La parodia fa il suo (non ancora trionfale) ingresso a Lussemburgo

Con le conclusioni rese lo scorso 22 maggio 2014 nella causa C-201/13 (Johan Deckmyn e Vrijheidsfonds VZW c. Helena Vandersteen, Christiane Vandersteen, Liliana Vandersteen, Isabelle Vandersteen, Rita Dupont, Amoras II CVOH e WPG Uitgevers België) l’Avvocato generale della Corte di Giustizia Cruz Villalón si è pronunciato in relazione alla natura e al significato della nozione di “parodia” quale eccezione ai diritti esclusivi di riproduzione, distribuzione, comunicazione al pubblico di opere protette, che gli Stati membri hanno facoltà di disporre conformemente all’articolo 5, par. 3, lett. k), della Direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (“Direttiva InfoSoc”).

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Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis à vis il processo di integrazione europea*

Sommario:  I. Dai primi oscuri presagi alle avvisaglie di un possibile cambio di rotta. – II. 1. Il Tribunale costituzionale polacco: la decisione sulla costituzionalità del Trattato di Lisbona. – II.2. Il Tribunale costituzionale polacco e la sindacabilità costituzionale degli atti di diritto derivato dell’Unione. - III. La Corte costituzionale ceca e l’ultimo “affronto” a Lussemburgo: considerata ultra vires una decisione della Corte di giustizia. – IV. Conclusioni.

 

1.Quando, nel 2004 prima e nel 2007 in un secondo momento, si è assistito all’adesione, all’interno dell’Unione europea, di dodici Stati dell’Europa centro-orientale, in tanti hanno espresso delle preoccupazioni su quale sarebbe stata l’attitudine delle Corti costituzionali dell’est nei confronti del processo di integrazione ed, in particolare, vis à vis la giurisprudenza della Corte di giustizia.

Tali preoccupazioni si fondavano su due elementi che effettivamente non potevano essere ignorati. In primo luogo, non può negarsi che il processo di valutazione e monitoraggio dei progressi compiuti dai Paesi dell’est  nel periodo pre-adesione è stato assai severo e, per certi versi, addirittura discriminatorio[1], in quanto alcune delle condizioni ad essi imposte andavano ben al di là degli obblighi previsti dal diritto dell’Unione per gli altri Stati già membri[2]. Sicché, si poteva ragionevolmente supporre, che una volta che tali Stati fossero stati ammessi nel “club”, le rispettive Corti costituzionali avrebbero fatto emergere il loro dissenso per il trattamento subito nella fase di pre-adesione[3].

In secondo luogo, non poteva essere trascurato il parametro costituzionale rilevante. Più precisamente, deve essere sottolineato come il portato espansivo delle c.d. clausole europee, aggiunte nelle Costituzioni della maggioranza di tali Paesi in previsione dell’adesione all’Unione, sia stato, seppure con varie graduazioni, contenuto al minimo indispensabile. In particolare, salvo rare eccezioni[4], non emerge dalle Costituzioni dell’est la natura sui generis del diritto dell’Unione europea rispetto a quella del diritto internazionale, poiché, quando si sono operate le revisioni costituzionali pre-adesione, si è in prevalenza preferito fare un generico riferimento alle limitazioni od attribuzioni di porzioni della sovranità statale a favore di organizzazioni internazionali piuttosto che fare specifica menzione all’ordinamento comunitario.

A ciò si aggiunga il riferimento onnipresente nelle Carte fondamentali in esame tanto alla supremazia della Costituzione, quale fonte suprema dell’ordinamento, quanto, più in generale, al carattere spiccatamente “sovranista” delle stesse Carte, con un'esaltazione quasi ossessiva del binomio sovranità-indipendenza, in evidente reazione alla precedente perdita sostanziale di entrambe durante il dominio sovietico. Si temeva che, facendo leva su un parametro costituzionale cosi poco aperto al diritto dell’Unione, le Corti costituzionali dell’est potessero esibire un’attitudine tutt’altro che cooperativa riguardo ai rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento europeo.

Infine, le Corti costituzionali dell’est avevano bisogno di legittimarsi quali custodi della transizione prima e del consolidamento democratico poi, e quindi quali guardiane di quei valori fondamentali alla base del nuovo patto costituzionale che non potevano essere in nessun caso sacrificati sull’altare dell’accelerazione del processo di integrazione comunitaria.

Tra questi valori fondamentali un posto di primo piano è sicuramente riservato al concetto di identità nazionale e costituzionale. Non può infatti stupire che l’elemento identitario costituisca un tratto caratterizzante del costituzionalismo post-1989 dovuto, in particolare, al fatto che, come Sadurski ha fatto osservare[5], l’identità nazionale ha costituito, dopo la caduta del regime comunista, uno dei pochi elementi di continuità nel tessuto socio-politico dei Paesi dell’Europa centro-orientale, in uno scenario caratterizzato da fattori di discontinuità radicale.

Non si può certo sostenere che la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sia rimasta insensibile a tali istanze e non si sia mossa tempestivamente per prevenire “affondi” sovranistici da parte delle Corti costituzionali dell’est. In particolare, come si è cercato di dimostrare altrove[6], è proprio da imputare all’esigenza di reagire alle nuove problematiche derivanti dall’allargamento ad est dell’Unione il cambio di passo che ha portato la stessa Corte a ripensare e rimodulare la strategia argomentativa alla base del cd majoritarian activism approach[7]. Strategia che, se aveva ottenuto effetti piuttosto persuasivi nei confronti degli interlocutori, politici e giurisdizionali, dei Paesi dell’ovest[8], rischiava di riscuotere un successo assai minore nei confronti dei nuovi Stati membri dell’est. Ciò in quanto, sia per le caratteristiche di ordine politico-costituzionale proprie di tali ordinamenti cui si è già fatto riferimento, sia per la pervasività propria del diritto dell’Unione, quel che sembrava maggiormente premere agli interlocutori politici e giurisdizionali degli stessi ordinamenti era che una loro eventuale posizione minoritaria o isolata in ordine ad un valore costituzionale correlato ad una specifica identità da tutelare, non venisse sacrificata dai giudici comunitari, nè sull’altare del majoritarian activism approach, né tanto meno in nome della supremazia assoluta del diritto dell’Unione europea sul diritto nazionale.

In questa ottica, tutto sembra essere fuorché una coincidenza il fatto che la Corte di giustizia, alcuni mesi dopo l’allargamento del 2004, abbia per la prima volta affermato, in aperto contrasto rispetto ad ogni logica maggioritaria, che «non è indispensabile che una misura restrittiva emanata dalle autorità di uno Stato membro corrisponda ad una concezione condivisa da tutti gli Stati membri relativamente alle modalità di tutela del diritto fondamentale o dell’interesse legittimo in causa»[9].

Una sensibilità che è stata poi confermata da decisioni sia precedenti[10] che successive[11] l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, com’è ben noto, ha previsto, codificando, di fatto, il portato della giurisprudenza Omega, l’obbligo, nei confronti dell’Unione, di rispettare, tra l’altro, l’identità nazionale insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale degli Stati membri[12].

Sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che fino a qualche tempo fa, proprio grazie a  tale interiorizzazione o, se si vuole, “comunitarizzazione”[13] dei controlimiti ed all’effettivo emergere e consolidarsi di una nuova sensibilità post-allargamento nella giurisprudenza della Corte di giustizia, nonostante la serie di indicatori prima identificati non lasciassero ben sperare (a parte una primissima fase in cui sono emerse delle componenti conflittuali[14]) le Corti costituzionali dell’est,  come si è avuto modo peraltro di notare in altra sede[15], si fossero distinte per un atteggiamento di ampia apertura alle ragioni del diritto dell’Unione europea.

Tra i tanti casi cui si potrebbe fare riferimento[16], si vuole richiamare l’attitudine particolarmente emblematica a questo riguardo che ha caratterizzato, soltanto qualche anno fa, nel contesto della c.d saga del mandato di arresto europeo[17], la giurisprudenza del Tribunale costituzionale polacco e della Corte costituzionale ceca. Esattamente le due Corti che, con le loro recenti pronunce, come si vedrà nel proseguio, hanno inaugurato una preoccupante nuova stagione conflittuale nei rapporti tra Corti costituzionali dell’est e Corte di giustizia.

In particolare, come si ricorderà, nel caso del mandato di arresto europeo, l’apertura delle Corti dell’est appena menzionate emergeva da una comparazione con il reasoning del Tribunale costituzionale tedesco, in cui statualità e sovranità costituvano il leit motiv alla base dell’intero apparato argomentativo della decisione.

