Il senso di Diritti Comparati per la crisi: emergenza, protezione dei diritti fondamentali e radici europee

1.Le ragioni per un editoriale. La direzione e la redazione tutta di Diritti Comparati, nel lavorare ai contenuti del numero 1/2020 della Rivista e alla programmazione dei post che continuano ad apparire sul Blog, non hanno potuto non interrogarsi sui gravi problemi posti dalla pandemia causata dal Covid-19 e dalle misure adottate, non solo in Italia, per fronteggiarla.
Mentre, come cittadini, assistiamo con preoccupazione alla diffusione dell’epidemia in Italia e nel mondo, come giuristi osserviamo le ripercussioni che le misure di contenimento dell’epidemia determinano sulla tutela della salute, sulle condizioni di vita delle fasce più deboli della popolazione, sulle libertà protette dalla Costituzione, sul funzionamento del sistema democratico-rappresentativo, sulle politiche dell’Unione europea invocate dai cittadini e dalle istituzioni degli Stati membri più colpiti dalla pandemia.
Sono temi che rimandano alla fondazione del nostro progetto scientifico ed editoriale, su cui abbiamo da sempre promosso un confronto aperto e dialettico, al nostro interno e con la comunità scientifica, e che in questa fase di emergenza tornano a porci interrogativi formidabili e ineludibili.

 

2.Le alternative teoriche dell’emergenza e le sfide del costituzionalismo. Il giurista non si può esimere, innanzitutto, da una nuova riflessione sul controverso rapporto fra diritto costituzionale ed emergenza. Si tratta di un tema enorme che si ripropone ciclicamente nella teoria costituzionale (fra gli altri, Machiavelli, Schmitt), riconducendoci alla nota dicotomia fra teorie moniste e dualiste dell’emergenza e al dibattito sulla natura dei poteri di emergenza (poteri “extra-ordinem” o “intra ordinem”?).
L’approccio “io resto a casa”, perseguito con i numerosi atti posti in essere dal Governo Conte, e le parole di Boris Johnson (poi rimangiate) relative all’ineluttabile perdita dei nostri cari richiamano una distinzione cara agli studiosi statunitensi, in particolare a Vermeule nel suo famoso volume The Constitution of Risk: quella fra precautionary constitutionalism e optimizing constitutionalism. Non a caso, la formula “massima precauzione” è stato utilizzata più volte dal Presidente Conte. Il precautionary constitutionalism parte da un presupposto di sfiducia nei confronti del potere (qualcosa di analogo a quello che Zolo aveva chiamato “pessimismo potestativo”), implicando che “constitutional rulemakers and citizens design and manage political institutions with a view to warding off the worst case”. Il secondo approccio, il c.d. “optimizing constitutionalism”, invece “trades off all relevant political risks, giving them their due weight in the circumstances, without any systematic skew or bias against any particular type of political risk”.
Questa macro-distinzione – che mette in crisi paradigmi “classici” come quello schmittiano – può essere adattata anche a scenari diversi da quello statunitense, in particolare a quello europeo. Le costituzioni per Vermeule sono strumenti di gestione del rischio, in particolare di quello politico: “constitutions and public law generally are best understood as devices for regulating and managing political risks”.
Nello specifico, nella sua impostazione tipicamente statunitense, il diritto costituzionale si dovrebbe interessare soprattutto dei c.d. rischi di secondo grado (“second order risk”), quelli legati, cioè, all’architettura istituzionale e alla separazione dei poteri. Se riadattato al contesto e al dibattito europeo, si potrebbe affermare che l’approccio del precautionary constitutionalism presuppone una chiara gerarchia di valori costituzionali, per cui la necessità di preservare il contenuto di un bene assoluto come la salute inevitabilmente porta a un evidente sacrificio degli altri. Esso inoltre presuppone lo “scenario peggiore” ed è molto meno disposto al bilanciamento fra beni costituzionali. Le virtù del principio di precauzione sono state messe in discussione fin dai noti lavori di Sunstein ed è in questa tradizione che si innestano gli studi di Vermeule. Proprio sulla base di queste critiche si erge l’alternativa del c.d. “optimizing constitutionalism”, che fa dell’assenza di gerarchie rigide e prestabilite fra beni costituzionali, della flessibilità e del bilanciamento caso per caso le sue premesse. Questo si traduce nella necessità di accettare possibili lesioni del diritto alla salute volte ad evitare il sacrificio totale dell’attività economica ad esempio.
Sul come costituzionalizzare l’emergenza il diritto comparato offre diversi modelli: la nostra Costituzione non menziona nemmeno il termine emergenza, e non concepisce altri stati di eccezione diversi dallo stato di guerra. Ovviamente ciò non esclude totalmente la possibilità di leggere l’emergenza per “principi”, ma indubbiamente presta il fianco alle ragioni della necessità. Del resto, anche la previsione di specifici poteri e disposizioni attivabili in situazioni straordinarie presenta dei rischi non da poco, potendo questi ultimi essere oggetto di abuso da parte, specialmente, dell’esecutivo (l’esperienza weimariana e, più recentemente, quelle latino-americana e turca sono emblematiche). È illusorio pensare di definire e addomesticare il concetto e i poteri di emergenza? Il dibattito assomiglia a quello sulla costituzionalizzazione della secessione, in entrambi i casi spesso la codificazione del concetto nel testo costituzionale rischia di essere una trappola suicida per la sostenibilità del sistema giuridico di riferimento.
Per altre costituzioni, il silenzio sull’emergenza non è un’opzione, anche a costo di limitarsi a una generica nozione di emergenza, legata ad esempio alla catastrofe naturale. Spagna, Germania e Francia prevedono invece diversi gradi di emergenza costituzionale, con un progressivo coinvolgimento delle assemblee parlamentari (o almeno di una delle due camere in modelli bicamerali) nell’attivazione o nella proroga dei diversi stati di emergenza. Il caso spagnolo dell’art. 116 della Costituzione è particolarmente dettagliato (Estado de alarma, Estado de excepción, Estado de sitio), chiarendo anche l’impatto sui diritti fondamentali richiamati dall’art. 55 (“Suspensión de derechos y libertades”) dell’attivazione dei diversi tipi di emergenza descritti dall’art. 116. Il caso francese, accanto ai “pouvoirs exceptionnels” dell’art. 16 della Costituzione e allo stato di assedio disciplinato dall’art. 36, ha però avuto il suo “vero” baricentro operativo – almeno fino a ora – nella vecchia legge del 1955 sullo stato d’emergenza. Tuttavia, la recentissima approvazione di una legge sull’état d’urgence sanitaire mette in luce che non sempre queste soluzioni graduate riescono a tenere adeguatamente conto della grande varietà di problemi astrattamente prefigurabili.
Infine, a testimonianza della dimensione costituzionale dell’emergenza, sono da ricordare anche alcune esperienze, come quella israeliana, che hanno visto nell’emergenza un motore di sviluppo costituzionale. Tuttavia, come i recentissimi sviluppi ungheresi confermano, l’uso dei poteri emergenziali, specie se non accompagnato da un limite temporale e da adeguati contrappesi, cela spesso il rischio di veri e propri abusi, e ciò conferma la tensione esistente fra emergenza e diritto costituzionale.

