Il BVerfG e la vita delle persone con disabilità: il triage per l’accesso ai reparti di terapia intensiva in tempo di pandemia

La pandemia ci ha messo al cospetto di una lunga serie di interrogativi; in molti frangenti ci siamo trovati davanti ad alternative difficili o - in alcuni casi - a delle vere e proprie scelte tragiche. Una delle domande più ricorrenti e delicate dal punto di vista della bioetica e del biodiritto ha riguardato l’allocazione delle risorse disponibili all’interno dei reparti di terapia intensiva. Soprattutto nel corso del 2020 e all’inizio del 2021, nei mesi in cui la campagna vaccinale non era ancora capace di far scemare la pressione sul sistema ospedaliero, ci si chiedeva quali criteri dovessero guidare il personale medico nello scegliere a chi prestare le proprie cure, in particolare modo con riferimento all’assegnazione dei posti-letto in terapia intensiva; ci si è chiesti, in ambito scientifico, anche a seguito della pubblicazione delle linee guida adottate dalla Società Italiana di Anestesia, Analgesia e Terapia Intensiva (SIAARTI) se l’età di un dato paziente e le sue condizioni di salute di partenza potessero costituire un fattore discriminante nella scelta. Quella relativa ai criteri di priorità da adottare per allocare risorse preziose (si pensi, ad esempio, alla scelta dei pazienti beneficiari dei trapianti d’organo) non è una questione inedita, nel dibattito scientifico, ma - come è stato rilevato da parte di più autori – per un certo periodo è stata messa al centro della discussione pubblica dalla pandemia.
Tra i fattori di cui si sarebbe potuto (o dovuto) tenere conto nell’assegnazione di risorse mediche scarse, oltre all’età e al pregresso stato di salute del paziente, è stata talvolta citata anche la disabilità. Aspetti come quelli relativi alla “fragilità” delle condizioni di salute delle persone con disabilità grave o considerazione relative alla qualità e alla quantità degli anni di vita loro garantiti da un immediato ricovero in terapia intensiva a seguito di un’infezione da Covid-19 avrebbero giustificato - secondo gli aderenti a posizioni utilitariste- una discriminazione nei loro confronti e l’assegnazione, quindi, di una maggiore quantità di risorse (in questo caso, come già parzialmente anticipato, l’occupazione di posti-letto in terapia intensiva, l’utilizzo di ventilatori polmonari, l’attenzione e le competenze di personale medico di elevata professionalità come quello in servizio nei reparti Covid-19) alle persone senza disabilità.
Della questione si è occupato anche un giudice costituzionale particolarmente autorevole, il Bundesverfassungsgericht; proprio della decisione del 16 dicembre 2021 (1 BvR 1541/20) dei giudici di Karlsruhe si vuole dare conto in questo post.
Il caso di specie scaturisce da una Verfassungsbeschwerde presentato da nove persone con disabilità per ottenere un’effettiva tutela nel caso in cui, durante la pandemia da Covid-19, la loro particolare condizione li esponga a discriminazioni nei triage per l’ingresso in terapia intensiva.
La posizione dei ricorrenti è stata accolta. Il Tribunale costituzionale federale ha stabilito che l’art. 3, III comma, ultima frase, del Grundgesetz (ove, a seguito della revisione costituzionale del 1994, si afferma che “Nessuno può essere discriminato a causa di un suo handicap”) si traduce tanto in un divieto di discriminazione (vuoi diretta, vuoi indiretta) nei confronti delle persone con disabilità, quanto, in situazioni di particolare vulnerabilità, in uno specifico dovere, per il legislatore, di adottare delle misure protettive (Schutzpflicht).
Fra tali situazioni di particolare vulnerabilità rientrano i frangenti in cui si mettano in moto meccanismi escludenti tali da configurarsi come lesivi della dignità umana, quelli in cui siano presenti ineguaglianze strutturali, ovvero quelli in cui la condizione di disabilità implichi degli svantaggi tali da configurare una lesione dei diritti fondamentali.
Quali siano queste misure protettive, spetta al legislatore, nella discrezionalità di cui gode, deciderlo, purché esse siano effettivamente tali da proteggere i diritti e gli interessi delle persone con disabilità.
Il percorso che ha condotto i giudici di Karlsruhe a queste conclusioni è abbastanza articolato.
In primo luogo, è venuto in considerazione un aspetto già messo in risalto tanto da organismi internazionali (come, fra gli altri, le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale per la sanità), quanto in letteratura: durante la pandemia da Covid-19 le persone con disabilità corrono rischi maggiori rispetto a quelle senza disabilità, sotto diversi punti di vista.