Al contrario, le pronunce della Corte costituzionale ceca e di quella polacca sul mandato di arresto facevano emergere due espressioni differenti della medesima accettazione, al di là delle riserve di stile, della supremazia del diritto dell’Unione europea, rispetto a tutto il diritto interno, Costituzione compresa.

Nel primo caso (quello ceco) la tecnica decisoria per rendere operativo il primato si è concretizzata nel ricorso, come si ricorderà, all’interpretazione conforme, accompagnata da una manipolazione dell’enunciato linguistico significante[18] in modo che lo stesso fosse in grado di dare copertura costituzionale ad un mandato di arresto europeo emesso nei confronti di un cittadino ceco.

Nel caso polacco, invece, il giudice costituzionale, “costretto” da un parametro[19] che non lasciava spazio né ad equivoci, né a tentativi di interpretazione creatrice, ha assicurato il primato del diritto dell’Unione chiedendo al legislatore di modificare la Costituzione in modo da adeguare il parametro rilevante a quanto richiesto dalla disciplina comunitaria

Si aggiunga, inoltre, che l’attitudine cooperativa fino a qualche tempo fa presente nella giurisprudenza delle Corti dell’est trovava un’ulteriore concretizzazione nella capacità, da parte delle stesse, di andare al di là, nel loro aprirsi alle ragioni del diritto dell’Unione, ai margini di manovra, spesso asfittici, forniti dal parametro costituzionale rilevante, anche alla luce della già commentata “timidezza”, al riguardo, del portato delle c.d clausole europee. Proprio infatti con riferimento alla saga del mandato di arresto europeo, si è avuto modo di osservare[20] come, nonostante sul piano statico della caratterizzazione del parametro costituzionale rilevante, l’ordinamento tedesco partisse avvantaggiato rispetto ai sistemi giuridici dell’Europa centro-orientale, e di Repubblica Ceca e Polonia in particolare, riguardo al raggiungimento di posizioni di allineamento con le risultanze del processo di integrazione comunitaria, lo “scatto” delle Corti costituzionali di Brno e Varsavia non solo ha annullato tale vantaggio originario, ma ha addirittura permesso che le giurisprudenze costituzionali polacca e ceca, nonostante un parametro super-primario che “remava” contro, mostrassero un’accettazione delle (non soggezione alle) ragioni del diritto dell’Unione ben maggiore di quanto sia emerso dalla decisione del Tribunale federale tedesco”.

Sono passati solo pochi anni dalle decisioni appena commentate, ma sembrano esserci anni luce di distanza tra l’attitudine nei confronti del processo di integrazione europea che ne era alla base e quella, molto meno cooperativa e più antagonistica che oggi, come si diceva, sembra caratterizzare una nuova e, va detto, assai preoccupante, giurisprudenza “europea” delle corti costituzionali dell’est. Una nuova stagione giurisprudenziale, dunque, in cui sono proprio, come vedremo, i giudici costituzionali di Varsavia e Brno a farsi particolarmente notare per una significativa vis polemica nei confronti della giurisprudenza della Corte di giustizia e, più in generale, del processo di integrazione europea.

2.1.Come altre giurisdizioni costituzionali[21] in Europa, anche al Tribunale costituzionale polacco è stato richiesto di pronunciarsi in merito alla costituzionalità del Trattato di Lisbona. In particolare, si trattava di due ricorsi diretti proposti, rispettivamente, da un gruppo di deputati ed uno di senatori.

Nel primo si sosteneva che l’estensione delle materie in cui il Consiglio dell’Unione ha ora la possibilità di decidere a maggioranza qualificata avrebbe violato i principi costituzionali della sovranità e della libertà da parte della nazione polacca di decidere democraticamente all’interno della propria Patria, entrambi contenuti nel preambolo alla Costituzione. Nel secondo, si obiettava invece che la nuova possibilità, previa unanimità degli Stati membri, di un’estensione delle competenze dell’Unione, prevista dagli articoli 48 TUE e 352 TFUE, fossero incompatibili con art. 8 della Costituzione (che prevede la supremazia della Costituzione nell’ordinamento polacco) e con la clausola “europea” prevista dall’art. 90.1 (che prevede la possibilità di un trasferimento di alcune competenze statali a favore di un’organizzazione internazionale seguendo determinate procedure).

I giudici polacchi, per ragioni procedurali, si pronunciano nel merito esclusivamente sul secondo dei ricorsi che rigettano dichiarando il Trattato di Lisbona conforme a Costituzione.

Fin qui tutto bene. È però guardando ai numerosi “caveat” ed alle argomentazioni che caratterizzano il reasoning dei giudici che si avverte immediatamente lo stacco rispetto al tono della propria giurisprudenza precedente in tema di rapporti tra ordinamento interno e diritto dell’Unione europea.

Per rendere l’idea di come l’attitudine cooperativa prima descritta sembri aver ceduto il posto ad una nuova connotazione conflittuale del linguaggio “europeo” dei giudici costituzionali dell’est, basti dire che il paragrafo 2.1 della decisione-trattato che si commenta ha per titolo «sovranità, indipendenza, identità costituzionale, identità nazionale versus il processo di integrazione europea». Quello che segue è una lunga riflessione, che ricorda molto, nella sua vis polemica, le argomentazioni utilizzate dai giudici costituzionali tedeschi nella Lisbon Urteil[22], sulla nozione di sovranità e sulle sue radici ben piantate nei concetti di nazione polacca e identità nazionale e costituzionale[23].

All’interno di quest’ordine di argomentazioni, ciò che sembra rilevante sottolineare in questa sede è la determinazione dei giudici costituzionali polacchi non soltanto ad identificare, sulla scia del reasoning della decisione appena richiamata del Tribunale costituzionale tedesco ed a differenza di quanto avevano fatto i giudici cechi soltanto l’anno prima[24], il nucleo duro irrinunciabile che caratterizza il concetto di identità nazionale,  ma anche ad estenderne ulteriormente la portata rispetto al già ampio catalogo individuato dai loro omologhi di Karlsruhe. Infatti, a detta dei giudici polacchi, rientrano all’interno del dettagliato elenco di competenze inalienabili anche «the decisions specifying the fundamental principles of the Constitution and decisions concerning the rights of the individual which determine the identity of the state, including, in particular, the requirement of protection of human dignity and constitutional rights, the principle of statehood, the principle of democratic governance, the principle of a state ruled by law, the principle of social justice, the principle of subsidiarity, as well as the requirement of ensuring better implementation of constitutional values and the prohibition to confer the power to amend the Constitution and the competence to determine competences».

La circostanza, riconosciuta peraltro dal Tribunale costituzionale polacco, che il Trattato di Lisbona imponga, come si è anticipato in precedenza, all’Unione di rispettare, tra l’altro, anche l’identità costituzionale degli Stati membri, non sembra in alcun modo aver rassicurato, come si è detto era accaduto invece in passato, i giudici costituzionali polacchi che in molte pagine si impegnano a richiamare la dottrina e la giurisprudenza nazionale in tema di sovranità e limiti irrinunciabili al trasferimento di segmenti di quest’ultima ad un’organizzazione internazionale, per concludere ribadendo che il controllo sulle modalità e le limitazioni alla cessione continui a spettare agli stessi giudici costituzionali.  La kompetenz-kompetenz, in altre parole, rimane totalmente in mano al giudice delle leggi.

Fin qui la prima parte della decisione oggetto di analisi in cui il Tribunale costituzionale polacco imposta, si è visto, in termini conflittuali e difensivistici, i rapporti tra ordinamento interno e processo di integrazione europea. Nella seconda parte della stessa pronuncia si assiste a qualcosa di davvero inconsueto nel quadro della giurisprudenza costituzionale comparata. Molto più che cercare, questo si assai comune, un supporto al proprio reasoning attraverso citazioni episodiche ed a volte rapsodiche delle decisioni rilevanti di Corti costituzionali di altri Paesi membri dell’Unione europea, i giudici costituzionali si avventurano, in quasi sei pagine, in un esame sistematico della giurisprudenza “europea” delle Corti costituzionali degli Stati membri con particolare riferimento, ovviamente, alle pronunce più critiche, nell’ordine, del Conseil Constitutionnel francese, del Tribunale costituzionale tedesco, delle Corti costituzionali ceca, lettone, ungherese ed austriaca. Una vera e propria “chiamata alle armi” che ha fatto, a ragione, osservare che «what is striking in this judgment is a visible effort to build up a certain “coalition” between the Constitutional Courts of different EU Member States in order to delimit the activity of the European Union when it acts ultra vires».[25] Non ci poteva essere riflessione più emblematica per evidenziare la già richiamata trasformazione del Tribunale costituzionale polacco da modello di cooperazione dialogica con Lussemburgo a promotore di relazioni ad alta tensione conflittuale tra Corti costituzionali e Corte di giustizia.