 

3.Emergenza, emergenze. I piani di lettura e i problemi aperti. Se quelli appena fatti emergere sono gli interrogativi che il giurista, ed in particolar modo il costituzionalista e il comparatista, sente più pressanti in questa stagione, Diritti Comparati, di fronte ai tantissimi percorsi di approfondimento potenzialmente emergenti dal tentativo appena fatto di “dissodare” la questione macroscopica del rapporto tra emergenza e diritto costituzionale, ha deciso di provare ad individuarne tre tra i più vicini al proprio humus. Che poi è quell’humus che dieci anni a questa parte ci porta a indagare le modalità di protezione (e di bilanciamento tra) dei diritti fondamentali in Europa. Visto il codice genetico originario del nostro laboratorio, quasi spontaneamente sono dunque emersi i tre percorsi di approfondimento privilegiati a cui si faceva prima riferimento.
In primo luogo, guardare all’emergenza per cosi dire istituzionale, sia sul fronte europeo che su quello interno.
In secondo luogo, concentrarsi su un altro tipo emergenza, non meno drammatica, ovvero quella sociale causata dall’impatto durissimo delle misure adottate sul tessuto economico e sociale del Paese. Un tessuto prossimo allo strappo.
In terzo luogo, approfondire il rapporto tra emergenza e tutela dei diritti e delle libertà, passando dalle restrizioni più evidenti nel contesto analogico, a quelle che incidono maggiormente su diritti, non meno reali, nel contesto digitale, con ovvio specifico riguardo alla protezione dei dati personali.

 

4.Il piano istituzionale e la sua crisi. L’Europa e l’Italia. Sul piano sovranazionale, Consiglio europeo, Eurogruppo e Commissione, per un verso, BCE e BEI, per altro, appaiono in particolare le istituzioni che sono chiamate a fronteggiare le sfide attuali e a comporre i dissidi tra i vari governi nazionali. Le vicende delle prossime settimane, pertanto, metteranno inevitabilmente alla prova l’equilibrio politico-istituzionale che ha preso forma dopo le elezioni europee del maggio 2019, con l’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione e la successione alla presidenza della BCE.
Da un lato, con riferimento alle scelte di politica economica e monetaria che dovranno essere intraprese, come accaduto in occasione della crisi finanziaria, anche in questo caso sembra evidente il rischio che la pandemia si trasformi in una crisi del debito sovrano. Del resto, una delle principali debolezze del progetto di integrazione europea si può osservare proprio nella rigida distinzione tra politica economica e politica monetaria. Se, astrattamente, è possibile tracciare questa linea, in concreto molto più difficile è essere fedeli ai suoi presupposti.
Dall’altro lato, in merito alle implicazioni politiche, l’approccio per emergenze asimmetriche, che origina da una idea per cui condizionalità e solidarietà sono irrelate, sottovaluta la sua capacità di produrre nuove e minacciose “asimmetrie” sul piano del funzionamento democratico.
Tra questi due poli, in definitiva, sono chiamati a operare gli interventi della BCE, che, lungi dall’essere idonei a fondare una comunità di responsabilità, hanno negli ultimi anni, peraltro tra vari caveat e molteplici limitazioni, consentito all’Unione e in particolare ad alcuni suoi stati di poter evitare il default. E tuttavia anche questi interventi devono comunque tenere conto della necessità di non favorire il moral hazard, evitando inoltre che nel perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi o quello ad esso subordinato del sostegno alle politiche generali dell’Unione si avviino dinamiche di condivisione del rischio.
Al di là dei tecnicismi, pur assai rilevanti in questi casi, nella attuale implementazione della reazione economica alla crisi sanitaria sempre più appaiono evidenti le contraddizioni di un sistema che, così strutturato, non solo non è solidale, ma rischia di innescare paradossali meccanismi per cui alcuni stati membri finiscono per beneficiare della debolezza di altri. Da questo punto di vista, è certo che fuori dalle garanzie di stabilità che l’euro di per sé offre ai paesi in cui la moneta unica circola la soluzione non sarebbe comunque indolore. Di converso, sarebbe già possibile fare molto per eliminare alcuni evidenti cortocircuiti che le regole attuali innescano senza con ciò, almeno per il momento, puntare a rivoluzionare il sistema del debito sovrano per cui ogni stato è chiamato a rispondere del proprio. Qui le regole della solidarietà risponderebbero prima di tutto a una logica per cui si chiede ai vari stati membri di non beneficiare perlomeno della debolezza altrui, fosse anche solo dei differenziali di rendimento.
A tal proposito, sicuramente da sostenere è l’idea di rafforzare e orientare il bilancio europeo a sostegno di politiche anticicliche, funzionalizzando l’uso delle risorse comuni per contrastare i rischi dei contraccolpi economici della crisi. Ma soprattutto, il processo di integrazione ha senso, anche guardando ai valori inclusi nell’art. 2 TUE, solo se fa suoi e al contempo contribuisce a sostenere a livello statuale quei fondamentali connotati del costituzionalismo, puntando a rafforzare i processi di composizione tra libertà e uguaglianza. Per far ciò, occorre offrire un sostegno per presidiare le conquiste del welfare state e per governare il capitalismo. Va costruita in concreto una coesistenza fruttuosa con la democrazia rappresentativa nel nuovo ordine globale. Probabilmente, a tal fine, non è necessario costruire una statualità sovranazionale. È però vitale orientare l’azione delle istituzioni europee affinché esse operino sinergicamente all’obiettivo di sostenere il processo di “liberazione nella libertà” che lo stato nazione, da solo, non è più in grado di garantire, almeno in Europa.
La soluzione pertanto non può che essere anche politica e qualitativamente nuova. La possibilità di ricorrere al credito nella sospensione delle regole del Patto di stabilità e crescita rischia, così come il MES con la sua rigorosa condizionalità, di frustrare l’esigenza di proteggere il corretto funzionamento della democrazia rappresentativa. E l’attivazione della clausola di sospensione svela finalmente i pericoli che si celano nel ricorso al credito.
Si impone allora di fare una scelta che, guardando al capitalismo democratico e al sostegno all’economia reale come prima di tutto qualcosa che deve essere funzionale a sostenere percorsi di crescita e liberazione, sia pur nel rispetto dei tratti fondamentali dell’economia di mercato, aiuti le varie comunità politiche nazionali a preservare i presupposti fondamentali del costituzionalismo novecentesco e, soprattutto, la coesistenza equilibrata di diritti e democrazia.

