Omar Makimov Pallotta
I partiti politici europei ai tempi della crisi dello Stato di diritto in UE: una strada lastricata di buone intenzioni
L’Unione europea sta affrontando quella che può essere definita la sua prima, vera, prova di resilienza dopo sessant’anni di integrazione ininterrotta: le democrazie illiberali che essa stessa ha permesso nascessero e proliferassero nel suo seno mettono quotidianamente in crisi il valori di un’organizzazione internazionale che, forse, timidamente, ancora ambisce ad assumere i connotati di uno Stato federale. Le Istituzioni, però, non sono rimaste inerti: il Parlamento europeo ha recentemente votato a favore dell’attivazione della procedura prevista dall’art. 7 TUE ai danni dell’Ungheria ed è di pochi giorni fa la notizia del deferimento della Polonia alla Corte di Giustizia per violazione del principio di indipendenza della magistratura.
Nel frattempo, una crepa pare aprirsi nell’Unione anche su un altro fronte, ossia quello partitico. Forti sono i contrasti all’interno del PPE in merito all’opportunità di espellere o meno Fidesz (ossia la forza politica del presidente ungherese Orbán) dal partito. Molti, a Bruxelles, iniziano a puntare il dito anche contro l’Alleanza dei Conservatori e Riformisti in Europa (ACRE), che annovera tra i suoi membri il PiS, attualmente alla guida del governo polacco. Le due formazioni europee menzionate, infatti, tollerano la presenza nel loro seno delle parti politiche responsabili dei recenti attentati al principio dello Stato di diritto in Europa, nonostante i rispettivi Statuti si ispirino a valori del tutto coincidenti con quelli elencati dall’art. 2 TUE.
La descritta polemica, tuttavia, lungi dal ridursi a qualche screzio tra eurodeputati, viene assumendo connotati propriamente istituzionali. Gli accademici Alberto Alemanno e Laurent Pech hanno recentemente inviato al Parlamento europeo e all’Autorità per i partiti politici europei due richieste motivate volte a stimolare una verifica circa il rispetto, da parte di ACRE e PPE, dei valori indicati all’art. 2 TUE.
Il regolamento n. 1141/2014, strumento legislativo che detta le regole principali sulla governance dei partiti e delle fondazioni politiche europee, è stato di recente emendato attraverso il regolamento n. 2018/673, ispirato dalla volontà di far acquisire a queste entità una «autentica dimensione transnazionale» e di creare «un legame forte tra la società civile europea e le Istituzioni dell’Unione»
Tra le modifiche più rilevanti apportate nell’anno in corso vanno sicuramente evidenziate: 1) quella relativa all’art. 3, paragrafo 1, lettera b), il quale non prevede più il conteggio dei membri di uno stesso partito nazionale al fine di stabilire se più alleanze soddisfino i requisiti necessari per la registrazione (così da evitare che uno stesso partito nazionale crei diversi partiti europei con orientamenti politici simili o identici); 2) quella che ha integrato l’art. 10, paragrafo 3, prevedendo la possibilità che un «gruppo di cittadini» segnali al Parlamento europeo, tramite richiesta motivata, una situazione di dubbia conformità di un partito europeo ai valori dell’Unione; 3) quella che ha colpito l’art. 17, paragrafo 4, il quale oggi prevede la possibilità per i partiti di utilizzare una quota maggiore degli stanziamenti destinati al loro finanziamento nel bilancio UE (passando dall’85% al 90% delle spese annue rimborsabili)
Il regolamento annovera, all’art. 3, paragrafo 1, lettera c), il rispetto dei valori fondanti dell’Unione tra le condizioni richieste per la registrazione del partito europeo. In assenza di tale registrazione, alla forza politica non solo verrebbe preclusa l’acquisizione della personalità giuridica europea, ma anche l’accesso a finanziamenti a carico del bilancio generale dell’Unione.
Al momento della presentazione all’Autorità della domanda di registrazione del partito, si dovranno produrre «i documenti che attestano che il richiedente soddisfa le condizioni di cui all’art. 3, inclusa una dichiarazione ufficiale standardizzata sul formulario che figura nell’allegato» (art. 8, paragrafo 2, lettera a) del regolamento).