2.2. Una conferma della nuova preoccupante direzione intrapresa dalla giurisprudenza costituzionale polacca con riguardo ai rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno è fornita dalla lettura della più recente decisione[26] in cui, per la prima volta, i giudici costituzionali di Varsavia hanno dichiarato ammissibile, per poi rigettarlo, dopo un attento esame, nel merito, un ricorso di costituzionalità diretto nei confronti di un atto di diritto derivato dell’Unione[27]. I giudici polacchi non considerano ostativo alla dichiarazione di ammissibilità la circostanza che l’articolo 188 (1) (3) della Costituzione, tra gli “atti normativi” oggetto del giudizio di costituzionalità, non faccia alcun riferimento alle fonti di diritto derivato dell’ordinamento dell’Unione europea. Né, e la cosa è ancora più emblematica della nuova aggressività  della giurisprudenza costituzionale dell’est nei riguardi dell’impatto “domestico” del processo di integrazione europea, gli stessi giudici si sono fatti condizionare, per giungere a tale conclusione, da una propria pronuncia di pochi anni prima[28] in cui avevano espressamente escluso la possibilità che il Tribunale fosse competente a sindacare la costituzionalità degli atti di diritto derivato europeo direttamente applicabile.

Per quanto riguarda il primo ostacolo alla dichiarazione di ammissibilità del ricorso, i giudici costituzionali lo superano sostenendo come il parametro costituzionale di riferimento non debba essere esclusivamente identificato nell’art. 188 (1) 3[29],  ma anche nell’art. 79 (c.1) della Costituzione, a norma del quale un ricorso di costituzionalità può essere esperito nei confronti del Tribunale costituzionale affinché quest’ultimo possa determinare la conformità a Costituzione di una legge o di un altro atto normativo”. I giudici costituzionali sposano dunque la dottrina minoritaria che non considera l’elenco previsto dall’art. 188-1.3 un numerus clausus, e ammettono, conseguentemente, che anche un atto non compreso tra i “normative acts” oggetto, ai sensi del disposto di quest’ultima disposizione, del giudizio di costituzionalità, possa essere invece incluso tra gli atti normativi oggetto di un costitutional complaint. Una tale evidente forzatura è giustificata facendo riferimento, tra l’altro, alla funzione del ricorso diretto di costituzionalità quale strumento di protezione dei diritti fondamentali dell’individuo per cui, a detta degli stessi giudici, «it would be unjustified to assume an interpretation of Art. 188 of the Constitution which would narrow down the subject of review carried out in the course of review proceedings commenced by way of constitutional complaint».

Ancor più forzato l’aggiramento del secondo ostacolo che, come si è anticipato in precedenza, si concretizzava in un precedente degli stessi giudici costituzionali che remava decisamente contro la tesi della sindacabilità costituzionale degli atti di diritto derivato dell’Unione. Il Tribunale ammette (e non può farne a meno!) che in un obiter dictum della decisione del 17 Luglio, prima richiamata, aveva espressamente escluso tale possibilità, ma si affretta ad differenziare la fattispecie normativa oggetto di quest’ultima decisione rispetto a quella che caratterizza la pronuncia che si commenta. In particolare, a detta dei giudici costituzionali, soltanto nel primo caso, trattandosi non di un ricorso diretto di un individuo come nel secondo, ma di un giudizio azionato in via astratta da un gruppo di deputati «the scope of jurisdiction of the Tribunal is exhaustively specified in Article 188 (1)-(3)».

In altre parole, i giudici polacchi, pur di poter valutare nel merito la costituzionalità del regolamento oggetto del ricorso, arrivano assai artificiosamente, utilizzando la tecnica di citazione manipolativa del precedente, non sconosciuta, peraltro, alla nostra Corte costituzionale, ad applicare in via differenziata la portata della previsione costituzionale che identifica gli atti normativi oggetto del giudizio di costituzionalità  a secondo  della tipologia del procedimento e del soggetto che lo ha avviato.

 

3. La decisione Landtová[30] della IV Camera adottata il 22-6-2011, non passerà di certo alla storia per uno dei “grands arrets”[31] della Corte di giustizia. La signora Landtová, cittadina ceca, contestava di fronte alle autorità giurisdizionali nazionali l’importo della pensione di vecchiaia che le aveva riconosciuto l’Autorità competente di Praga. Quest’ultima, infatti, applicando quanto previsto dall’art. 20 della Convenzione bilaterale tra i due Paesi del 1992[32], aveva ritenuto che tale importo doveva essere calcolato prendendo in considerazione il sistema pensionistico slovacco, in quanto il datore di lavoro aveva la propria sede in Slovacchia. Alla base della sua contestazione, la ricorrente faceva rilevare come la stessa Corte costituzionale ceca[33], partendo dalla considerazione per cui le pensioni erogate in Slovacchia fossero, nel periodo immediatamente successivo alla avvenuta scissione  tra i due Paesi, di un importo significativamente minore rispetto a quelle erogate nella Repubblica Ceca e che ciò potesse svantaggiare i cittadini cechi il cui datore di lavoro avesse avuto la sua sede in Slovacchia, aveva ritenuto che l’accordo bilaterale dovesse essere interpretato nel senso di attribuire ai cittadini cechi che si trovassero in questa situazione una specifica integrazione pensionistica fino a raggiungere quanto avrebbe potuto ricevere se fossero affiliati al sistema ceco.

Il giudice amministrativo di ultima istanza si rivolgeva alla Corte di giustizia attraverso il meccanismo di rinvio pregiudiziale chiedendo se la normativa nazionale, cosi come interpretata dalla Corte costituzionale, prevedendo una tale integrazione ad hoc per cittadini cechi, si scontrasse  con quelle  disposizioni[34]  del regolamento  1408/71 che  hanno l’effetto di mantenere in vigore l’art. 20 della Convenzione[35]. Non ci sono dubbi che la decisione della Corte costituzionale prima citata, integrando quando previsto dal tenore testuale della Convenzione tra Slovacchia e Repubblica Ceca, avesse in qualche modo manipolato il portato di quella disposizione. Il che dava alla Corte di giustizia la possibilità di poter attaccare direttamente la giurisprudenza della Corte costituzionale. I giudici di Lussemburgo sceglievano, però, ancora una volta, la strada della prudenza e della deferenza nei confronti del portato delle decisioni dei giudici costituzionali degli Stati membri concludendo, in accordo peraltro  con quanto proposto dall’Avvocato generale, che la giurisprudenza della Corte costituzionale si poneva quale obiettivo unicamente di aumentare l’importo della prestazione di vecchiaia ceca concesso in applicazione della convenzione, così da raggiungere quanto sarebbe stato attribuito in applicazione del solo diritto interno.

In altre parole, a detta dei giudici comunitari, la norma di riparto delle competenze fra gli enti previdenziali ceco e slovacco, introdotta dall’art. 20 della Convenzione, non era né rimessa in discussione né alterata dalla decisione citata della Corte costituzionale, in quanto quest’ultima si sarebbe limitata ad affermare la necessità di adeguare l’importo della prestazione di vecchiaia ceca concessa ai sensi della disposizione appena citata a quello che un affiliato avrebbe potuto ottenere se l’importo di tale prestazione fosse stato calcolato applicando unicamente le previsioni di diritto interno, qualora l’importo della prestazione in parola fosse superiore a quello risultante dalle disposizioni convenzionali.

Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiedeva ai giudici europei di determinare se la decisione della Corte costituzionale con la quale si prevedeva l’erogazione dell’integrazione della prestazione di vecchiaia unicamente a favore delle persone di nazionalità ceca residenti nel territorio della Repubblica Ceca potesse configurare  un trattamento discriminatorio incompatibile, in generale, con il principio di non discriminazione sulla base della nazionalità e, più in particolare, con quanto previsto dall’10 del regolamento n. 1408/71[36]. La risposta della Corte, in questo caso, è davvero obbligata, non potendosi in alcun modo negare che la decisione della Corte costituzionale operasse una discriminazione, basata sulla nazionalità, fra i cittadini cechi ed i cittadini degli altri Stati membri.

In particolare i giudici europei, dopo aver ricordato come, in forza di una giurisprudenza consolidata, devono essere giudicate indirettamente discriminatorie le condizioni poste dall’ordinamento nazionale le quali, benché indistintamente applicabili secondo la cittadinanza, riguardino essenzialmente o in gran parte i lavoratori migranti[37], affermano come una circostanza del genere si verifichi nel caso di una condizione di residenza, che, come quella oggetto del giudizio, incida essenzialmente sui lavoratori migranti residenti nel territorio di Stati membri diversi dai rispettivi Stati di origine. Né, aggiungono i giudici comunitari, era stato prodotto dinanzi alla Corte alcun elemento idoneo a giustificare l’assodato trattamento discriminatorio.