Come anticipato, nella Verfassungsbeschwerde si sottolinea l’assenza di specifiche indicazioni legislative dirette a impedire discriminazioni ai danni delle persone con disabilità durante il triage. Secondo i ricorrenti – come sottolineato dalla Corte - solo l’adozione di una legge garantirebbe un’adeguata partecipazione delle persone con disabilità alla discussione e, cosa ancor più rilevante, che le valutazioni effettuate dal personale medico durante il triage siano fondate su criteri oggettivi e non discriminatori mettendo a loro disposizione delle persone con disabilità, in ultima istanza, anche uno strumento legale azionabile a loro tutela.
Di seguito, accertata l’astratta sussistenza del pericolo prospettato dai ricorrenti, il Bundesverfassungsgericht evidenzia che devono essere prese in considerazione anche le circostanze fattuali e concrete; lo strumento della Verfassungsbeschwerde, difatti, è utilizzabile solo quando si configuri un rischio diretto e attuale di violazione di un diritto fondamentale in capo a chi se ne avvalga.
Nel caso di specie, il ricorso è ammissibile anche tenuto conto di questo profilo: le persone che si sono rivolte alla Corte di Karlsruhe, infatti, corrono effettivamente il rischio di vedere i propri diritti fondamentali pregiudicati da possibili differenze di trattamento ricollegate alla loro disabilità.
A questa situazione fa riscontro, come già detto, l’inerzia da parte del legislatore.
Ed è proprio questa inazione a violare l’ultima parte dell’art. 3 del GG; la disposizione costituzionale, affermando l’oggettiva esistenza di un valore costituzionale (l’evitare ogni discriminazione ai danni delle persone con disabilità, appunto), è vincolante tanto nei rapporti regolati dal diritto privato, quanto per ogni soggetto attraverso cui si concretizzi l’azione statuale.
Ciò non implica - sottolinea la Corte - che sussista un dovere, per il legislatore, di farsi carico, normativamente, di ogni aspetto riguardante la vita quotidiana delle persone con disabilità; ma le circostanze del caso concreto sono affatto particolari, dal momento che essere discriminati durante il triage per l’ammissione a un reparto di terapia intensiva può risolversi in una violazione del diritto alla vita tutelato dall’art. 2 del GG.
Quali misure debbano essere adottate, tuttavia, come detto, rimane all’interno dello spazio di discrezionalità e del margine d’apprezzamento del legislatore.
Da segnalare, poi, è l’attenzione dedicata alla ricostruzione del contesto normativo internazionale, con puntuale riferimento ai documenti approvati dal Consiglio d’Europa e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ampio spazio è poi dedicato alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, non di rado tenuta presente dai giudici tedeschi, prevalentemente a fini interpretativi: in particolare, vengono richiamati gli artt. 1, 4, 10, 11 e 25 della Convenzione di New York, così come il General comment. N°. 6, dedicato alla non discriminazione e pubblicato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nel 2018. Da ultimo, vengono invocati, sempre in chiave ermeneutica, il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrambi approvati nel 1966.
Infine, i giudici di Karlsruhe prendono in considerazione le posizioni assunte, in diverse occasioni, da alcune associazioni rappresentative del personale medico. A tal proposito, si osserva come le persone con disabilità, alla luce dei documenti adottati dai soggetti appena citati, non possano ritenersi tutelate contro eventuali discriminazioni, né possano collocarsi al di fuori del raggio d’azione di tali strumenti.
Spetta quindi al legislatore prendere l’iniziativa, tenendo conto del fatto che il rispetto della dignità umana di cui all’art. 1 GG preclude il soppesare ‘vita contro vita’, ma non dispone un categorico divieto di introdurre criteri di allocazione delle risorse, né di adottare accorgimenti di tipo organizzativo (ad esempio, prevedendo che al triage prendano parte più medici) o curando in maniera particolare la formazione dei medici e degli infermieri impiegati nei reparti di terapia intensiva, per eliminare eventuali pregiudizi relativi ai triage delle persone con disabilità; ma si tratta - appunto - di valutazioni rimesse al legislatore; e alla decisione del Tribunale costituzionale federale ha fatto seguito la presentazione, da parte di Karl Lauterbach, ministro federale per la salute, di un progetto di legge in materia, oggetto, peraltro, di aspre critiche.