Tuttavia, come si legge all’art. 9, paragrafo 3: «La dichiarazione formale standard (…) è ritenuta sufficiente dall’Autorità per accertare che il richiedente soddisfa le condizioni di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera c)». Si può dire, dunque, che vige una sorta di “presunzione iniziale” circa l’adesione del partito al nucleo valoriale dell’UE (essendo il formulario una semplice dichiarazione con la quale il legale rappresentante della forza politica «certifica che [essa] (…) si impegna a rispettare (…) i valori sui quali è fondata l’Unione»).
L’art. 10, paragrafo 3, del citato regolamento, stabilisce che il Parlamento (eventualmente a seguito di richiesta motivata di un «gruppo di cittadini»), il Consiglio e la Commissione possono presentare all’Autorità una richiesta di verifica del rispetto dei valori dell’Unione da parte di un partito europeo (il quale sia già iscritto al registro). Quest’ultima decide se procedere alla revoca della registrazione in seguito a un parere rilasciato da un Comitato di personalità indipendenti, composto da sei membri nominati per un terzo da ciascuna Istituzione UE in funzione delle loro qualità personali e professionali.
I proponenti corredano la domanda di una dettagliata elencazione riguardante essenzialmente: 1) i provvedimenti lesivi dei valori dell’Unione adottati in Ungheria e in Polonia e i report con i quali l’UE ha stigmatizzato tali condotte; 2) le dichiarazioni dei vertici dei partiti europei e le mozioni presentate dai gruppi parlamentari PPE e ECR a sostegno delle politiche promosse da Fidesz e dal PiS nei rispettivi Stati. Dimostrazione, queste ultime, della volontà delle forze politiche europee di non prendere provvedimenti nei riguardi dei membri che si siano macchiati di simili violazioni.
Tuttavia, è anche vero che il combinato disposto dei citati artt. 3 e 10 ha ad oggetto il partito europeo quale entità tenuta a rispettare a sua volta i valori dell’Unione; l’allineamento del medesimo ai valori indicati è dato inevitabilmente, in quanto alleanza di forze politiche nazionali, dalla complessiva compliance dei suoi singoli membri, nonché dal pronto ammonimento rivolto a coloro i quali dovessero mostrare tendenze al disallineamento. La revoca della registrazione, dunque, pare essere – e il caso che qui si riporta non fa eccezione – una forma di sanzione volta a colpire specificamente il partito europeo e non già il partito nazionale che abbia promosso i provvedimenti lesivi.
L’art. 3, par. 1, lettera c) del regolamento, d’altro canto, prevede, quale condizione per la registrazione, che il partito europeo rispetti i valori dell’Unione «in particolare nel suo programma e nelle sue attività». L’ampia formulazione adottata sembrerebbe legittimare il Parlamento europeo (e l’Autorità) a dubitare della conformità della forza politica europea al nucleo valoriale dell’Unione anche soltanto in presenza di un atteggiamento di comprensione nei riguardi di politiche illiberali promosse da partiti nazionali membri di quello europeo. L’espressione «in particolare», infatti, costituisce un interstizio attraverso il quale tutto ciò che non rientri nel «programma» e nelle «attività» dell’alleanza (e, dunque, anche la semplice tolleranza di forze nazionali illiberali) può rilevare al fine di valutare la conformità della stessa all’art. 2 TUE.
Una formulazione simile, ma non del tutto coincidente, la si ritrova al considerando n. 12 del regolamento (emendato nel 2018) il quale richiede che i partiti europei rispettino i valori dell’Unione «specialmente nel loro programma e nelle loro attività». Non è dato sapere, però, almeno per ora, in cosa si traduca – in sede di valutazione da parte dell’Istituzione e dell’Autorità – il particolare riguardo che il regolamento riserva al programma e alle attività del partito stesso.
Nel caso qui considerato, tuttavia, si è di fronte non solo ad un atteggiamento di tolleranza nei riguardi del progressivo smantellamento dei principi cardine del liberalismo, ma ad un appoggio nemmeno troppo sommesso, che spesso, almeno a leggere le dichiarazioni allegate alla richiesta, si trasforma in aperta adesione. Quest’ultima si ripercuote, poi, sul contenuto delle mozioni presentate in sede parlamentare dai gruppi ECR e PPE. Dichiarazioni, comunicati e mozioni, infine, si può dire che corrispondano proprio alle «attività» del partito europeo cui il regolamento fa riferimento all’art. 3, paragrafo 1, lettera c).