Quanto alle conseguenze della mancata osservanza del principio di parità di trattamento in una situazione come quella oggetto del caso di specie, la Corte ricorda come, ai sensi della sua giurisprudenza, quando sia stata contestata una discriminazione contraria al diritto dell’Unione e finché non siano state adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata, regime che, in assenza della corretta applicazione del diritto dell’Unione, resta il solo sistema di riferimento valido.

La Corte conclude, nel tentativo di interferire nella misura meno intrusiva possibile sulle scelte del decisore statale, affermando che «il diritto dell’Unione non osta, purché siano rispettati i principi generali del diritto dell’Unione, a provvedimenti che ripristinino la parità di trattamento mediante una riduzione dei vantaggi delle persone in precedenza privilegiate Tuttavia, prima dell’adozione di siffatti provvedimenti, nulla nel diritto dell’Unione impone di privare dell’integrazione della tutela previdenziale, come nella situazione discussa nella causa principale, la categoria delle persone che già ne beneficiano».

E’ stato giustamente fatto osservare[38] a riguardo come la Corte di giustizia avesse tutte le migliori intenzioni di "ammorbidire" le conseguenze della sua decisione, stabilendo che l'incremento speciale potesse essere si mantenuto, ma utilizzando quale criterio della sua imputazione non la nazionalità (ceca) ma la  residenza (purchè, ovviamente, si trattasse di cittadini di Paesi membri).

Eppure, a leggere la decisione degli inizi del 2012 della Corte costituzionale ceca[39] non sembra che la prudenza e le buone intenzioni di Lussemburgo siano state cosi apprezzate a Brno. Al contrario. La reazione alla decisione della Corte di giustizia da parte dei giudici costituzionali cechi è quanto di più veemente e polemico sia mai stato pronunciato da un giudice delle leggi di un Paese membro nei confronti del processo di integrazione europea. Anche la vis polemica del Tribunale costituzionale tedesco di Solange 1, Maastricht e Lisbona viene ampiamente surclassata al riguardo. Lo spettro soltanto (seppure assai minacciosamente) evocato nelle decisioni appena citate dei giudici costituzionali teutonici, ed in particolare la possibilità paventata di non applicare un atto (legislativo o giurisdizionale) proveniente da parte dell’Unione perché non rientrante tra le competenze di quest’ultima, assume anima e corpo nella pronuncia dei giudici cechi. Per la prima volta nella storia del processo di integrazione europea un atto dell’Unione (la pronuncia Landtová per l’appunto) è considerato ultra vires e quindi volontariamente ignorato.

Vista la sua rilevanza, non sembra superfluo riportare testualmente, nella versione inglese della pronuncia reperibile sul sito del Tribunale costituzionale ceco[40], il passaggio più significativo della decisione. «Regulation (EEC) No 1408/71 cannot be applied to entitlements of citizens of the Czech Republic arising from social security until 31 December 1992; and-…we cannot do otherwise than state, in connection with the effects of ECJ judgment of 22 June 2011, C-399/09 on analogous cases, that in that case there were excesses on the part of a European Union body, that a situation occurred in which an act by a European body exceeded the powers that the Czech Republic transferred to the European Union under Art. 10a of the Constitution; this exceeded the scope of the transferred powers, and was ultra vires».

L’argomentazione principale della Corte costituzionale a supporto di tale sorprendente conclusione è la ferma convinzione che la Corte di giustizia abbia applicato il reg. 1408/71  a fattispecie non rientranti nel suo campo di applicazione, ma di rilevanza esclusivamente interna, disciplinate dall’art. 20 della Convenzione.

Anche su questo punto la Corte costituzionale ci va giù pesante. «Failure to distinguish the legal relationships arising from the dissolution of a state with a uniform social security system from the legal relationships arising for social security from the free movement of persons in the European Communities, or the European Union, is a failure to respect European history, it is comparing things that are not comparable». Non si era mai vista prima una lezione di storia europea impartita da una Corte costituzionale di uno Stato membro ai giudici di Lussemburgo.

Potrebbe essere interessante, a questo punto, provare ad identificare le ragioni alla base dell’innalzamento, negli ultimi tempi, come si è cercato di fare emergere, nei toni e nel portato finale delle proprie decisioni, di un’aggressività di matrice difensivistica da parte delle Corti costituzionali dell’est nei confronti dell’avanzamento del processo di integrazione europea in generale e del portato della giurisprudenza della Corte di giustizia in particolare.

Una prospettiva di indagine che sembra poter portare a qualche risultato è quella che si concentra su come le interazioni, all’interno delle forma di governo tra, da una parte giudici comuni e giudici costituzionali, e, dall’altra, da quest’ultimi e gli organi politici degli Stati membri, possano incidere in maniera diversa sui rapporti tra le stesse corti costituzionali e, rispettivamente, Corte di Lussemburgo e Corte di Strasburgo.

In particolare, il caso ceco appena approfondito, ad uno sguardo più attento, dimostra come i rapporti conflittuali tra corti costituzionali con, rispettivamente, giudici amministrativi e potere esecutivo abbiano giocato un ruolo cruciale nella posizione assunta da parte dei giudici delle leggi nei confronti della giurisprudenza della Corte di giustizia.

Con specifico riguardo, in primo luogo, al difficile rapporto tra giudici costituzionali ed il supremo giudice amministrativo, è stato giustamente segnalato come quest’ultimo non avesse mai accettato la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa alla necessaria integrazione contributiva a favore dei cittadini cechi che erano stati danneggiati, da punto di vista del regime pensionistico a loro applicabile, dalla dissoluzione, nel 1992, della Cecoslovacchia. Basti pensare che la decisione della Corte costituzionale in questione è il diciassettesimo atto di una dialettica senza fine tra il giudice delle leggi ed il supremo giudice amministrativo riguardanti differenti aspetti della questione attinente al sistema pensionistico da applicare all’indomani della dissoluzione della Cecoslovacchia. Tra i vari tentativi operati dal giudice amministrativo per contrastare la giurisprudenza della Corte costituzionale relativa alla previsione di una speciale integrazione per i cittadini cechi che fossero stati danneggiati da tale dissoluzione, il più recente è stato quello operato in una decisione immediatamente successiva alla decisione Landtová dei giudici comunitari prima commentata (il cui rinvio pregiudiziale era stato effettuato, tra l’altro, proprio dal supremo giudice amministrativo).

In particolare, i giudici amministrativi, nella decisione del 25 agosto del 2011, affermavano come la legislazione in vigore cosi come integrata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale non potesse essere in nessun modo applicata dagli stessi giudici in quanto contrastante, per espressa previsione della Corte di giustizia, con il diritto dell’Unione europea, ed in particolare con il principio di non discriminazione sulla base  della nazionalità.

Il giudice amministrativo, poi, con chiaro intento provocatorio, aggiungeva che l’esito a cui sarebbe potuto pervenire sarebbe stato ben diverso ove la Corte costituzionale avesse deciso di considerare parte del nucleo inviolabile della sovranità statale la questione relativa alla determinazione del regime pensionistico per i cittadini cechi, e dunque ultra vires la giurisprudenza rilevante della Corte di giustizia. In questo caso, nelle parole del giudice amministrativo, una decisione del genere da parte della Corte costituzionale  «would be directly  binding as a precedent both for the Czech pension insurer, and for all ordinary courts”».

E la Corte costituzionale, come si è visto, è cascata in pieno nella trappola tesa dal  supremo giudice amministrativo ceco.

Ma la reazione veemente della Corte costituzionale, passando adesso al secondo del profili problematici, prima evidenziati,  propri della dimensione interna collegata alla forma di governo, è stata anche seppur parzialmente, figlia dell’aspro contrasto,  emerso chiarissimamente nel giudizio di fronte alla Corte di giustizia nel caso Landtová,  tra il giudice delle leggi ed il potere esecutivo.

I giudici costituzionali, nella decisione che si commenta notano infatti, assai risentiti, come il governo ceco, nel suo ruolo di  parte del giudizio di fronte al Consiglio di Stato che ha portato alla richiesta di rinvio pregiudiziale, «unprecedentedly stated in its statement that the case law of the Constitutional Court violates European Union law».