Fra i tanti spunti di interesse offerti dalla decisione in questione, è forse proprio a partire dal ruolo che la Corte attribuisce al legislatore che è possibile tracciare alcune considerazioni conclusive. Chi ha analizzato la questione dell’accesso delle persone con disabilità alle terapie intensive durante la pandemia da Covid-19 in un differente contesto ordinamentale (quello statunitense), ha sottolineato che il rischio d’esclusione delle persone con disabilità dall’accesso alle terapie intensive è un tema imprescindibilmente politico. Il fatto che le persone con disabilità possano vedere pregiudicato il proprio diritto alla vita e alla salute non è ricollegato alla mera realtà fattuale (la scarsità delle risorse disponibili in un momento eccezionale), ma, a monte, all’esclusione delle persone con disabilità, ancor oggi, dai meccanismi decisionali che nei circuiti di democrazia deliberativa dovrebbero determinare degli indirizzi di politica legislativa coerenti con i principi e valori del costituzionalismo contemporaneo.


La Corte europea dei diritti dell’uomo e il voto dei folli (CEDU, Caamaño Valle c. Spagna, 21 maggio 2021)

Nella produzione letteraria di uno dei più rilevanti autori del nostro Novecento, Italo Calvino, figura un romanzo, intitolato “La giornata d’uno scrutatore”, ambientato all’interno della Piccola Casa della Divina Provvidenza “Cottolengo” di Torino. La vicenda narrata, come dice il titolo stesso, copre un arco temporale che va dall’alba al tramonto e ha luogo il 7 giugno del 1953; il protagonista, Amerigo Ormea, è un militante del Partito Comunista e, in occasione delle elezioni politiche di quell’anno (quelle, per intenderci, tenutesi durante la vigenza della “legge truffa”) fa lo scrutatore nel seggio collocato all’interno di un’istituzione che ospita centinaia di persone con disabilità fisica e mentale. La sua presenza serve a evitare che i voti “dei minorati” finiscano, in un modo o nell’altro, per essere attribuiti alla Democrazia Cristiana.
Chi lo ha letto indossando le lenti dello studioso di diritto costituzionale ha subito colto come uno dei temi centrali del romanzo sia quello del significato del voto. Affrontare il tema del diritto al voto dei “folli”, infatti, costringe a fare i conti con alcune aporie delle democrazie contemporanee e, in particolare, con l’isocrazia. L’idea che le teste vadano contate tutte, una per una, e che la “decisione collettiva vincolante” veda la luce solo quando vengano applicate delle regole che garantiscano una partecipazione dei cittadini, quanto più ampia e sicura possibile, è saldata alla garanzia stessa dei diritti politici e ha come presupposto l’esigenza che i cittadini siano educati, informati e desiderosi di maturare una propria idea circa le questioni basilari con cui deve i conti la società in cui essi vivono. L’attribuzione del diritto di voto alle persone con gravi problemi di salute mentale mette in crisi questo schema, dal momento che il “matto” è, per definizione, privo “di indipendenza e capacità di giudizio, ossia della capacità di comportarsi da attore razionale”: dove collocare costui nell’incessante processo di costruzione della cittadinanza politica?
Quanto appena esposto dovrebbe essere sufficiente a giustificare l’attenzione che merita la sentenza Caamaño Valle contro Spagna [2021] ECHR 387, decisa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo alcune settimane fa.
A ricorrere alla Corte di Strasburgo è la madre di M.; quest’ultima è una giovane donna che ha problemi di salute mentale. Quando M. s’avvicina al compimento della maggiore età, nel dicembre del 2013, la donna, residente nella città spagnola di Santiago di Compostela, si rivolge alle autorità giurisdizionali perché M. venga posta sotto la sua tutela, chiedendo però, espressamente, che dall’operare delle misure tutelari venga escluso il diritto di voto. Il giudice, invece, decide che M., a causa delle sue particolari condizioni di salute, non è in grado di votare e, nel suo provvedimento, dopo aver analizzato la collocazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità all’interno dell’ordinamento spagnolo, sottolinea la differenza fra la nozione di disabilità tracciata dalla Convenzione appena citata e quella di incapacitación, delineata dal diritto nazionale. La decisione di limitare il diritto di voto di M. non è legata né a valutazioni circa l’esigenza di ravvisare maggiori capacità cognitive o intellettive, né sulla sua consapevolezza circa le possibili opzioni di voto (quale partito o quale candidato votare?), né sull’ipotetica irrazionalità delle sue scelte: rilevante, piuttosto, è il fatto che M. è altamente influenzabile e inconsapevole delle conseguenze del proprio voto.
Non diversi l’esito del giudizio d’appello e di quello al cospetto della Corte suprema, concordi nel confermare la posizione espressa dal giudice di primo grado.
Adito il Tribunal Constitucional con un ricorso di amparo, le cose non cambiano: anche per il TC, difatti, quanto era previsto dalla Ley Organica del Régimen Electoral General (LOREG) a proposito dei limiti al voto degli incapaci non era incompatibile né con gli articoli 14 e 23 della Costituzione spagnola, né con quanto previsto dall’art. 29 della Convenzione ONU, alla luce dell’art. 10 della Costituzione del 1978. In particolare – sottolinea il TC – la disciplina legislativa non privava, in termini generali, le persone con disabilità del proprio diritto di voto: le relative limitazioni, infatti, erano adottate dal potere giudiziario su base individuale.