Con riferimento al fronte nazionale dell’emergenza, guardata da una prospettiva istituzionale, naturalmente ci si interroga sulle tensioni cui, in questo frangente, è sottoposta la dialettica legislativo-esecutivo che identifica gli ordinamenti liberal-democratici.
Da sempre, del resto, le problematiche che a vario titolo coinvolgono il governo nelle democrazie costituzionali implicano l’estenuante ricerca di un equilibrio tra principio di organizzazione e libertà, potere e garanzia. In tempi di emergenza, raggiungere e preservare tale equilibrio rappresenta una sfida esistenziale per ogni sistema liberal-democratico.
Nella vicenda che stiamo vivendo in queste settimane, tale equilibrio è stato messo alla prova innanzi tutto dall’esercizio di poteri normativi del Governo. Lo schema inizialmente previsto dal d.l. n. 6/2020 all’art. 1 prefigurava astrattamente le misure di contenimento da adottarsi per contrastare la diffusione del virus e all’art. 3 descriveva il meccanismo di adozione degli atti secondari, nella forma di DPCM, chiamati ad applicare le misure in reazione alla effettiva gravità dell’epidemia. La scelta di affidare l’adozione di tali misure – che vanno a incidere diritti costituzionali in alcuni casi protetti da riserve assolute – ai DPCM non ha mancato di suscitare perplessità, anche perché questi, adattando alla situazione contingente la portata del d.l. che li legittimava, erano di fatto in larga misura innovativi. Le misure di contenimento contenute nei DPCM sono state successivamente trasferite, e quindi tipizzate, nel d.l. 19/2020, così andando incontro alle obiezioni di chi riteneva preferibile, per l’introduzione di siffatte limitazioni, la forma del d.l., più adatta – assunto il rango costituzionale dei diritti coinvolti – nonché sottoponibile al Parlamento in sede di conversione.
Agli occhi di molti l’adozione dei DPCM avrebbe costituito un rischioso precedente in direzione della marginalizzazione sia del Parlamento che del Capo dello Stato. Il d.l. 19/2020 è intervenuto nel senso di un maggiore coinvolgimento del Parlamento, introducendo un ulteriore passaggio (art. 2, co. 5) nel loro procedimento di adozione, consistente nella trasmissione immediata ai Presidenti delle Camere e nell’obbligo per il Presidente del Consiglio o per un Ministro da lui delegato di riferire ogni quindici giorni alle Camere sulle misure adottate. Il Parlamento, il cui numero di sedute è stato ridotto in modo da concentrare i lavori ai fini della conversione dei d.l., nonché convocato dai Presidenti per approvare una risoluzione che autorizzasse lo scostamento e l’aggiornamento del piano di rientro verso l’obiettivo di medio termine, ha visto limitare l’accesso alla maggioranza assoluta dei membri sia della Camera che del Senato. Quanto al voto elettronico, sulla cui introduzione si è pur discusso, al momento sembra una soluzione assai difficilmente praticabile, oltre che probabilmente poco opportuna. Nel corso dell’informativa alle Camere del Presidente del Consiglio, questi ha affermato la disponibilità del governo al confronto con le opposizioni, con alcuni esponenti delle quali ci sarebbero già stati degli incontri, demandando tuttavia al Ministro dei rapporti con il Parlamento di elaborare un ulteriore percorso in modo da acquisirne più puntualmente le valutazioni. Per quanto riguarda invece il rischio di esautoramento del Capo dello Stato, questo è stato in un certo qual modo “neutralizzato”, seppur in via di fatto, da più interventi del Presidente Mattarella, che, ricorrendo agli strumenti che lo caratterizzano in quanto organo di garanzia, ha avallato l’operato del governo esortando i cittadini ad osservarne i provvedimenti.
Modifiche assai significative si possono registrare, in questa fase, sul fronte degli attori coinvolti nell’azione governativa. Da un lato, è evidente la formazione di un gabinetto ristretto formato dal gruppo di esperti sanitari del Governo, dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai ministri competenti, con il coinvolgimento dei Presidenti delle Regioni, sia singolarmente che attraverso la Conferenza Stato-Regioni. Questa nuova e inedita dislocazione dell’azione governativa non pare incompatibile con i principi di funzionamento dell’organo governativo, tradizionalmente associato in Italia a strutture debolmente tipizzate. Dall’altro lato, assai significativo è il fronte dei rapporti con le Regioni, cui, dopo una fase di confusione istituzionale, è stata attribuita da ultimo la possibilità di inasprire le misure dettate a livello nazionale attraverso propri provvedimenti (pur entro limiti che vanno attentamente presidiati).
Allo stato, non resta quindi che osservare gli svolgimenti futuri di questo percorso che si regge su quattro tipologie di fonti poste su ranghi diversi (decreto-legge, decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ordinanze e circolari ministeriali, ordinanze dei Presidenti di Regione), che al di là delle problematiche di gerarchia delle fonti si muove sul filo dei principi fondamentali di organizzazione della nostra comunità politica, primo fra tutti il principio di legalità.

 

5.Il piano dell’emergenza sociale. Muovendo ora, come anticipato in apertura, al secondo dei percorsi di approfondimento prima richiamati, non si può non prendere atto che a segnare un tratto distintivo di questa crisi sia il suo deflagrare soprattutto sul piano sociale e sulla tenuta dei relativi equilibri.
L’esigenza di contenere la diffusione del virus, che la massima parte dei Governi nazionali sta perseguendo con misure drastiche per il loro impatto su diritti e libertà, deve equilibrarsi, anzitutto, con la preservazione dei valori fondamentali della nostra civiltà, fondata su uguaglianza e solidarietà, nella consapevolezza che la fondazione “sul lavoro” della nostra Repubblica implica una vocazione alla tutela della dignità sociale di ciascuno e un impegno incessante alla solidarietà.
Le scene delle rivolte nei supermercati che i telegiornali hanno portato nelle nostre case raccontano storie di disagio personale e familiare che ci feriscono nel profondo, tanto quanto le immagini delle bare di Bergamo. “Stare a casa” è necessario, ma acuisce le disuguaglianze e le spaccature della nostra società: per chi vive in condizioni di disagio e precarietà, senza le tutele garantite da un’occupazione stabile, ma anche persone disabili e con malattie gravi che contano sui servizi pubblici di assistenza, le restrizioni imposte possono rivelarsi dei sacrifici intollerabili.
I provvedimenti introdotti dal Governo dapprima con il decreto-legge n. 18/2020 e poi con il d.p.c.m. del 28 marzo sono mossi dall’intento di ricucire questa spaccatura: la disponibilità di risorse per la cassa integrazione in deroga, estesa a tutte le attività economiche indipendentemente dal numero degli occupati, così come le misure per lavoratori autonomi e reddito di emergenza per chi versa in condizioni estreme di precarietà, manifestano il doveroso impegno dello stato alla solidarietà sociale; e di grande significato è anche il supporto agli imprenditori in difficoltà, a partire dalla moratoria sui debiti finanziari e dalla sospensione dei versamenti fiscali e contributi previdenziali. A queste misure emergenziali dovranno seguire risposte credibili per favorire una robusta ripresa economica, se non vogliamo che la società che ci aspetta domani, uscendo dalle nostre case, sia dominata dalla disoccupazione, dalla precarietà e dalla povertà.
La crisi economica in cui siamo immersi ha dunque squarciato il fragile velo che nascondeva l’insostenibilità delle politiche neoliberiste, che negli ultimi anni hanno scavato profonde disuguaglianze nella società, indebolendone le strutture portanti. La crisi può rivelarsi un’opportunità per rimettere al centro delle relazioni economiche i valori fondativi del nostro patto costituzionale, tornati prepotentemente attuali, a partire dalla dignità del lavoro. Il lavoro, in tutte le sue forme – dipendente, autonomo o imprenditoriale – deve tornare al centro dell’agenda politica per il nostro futuro, estendendo le tutele tipiche del lavoro dipendente alle innumerevole nuove realtà professionali che caratterizzano la nostra società, sviluppando forme mutualistiche per l’erogazione di prestazioni sanitarie e di welfare, combattendo il lavoro nero e distribuendo la contribuzione fiscale in ragione delle capacità reddituali di ciascuno, con scelte coraggiose.
Sono obiettivi impegnativi, che potrebbero sembrare contradditori con la direzione verso cui sono dirette da anni le liberaldemocrazie, impegnate in una competizione economica su scala globale che le fa sembrare inadeguate. Eppure, sono proprio queste risorse di solidarietà sociale che fanno la differenza nei momenti di profonda crisi, e che determinano il destino della comunità politica.