I richiedenti, perseguendo una via eterodossa, portano la questione all’attenzione non solo del Parlamento europeo, come la procedura introdotta nel 2018 vorrebbe, ma anche della stessa Autorità. Essi giustificano tale scelta alla luce dell’art. 10, paragrafo 3, secondo periodo, del regolamento, a norma del quale «quando l’Autorità venga a conoscenza di fatti che possano dar adito a dubbi in merito all’osservanza (…) delle condizioni di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettera c) (…), ne informa il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione al fine di consentire loro di presentare una richiesta di verifica»; richiesta, questa, che tuttavia sarebbe rivolta…alla stessa Autorità!
Ben si comprende, dunque, come il motore della procedura debba comunque sempre essere una delle tre Istituzioni; l’invio della richiesta direttamente all’Autorità difficilmente potrà legittimare quest’ultima a sollecitare il Comitato al fine del rilascio del parere. Al massimo, il Parlamento potrebbe trarre da una richiesta proveniente anche dall’Autorità medesima (messa al corrente di una situazione potenzialmente lesiva dei valori che fondano l’Unione) un’ulteriore determinazione nel dare avvio all’iter di de-registrazione. Solo allora, dunque, e non già in assenza di un input da parte di un’Istituzione, l’Autorità potrebbe passare alla fase successiva, ovvero alla richiesta di parere rivolta al Comitato.
Unico caso in cui la procedura può essere avviata a prescindere da un impulso iniziale proveniente da Parlamento europeo, Consiglio o Commissione è quella prevista all’art. 16, paragrafo, 3 del regolamento, a norma del quale «se un partito politico europeo (…) viene gravemente meno agli obblighi pertinenti derivanti dal diritto nazionale applicabile (…) lo Stato membro in cui si trova la sede può rivolgere all’Autorità una richiesta debitamente motivata di cancellazione dal registro che deve identificare con precisione e in modo esaustivo le azioni illegali e gli specifici requisiti nazionali che non sono stati osservati».
«Se la materia riguarda esclusivamente o prevalentemente elementi che incidono sul rispetto dei valori su cui si fonda l’Unione quali enunciati dall’art. 2 TUE», si specifica più avanti, «lo Stato membro interessato può rivolgere all’Autorità una richiesta conformemente alle disposizioni del primo comma del presente paragrafo». Le sedi del PPE e dell’ACRE sono a Bruxelles: l’eventuale inerzia del Parlamento europeo, dunque, potrebbe essere superata esclusivamente da una (invero poco probabile) presa di coscienza da parte delle autorità belghe, le quali dovrebbero lamentare una violazione di norme interne, capace tuttavia di ripercuotersi sul rispetto dei valori fondanti dell’UE. Una partita difficile, insomma.
La procedura descritta all’art. 10 del regolamento, in ogni caso, è tutto fuorché chiara in merito a obblighi e termini da rispettare. In primo luogo, le Istituzioni non sono mai tenute ad avviare la procedura di verifica (infatti, «il Parlamento europeo (…), il Consiglio o la Commissione possono presentare all’Autorità una richiesta di verifica»), né viene fissato un termine entro il quale esse debbano decidere in merito (salvo voler ritenere applicabile per estensione il termine di due mesi previsto dal secondo periodo del paragrafo 3). Inoltre, una volta presentata eventualmente la richiesta all’Autorità da parte dell’Istituzione, la prima non dovrà in tale fase valutare la sussistenza del dubbio (vaglio, questo, svolto esclusivamente dalla seconda), dovendo limitarsi a chiedere un parere – anche qui senza previsione di un termine – al Comitato di personalità indipendenti.
In secondo luogo, il parere del Comitato, che deve essere adottato entro due mesi dall’invito, non sembra essere vincolante. L’Autorità, dunque, potrebbe ben decidere di non revocare la registrazione del partito europeo anche qualora il parere dovesse evidenziare una palese contrarietà ai valori dell’Unione. Tra l’altro, la revoca suddetta può essere disposta solo quando le violazioni siano «gravi e manifeste» (ma il regolamento non detta i criteri che permettano di qualificare in tal senso una lesione) e, come sopra, anche qui non è previsto un termine entro il quale la revoca debba pervenire.