A tale “affronto” i giudici costituzionali avevano risposto tentando di instaurare un dialogo dalle modalità piuttosto anomale con la Corte di giustizia. Invece di sollevare un rinvio pregiudiziale, essi avevano infatti inviato, pur non essendo la Corte costituzionale parte del giudizio di fronte ai giudici comunitari e non essendo stata in nessun modo chiamata in causa, una memoria a Lussemburgo in cui riportavano dettagliatamente la loro interpretazione sul caso oggetto del giudizio e aggiungevano, inter alia,  che  «the Czech government position is inconsistent with Art. 89 par. 2 of the Constitution of the Czech Republic, under which the enforceable decisions of the Constitutional Court are binding for all bodies and persons, i.e. including the government of the Czech Republic and its agent».

Come era facilmente pronosticabile, la missiva era ritenuta irricevibile a dalla Corte di giustizia,sulla base della ovvia motivazione per cui, in conformità ad una prassi più che consolidata, i giudici europei non intrattengono alcuna corrispondenza con parti terze in relazioni ai casi pendenti di fronte alla Corte di giustizia.

La mancata presa in considerazione delle loro argomentazioni da parte della Corte di giustizia, avanzate tra l’altro secondo modalità del tutto anomale, ha però ulteriormente urtato i giudici costituzionali cechi, secondo i quali ci sarebbe stata una violazione del principio costituzionale del giusto processo in quanto, a detta degli stessi giudici, «in a situation where the ECJ was aware that the Czech Republic, as a party to the proceeding, in whose name the government acted, expressed in its statement a negative position on the legal opinion of the Constitutional Court, which was the subject matter for evaluation, the ECJ’ statement that the Constitutional Court was a “third party” in the case at hand cannot be seen otherwise than as abandoning the principle audiatur et altera  pars».

Da qui la controversa decisione di cui stiamo discutendo. Ma la vicenda non è affatto conclusa, perché evidentemente da parte delle istituzioni dell’Unione una simile presa di posizione non potrebbe essere accettata senza una reazione appropriata. Ed in effetti l’occasione per questa reazione si è già presentata ed è stata offerta su un piatto d’argento  alla Corte di giustizia  dalla Corte di cassazione ceca. Quest’ultima ha infatti richiesto alla sua omologa di Lussemburgo, attivando un giudizio in via  pregiudiziale[41], «se il diritto dell’Unione europea osti a che un organo giurisdizionale, che è giudice supremo di uno Stato in materia amministrativa, avverso le cui decisioni non sono ammessi rimedi giurisdizionali, sia vincolato, conformemente al diritto nazionale, alle valutazioni giuridiche espresse dalla Corte costituzionale della Repubblica Ceca, laddove appaia che dette valutazioni non siano conformi al diritto dell’Unione europea, come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea»[42].

L’ulteriore e forse conclusivo capitolo della vicenda sta quindi per essere scritto nei prossimi mesi.

4.Quanto è emerso dall’analisi fin qui condotta sembra supportare gli esiti dell’indagine comparata operata altrove[43] in cui si è evidenziata una chiara attitudine, da parte tanto della stragrande maggioranza dei parametri rilevanti delle Costituzioni dei Paesi dell’Est, quanto della prevalenza delle Corti costituzionali dei Paesi oggetto di indagine, a mostrare una maggiore disponibilità alle ragioni della CEDU piuttosto che a quelle del diritto dell’Unione europea.

Se ci si volesse interrogare sulle ragioni di questa differenza, i primi elementi da prendere in considerazione sarebbero certamente gli stessi che, in uno scritto di qualche anno fa[44], sono stati identificati come concause alla base del nuovo corso post-enlargment della Corte di giustizia.

Vale a dire, in riferimento alla CEDU, in primo luogo, la disponibilità da parte degli Stati dell’Europa centro-orientale a ben tollerare possibili attenuazioni della sovranità funzionali a garantire una protezione più adeguata dei diritti fondamentali, dopo il lungo e nefasto assoggettamento al regime sovietico; in secondo luogo, il ruolo chiave giocato, nella nuova fase costituente post-1989, dal Consiglio d’Europa nell’azione di supporto e di guida alle nuove forze democratiche e, in particolare, dalla Convenzione EDU quale modello di riferimento per tutti i nascenti Bill of rights dell’area.

In terzo luogo, con riferimento al processo di integrazione comunitaria, è evidente che le preoccupazioni, da parte dei nuovi Paesi membri dell’Unione europea, di possibili perdite di porzioni della propria sovranità, così recentemente e faticosamente riconquistata, siano molto più sentite nei confronti del processo di penetrazione del diritto dell’Unione europea in settori quali l’esercizio dell’attività economica, pubblica e privata e la salvaguardia dei sistemi nazionali di protezione sociale alla base delle costituzioni economiche di questi Paesi.

A ciò si aggiunga che, a differenza del portato interordinamentale della giurisprudenza di Strasburgo e, più in generale, della CEDU, che, a torto o a ragione, viene inteso spesso come strumento espansivo delle garanzie costituzionali di cui beneficiano, a livello nazionale, i diritti fondamentali, è innegabile che la pervasività per così dire “congenita” del diritto dell’Unione europea, insieme al fatto che esso ha un ambito di competenza materiale assai eterogeneo ed in continua espansione, favoriscano il sorgere di conflitti tra il livello nazionale e quello comunitario. Ed, in particolare, di quelli relativi alla tutela dei diritti fondamentali, la cui risoluzione non sempre coincide, come è capitato a proposito della vicenda giurisprudenziale relativa al mandato di arresto europeo, con la soluzione più garantista per gli ordinamenti degli Stati membri.

Ancora, si deve ricordare che il processo di allargamento dell'Unione europea ai Paesi dell’Europa centro-orientale non si è caratterizzato per il medesimo impatto soft della (forse affrettata) adesione degli stessi al Consiglio d’Europa. All’opposto, esso ha avuto tratti abbastanza severi, e per certi versi addirittura discriminatori, nei confronti di quei Paesi, in quanto alcune delle condizioni ad essi imposte andavano, come è emerso dall’indagine, ben al di là degli obblighi previsti in capo agli Stati a quel tempo già membri.

Se gli elementi identificati, che hanno a che fare con i rapporti verticali che connettono la dimensione nazionale a quella sovranazionale, hanno sicuramente influenzato gli orientamenti esaminati delle Corti costituzionali dei Paesi dell’Europa centro-orientale, non sembrano in grado, però, di spiegare per intero le attitudini di queste Corti, rispettivamente, nei confronti del diritto dell’Unione europea e della CEDU.

L’indagine condotta alla luce di una prospettiva verticale va, infatti, integrata anche alla luce di una diversa prospettiva, questa volta orizzontale che, nell’ambito della forma di governo, faccia riferimento, in particolare, ai rapporti tra i giudici costituzionali e gli altri poteri dello Stato.

Più specificatamente, a tale proposito, non può sottacersi il riferimento alla conflittualità e all’aspra tensione politica che ha caratterizzato i rapporti tra Corti costituzionali da una parte e potere esecutivo e legislativo dall’altra in molti Paesi dell’area oggetto di indagine, con la conseguente valorizzazione del ruolo antimaggioritario ricoperto spesso da queste Corti[45].

In altre parole, le Corti costituzionali dell’est, facendosi paladine della difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento statale e del nucleo duro della sovranità nei confronti della possibile eccessiva intrusività interordinamentale del diritto comunitario, hanno rafforzato la loro posizione non soltanto, in una dimensione per così dire verticale, vis à vis la Corte di giustizia, ma anche, in una prospettiva orizzontale tutta interna, relativa ai delicati equilibri tra la giurisdizione costituzionale da una parte ed i poteri esecutivo e legislativo dall’altra.

Con riguardo, invece, ai rapporti tra ordinamento statale e CEDU, al contrario, e ciò aiuterebbe a spiegare la maggiore apertura alle ragioni di Strasburgo da parte delle Corti costituzionali dell’est, quest’ultime, come Sadurski ha rilevato, «do not need to resist the leading role of ECHR law in order to build their institutional capital, as is the case with EU law»[46]. Il che è dovuto, in primo luogo, lo si ribadisce, alla differente percezione che in tali Stati si ha circa il potenziale di interferenza interordinamentale proprio, rispettivamente, del diritto dell’Unione europea e della CEDU[47].

Si aggiunga che, se una supina accettazione della supremazia del diritto dell’Unione su tutto il diritto interno, anche costituzionale, emarginerebbe di molto la posizione delle Corti costituzionali dell’est rispetto all’asse Corte di giustizia/giudici comuni, una tale preoccupazione è invece meno sentita con riguardo alla CEDU, non fosse altro perché la regola di esaurimento dei ricorsi interni rende comunque spesso obbligato il passaggio per il giudizio di costituzionalità, al fine di poter investire della questione la Corte di Strasburgo.