 

6.Il piano dei diritti e delle libertà: fronti di crisi e problemi aperti. Ultimo fronte, come accennato in apertura, su cui Diritti Comparati non può, in questo frangente, quasi geneticamente, non riflettere, è il rapporto tra emergenza e tutela delle libertà e dei diritti fondamentali. Missione fondamentale del costituzionalismo è reagire agli abusi di potere per porre solide basi su cui diritti fondamentali possano, nel futuro, essere tutelati e garantiti. Tanto nel momento della fisiologia del sistema, quanto in quello della patologia dello stesso. Ed è difficile nella nostra storia repubblicana pensare a qualcosa, in tutti i sensi, di più patologico rispetto alla pandemia in atto: le misure di contenimento del Governo ci hanno proiettati nella più vasta e massiccia esperienza di limitazione delle libertà che sia mai avvenuta nella storia d'Italia. Sono sottoposte a restrizioni severe la libertà personale e di circolazione, la libertà religiosa e il diritto all'educazione, la privacy e le libertà associative, la libertà economica. Un’emergenza, quindi, che consente e anzi impone limitazioni anche invasive alle libertà fondamentali, senza però poterne svuotare il contenuto essenziale.
A fronte di ciò, ci si vuole concentrare, in particolare, sulla valutazione delle limitazioni apportate alla libertà di circolazione e su quelle che potrebbero incidere sulla protezione della privacy e dei dati personali.

Con riguardo al primo profilo, la situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo in queste settimane ha nuovamente richiamato l’attenzione (così come le recenti varie crisi dei migranti e dei rifugiati, che pagano il loro prezzo al Covid-19 nel pressoché totale silenzio delle fonti di informazione) sulla persistenza delle frontiere, siano esse interne o esterne al territorio dell'Unione europea, e sulla irresistibile tentazione degli Stati membri a chiuderle.
Del resto, seppur attraverso lo strumento atipico della comunicazione e delle linee guida, e dopo un’originaria posizione tesa a difendere la solidità del sistema dei controlli ai confini, la stessa Commissione europea (unitamente al Consiglio) ha imboccato la strada della restrizione: dai c.d. “Viaggi essenziali” al divieto di ingresso per gli stranieri provenienti da Paesi terzi nel territorio europeo.
Certamente, esiste una chiara differenza – non solo pratica – tra restrizioni di viaggio e l’accertamento individuale ai confini. Questi ultimi sono comportamenti che gli Stati possono intraprendere e che, in qualche misura, sono coperti da una lettura coordinata e congiunta degli artt. 25 e 28 del Codice Schengen, ammettendo che l'attuale situazione di emergenza da Covid-19 rientri nei casi relativi alla sicurezza e all'ordine pubblico degli Stati membri. Diverso è invece il regime applicabile alle restrizioni di viaggio che, seppur contingentate sulla scorta del bisogno di risposta all'attacco pandemico, devono restare incardinate all'interno di un quadro giuridico che impone un delicato bilanciamento di interessi (quelli dei cittadini europei, in primis) e un'adeguata proporzionalità nell'adozione dei singoli divieti. Esercitando la loro potestà, gli Stati possono ricorrere a strumenti eccezionali, ma sono pur sempre soggetti – almeno per questi temi – al regime giuridico europeo. In tal senso, l’art. 29 della Direttiva 2004/38/CE stabilisce chiaramente che la restrizione al passaggio dei confini tra Stati membri può (e deve) essere applicata in casi di malattie dal “potenziale epidemico”, ma anche che tali misure devono essere proporzionali al rischio e soggette ad eventuali reclami, anche se non sospensivi del diniego all'ingresso.
Una prima analisi degli eventi in corso ci restituisce un quadro con diverse tinte, frutto di un’azione asincrona degli Stati membri: da un lato, abbiamo le chiusure pressoché totali di alcuni Paesi (tra cui l’Italia), che sono accompagnati da una speculare rigidità negli spostamenti interni; dall’altro lato, sussistono al momento politiche di restrizione più rigide nell'ingresso dall'esterno o – peggio ancora, sulla scorta del Paese di provenienza del soggetto – alle quali corrispondono azioni alquanto permissive relativamente agli spostamenti sul territorio dello Stato.
Il necessario ricorso alla proporzionalità, d'altronde, è stato ribadito anche dalla Corte di Giustizia che, in più occasioni, ha richiamato gli Stati ad operare una valutazione individuale, che consideri ogni caso separatamente. Un approccio ragionato e ponderato consentirebbe ai Paesi membri, secondo il grado di necessità, di individuare specifiche misure commisurate alle diverse situazioni. Non si dimentichi che, all’interno della platea di beneficiari della libera circolazione, vi sono innumerevoli soggettività (dagli studenti ai lavoratori transfrontalieri) per i quali una prolungata situazione emergenziale potrebbe risultare non solo nociva, bensì lesiva di un diritto che si considera oggi come fondamentale.
Infine, va rammentato che la frontiera è anche uno dei luoghi in cui – ai sensi dell'art. 3 della Direttiva “Procedure” e dell'art. 3 del Reg. Dublino III – i richiedenti protezione internazionale possono e devono essere autorizzati ad entrare temporaneamente, per finalizzare eventualmente una procedura di asilo o rifugio alla frontiera. È indubbio che gli Stati membri hanno l'obbligo di mantenere la prosecuzione di queste pratiche e assicurare che infauste prassi amministrative prendano il sopravvento sulla tutela di un diritto e di un’azione solidaristica.
La distanza sociale e la chiusura dei confini, infatti, non devono far dimenticare l'aspetto solidaristico che è proprio del processo di integrazione europea, dove sussulti asimmetrici di ritorno alla Fortress Europe non hanno ragion d'essere. Da qui, l’auspicio a che la Commissione coordini, come certamente può fare, una risposta unitaria ed efficiente anche sul piano dei limiti territoriali, sostenendo le buone prassi tra gli Stati membri. Tutto questo risulterebbe utile alle istituzioni europee per stabilire un quadro comune, fatta salva la specialità degli eventi, sulle diverse categorie di viaggi, i controlli ammissibili e i requisiti richiesti, dando così una rapida risposta ad una crisi che mette in serio pericolo i vincoli solidaristici che sono (almeno a considerare il testo dei Trattati) uno dei principi costituzionali sottesi al processo di integrazione europea.

