L’abolizione della pena di morte nello Stato della Virginia: tassello del mosaico abolizionista o tessera di un domino?

1.New Jersey, 2007; New York, 2007; New Mexico, 2009; Illinois, 2011; Connecticut, 2012; Maryland, 2013; Delaware, 2016; Washington, 2018; New Hampshire, 2019; Colorado, 2020. All’elenco degli Stati membri degli Usa che, nel corso di questo secolo, hanno abolito la pena di morte si è aggiunta, il 24 marzo, la Virginia.
Sembrerebbe un altro – certo, importante – tassello nel mosaico che, con estrema fatica, l’abolizionismo statunitense va componendo dopo la crisi degli anni ’70 (quando, in reazione alla sentenza della Corte suprema federale nel caso Furman v. Georgia del 1972, gli Usa conobbero un ripristino quasi generalizzato della pena capitale). Forse, però, l’abolizione della pena di morte in Virginia può ambire a essere qualcosa di più: la prima tessera di un domino dagli effetti insperati. Senza indulgere in un eccesso di ottimismo, pare di poter dire almeno che vari argomenti portano a dare un’enfasi particolare a quanto è stato deliberato a Richmond.
2.Innanzi tutto, una contingenza rende questa abolizione simbolica: la Virginia è il 23° stato a eliminare la pena capitale (a quelli già menzionati si associano gli stati abolizionisti di più lunga data, dal Michigan, nel 1847, a Massachusetts e Rhode Island, nel 1984); considerando anche i tre stati nei quali vige una moratoria formale decretata dal governatore (Oregon, 2011; Pennsylvania, 2015; California, dal 2019), per la prima volta in quasi mezzo secolo gli stati retenzionisti sono scesi sotto la soglia della metà.
La Virginia è anche il primo stato, tra quelli che aderirono alla Confederazione, a compiere questa scelta. La simbologia legata a eventi di oltre un secolo e mezzo fa si salda, peraltro, con un rilievo di ordine geografico che ha riflessi concreti per l’oggi. L’abolizione nella Virginia contribuisce infatti a rafforzare il localismo della pratica della pena di morte negli Usa. Se si esclude il recentissimo attivismo federale, si può constatare come la pena di morte sia divenuta una pratica concentrata in un numero di Stati significativamente contenuto, territorialmente circoscritto al sud del paese (v. Death Penalty Information Center, The 2% Death Penalty: The Geographic Arbitrariness of Capital Punishment in the United States, https://deathpenaltyinfo.org/stories/the-clustering-of-the-death-penalty).
Ponendosi in questa prospettiva, nell’abolizione decretata dalla Virginia gli aspetti simbolici e la rilevanza concreta si intrecciano in maniera inestricabile. È vero che, da qualche anno, le esecuzioni in Virginia si erano arrestate e così anche le condanne a morte, al punto che l’abolizione della pena ha comportato la commutazione della condanna per i due soli detenuti che restavano nel braccio della morte (questo, peraltro, anche in ragione del fatto che nello stato la percentuale di esecuzioni rispetto alle condanne era la più elevata degli Usa). È altresì vero, comunque, che i quasi quattro anni dall’ultima esecuzione non erano un tempo sufficiente per potersi dire consolidata una tendenza abolizionista (perché possa parlarsi di abolizionismo di fatto, del resto, è necessario il decorso di almeno un decennio). D’altra parte, se la Virginia è stata la prima colonia britannica in Nordamerica, è stato anche il primo territorio dei futuri Stati Uniti in cui un’esecuzione ha avuto luogo (nel 1608); ma, soprattutto, la Virginia ha il triste primato dello stato in cui è stato condotto, nel corso della storia, il più alto numero di esecuzioni: in oltre quattro secoli, 1.390 persone sono state giustiziate. Forse ancor più significativo, però, è che, dal 1976, cioè da quando le esecuzioni sono riprese negli Stati Uniti, la Virginia è il secondo stato per numero di esecuzioni (113), davanti a Oklahoma (112) e a Florida (99), e dietro soltanto all’irraggiungibile Texas (570). Con la Virginia, è chiaro che la pena di morte sia stata abolita in uno degli stati che, nel recente passato, più vi aveva fatto ricorso: si può avere la misura dell’impatto di questa abolizione anche solo constatando che lo Stato divenuto abolizionista che aveva eseguito più condanne a morte dopo il 1976 era finora il Delaware, i cui dati erano nell’ordine di poco più di un decimo di quelli della Virginia (16 esecuzioni).
Se, poi, dai freddi dati numerici ci si spingesse a un’analisi delle condanne e delle esecuzioni, si potrebbe agevolmente constatare che la pena di morte nello Stato della Virginia, come nel resto degli Stati Uniti, ma forse ancor più che altrove, è stata segnata da una storia di discriminazioni e di arbitrio che ha contribuito in maniera rilevante a un utilizzo tutt’altro che parco della sanzione.
3.Come accennato, il rilievo dell’abolizione appena decretata non si esaurisce, comunque, nell’importanza che la decisione assume rispetto alla storia della Virginia; potrebbe anzi avere un rilievo tutt’altro che trascurabile anche oltre i confini dello stato: in quest’ottica si giustifica – almeno, lo si auspica – l’immagine del domino che è stata proposta.
Guardando agli ultimi mesi, in effetti, non sono pochi gli indizi che si stia vivendo un momento di possibile svolta nella storia della pena di morte negli Stati Uniti.