Si è utilizzato il tempo verbale al passato, a proposito di quanto previsto dalla LOREG, perché nel tempo trascorso fra la decisione del TC, adottata nel 2016, e la recente sentenza della Corte EDU è intervenuta una riforma della disciplina elettorale, adottata con la Ley Orgánica 2/2018, volta a garantire il diritto di voto di tutte le persone con disabilità.
Dal momento che M. è stata privata del suo diritto di voto in diverse tornate elettorali, la questione è comunque stata affrontata dalla Corte di Strasburgo.
I motivi di ricorso, presentato dalla madre di M., vertono su una possibile violazione dell’art. 3 del Protocollo addizionale n. 1 (“Le Alte Parti contraenti si impegnano a organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo”) e, in aggiunta, sulla possibile violazione della medesima norma in combinato disposto con l’art. 14 (“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate […] od ogni altra condizione”) e con l’art. 1 del Protocollo n. 12 (“Il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate […] o ogni altra condizione”).
La Corte, nel dar risposta alle doglianze della parte ricorrente, osserva, in primo luogo, che il suo compito è interpretare e garantire la CEDU, pur in armonia con altri strumenti internazionali; ma sul punto torneremo fra poco.
Quel che conta è che il ricorso presentato dalla madre di M. viene respinto in toto. Perché?
Secondo la Corte EDU quanto previsto dalla LOREG perseguiva uno scopo legittimo (ovvero, assicurare che solo cittadini capaci di valutare le conseguenze delle proprie azioni e di assumere decisioni consapevoli vengano coinvolti nei processi decisionali pubblici; e sul punto la Corte richiama quanto affermato nella decisione Alajos Kiss c. Ungheria); inoltre, le misure adottate a tal fine erano proporzionate rispetto a tale scopo, anche tenendo conto del restringersi del margine di apprezzamento degli Stati quando ci si trovi a incidere sulla condizione giuridica di gruppi sociali storicamente discriminati, come quello delle persone con problemi di salute mentale.
La decisione della Corte, però, non è stata unanime e la dissenting opinion del Giudice Paul Lemmens, piuttosto lunga e articolata, merita alcune considerazioni.
Il punto di partenza di Lemmens, espressamente debitore del lavoro filosofico di Martha Nussbaum, è che il rispetto della dignità umana di ciascun individuo impone un pieno rispetto del suo diritto di voto. La Corte di Strasburgo avrebbe dovuto, quindi, seguire l’impostazione adottata dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, in particolare con riferimento all’applicazione dell’art. 12 della Convenzione ONU. Per il Comitato, infatti, è possibile distinguere mental capacity e legal capacity, ma nel farlo, si precisa che i limiti della prima non possono comportare delle compressioni della seconda.
Tuttavia, come ribadito dalla Corte, quanto affermato dal Comitato non la vincola: come già detto, il compito che la Corte si assume è quello di un’interpretazione della CEDU in armonia con il diritto internazionale, ma senza obblighi di deferenza nei confronti di altri soggetti.
Ma non è questo l’unico punto di dissenso di Lemmens rispetto alla decisione adottata dalla maggioranza. Fra l’altro, sarebbe stato preferibile, a suo giudizio, assumere una posizione allineata alle interpretative declarations in materia adottate dalla Commissione di Venezia e aderire a quanto sostenuto dal Commissario del Consiglio d’Europa sui diritti umani, intervenuto quale terza parte nel giudizio in questione, andando ad affermare la garanzia incondizionata del diritto di voto per tutte le persone con disabilità. Tutto ciò, per Lemmens, avrebbe dovuto condurre all’accoglimento integrale del ricorso.
La decisione, certamente, presenta profili discutibili e non del tutto persuasivi; per chi studia il diritto comparato, come sottolineato anche dalla sentenza in questione, è particolarmente interessante registrare un progressivo ritrarsi delle misure, adottate a livello nazionale, che vanno a limitare il diritto di voto delle persone con disabilità.