Con riguardo, invece, al secondo dei profili prima evocati con riferimento alle restrizioni delle libertà fondamentali nella stagione dell’emergenza, dibattuto è, in questi giorni, è in particolare il tema delle possibili limitazioni al diritto alla privacy determinate dal tracciamento dei nostri spostamenti. Limitazioni che potrebbero essere assai utili per riannodare la catena epidemiologica del virus e, dunque, poter apprestare una reazione più efficace e mirata. Occorre tuttavia domandarsi fino a che punto tali attività di contact tracing possano spingersi. La risposta a questa domanda passa inevitabilmente per il confronto non solo con il quadro normativo interno, ma anche con quello europeo.
Prima ancora di cimentarsi con la normativa positiva di riferimento, rappresentata – come è noto dal Regolamento generale sulla protezione dei dati personali (GDPR) – è opportuno guardare alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ove a ben vedere si ritrovano molte delle risposte agli interrogativi odierni.
Da un lato, l’art. 8 della Carta di Nizza sancisce il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali: dall’altro, l’art. 52 ci dice che i diritti fondamentali tutelati dalla Carta non sono assoluti, ma possono essere limitati per realizzare finalità di interesse generale (e la tutela della salute lo è più che mai) a patto che ciò avvenga tramite di misure proporzionate e che non si intacchi il loro contenuto essenziale.
Con questo in mente, per rispondere alla domanda posta in precedenza bisogna distinguere due passaggi concettuali.
In primo luogo: cosa è fattibile tecnologicamente per poter realizzare nel modo più chirurgico possibile quella mappa del contagio di cui tanto si discute in questi giorni?
In secondo luogo: quali soluzioni è lecito adottare in un ordinamento come il nostro che, a differenza della Cina, di Singapore e della pur democratica Corea del Sud, deve muoversi nel solco del costituzionalismo europeo, che come visto individua nella protezione dei dati un diritto fondamentale?
Quanto alla prima domanda, la tecnologia in questione può permettere di monitorare e intrecciare diverse informazioni attinenti alla vita quotidiana e personale degli individui con il supporto, per esempio, di compagnie telefoniche o istituti finanziari. Il risultato è una mappa molto dettagliata del virus e dei suoi vettori sul territorio.
La seconda domanda. Questo risultato sarebbe compatibile con il quadro europeo e domestico di riferimento, ispirato a una logica in cui i diritti tra loro in conflitto non si annullano, bensì si bilanciano?
La risposta può essere positiva a patto che si rispettino alcune condizioni che non sono state soddisfatte, al contrario, in esperienze in cui la privacy non è, come invece in Europa, un diritto fondamentale. Per questo i modelli spesso evocati in questi giorni, apparentemente efficaci nei paesi in cui sono stati sperimentati, potrebbero andare incontro a un elevato rischio di rigetto se trapiantati pedissequamente in ambito europeo.
Ciò non significa e non implica, a ben vedere, che la privacy divenga un ostacolo insuperabile alla tutela della salute, anche con il ricorso a nuove tecnologie. Al contrario, si impone che le misure adoperate siano rispettose di un criterio di proporzionalità.
Due esempi, uno particolare e uno generale, possono chiarire il senso di questa affermazione, provando a declinarlo in pratica. Il primo riguardo l’utilizzo dei dati relativi alla geolocalizzazione, e dunque all’ubicazione: il nostro ordinamento ne consente il trattamento, ma entro certi limiti: a condizione che le informazioni siano anonimizzate o che gli interessati abbiano prestato il loro consenso. Questo esempio testimonia, peraltro, la smentita di un altro luogo comune diffuso: il trattamento di dati è possibile anche quando non vi sia il consenso, quando sussistano finalità di interesse generale che legittimano l’uso dei dati a prescindere dalla volontà dell’interessato. Segno tangibile che il controllo degli individui sui dati non è assoluto, ma può risultare “recessivo” al cospetto di esigenze di pari rango definite dal legislatore. Il secondo esempio illustra più in dettaglio questo punto. In Italia, il legislatore ha adottato con l’art. 14 del decreto-legge n. 14/2020 una norma che autorizza l’interscambio e la comunicazione dei dati relativi alla salute da parte delle autorità che rientrano nel sistema di protezione civile. Ebbene, una norma di questo tipo, di carattere generale, non pare in grado di poter giustificare un’intrusione nella vita privata degli individui come quella che si ipotizzerebbe di realizzare mediante l’implementazione di sistemi di tracciamento a distanza. Serve, invece, una base giuridica specifica che preveda tutto il corredo di garanzie necessarie, a cominciare da proporzionalità, adeguatezza, e temporaneità delle misure in questione.
In altre parole, si possono certamente restringere le libertà fondamentali nella stagione dell’emergenza: la privacy non è la sola, come ben evidente a tutti, a subire delle limitazioni. Ma tali restrizioni, specialmente per quei diritti che affondano le loro radici nell’humus del costituzionalismo europeo, non possono condurre a uno svuotamento del nucleo essenziale del diritto in gioco, perché in questo modo sarebbe calpestato non solo quest’ultimo, ma anche il DNA del nostro ordinamento europeo.
Le costituzioni e le carte dei diritti fondamentali si scrivono, come si diceva in apertura, per reagire ad abusi di potere del passato. È vero, ma anche perché i diritti “ritrovati” non siano più radicalmente limitati, nell’avvenire, specialmente nei momenti più bui. E questo è un momento estremamente buio in cui l’attenzione alle lesioni irreversibili dei nostri diritti deve essere massima.

 

7.Per un invito al dibattito. Le riflessioni che, come direttori e membri della redazione di Diritti comparati, abbiamo affidato alle pagine precedenti sono state guidate non dal bisogno di offrire risposte, ma dalla necessità di porci le giuste domande, adeguate a una situazione di emergenza non prevista né prevedibile, che sta mettendo in dubbio le certezze intorno ai principi di fondo del nostro sistema costituzionale, così come le fondamenta e le ragioni d’essere dell’edificio europeo.
In questo frangente, e di fronte alle sfide che ci aspettano nei prossimi mesi (nella speranza, prima di ogni altra cosa, di un’attenuazione più rapida possibile del contagio), vogliamo sollecitare colleghi, amici e studiosi a riflettere con noi sui problemi che hanno sollevato e che solleveranno le misure di contrasto all’emergenza da Covid-19, anche tenendo conto dei filoni di riflessione toccati in questo Editoriale.
Il Blog e la Rivista di Diritti Comparati sono quindi a disposizione per pubblicare contributi in argomento, inviti alla riflessione e al confronto, nello spirito di condivisione franco e informale che contraddistingue sin dalle origini la nostra avventura editoriale.
Anche per questo, riteniamo inevitabile dedicare a questo tema, secondo le modalità e i dettagli che saranno comunicati più avanti, l’ormai abituale Convegno annuale di Diritti comparati, destinato a tenersi nel prossimo inverno.


Rivista di Diritti Comparati,
sommario n. 3/2019

È online il sommario del n. 3/2019 della Rivista di Diritti Comparati.
L’elenco dei contributi e le sezioni della Rivista sono disponibili qui.


La Corte suprema del Regno Unito dichiara illegittima la prorogation del Parlamento

Pubblichiamo di seguito la nota stampa della decisione  R (on the application of Miller) (Appellant) v The Prime Minister (Respondent) Cherry and others (Respondents) v Advocate General for Scotland (Appellant) (Scotland) della Corte suprema UK in merito al tema della prorogation del Parlamento.

Link alla sentenza:
https://www.supremecourt.uk/cases/uksc-2019-0192.html

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Political Constitutionalism and Constitutional Populism: What Do They Share?

Che rapporto c’è fra il c.d. “political (o popular, con riferimento al contesto americano) constitutionalism” e quello che alcuni autori hanno chiamato “populist constitutionalism”?

Per Blokker in particolare vi sarebbero degli elementi in comune e anche altri. Alterio, di recente, ha scritto di una presunta (parziale) convergenza fra costituzionalismo popolare e quello che viene chiamato anche, con altra terminologia, “populismo costituzionale”. Tuttavia, il rigetto di ogni forma di mediazione da parte dei populisti porta intuitivamente a distinguere fra populismo e costituzionalismo politico. Quest’ultimo, infatti, non risulta necessariamente caratterizzato dallo spirito chiaramente anti-istituzionale che invece contraddistingue il primo, come l’enfasi sugli strumenti di democrazia diretta e le tentazioni del mandato imperativo dimostrano.

