare alla prassi, non costituzionalizzata, della dimission-revocation, che ricompone il frazionamento del potere esecutivo nettamente a favore del Presidente della Repubblica e che, per di più, è stata alimentata dall’assoggettamento volontario degli stessi primi ministri (ad esempio, sotto gli anni di Giscard d’Estaing, si sviluppa la prassi della consegna di una lettera di dimissioni in bianco contestualmente all’accettazione dell’incarico).
La maggiore difficoltà, in un simile contesto, sta nel valutare l’idoneità dei vari contropoteri a sopportare, con un argine sufficientemente resistente, il contrappeso del blocco di potere promanante dal Capo dello Stato. Infatti, se il referendum ha poco valore, visto che promette di configurarsi come uno strumento di consenso (e di veto) presidenziale, neanche il potere giudiziario assicura quella sufficiente dose di imparzialità, se si considera che la presidenza del CSM francese è assegnata al Capo dello Stato, mentre la vicepresidenza spetta a Madame la Garde des Sceaux. Lo stesso Conseil constitutionnel vanta una composizione politica a pieno titolo, visto che sono membri di diritto gli ex Presidenti della Repubblica, mentre gli altri nove sono scelti, in ragione di un terzo, rispettivamente dal Capo dello Stato e dai due presidenti d’Assemblea. Quanto all’opposizione parlamentare, si è già osservato che, complici sia il sistema maggioritario a doppio turno, che l’effetto trascinatore delle presidenziali, è uscita decimata dalle elezioni. Non bisogna dimenticare, poi, il controllo finanziario della Cour des Comptes e la funzione amministrativa consultiva del Conseil d’Etat, poteri di garanzia certamente importanti, ma lungi dal poter dialogare su problematiche di ampio spettro. Resta, dunque, l’opinione pubblica, un contropotere che, se per gli epigoni di Dicey sarebbe certamente stato sufficiente a vivificare la forma di governo, nei giorni nostri ha dato tristemente prova di essere facilmente manipolabile.
Pertanto, la fortunata congiunzione astrale che ha permesso a Macron di ottenere una vasta platea di consensi, tradottisi in membri del Parlamento, persuade a ritenere che l’ipotesi di una svolta in senso presidenzialista non paia del tutto peregrina. Chissà, dunque, che l’art. 89 Const., il grimaldello della revisione costituzionale francese che, nel corso degli anni, da pouvoir partagé si è trasformato in iniziativa solo formalmente primoministeriale ma sostanzialmente presidenziale, non possa essere presto attivato per formalizzare quella transizione di cui adesso sembra potersi scorgere un bocciolo.
17 Luglio 2017