Ad uno sguardo più attento, sembra potersi sostenere anche come non solo non nuoccia alle esigenze di legittimazione interna delle Corti costituzionali un’apertura della propria giurisprudenza alle ragioni di Strasburgo, ma che anzi una forma, se non di alleanza, quanto meno di complice cooperazione con la Corte europea dei diritti dell’uomo possa giovare a tale causa. Si pensi, ad esempio, all’azione congiunta tra la Corte EDU ed il Tribunale costituzionale polacco che ha caratterizzato il caso Hutten Czapska[48].

La questione fattuale ad oggetto nel caso di specie riguardava i limiti imposti da una legge polacca del 1994 ai canoni di locazione delle abitazioni. I canoni che il proprietario poteva esigere dai locatari erano, infatti, di ammontare così esiguo da non coprire nemmeno le spese per la manutenzione degli immobili e, per questo motivo, non solo il valore delle abitazioni era diminuito considerevolmente, ma i proprietari non erano in grado di adempiere all’obbligo, previsto in capo agli stessi dalla legge anzidetta, di mantenere gli alloggi in condizioni abitabili.

In una prima decisione del 2001[49], il Tribunale costituzionale polacco aveva osservato come i limiti imposti dalla legge oggetto di giudizio al diritto di proprietà violassero il principio di proporzionalità, in quanto la disparità tra la tutela accordata, rispettivamente, al proprietario ed al locatario era senz’altro eccessiva. Ciononostante, volendo evitare pericolosi vuoti legislativi, i giudici costituzionali concedevano un “periodo di grazia” di diciotto mesi al Parlamento polacco, per modificare in senso conforme alla decisione citata la normativa oggetto del giudizio.

Nel 2001 tale modifica era finalmente adottata e, subito, però, portata all’attenzione del Tribunale costituzionale che dichiarava nuovamente contraria alla Costituzione gran parte della disciplina, in quanto essa non avrebbe recepito le indicazioni vincolanti dettate con la sua decisione del 2000.

Nel 2005 entrava in scena la Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo, dichiarando la normativa polacca incompatibile con la Convenzione in quanto contraria all’art. 1 del protocollo 1 relativo alla protezione del diritto di proprietà, richiedevano l’adozione di misure generali per rimediare al problema sistemico di violazione della Convenzione, supportando peraltro il loro reasoning – punto che qui più interessa – facendo ampi riferimenti, attraverso richiami testuali, all’apparato argomentativo delle due decisioni prima richiamate del Tribunale costituzionale polacco.

Nel 2006 la pronuncia era confermata dalla Grande Chambre[50]. Maun mese prima di tale pronuncia, erano nuovamente intervenuti i giudici costituzionali polacchi[51] che riprendevano le stesse considerazioni formulate nelle precedenti decisioni e ne approfittavano per segnalare l’incapacità del legislatore a fornire risposte adeguate a un problema che si presentava da molti anni.

Nella pronuncia in esame il Tribunale dichiarava l’incostituzionalità di numerose norme della disciplina modificata nel 2001 sui canoni di locazione perché adottata in violazione del principio dello Stato di diritto (art. 2), di proporzionalità (art. 31.3), di protezione della proprietà (art. 64.1), di uguaglianza davanti alla legge (art. 64.2) e di protezione dei cittadini contro le pratiche disoneste del mercato (art. 76.1). Assai rilevante, in particolare, l’ampio riferimento, anche in questo caso attraverso richiami testuali, alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’anno precedente, in cui si evidenziava come essa avesse fornito argomenti aggiuntivi per sostenere che la legge in questione violasse tanto la Convenzione EDU, quanto la Costituzione polacca.

L’azione coordinata delle due Corti[52] è riuscita così ad ottenere, seppur con molto ritardo, l’obiettivo sperato. Infatti, nnell’Agosto del 2007 il Parlamento polacco adottava, finalmente, una normativa che abilitava i proprietari ad innalzare il canone di affitto per poter coprire i costi di mantenimento degli immobili e ottenere un «profitto decente».

Se la nuova normativa conserva dei punti problematici, essa garantisce, in ogni caso, un più equo bilanciamento tra gli interessi degli affittuari e quelli dei proprietari. È fondandosi principalmente su tali considerazioni che la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella decisione dell’aprile 2008[53] che chiudeva la saga, accettava la risoluzione amichevole del contenzioso e cancellava il ricorso dal ruolo.

Quello appena descritto è dunque un caso di riuscitissima collaborazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo, del cui effetto virtuoso si sono giovati sia i giudici polacchi che i giudici di Strasburgo. I primi, attraverso i richiami alla giurisprudenza convergente della Corte europea dei diritti dell’uomo, sono stati in grado di consolidare e legittimare la forza argomentativa del loro reasoning, i secondi, dal canto loro, si sono molto giovati della sintonia con i giudici costituzionali, in particolare facendo leva sulla disponibilità di questi ultimi ad accettare le ragioni di Strasburgo quale elemento di legittimazione dell’intervento attivista della Corte europea nel caso di specie, che si è concretizzato, come si è avuto modo di rilevare, nell’adozione di una sentenza pilota.

Non è una coincidenza, d’altro canto, che, sebbene casi analoghi di violazioni strutturali della Convenzione si siano verificati anche in Paesi dell’ovest, ed in primo luogo in Italia[54], le espressioni più eclatanti del nuovo orientamento delle c.d. sentenze pilota si siano avute soltanto nei confronti di Paesi dell’Europa centro-orientale. A parità, infatti, di violazione strutturale, soltanto negli ultimi casi l’indicazione delle misure di portata generale che lo Stato è “invitato” ad adottare per rimediare alla violazione stessa figura anche nel dispositivo delle decisioni, mentre, nei “casi italiani”, tale valutazione è presente soltanto nelle motivazioni, senza essere ripresa nel dispositivo (da qui l’appellativo di sentenze “quasi pilota”).

Ecco allora il messaggio che si può ricavare dallo scenario che si è cercato di fare emergere:quando la Corte EDU (come nel caso polacco) sa, da una parte, di poter contare sulla completa adesione e finanche la complicità delle Corti costituzionali e, dall’altra parte, di non poter fare completamente affidamento sulla collaborazione da parte del potere esecutivo o legislativo dello Stato condannato[55], allora è più audace nel perseguire il nuovo corso post-allargamento.

Quando invece sospetta, per un verso, possibili chiusure da parte dei giudici costituzionali e, per altro verso, ha una maggiore fiducia nella capacità reattiva da parte degli organi politici dello Stato allora, come nel caso italiano, è pronta a fare un passo indietro.

*Il presente contributo è in corso di pubblicazione sulla Rivista “Il Diritto dell’Unione europea”-

[1] A. Wiliams, Enlargement of the Union and Human rights conditionality: a policy of distinction? in European Law Review, 2001, 601 ss., 616; G. De Burca, Beyond the Charter, how Enlargement has enlarged the human rights policy of the EU, in Fordham International Law Journal, 2003, 679.

[2] Si pensi alla questione relativa alla tutela delle minoranze, prevista dai criteri di Copenhagen ma non parte dell’acquis comunitario.

[3] E così, in effetti, è stato nel primo periodo post-allargamento del 2004. V., per i riferimenti giurisprudenziali a supporto di tale affermazione, O. Pollicino, The Relationship between Member States and the European Courts after Enlargement: toward a Unitarian Theory of Jurisprudential Supranational Law?, in Yearbook of European Law, 2010, 65 ss.

[4]Può farsi riferimento, a titolo illustrativo, alle clausole europee presenti nelle Costituzioni di Ungheria, Estonia e Romania. Per i necessari approfondimenti sul tema si rinvia a A. Albi, EU Enlargment and the Constitutions of Central and Eastern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2005.

[5] In particolare l’autore appena citato ha correttamente notato che «After the fall of communism, national identity (often perceived in an ethnic rather than civic fashion) has been either the only or the most powerful social factor, other than those identified with social foundations of the ancien régime, capable of injecting a necessary degree of coherence into society and of countervailing the anaemia of a disintegrated, decentralized and demoralized society». Così W. Sadurski, Constitutionalization of the EU and the Sovereignty Concerns of the New Accession States: the Role of the Charter of Rights, EUI working paper 11/03, in http://cadmus.eui.eu

[6] Si veda, volendo, O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in questa Rivista,, 2009, 1 ss.