Su questo complesso rapporto rifletteremo il 20 settembre alla Scuola Sant’Anna di Pisa in occasione dell’evento “Political Constitutionalism and Constitutional Populism: What Do They Share?”, convegno annuale di “Diritti Comparati”. Fra i relatori del convegno ci saranno grandi voci del dibattito internazionale fra cui Richard Bellamy, Cesare Pinelli, Patricia Mindus, Paul Blokker, Mario Savino, Cristina Fasone, Pietro Faraguna, Theo Fournier, Samo Bardutzky, Matej Avbelj. Il convegno è anche l’evento finale del modulo Jean Monnet “Eur.Publ-IUS” (European Public Law) coordinato dal Prof. Giuseppe Martinico. Il programma dell’evento può essere trovato al seguente link.


Ricordo del Prof. Paolo Carrozza

Il Prof. Paolo Carrozza si è spento dopo una lunga malattia. Era Professore ordinario di diritto costituzionale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, studioso eclettico, avvocato cassazionista e co-curatore di uno dei manuali di diritto costituzionale comparato più diffusi in Italia. In precedenza, aveva lavorato in vari atenei italiani (Università di Firenze, Università di Sassari, Università di Pisa) ed era stato anche vicesindaco di Pisa dal 1994 al 1998. Fino alla sua scomparsa aveva fatto parte della Commissione paritetica per la Regione Valle d'Aosta.

I suoi meriti accademici sono enormi, ma poche volte come in questa è difficile distinguere fra l’uomo e lo studioso. Non per caso, molti dei concetti da lui sviluppati ben si prestano a descriverne il carattere: integrazione, dialogo, apertura, tolleranza sono parole che danno l’idea della grande umanità del Prof. Carrozza.

Uomo di immensa cultura, aveva un approccio olistico al diritto che concepiva innanzitutto come fenomeno sociale, da qui le “epiche” chiacchierate che spaziavano dalle scienze giuridiche all’economia, dalla storia alla scienza politica, fino alla narrativa, al cinema, al calcio. Quando non si sapeva come “fare i conti” con la tesi (di laurea o di dottorato), quando non si riusciva ad iniziare un articolo o a finire un capitolo, lui sapeva sempre consigliare una lettura o fornire dei contro-argomenti che avrebbero rafforzato (o demolito) la tesi di partenza dell’interlocutore. A volte scontava il prezzo della sua gentilezza e lo si vedeva spesso in giro per Pisa mentre, camminando trafelato, dispensava intere bibliografie a chi lo accompagnava nel tragitto verso il suo prossimo appuntamento. Le sue giornate erano pienissime, ma non negava mai un sorriso a chi lo cercava.

Uomo libero, a sua volta non voleva mai condizionare l’esito del percorso di ricerca di chi gli chiedeva qualche suggerimento, ma giustamente vedeva nei “classici” un punto di partenza necessario. Era molto esigente in questo. Fra gli autori immancabili vi erano Smend, Kelsen (su cui si era cimentato da poco in uno degli ultimi lavori), Santi Romano, Mirkine-Guetzévitch, Friedrich, Cappelletti insieme, ovviamente, al suo Maestro: Alessandro Pizzorusso. La sua risata e la sua cultura erano terapeutiche, perché passava la paura del vuoto e l’angoscia del blocco nella scrittura. Quelli che sembravano baratri insuperabili venivano aggirati dopo una chiacchierata con lui. I suoi allievi non lo dimenticheranno mai.

Quando gli parlammo della nostra Rivista, chiedendogli di entrare a far parte del comitato scientifico, Paolo Carrozza accettò immediatamente con il solito entusiasmo e la sua immancabile risata. Una risata contagiosa, capace di squarciare gli spazi, di attraversare i corridoi della Scuola Sant’Anna, preannunciando, così, l’allegria e la ricchezza di un incontro non pianificato.

Ci stringiamo attorno alla famiglia del Prof. Carrozza con sincero affetto.


La decisione della Corte suprema sul census case

Lo scorso 27 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata sulla controversia relativa al censimento 2020 (Department of Commerce v. New York).

La decisione, tra le più attese del term e molto dibattuta dall'opinione pubblica, aveva ad oggetto la liceità dell'introduzione di una "citizenship question" all'interno del questionario da sottoporre a tutta la popolazione residente negli Stati Uniti. Secondo molte associazioni, l'Amministrazione Federale avrebbe spinto per introdurre la "citizenship question" allo scopo di scoraggiare la partecipazione al censimento di vasti strati di residenti non cittadini americani, e così sottorappresentare la popolazione residente nelle aree con maggiore presenza di immigrati regolarmente residenti, soprattutto le aree urbane, anche al fine di alleggerirne il peso in sede di mappatura dei collegi elettorali.

A commento della decisione, che censura l'operato dell'Amministrazione Federale ed impone un ripensamento della misura, ripubblichiamo un commento di Amy L. Howe, già pubblicato in http://amylhowe.com

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Court orders do-over on citizenship question in census case