In terzo luogo, la decisione con la quale l’Autorità dispone la revoca della registrazione di un partito deve essere comunicata al Parlamento e al Consiglio, i quali possono sollevare obiezioni – debitamente motivate – entro tre mesi. La semplice presenza di tali rilievi è capace di determinare il blocco della procedura e la permanenza del partito del registro. Il Parlamento e il Consiglio hanno, dunque, la prima e l’ultima parola. Sono loro, in definitiva, i sovrani della democrazia esterna dei partiti politici europei. A poco (se non nulla) vale il tentativo di bilanciare il loro potere di veto con la richiesta di motivare in maniera congrua l’obiezione eventualmente sollevata.
Permane, dunque, nel regolamento del 2014, una connotazione politica della procedura di de-registrazione, che rischia di compromettere il (giusto) tentativo di depurare la stessa da inopportune ingerenze per così dire partigiane, cui la precedente normativa (regolamento n. 2003/2004) lasciava ampio spazio. Come si è fatto correttamente notare di recente, tuttavia, una verifica di conformità ictu oculi inficiata da elementi ideologici potrebbe comunque porre qualche problema di conformità con i principi fissati dalla Corte EDU in materia di divieto dei partiti antisistema.
Nell’ipotesi in cui la procedura avviata dovesse giungere fino all’ultimo passaggio, è probabile che si verifichi in seno al Consiglio un acceso dibattito circa l’opportunità di sollevare obiezioni, posta la presenza di un blocco coeso di Stati che fanno proprie, tutelandole, le ragioni di Ungheria e Polonia. Qualora la richiesta, invece, non dovesse avere alcun seguito, verrà sporta denuncia – secondo quanto si evince dal testo recentemente diffuso – al mediatore europeo, competente a conoscere dei casi di cattiva amministrazione in seno all’UE. Il mediatore, tuttavia, potrà al massimo indirizzare alle Istituzioni e agli organismi dell’Unione delle raccomandazioni, le quali sono per definizione non vincolanti.
Il regolamento sui partiti europei, invece, prevede all’art. 6, paragrafo 11, le competenze della Corte di Giustizia, la quale può essere adita «qualora l’Autorità si astenga dall’adottare una decisione nel caso in cui sia tenuta a farlo dal presente regolamento»; non risulta chiaro, tuttavia, quando sorga in capo alla stessa un vero e proprio obbligo di agire. Non sembrerebbe il caso della decisione circa la revoca della registrazione, la quale, come si è visto, può ben essere non adottata; forse, l’unico caso in cui l’Autorità sarebbe tenuta ad attivarsi si ha nell’ipotesi di ricezione della richiesta di verifica da parte di un’Istituzione: in tal caso, l’Autorità parrebbe dover necessariamente invitare il Comitato ad emettere il parere. In caso contrario, quindi, i richiedenti potranno presentare ricorso alla Corte di Giustizia, facendo eventualmente leva sui rilievi che il mediatore avrà medio tempore fornito. Tuttavia, dall’altro lato, anche il partito politico che dovesse eventualmente subire la cancellazione dal registro potrà ricorrere alla Corte di Lussemburgo; non già, tuttavia, “in carenza”, ma per chiedere l’annullamento del provvedimento di cancellazione adottato dall’Autorità.
Appare chiaro come la richiesta presentata dai due accademici rischi seriamente di rimbalzare contro il “muro di gomma” rappresentato dalla procedura di revoca della registrazione. Quest’ultima, infatti, pur essendo stata inserita nel regolamento al fine di garantire ulteriormente i valori su cui si fonda l’Unione, sembra essere stata, poi, concretamente modellata in maniera tale da rendere chimerico il tentativo di porre al di fuori dell’arena politica i partiti che violino tali principi. E ciò dimostra, semmai ve ne fosse ulteriore bisogno, come l’enforcement dei valori europei debba fare i conti con il metodo intergovernativo, eredità di una Comunità di Stati e non di cittadini, il quale finisce per essere (in questo caso, come pure in relazione alla procedura di attivazione dell’art. 7 TUE) il vero ostacolo al regolare incedere del processo di integrazione europea.
11 Ottobre 2018