[7] Tecnica argomentativa in base alla quale, tra varie alternative potenzialmente percorribili per la risoluzione di questioni "costituzionali", la Corte di Lussemburgo propende per quella che appare più largamente condivisa nei sistemi giuridici nazionali e quindi suscettibile di incontrare il più alto grado di consenso nella maggioranza degli Stati membri, i giudici comunitari sembrano aver compreso che un simile approccio poteva, in una certa misura, essere produttivo rispetto ad organi giudiziari e politici di Paesi più sensibili alla "disciplina" comunitaria,

[8] Si è tentato di guardare a modalità applicativa ed esiti interpretativi del majoritarian activism approach, con specifico riferimento al settore della discriminazione sulla base del sesso, in O. Pollicino, Discriminazione sulla base del sesso e trattamento preferenziale nel diritto comunitario. Alla ricerca del nucleo duro del “new legal order”, Milano, Giuffrè, 2005.

[9] Corte giust.,14 ottobre 2004, Omega, causa C-36/02, in Racc.,  I-9609, par. 37.

[10] Corte giust., 14 febbraio 2008, Dynamic Medien Vertriebs Gmbh, causa C-244/06, in Racc. I-505

[11] Corte giust., C-208/09, Sayn-Wittgenstein, 22-12-2010, in cui per la prima volta la Corte di giustizia ha fatto espresso alla clausola identitaria prevista dell’art. 4 (par 2) del TUE.

[12] L’art. 4.2 TUE prevede oggi, com’è noto, che «l'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali». La felice intuizione terminologica di “comunitarizzazione” dei controlimiti si deve a A. Ruggeri, in molti scritti tra cui Trattato costituzionale" e prospettive di riordino del sistema delle fonti europee e nazionali, al bivio tra separazione ed integrazione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2005, 642 ss

[13] Ci si permette di rinviare, per un approfondimento delle decisioni di tono conflittuale da parte delle Corti costituzionali dell’est nella primissima fase post-allargamento 2004 a O. Pollicino, New emerging judicial dynamics of the relationship between Member States and the European Courts after Enlargement From the Perspective of the Interaction Between National and European Legal Orders, Jean Monnet Working Paper, 14/2008, www.jeanmonnetprogram.org/papers/08/081401.doc.

[15] O. Pollicino, Allargamento dell’Europa ad est e rapporti tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, , Giuffrè, Milano, 2010.

[16] Basti pensare al rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale lituana, la prima corte del Paese a servirsi di tale meccanismo al fine di dare “il buon esempio” ai timorosi giudici comuni.

[17] Si rinvia, al riguardo, a O. Pollicino, Mandato di arresto europeo e principi costituzionali degli Stati membri: un profilo giurisprudenziale alla ricerca di un punto di equilibrio interodinamentale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, 997 ss.

 

[18] L’articolo 14, c. 4, della Carta dei diritti delle libertà fondamentali, che contiene il catalogo di diritti e libertà tutelati costituzionalmente in Repubblica Ceca, prevede, più in generale, che «nessun cittadino ceco può essere forzato a lasciar la madre patria».

[19] Ai sensi dell’art. 55 della Costituzione polacca, nella versione precedente la revisione costituzionale conseguenza della decisione del Tribunale costituzionale polacco cui si fa riferimento, «l’estradizione di un cittadino polacco è vietata». Oggi l’art 55 prevede invece che la Polonia acconsenta alla esecuzione di un mandato di arresto europeo nei confronti di un proprio cittadino alle due condizioni, che il fatto di reato sia compiuto fuori dal territorio polacco e che esso sia comunque previsto dalla legge penale polacca come fattispecie criminosa.

[20] O. Pollicino, Incontri e scontri tra ordinamenti e interazioni tra giudici nella nuova stagione del costituzionalismo europeo: la saga del mandato di Arresto europeo come modello di analisi: in European Journal of Legal Studies, Rivista dell’Istituto Universitario di Fiesole, www.EJLS.com, 2008, 220 ss.

 

[22] Tribunale costituzionale tedesco Lissabon, 30-6-2009, 2 BvE 2/08.

[23] Interessante la connotazione sovranistica attribuita dai giudici costituzionali polacchi al concetto di “costitutional identity” che, a detta degli stessi giudici, consisterebbe «in a concept which determines the scope of excluding - from the competence to confer competences - the matter which constitute “the heart of the matter” i.e. are fundamental to the basis of the political system of a given state, the conferral of which would not be possible pursuant to Article 90 of the Constitution».

[24] Corte costituzionale ceca, decisione (“Lisbon II”) del 3-11-2009, Pl. ÚS 29/09, consultabile nella sua traduzione in inglese sul sito della stessa corte www.concourt.cz. Si è avuto modo di rilevare in altra sede come, in tale decisione, i giudici cechi espressamente si rifiutavano di seguire il modello che aveva caratterizzato la pronuncia adottata qualche mese prima dai giudici costituzionali tedeschi sul Trattato di Lisbona, a proposito della espressa identificazione, da parte di quest’ultimi, degli elementi costitutivi dell’identità costituzionale che non possono essere in alcun modo messi in discussione dall’avanzamento del processo di integrazione europea.

 

[25] K. Kowalik-Bancyk, Judicial Dialogue on the Transfer of competences in the Lisbon judgment of the Polish Constitutional Tribunal , in P. Polelier and Others (a cura di), Constitutional Conversations, forthcoming, Intersentia, 2012.

[26] Tribunale costituzionale polacco, SK 45/09 del 16-11-2011

[27] Nel caso di specie si trattava del regolamento n. 44/2001 del 22 dicembre del 2000 in tema di riconoscimento ed applicazioni di decisioni in materia civile e commerciale.

[28] Tribunale costituzionale polacco, 17-12-2009, U 6/08, in cui i giudici costituzionali hanno chiaramente negato di essere competenti nel valutare la costituzionalità della normativa europea direttamente applicabile.

[29] Previsione che, come anticipato, all’interno dell’elenco – ai sensi della dottrina maggioritaria costituente un numerus clausus –degli atti normativi che possono essere oggetto di un giudizio di costituzionalità non include gli atti secondari del diritto dell’Unione europea

[30] C-399/09.

[31] Si veda ora, per tutti, A. Tizzano, I “grands Arrets” della giurisprudenza dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2012.

[32]Agreement between the Czech Republic and the Slovak Republic on Social Security” concluso tra i due Paesi all’indomani della dissoluzione della Cecoslovacchia. L’art. 20 prevede che il criterio per determinare il regime applicabile e l’autorità competente ad attribuire le prestazioni previdenziali è quello del Paese di residenza del datore di lavoro al momento della dissoluzione della Repubblica federale ceca e slovacca.

[33] Più precisamente, ai sensi della giurisprudenza costituzionale ceca, come per altro è ribadito nella stessa decisione che qui si commenta «citizens of the Czech Republic who were employed by an employer with its registered office in the territory of the present-day Slovak Republic in the period until 31 December 1992, are entitled to a supplementary payment to the aggregate of their (partial) old age pension granted by the Czech insurer and their (partial) old age pension granted by the Slovak insurer, up to the amount of the expected (theoretical) pension that would have been granted if all the insurance periods from the time of the joint state were considered to be Czech periods»..

[34] In particolare parte A, punto 6, dell’allegato III del regolamento n. 1408/71, lette in combinato disposto con l’art. 7, n. 2, lett. c) dello stesso regolamento.

[35] Più precisamente si prevede che «insurance periods served before the date of dissolution of the Czech and Slovak Federal Republic are considered to be insurance periods of the state party in whose territory the citizen’s employer»

[36] A norma del quale «le prestazioni in denaro per invalidità, vecchiaia o ai superstiti, le rendite per infortunio sul lavoro o per malattia professionale e gli assegni in caso di morte, acquisiti in base alla legislazione di uno o più Stati membri, non possono subire alcuna riduzione, né modifica, né sospensione, né soppressione, né confisca per il fatto che il beneficiario risiede nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale si trova

l'istituzione debitrice»

[37] Corte giust.,18 gennaio 2007, Celozzi, causa C‑332/05,  I‑563, p.to 24.

[38] Si veda T. Savino, La teoria dei controlimiti a Brno: riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale ceca che dichiara “ultra vires” una decisione della Corte di Giustizia, in www.diritticomparati.it.

[39] Corte costituzionale ceca, 31-1-2012- PI US 5/12.

[40] http://www.concourt.cz/clanek/urlMethodCall/sessionContext/

[41] La richiesta del giudice nazionale è subordinata alla circostanza che sia considerato dai giudici comunitari in contrasto con l’articolo 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in combinato disposto con l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, la scelta della Corte costituzionale ceca di attribuire il trattamento preferenziale in materia pensionistica esclusivamente ai cittadini cechi, escludendo gli altri cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che abbiano maturato nell’ex Repubblica federativa Ceca e Slovacca analoghi periodi di contribuzione.

[42] Corte di cassazione ceca, ordinanza di rinvio del  9 maggio 2012 cha ha incardinato nei ruoli della Corte di giustizia la causa C-253/12.