Un’attenzione particolare è da riservare alla politica posta in essere dall’amministrazione Trump, che ha macchiato l’ultimo scorcio del quadriennio con una scia di sangue lunga circa sei mesi. A livello federale, dal 1963 si erano avute solo tre esecuzioni, tutte sotto la presidenza di G.W. Bush (due nel 2001 e una nel 2003), tanto che, nel 2019, poteva dirsi in fase di consolidamento un abolizionismo di fatto. Fin quando un tweet del Presidente non ha reso l’argomento di nuovo di attualità, nell’ottica di un rinnovato ricorso alla pena capitale. Superati vari ostacoli, e con l’avallo della Corte suprema federale, le esecuzioni sono infine riprese il 14 luglio 2020. Nei mesi seguenti, il ritmo delle esecuzioni non è stato sostanzialmente intaccato né dalle riserve che potevano addursi circa le capacità mentali di taluni dei condannati né dalle difficoltà nel contestare l’esecuzione incontrate a causa della pandemia in atto, né tantomeno dalla sconfitta di Trump alle elezioni. Ne è risultato un elenco di ben tredici esecuzioni, l’ultima delle quali condotta il 16 gennaio. Con queste esecuzioni sono venuti emergendo, però, anche diffusi dubbi circa la giustizia o – quanto meno – l’opportunità delle scelte compiute, dubbi che potrebbero aver rafforzato in seno all’opinione pubblica l’opzione abolizionista. La storia dell’abolizionismo mostra varie esperienze – quella britannica, per dirne una – in cui l’eliminazione della pena di morte è stata innescata da condanne e/o esecuzioni che sono state percepite come inique e che hanno quindi fatto crescere nell’opinione pubblica le perplessità circa la perdurante accettabilità di questa pena. Se la deriva assunta dalla Presidenza Trump possa avere questo tipo di effetti non è ancora dato appurarlo, però due elementi non irrilevanti, in questa prospettiva, debbono essere evidenziati.
In primo luogo, non può essere del tutto casuale che l’ultima esecuzione posta in essere da uno stato (nella specie, il Texas) risalga all’8 luglio 2020, cioè a qualche giorno prima che riprendessero le esecuzioni a livello federale, e che la prossima esecuzione – sempre che non venga annullata o rinviata come tutte le precedenti quest’anno – sia fissata per il 20 aprile: la sensazione è che le critiche che si sono rivolte nei confronti esecuzioni federali abbiano avuto un influsso negativo anche su quelle organizzate dagli stati. Quale che ne sia la ragione, è comunque un dato di fatto che, dal 1976, le esecuzioni a livello statale non avevano mai conosciuto una sospensione così lunga (cfr. Death Penalty Information Center, U.S. Enters Longest Period in 40 Years Without Any State Carrying Out an Execution, Feb. 22, 2021, https://deathpenaltyinfo.org/news/dpic-analysis-u-s-enters-longest-period-in-40-years-without-any-state-carrying-out-an-execution).
In secondo luogo, non può certo trascurarsi il fatto che, diversamente da quanto fatto dai suoi predecessori, Joe Biden abbia inserito, nel suo programma, l’abolizione della pena di morte, impegnandosi a utilizzare i mezzi della presidenza per far abolire la pena a livello federale e per spingere gli stati retenzionisti a fare altrettanto (The Biden Plan For Strengthening America’s Commitment To Justice, https://joebiden.com/justice/).
Il punto è, però, che, da Presidente, Biden non è ancora tornato sull’argomento, e le dure critiche rivolte alla prassi instaurata da Trump sono rimaste prive di riscontri concreti. È proprio in questo quadro che la decisione della Virginia può assumere un respiro generale: l’importanza dello stato, per quanto si è visto, va a unirsi a un rilancio dell’impegno abolizionista che, passata l’indignazione nei confronti della deriva trumpiana, rischiava di affievolirsi. Con la legge approvata dalla maggioranza democratica della Virginia, l’argomento dell’eliminazione della pena di morte torna al centro del dibattito politico e richiama gli esponenti del partito democratico – a partire proprio dal Presidente – a dare un seguito e un respiro più ampio a questa azione, onde dare concretezza agli impegni in chiave abolizionista assunti nelle settimane e nei mesi scorsi.
Come dire che dalla Virginia potrebbe prendere slancio una politica abolizionista tale da ridimensionare ulteriormente il ricorso alla pena di morte negli Stati Uniti. Dalla Virginia potrebbe prendere avvio un domino che – chissà – potrebbe anche arrivare a intaccare la peculiarità che connota gli Stati Uniti ormai da decenni (D. Garland, Peculiar Institution: America’s Death Penalty in an Age of Abolition, Cambridge (MA), Harvard University Press, 2010, trad. it. La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo, Milano, il Saggiatore, 2013).


Una sentenza (auspicabilmente) storica: la Corte limita l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile

1. – Ho sempre avuto qualche remora a definire «storica» una decisione: la retorica di cui l’aggettivo è permeato lo rende, a mio avviso, frequentemente abusato. Eppure, leggendo la sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2014, n. 238, la tentazione di utilizzarlo è stata più forte del rischio di cadere in una retorica, che, peraltro, i contenuti della pronuncia potrebbero anche, almeno in parte, giustificare. La Corte ha infatti stabilito che l’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti nell’esercizio di poteri sovrani (jure imperii), riconosciuta dal diritto internazionale, non può valere ad escludere l’accesso alla giurisdizione di fronte ai giudici italiani in relazione ad azioni per danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona.

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