In Italia l’art. 48 della Costituzione prevede che “Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile […]”, ma il Parlamento, con la legge Basaglia (l. 180/1978), ha eliminato le misure che rendevano azionabili eventuali misure restrittive, pur sempre costituzionalmente possibili. Della Spagna si è detto: una parte della dottrina auspicava da tempo una riforma della LOREG, nella direzione di cui si è riferito, all’interno di un più ampio adeguamento della legislazione iberica alla Convenzione ONU; e ciò pur non mancando possibili argomenti a favore della compatibilità della disciplina elettorale con il quadro internazionale e costituzionale, a suo tempo sostenuta dal TC. Permangono comunque sullo sfondo, meritevoli d’ulteriore attenzione, le aporie segnalate in apertura e resta da dar risposta alle numerose sfide poste dall’inclusione delle persone con disabilità mentale nella sfera pubblica, anche al di là del momento elettorale.


Un cambio di rotta per le politiche in materia di disabilità: idee per un possibile approdo. Recensione a A. Candido, Disabilità e prospettive di riforma. Una lettura costituzionale (Giuffrè, Milano, 2018, 177 pp., € 18.00)

Anche in Italia, così come in altri contesti ordinamentali, si è andato sviluppando, nel corso degli anni, un sempre più comprensivo insieme di norme relative alla condizione giuridica delle persone con disabilità. Al relativo dibattito offre un valido contributo il libro di Alessandro Candido, recentemente apparso nella collana della facoltà di giurisprudenza della sede piacentina dell’Università Cattolica. Lo studio di Candido è articolato in tre capitoli, preceduti da un’introduzione, contenente gli obiettivi della ricerca, e seguiti da alcune pagine conclusive, in cui si tirano le fila dei ragionamenti svolti. Gli obiettivi che Candido si pone sono ambiziosi. Il suo punto di partenza è dato da due constatazioni. La prima è che la dimensione economica è – oggi – ineludibile anche per chi voglia occuparsi della condizione delle persone con disabilità da una prospettiva costituzionalistica. La seconda è l’inadeguatezza di molte delle misure di sostegno vigenti (l’indennità di accompagnamento, ad esempio, «si rivela sempre più una misura rigida, generica e inadeguata»: così a p. 3) e- in un contesto sempre più connotato dall’integrazione socio-sanitaria – con grossi nodi ancora da districare (a partire, come segnalato da Candido, da quelli della compartecipazione degli utenti alla spesa socio-sanitaria e del computo e dell’utilizzo dell’ISEE). Il punto di arrivo della ricerca – nelle intenzioni dell’autore – consiste nell’elaborazione, nel rispetto dei vincoli costituzionali, di una serie di criteri funzionali alla messa a punto di livelli essenziali finalizzati all’introduzione di un «sistema di welfare rinnovato, integrato e comunitario, nonché […] partecipato e solidale» (p. 4).
Per raggiungere un approdo del genere è però necessaria una previa ricognizione dell’assetto normativo vigente. È quindi logico che I capitolo contenga innanzitutto un’accurata analisi delle fonti del diritto relative alla disabilità, a partire dalle norme costituzionali e dai principi e valori da esse dettati. Vengono quindi in considerazione gli artt. 2 e 3 della carta repubblicana, così come gli artt. 32 e 38. Non mancano richiami alla legislazione ordinaria (fra cui la legge 112/2016, sul “dopo di noi”) e alla giurisprudenza costituzionale. Vengono toccati anche gli aspetti relativi al nesso fra sussidiarietà orizzontale e inclusione della persona disabile (pp. 33-37) e viene offerta una ricostruzione sistematica, di grande utilità per il lettore, della ripartizione di competenze fra Stato e Regioni e dello stato dell’arte circa i nuovi livelli essenziali di assistenza, sempre con precipuo riferimento, ovviamente, alla condizione delle persone con disabilità (pp. 38-48). Le ultime pagine del primo capitolo sono dedicate a una puntuale rassegna delle fonti di rango internazionale (in particolare, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità: pp. 48-57) e di quelle riconducibili all’ordinamento dell’Unione europea, a partire dai primi interventi in materia di formazione professionale finanziati dal Fondo sociale europeo, negli anni settanta, sino alla Strategia europea sulla disabilità 2010-2020, varata nello stesso anno della ratifica, da parte dell’UE, della già menzionata Convenzione delle Nazioni Unite.