[43] O Pollicino, Allargamento, cit.

[44]O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa, cit.

[45] Ad esempio, il Tribunale costituzionale polacco è stato esplicitamente “bollato” come nemico dalla maggioranza costituitasi dopo le doppie elezioni (parlamentari e presidenziali) del 2005, per via dell’asserita volontà da parte dei giudici costituzionali di ostacolare il nuovo corso di riforme legislative che avrebbe dovuto prendere il via a seguito della vittoria elettorale dei gemelli Kaczinski. Come ricorda Sadurski, in effetti, la sensazione è che molti degli interventi caducatori del Tribunale costituzionale polacco di quel periodo possano essere stati co-determinati dalla volontà di “guastare i piani” dei due gemelli, allora rispettivamente Capo del Governo e Presidente della Repubblica. Si pensi, a titolo illustrativo, alla decisione che ha annullato l’emendamento adottato alla legge relativa all’istituzione di un Consiglio per la supervisione sull’attività radiotelevisiva, emendamento che consentiva al nuovo esecutivo di nominare a capo di detto consiglio un proprio rappresentante (sent. K 4/06 del 23-03-2006), reperibile, con ampia sintesi in inglese, in www.trybunal.gov.pl); od, ancora, all’annullamento della disposizione aggiunta alla normativa relativa alla libertà di riunione che consentiva alle autorità locali di poter rifiutare di concedere l’autorizzazione per l’organizzazione di “Gay parades” (sent. K 21/05 del 18-01-2006). Anche la Corte costituzionale ceca ha dovuto affrontare le reazioni ostili di esecutivo e legislativo. Si faccia riferimento, a titolo esemplificativo, a quando, a partire dal 2003, il Presidente della Repubblica Václav Klaus, in evidente contrasto con la Corte costituzionale che, qualche anno prima, aveva annullato una legge di riforma del sistema elettorale di cui lo stesso Klaus era stato estensore nel suo allora ruolo di Presidente della Camera dei Deputati, si è rifiutato di esercitare il potere di sua competenza di nomina dei giudici costituzionali, bloccando di fatto, per più di un anno, l’attività della Corte costituzionale ceca. Si veda Z. Kühn, J. Kysela, Nomination of Constitutional Justices in Post-Communist Countries: Trial, Error, Conflict in the Czech Republic, in European Constitutional Law Review, 2006, 183 ss. Anche la Corte costituzionale ungherese ha giocato un ruolo cruciale di custode dei principi fondanti la transizione costituzionale, assumendo delle volte posizioni scomode nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo. Cfr., a questo proposito, le riflessioni di A. Sajó, Educating the Executive: The Hungarian Constitutional Court’s Role in the Transition Process, in J.J. Hesse, G.F. Schuppert, K. Harms (a cura di), Verfassungsrecht und Verfassungspolitik in Umbruchsituation, Baden Baden, Nomos, 2000, 229 ss.

[46] W. Sadurski,, Partnering with Strasbourg: Constitutionalization of the European Court of Human Rights, the Accession of Central and East European States to the Council of Europe, and the Idea of Pilot Judgments, in Human Rights Law Review, 2009, 397 ss.

[47] Mentre il primo, dotato delle armi che la giurisprudenza comunitaria gli ha fin da subito apprestato, dell’effetto diretto e del primato, è considerato in grado di mettere a repentaglio, per il suo obiettivo di realizzare un’area economica, monetaria e politica sempre più integrata, il nucleo duro della sovranità nazionale, non può dirsi la stessa cosa per l’azione della CEDU che, seppur, , specie a causa del recente cambio di passo da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, sembra sulla via di acquisire una crescente intrusività nei confronti della sovranità degli ordinamenti degli Stati membri, è pur sempre identificata quale strumento per innalzare lo standard interno di protezione dei diritti fondamentali.

[48] Corte europea dei diritti dell’uomo, Hutten-Czapska c. Polonia, 22-2-2005, 19-6-2006, 28-4-2008, ric. 35014/1997.

[49] Tribunale costituzionale polacco, sent. 12-01-2000, P 11/98.

[50] Corte europea dei diritti dell’uomo, 19-6-2006.

[51] Tribunale costituzionale polacco, sent. 17-05-2006, K 33/05.

[52] Si aggiunga che nel 2006 vi sono state altre due decisioni del Tribunale costituzionale polacco sulla questione. La prima è del 17-3-2006, la seconda è dell’11-9-2006.

[53] Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 28-4-2008, Hutten-Czapska c. Polonia, ric. 35014/97.

[54] Corte europea dei diritti dell’uomo, Sejdovic c. Italia, 1-3-2006; Cocchiarella c. Italia, 29-3-2006, ric. 64886/01; Scordino c. Italia, 29-3-2006, ric. 36813/97.

[55] Come è stato notato recentemente da Sadurski, la previsione nello stesso dispositivo, che caratterizza il meccanismo delle decisioni pilota in senso stretto, della misura di carattere generale in grado di risolvere la violazione sistemica accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, può essere intesa quale conferma che «full pilot-judgment procedure may be a sort of means of last resort, an act of desperation, when the Court has no confidence that other ‘means of persuasion’ (that is, a traditional Strasbourg approach of individualised justice) maybe effective». Così W. Sadurski, Partnering, cit., 428. Evidentemente, la sfiducia nella volontà/capacità di cooperazione dello Stato condannato non deve essere tale da far ritenere che nessun seguito verrà dato all’adozione della decisione pilota, essendo a rischio in questo caso la stessa legittimazione della Corte, anche con riguardo alla (cattiva) percezione dell’effettività dei suoi poteri che ne avrebbero gli altri Stati contraenti..

 

 


Argomenti comparativi e giurisprudenza sovranazionale: note minime a margine del recente volume di Giorgio Repetto

Ci sarà un prima ed un dopo il volume di Giorgio Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Jovene, 2011.

Il “prima” è caratterizzato da un contesto in cui lo studio del diritto comparato e l’analisi delle logiche argomentative e delle tendenze evolutive della giurisprudenza delle Corti europee si sono spesso incontrati, a volte scontrati, ma mai del tutto integrati. Non solo, ma la dottrina più Autorevole, a ragione, ha, in una recente monografia, recensita anche da diritticomparati, fatto emergere non solo le utili interazioni ma anche i limiti “genetici” che sono propri del rapporto tra interpretazione e metodologia comparativa.

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La Corte costituzionale, su un rinvio della Corte di cassazione, richiama all'ordine il Giudice amministrativo in merito alla asserita diretta applicabilità della CEDU

Con la assai recente decisione n. 80 del 2011 la Corte costituzionale cerca e trova l’occasione per  ribadire, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che, a parte la dolorosa e sofferta eccezione resasi necessaria per conformarsi alla Simmenthal doctrine della Corte di Giustizia, non c’è alcuna possibilità, salvo, per l’appunto, il caso del diritto dell’Unione europea direttamente applicabile, che il giudice delle leggi possa cedere la sua posizione privilegiata, che peraltro trova esplicito fondamento nella Carta Fondamentale, di guardiano della costituzionalità del diritto sovranazionale.

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La dissimulation du visage dans l'espace public e la libertà di professare il proprio credo religioso

Burqa

Il Conseil Constitutionnel, nella decisione  n° 2010-613 DC  del 7 ottobre scorso, destinata a fare discutere, ha dichiarato, prevedendo però una importante riserva su cui si tornerà tra pochissimo,  la non contraddittorietà alla Costituzione del progetto di legge interdisant la dissimulation du visage dans l'espace public.

Ai sensi di tale progetto di legge, ora approvato in via definitiva dalle Camere, salvo la previsione di alcune eccezioni,  «nul ne peut, dans l'espace public, porter une tenue destinée à dissimuler son visage». La stessa legge definisce "pubblico" lo spazio «constitué des voies publiques ainsi que des lieux ouverts au public ou affectés à un service public».

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I rapporti tra Corti in uno scenario ancora più complesso ed articolato dopo Lisbona

Difficile immaginare un momento più propizio per avviare un dibattito in rete sia  sulle peculirità e  trasformazioni che caratterizzano i rapporti tra le Corti in un quadro ordinamentale sempre più articolato com’è quello rappresentato dallo spazio giuridico europeo relativo alla tutela dei diritti fondamentali, sia, prima ancora, sulla metodologia più adeguata per accostarsi ad un’indagine di una "materia"  che,  per sua natura, si presenta fluida e quasi liquida.

L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona sembra avere aggiunto problematicità, e quindi interesse, alle già complesse dinamiche interordinamentali che collegano Strasburgo, Lussemburgo ed i giudici costituzionali e comuni degli Stati membri.

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