Amy L. Howe

The fate of a question about citizenship on the 2020 census remains up in the air today. Although the Trump administration had hoped that the Supreme Court would clear the way for it to include such a question, the justices instead sent the issue back to the Department of Commerce. In a deeply fractured opinion, Chief Justice John Roberts joined the court’s four liberal justices in ruling that the justification that the government offered at the time for including the citizenship question was just a pretext. The decision left open the possibility that the Trump administration could try again to add the citizenship question, but the clock is ticking: The government has repeatedly told the justices, in urging them to resolve the case quickly, that it needs to finalize the census questionnaire by the end of this month.
The dispute began last year, when Secretary of Commerce Wilbur Ross announced that the 2020 census would include a question about citizenship. Questions about citizenship have been used on the census before, although since 1950 such questions have only been asked on forms that go to some (but not all) households. The government wanted to ask everyone about their citizenship on the 2020 census, Ross explained, to obtain data that would help the Department of Justice to better enforce federal voting-rights laws.
Ross’ announcement drew an immediate legal challenge from New York and other state and local governments, as well as immigrants’ rights groups. The challengers contended that including a question about citizenship on the census will lead to inaccurate results, because households with undocumented or Hispanic immigrants won’t respond. And that, they argued, could lead states with large immigrant populations – which tend to lean Democratic – to lose billions in federal funding and possible even seats in the U.S. House of Representatives.
With the stakes so high, the dispute proved to be a particularly contentious one. The government came to the Supreme Court for the first time last fall, asking the justices to block the depositions of Ross and John Gore, a senior official in the Department of Justice, and to bar the district court from allowing additional fact-finding outside the official record for the decision. The Supreme Court gave the government a partial victory, barring the challengers from deposing Ross but allowing the deposition of Gore and the additional fact-finding.
In November 2018, the justices agreed to weigh in on the clash over evidence. But that case was transformed into a review of the merits of the dispute after a federal district judge in New York blocked the government from including the question. Judge Jesse Furman ruled that, in deciding to include a question about citizenship, Ross had committed a “smorgasbord of classic, clear-cut violations” of the federal law governing administrative agencies.
The government appealed directly to the Supreme Court, urging the justices to take up the case immediately – without requiring the government to first seek relief from a federal appeals court. Time is of the essence, the government told the justices: It needs to know whether it can include the citizenship question by the end of June, so that it can finalize the census questionnaire and start to print the forms.
The justices granted the government’s request in February. In addition to the question of whether Ross’ decision complied with federal laws governing administrative agencies, the justices also asked the federal government and the challengers to brief whether the decision to include the citizenship question violates the Constitution, which requires an “actual Enumeration” of the U.S. population every 10 years. The addition came after a federal judge in California ruled that the use of the citizenship question also violates the “enumeration clause”; the government wanted to avoid a scenario in which it prevailed in the Supreme Court but was nonetheless prohibited from including the citizenship question by a different lower-court ruling on an issue that the Supreme Court hadn’t addressed.
The justices heard oral argument in the case in late April. Although most cases are quiet after oral argument, the oral argument in this one was followed by a series of events worthy of a made-for-TV movie. In late May, the challengers notified the justices about new evidence indicating that Thomas Hofeller, a Republican redistricting strategist, had played a key role in the decision to add the citizenship question to the census, and that the question had been added to provide whites and Republicans with an advantage in future elections. The evidence came from several hard drives that Hofeller’s estranged daughter had found while going through his things after his death last year. Stephanie Hofeller had shared the hard drives with the North Carolina chapter of the watchdog group Common Cause, which is involved in a partisan-gerrymandering case in that state, after she called the group seeking a recommendation for a lawyer for her mother.
The challengers returned to the Supreme Court last week. Emphasizing that the district court had agreed that the new allegations were “serious” but concluded that its hands were tied because the case is now before the justices, the challengers told the Supreme Court that it should either uphold the district court’s ruling or send the case back to the lower court for more fact-finding in light of the new revelations. The challengers argued that if the Trump administration actually wanted to add the citizenship question to give an advantage to whites and Republicans, that would be “the diametric opposite” of what the administration has maintained throughout this lawsuit.
The government pushed back, dismissing the challengers’ allegations as a “conspiracy theory” that was “implausible on its face” and urging the justices to go ahead and decide the case.
Things became even more interesting – and, for the justices, more complicated – earlier this week.  On Tuesday, the U.S. Court of Appeals for the 4th Circuit sent another challenge to the use of the citizenship question back to a federal district court in Maryland so that the lower court could consider, in light of the new evidence, whether Ross had added the question because he intended to discriminate against Hispanics. In a concurring opinion, Judge James Wynn suggested that U.S. District Judge George Hazel might want to consider whether to temporarily block the government from including the citizenship question on the census questionnaire. The 4th Circuit’s order led to another flurry of last-minute filings in the Supreme Court. In a letter to the justices on Tuesday afternoon, the federal government again implored the justices to go ahead and resolve the dispute over the citizenship question now, including the question whether Ross had intended to discriminate against Hispanics. The government had addressed this issue in its brief in the Supreme Court, Solicitor General Noel Francisco stressed. And in any event, because the census questionnaire needs to be finalized by the end of June, the 4th Circuit’s order makes it likely that the justices will inevitably have to tackle this question one way or another, so it would be better to do so now in this case, instead of having to do it on an emergency basis in the Maryland case.
The challengers responded on Wednesday afternoon. In a letter from New York Solicitor General Barbara Underwood, they urged the justices to deny what they characterized as the government’s “extraordinary request” to decide the discrimination question now. Except for a “single conclusory paragraph” in the government’s brief, they emphasized, the issue wasn’t briefed or argued in the case in the Supreme Court.
It was no surprise that Chief Justice John Roberts wrote for the court in the case – both because of the magnitude of the ruling and because he had not yet written an opinion for April, when the case was argued. The court’s disposition of the case, however, proved more surprising – and took a few minutes to decipher, given the splintered nature of the decision.
Only the first parts of the ruling were unanimous. The first laid out the facts and procedural history of the case, while in the second part the justices agreed that at least some challengers have a legal right – known as “standing” – to bring their lawsuit. Some of the states in the lawsuit have shown, Roberts recounted, that if households with residents who are not U.S. citizens are undercounted by even two percent, they will lose federal funding. The justices rejected the government’s argument that such losses are too hypothetical, because they would only happen if those households choose not to comply with the legal duty to return their census questionnaires out of fear that the information will be used against them – which, the government says, is not its fault. But this theory isn’t just speculation, Roberts concluded: It “relies instead on the predictable effect of Government action on the decisions of third parties” and is therefore enough to allow the challengers to sue.
The court’s other conservative justices – Justices Clarence Thomas, Samuel Alito, Neil Gorsuch and Brett Kavanaugh – joined the third part of the Roberts opinion, in which the court concluded that the decision to add the citizenship question did not run afoul of the enumeration clause. Whether the decision bears a “reasonable relationship” to getting an accurate headcount isn’t the right question to ask here, Roberts reasoned. Otherwise, the Census Bureau would never be able to ask any questions about demographics on the census, because none of those have anything to do with the number of people who live in the United States. Instead, Roberts noted, the court should look at the history of the census, and that history shows that all “three branches of Government have understood the Constitution to allow Congress, and by extension the Secretary, to use the census for more than simply counting the population,” and specifically for “information-gathering purposes.” Therefore, Roberts concluded, the enumeration clause “permits Congress, and by extension the Secretary, to inquire about citizenship on the census questionnaire.”
Six justices – all but Alito and Gorsuch – joined the next subsection of Roberts’ opinion, in which the court rejected the government’s contention that the Census Act gives Ross carte blanche – not subject to review by courts – to decide what questions to include on the census questionnaire. The court acknowledged that the Secretary of Commerce has significant latitude in formulating the questionnaire, but it emphasized that his discretion was not “unbounded.” The census is not a subject that has been “traditionally committed” to the discretion of the agency in charge; indeed, the court noted, courts have previously reviewed several challenges arising from decisions relating to the census.
Thomas, Alito, Gorsuch and Kavanaugh signed on to the next two parts of Roberts’ opinion. In the first, the court reversed two parts of the district court’s ruling that overturned Ross’ decision to add the citizenship question. Addressing the district court’s conclusion that the decision wasn’t supported by the evidence before Ross, because the Census Bureau had recommended that the citizenship data be gathered from administrative records instead, Roberts observed that neither approach was perfect, so it was reasonable for Ross to decide to use the citizenship question instead of the administrative records. And it was also reasonable for him to decide that it would be worth it to include the citizenship question even though that might result in a lower response rate from households with residents who are not U.S. citizens, Roberts suggested – particularly because Ross believed that the risk of a lower response rate was “difficult to assess.”
Roberts and his conservative colleagues also reversed the district court’s ruling that Ross’ decision violated provisions of the Census Act that require the Secretary of Commerce to use administrative records, rather than questions on the census, whenever possible and to inform Congress about his plans for the census. The court explained that, even if the provision about the administrative records applies, Ross reasonably concluded that administrative records would not “provide the more complete and accurate data that DOJ sought.” And although Ross did notify Congress about his plan to include the citizenship question, Roberts wrote, there was certainly no harm from any technical violation of the requirement because Ross “fully informed Congress of, and explained, his decision.”
Roberts and his conservative colleagues parted ways in the fifth and final – and ultimately dispositive – part of the court’s opinion. The district court had also ruled that Ross’ rationale for including the citizenship question – that the Department of Justice had asked for the data to better enforce federal voting-rights laws – was a pretext for its actual reasoning, and here Roberts, in an opinion joined by Justices Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor and Elena Kagan, agreed. “The evidence showed,” Roberts wrote, that Ross “was determined to reinstate a citizenship question from the time he entered office; instructed his staff to make it happen; waited while Commerce officials explored whether another agency would request census-based citizenship data; subsequently contacted the Attorney General himself to ask if DOJ would make the request; and adopted the Voting Rights Act rationale late in the process.” Taking that evidence in its entirety, Roberts determined, “we share the District Court’s conviction that the decision to reinstate a citizenship question cannot be adequately explained in terms of DOJ’s request for improved citizenship data to better enforce the” Voting Rights Act.
Roberts acknowledged that courts should be “deferential” when reviewing an agency’s action, but he countered – citing Judge Henry Friendly, for whom he clerked on the U.S. Court of Appeals for the 2nd Circuit – that “we are not required to exhibit a naiveté from which ordinary citizens are free.” And here, when “the evidence tells a story that does not match the explanation the Secretary gave for his decision,” judicial review calls for “something better than the explanation offered for the action taken in this case.” “In these unusual circumstances,” Roberts concluded, the district court was therefore correct to send the case back to the Department of Commerce for it to provide a better explanation. “Reasoned decisionmaking,” Roberts emphasized, “calls for an explanation for agency action. What was provided here was more of a distraction.”
Justice Clarence Thomas filed an opinion concurring in part and dissenting in part, which was joined by Gorsuch and Kavanaugh. In his view, the Supreme Court’s “only role in this case is to decide whether the Secretary complied with the law and gave a reasoned explanation for his decision.” Because the “Court correctly answers these questions in the affirmative,” Thomas argued, that “ought to end our inquiry.”
Thomas warned that the court’s holding could have much broader implications for administrative law because it “reflects an unprecedented departure” from the court’s normal practice of deferring to discretionary decisions by federal agencies. “It is not difficult,” he posited, “for political opponents of executive actions to generate controversy with accusations of pretext, deceit, and illicit motives.” “Crediting these accusations on evidence as thin as the evidence here could lead judicial review of administrative proceedings to devolve into an endless morass of discovery and policy disputes,” he cautioned.
The court’s four liberal justices joined Roberts in agreeing to send the case back to the Department of Commerce, but Justice Stephen Breyer also filed an opinion that was joined by Justice Ruth Bader Ginsburg, Sonia Sotomayor and Elena Kagan. They maintained that, even if Ross’ decision to add the citizenship question wasn’t pretextual, it still violated the federal laws governing administrative agencies because he decided to ask the question even though all of the evidence “indicated that asking the question would produce citizenship data that is lessaccurate, not more.” His failure to consider what Breyer characterized as “a severe risk of harmful consequences” “risked undermining public confidence in the integrity of our democratic system itself,” Breyer wrote.
Justice Samuel Alito also filed an opinion concurring in part and dissenting in part. He began by lamenting that it “is a sign of our time that the inclusion of a question about citizenship on the census has become a subject of bitter public controversy and has led to today’s regrettable decision.” There is no dispute, he continued, that “it is important to know how many inhabitants of this country are citizens”; given that, he said, the best way to “gather this information is to ask for it in a census” – as the United Nations recommends. He would have ruled that the decision to add the citizenship question to the census fell within the discretion of the Department of Commerce and could not be challenged at all. He “put the point bluntly,” writing that the federal judiciary has “no authority to stick its nose into the question whether it is good policy to include a citizenship question on the census or whether the reasons given by Secretary Ross for that decision were his only reasons or his real reasons.”
The Department of Justice did not tip its hand about its possible next steps. In a statement this afternoon, spokeswoman Kelly Laco indicated that the government was “disappointed” by the ruling but would “continue to defend this Administration’s lawful exercises of executive power.” President Donald Trump had a stronger reaction, tweeting that it seemed “totally ridiculous” that the citizenship question could not be used and indicating that he had asked “the lawyers if they can delay the Census, no matter how long, until the United States Supreme Court is given additional information from which it can make a final and decisive decision on this very critical matter.” With the government’s June 30 deadline for finalizing the census questionnaire looming, we may know more about the government’s plans soon.