Il II capitolo è invece dedicato all’esame – molto rigoroso e attento – del sistema italiano di protezione economica delle persone con disabilità. Si tratta di una lettura per certi versi indispensabile per chi voglia accostarsi al tema: vengono infatti analizzate le problematiche definizioni di ‘disabilità’, ‘handicap’, ‘non autosufficienza’ e ‘patologia disabilitante’ presenti nel nostro ordinamento, con rimandi quanto più puntuali possibile al quadro normativo. Trova poi particolare spazio una disamina di quella che «è stata (ed è tuttora) unica misura specificamente e autenticamente concepita come sostegno alle situazioni più gravi di disabilità», l’indennità di accompagnamento, disciplinata dalla legge 18 del 1980. Di seguito, sono prese in considerazione, in maniera più sintetica, le ulteriori misure di sostegno per le persone con disabilità e l’integrazione socio-sanitaria, definita quale «ambito controverso», espressamente riconosciuta normativamente soltanto nel 1999, non ancora ben codificata e avente quale obiettivo «quello di sottrarre all’ospedale tutte le attività di assistenza non legate alle fasi più acute della malattia, che per loro natura richiedono, invece, un’assistenza di tipo e livello ospedaliero» (pp. 86-87). A partire dal tema della ripartizione tra quota sanitaria e quota sociale, Candido affronta, con grande padronanza, un argomento sul quale si sono stratificate discipline di diverso rango e diversa ampiezza e una copiosa giurisprudenza, tanto ordinaria quanto amministrativa. L’ambito in questione è quello dell’utilizzo dell’Indicatore della Situazione Economica Equivalente (o, per amor di sintesi, Isee), qualificato quale ‘livello essenziale’ dall’art. 2 del d.p.c.m. 159 del 5 dicembre 2013 e anch’esso – secondo l’autore – bisognoso di un intervento di manutenzione straordinaria da parte del legislatore, dopo la prima riforma portata a compimento a fine 2013 (si vedano, in proposito, le indicazioni contenute a pp. 116-119).
Il III e ultimo capitolo del libro è dedicato ai livelli essenziali delle prestazioni per le persone con disabilità e alla proposta di alcune possibili linee di riforma delle politiche per la disabilità. Il punto di partenza di Candido – avendo presente l’esigenza di rispettare i vincoli costituzionali e di equilibrio finanziario – è costituito da due ordinamenti stranieri, quello spagnolo e quello tedesco, a loro volta alle prese con il problema della sostenibilità della tutela dei diritti delle persone con disabilità e accomunati all’Italia dalla «presenza […] di garanzie delle autonomie territoriali […] paragonabili (ma non sempre sovrapponibili) a quelle apprestate dalla Costituzione italiana per le Regioni». I due sistemi – caratterizzati entrambi da una tendenza all’universalismo – presentano comunque differenze tali da non renderli ugualmente adottabili quali modello per un’eventuale riforma del welfare italiano. In particolare, dato che la Germania è uno stato federale, Candido ritiene che sia più plausibile un intervento ispirato al modello spagnolo. In Spagna si è optato per una sorta di legge quadro (si tratta della Ley 39 del 14 dicembre 2006, dedicata alla Promoción de la Autonomía Personal y Atención a las personas en situación de dependencia) che stabilisce alcuni princìpi e lascia alle Comunidades Autónomas ampi spazi di attuazione amministrativa (per quanto riguarda la normativa spagnola, si vedano, limitatamente ai contributi in lingua italiana, F. Moretón Sanz, Aspetti civilistici di un nuovo diritto di cittadinanza: la legge spagnola sull'autonomia personale e sull'assistenza alle persone en situación de dependencia, in Dir. famiglia, 4/2010, pp. 1871 ss. e G. Rodríguez Cabrero – V. Marbán Gallego, Le politiche per la non autosufficienza in Spagna: un sistema ibrido tra cura familiare e istituzionalizzazione del rischio, in la Rivista delle Politiche Sociali/Italian Journal of Social Policy, 4/2011, pp. 81 ss.). Dopo questa premessa, l’autore propone «un sistema di «federalismo sociale» basato su un welfare rinnovato, nonché di tipo partecipato e solidale (così a p. 129). La proposta messa a punto da Candido ruota, nel complesso, su quattro cardini. Il primo di essi è il superamento del sistema delle indennità di accompagnamento. Una revisione dei principali meccanismi di erogazione monetaria oggi presenti in Italia pare effettivamente non più rimandabile e – secondo l’autore – rappresenterebbe «il vettore più efficace per la predisposizione di un progetto di modifica innovativo e, al contempo, sostenibile», cui accompagnare una proposta di riforma fondata su una serie di norme costituenti «livelli essenziali delle prestazioni», superando anche le tensioni nel rapporto centro/periferia (così a p. 133). L’idea di base di Candido, al riguardo, consiste nell’istituzione di un fondo ad hoc creato dall’INPS (p. 134). Il secondo aspetto su cui puntare sarebbe una riforma della definizione di disabilità, da plasmare a partire dal modello bio-psico-sociale emergente dall’ICF. A una ridefinizione delle nozioni normative della disabilità presenti nel nostro ordinamento dovrebbe poi far seguito, secondo Candido, un’uniformazione dei criteri di valutazione della disabilità, «al fine di evitare […] ogni discriminazione nelle possibilità di accesso alle prestazioni». La valutazione della disabilità dovrebbe essere affidata all’unità di valutazione multidimensionale, a livello distrettuale. L’uniformazione dei criteri di valutazione dovrebbe essere accompagnata da un servizio di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto o da parte dell’Osservatorio nazionale disabilità (istituito dalla legge 18 del 2009), oppure da parte di un nuovo organismo di coordinamento che dovrebbe essere sorgere con i decreti attuativi della legge delega 33 del 2017. L’ultimo dei quattro cardini della proposta di riforma elaborata dall’autore è dato da un ripensamento dell’erogazione del contributo a sostegno della persona con disabilità, recuperando il concetto di responsabilità collettiva della presa in carico, con un coinvolgimento dei Comuni, delle famiglie, delle associazioni di volontariato, dei soggetti del privato-sociale e del terzo settore. Con un approccio del genere sarebbe possibile dare ulteriore sostanza al primo dei quattro cardini qui enumerati: sarebbero infatti superabili le rigidità del sistema delle indennità di accompagnamento, graduando le risorse, regolarizzando i rapporti di cura informali e facilitando il ricorso a personale accreditato (p. 150). Per quanto riguarda l’integrazione socio-sanitaria, già presa in considerazione nelle pagine precedenti, Candido propone un’evoluzione in chiave interistituzionale, «attraverso un approccio integrato non più legato esclusivamente a una logica prestazionale, ma rivolto all’inclusione sociale e alla vita il più possibile autonoma e indipendente della persona con disabilità» (p. 152), dando quindi seguito alle indicazioni emergenti dallo studio dei principi e dei valori costituzionali e già alla base di precedenti interventi normativi (su tutti, la legge quadro 104 del 1992).
Nelle conclusioni, infine, si sottolinea come gli sviluppi conseguenti agli interventi proposti sarebbero tali da condurre a un modello maggiormente in linea con lo sviluppo della persona umana postulato dalla Costituzione, potendo contribuire a un complessivo rilancio del sistema delle politiche sociali. Questa aspirazione dà slancio allo studio qui recensito: si sia d’accordo o no, del tutto o in parte, con le soluzioni proposte da Candido, il volume ha il grande merito di toccare argomenti di pressante attualità e di pari complessità tecnica con competenza e coraggio, non limitandosi a una fotografia dello status quo, ma dando al lettore delle possibili soluzioni plausibili e razionalmente argomentate.


Recensione a M. G. Bernardini, Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari fra filosofia del diritto e Disability Studies, Giappichelli, Torino, 2016

Nel corso degli ultimi anni l’interesse degli studiosi nei confronti della condizione giuridica delle persone con disabilità è aumentata notevolmente. La sensibilità legata a una lettura evolutiva del testo costituzionale del 1948 è stata ampliata dalle sempre crescenti attenzioni riservate ai diritti delle persone con disabilità sia a livello internazionale (si pensi al grande successo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York nel 2006) sia sovranazionale (in particolare, in ambito europeo, si pensi all’azione dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa). Il volume di Maria Giulia Bernardini (Disabilità, giustizia, diritto. Itinerari fra filosofia del diritto e Disability Studies, Giappichelli, Torino, 2016) vede la luce in un momento in cui la riflessione su alcuni dei grandi temi che connotano lo status giuridico delle persone con disabilità è ancor più necessaria.

Il volume, nella sua impostazione, è coerente con il proprio titolo: ai tre termini presenti nella prima parte del titolo (disabilità, diritto, giustizia) corrispondono infatti i tre capitoli in cui si articola il lavoro. Il volume, come sottolineato dall’Autrice stessa, segue l’andamento espositivo che connota alcuni scritti di Brunella Casalini e Maria Zanichelli, pur giungendo, ovviamente, a conclusioni proprie. Dopo aver chiarito, in una sintetica introduzione, alcuni punti preliminari, l’Autrice – dottore di ricerca presso l’Università di Palermo e attualmente assegnista in filosofia del diritto presso l’Università di Ferrara – si occupa, nel primo capitolo, della ricostruzione del concetto di disabilità, passando puntualmente in rassegna i modelli emersi nel corso del tempo, da quello medico-individualista, a quello sociale (nelle sue varianti statunitense e britannica), al paradigma culturale e ai paradigmi intermedi (quello critico-realista e quello biopsicosociale, trattati congiuntamente nonostante i rispettivi elementi di originalità). L’esposizione di Maria Giulia Bernardini non è però priva di spirito critico, sia nei confronti di alcuni autori che maggiormente risentono dello scorrere del tempo (si vedano, in proposito, le notazioni critiche allo struttural-funzionalismo di Talcott Parsons ed all’interazionismo simbolico di Ervin Goffman), sia per quanto concerne alcune prese di posizione ricorrenti nel dibattito scientifico (è questo il caso del paradigma dei diritti umani, cui l’A. muove delle obiezioni a pp. 64-72).

Il capitolo dedicato alla giustizia non è meno denso. La matassa dipanata dall’Autrice parte dalla tradizione contrattualista, per poi toccare l’egualitarismo liberale di John Rawls e di Ronald Dworkin, giungendo poi alla discussione della teoria delle capabilities (come messa a punto dal filosofo ed economista indiano Amartya Sen e da Martha C. Nussbaum); tuttavia, nel secondo capitolo sono centrali la teoria femminista e la teoria dell’etica della cura. Con riferimento a quest’ultima, non mancano notazioni circa le frizioni cui essa ha dato luogo nell’ambito dei Disabilities Studies, per la difficile conciliabilità con la prospettiva teorica del modello sociale di matrice inglese. Il capitolo si chiude con un’analisi del concetto di vulnerabilità, recentemente analizzato anche in una prospettiva più strettamente costituzionalistica (si veda da ultimo S. Rossi, Forme della vulnerabilità e attuazione del programma costituzionale, in Rivista AIC, 2/2017); il tema della vulnerabilità della persona con disabilità verrà poi ripreso anche nel III capitolo.

Il II capitolo si chiude quindi con la constatazione che il riconoscimento delle persone con disabilità come soggetti di giustizia non può non aprire nuove prospettive per la loro autonomia, a lungo considerata solamente nel prisma del paradigma medico-individuale.

Il terzo capitolo è dedicato alle persone con disabilità come soggetti di diritto: l’intenzione dell’A. è quindi è verificare la presenza della soggettività disabile all’interno della sfera giuridica. Il capitolo prende le mosse dalla fiducia nel diritto e nei diritti espressa da Norberto Bobbio e da un notissimo scritto di Jacobus tenBroek, pubblicato a metà degli anni ’60; poi si passa alla disamina dell’approccio biopolitico foucaultiano (assai diffuso nei disability studies ma non immune da punti deboli, come evidenziato a pp. 186-188) e si toccano il rapporto fra diritto ed eugenetica e quello fra diritto ed esclusione. I paragrafi centrali del III capitolo sono dedicati alla già citata Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, al diritto dell’Unione europea e alle “luci e ombre” dell’ordinamento italiano; per quanto concerne il contesto italiano, è riservata una particolare attenzione all’istituto dell’amministrazione di sostegno. Infine, Maria Giulia Bernardini va ad affrontare il tema della capacità giuridica della persona con disabilità, adottando quale punto di riferimento l’art. 12 della Convenzione ONU; in particolare, trovano spazio una disamina degli strumenti del substitute e del supported decision making e l’analisi critica del concetto di indipendenza presente all’interno della Convenzione ONU (in particolare, si pensi all’art. 19 della Convenzione stessa, dedicato alla vita indipendente). Al termine del III capitolo, l’A. constata la pluralità dei possibili piani per una definizione della soggettività giuridica delle persone con disabilità: la prospettiva delineata a partire dall’opera di Michel Foucault permette di concentrarsi sulla negazione dei diritti, mentre quella tracciata prendendo le mosse da Norberto Bobbio consente di collocare la garanzia dei diritti in un contesto giuridico multilivello. Infine, le teorie critiche consentono di riflettere su come la moderna costruzione del soggetto di diritto sia stata, di per sé stessa, escludente. Proprio la necessità di arricchire la riflessione giuridica contemporanea con il portato degli studi riconducibili alle “teorie critiche del diritto” è la nota con cui si chiude il volume; ed effettivamente, proprio alla luce di tale esigenza, la lettura del libro di Maria Giulia Bernardini è indubbiamente preziosa per chi intenda studiare i diritti delle persone con disabilità, sia nell’ambito del diritto costituzionale italiano ed europeo, sia nell’ambito del diritto internazionale.


Ireland’s Call: la vigilia di un duplice referendum costituzionale

Il prossimo 22 maggio gli irlandesi andranno a votare per decidere se approvare due emendamenti alla loro Costituzione (in irlandese, Bunreacht na hÉireann). Il primo quesito referendario riguarda una modifica all’art. 41 della Costituzione, cui verrebbe aggiunta una proposizione (“il matrimonio può essere contratto, in conformità con la legge, da due persone, senza alcune distinzione con riferimento al sesso”). Il secondo riguarda la riduzione dell’età minima per essere eletti Presidente della repubblica; in caso di approvazione, il limite, di cui all’art. 12.4.1 della Costituzione, passerebbe dai 35 ai 21 anni.

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