Lettera formale contro la Polonia – avvio della terza procedura di infrazione

Negli ultimi anni molto si discute di “democrazie illiberali” e di un rischio per la tenuta dei valori fondamentali su cui l’Unione si fonda che deriverebbe da processi interni ai singoli stati. In virtù della pretesa di alcuni stati membri di fondare la legittimazione popolare dei governi sulle ragioni di un nuovo assetto democratico dai connotati sempre più plebiscitari, infatti, la sfida è spesso rivolta nei confronti di alcuni di quegli istituti espressione del costituzionalismo come dottrina del limite del potere. L’indipendenza della magistratura appare al centro, non a caso, di queste tensioni.  E tale ambito appare tanto più sensibile se si riflette sul fatto che il giudice comune, come più volte ribadito anche dalla Corte di Giustizia, nei vari ordinamenti ha anche un ruolo decisivo nell’attuazione del diritto sovranazionale.

Tale tendenza appare particolarmente marcata se si guarda all’Ungheria e alla Polonia che da tempo sono sotto la lente di osservazione delle istituzioni europee e del consiglio d’Europa che, peraltro, la scorsa settimana, ha pubblicato un rapporto preoccupato su alcuni sviluppi recenti in materia democrazia locale e regionale proprio con riferimento al caso polacco (qui). E sempre con specifico riferimento alla Polonia, la Commissione ha da ultimo deciso di avviare una nuova procedura di infrazione, la terza dal luglio 2017, inviando una lettera formale. Si allega di seguito con riferimento alle nuove regole dell’ordinamento giudiziario la comunicazione di tale atto.

Il pregresso è piuttosto risalente. Sin dal gennaio 2016, come noto, la Commissione, per indagare su una possibile violazione dei principi della Rule of Law, ha avviato un dialogo con la Polonia, onde evitare possibili minacce sistemiche. Questo dialogo si è svolto su diversi piani, ma non ha dato grandi risultati.

Nel dicembre 2017, la Commissione ha pertanto deciso di avviare una procedura ai sensi dell’art. 7, co. 1, TUE, chiedendo al Consiglio di constatare se esista un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2. Parallelamente, però,  la Commissione aveva già avviato ben due procedure di infrazione contro le leggi con cui si sono riviste parti del sistema giudiziario del Paese, mettendo a rischio, questa la preoccupazione, l’indipendenza dei giudici. Con riferimento alla riforma delle regole che concernono la Corte suprema, si è pronunciata financo la Corte di Giustizia, bloccando l’entrata in vigore delle nuove norme (17 dicembre 2018 - C-619/18).  Sulle procedure iniziate dalla Commissione al gennaio 2018, cfr. qui un procedente post di Giacomo Delledonne su questo blog.

Ora è stato formalizzato l’avvio della nuova procedura di infrazione, sempre con l’obiettivo di proteggere i giudici dal controllo della politica.

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La "Costituzione economica". Una lezione di Paolo Ridola presso l'Istituto italiano per gli studi storici

Nell'ambito del ciclo di seminari 2018/2019 che si tiene presso l'Istituto italiano per gli  Studi storici sul tema "I capitalismi" (https://www.iiss.it/la-formazione/seminari-e-lezioni/), pubblichiamo il video della lezione del Prof. Paolo Ridola, tenutasi il 28 gennaio 2019, su La "Costituzione economica", la cui registrazione è resa disponibile grazie al lavoro di Radio radicale. La lezione è introdotta dal Prof. Natalino Irti, Presidente dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici.