Trump v. USA e il gioco delle tre immunità

Per la terza volta in pochi mesi si parla in questo blog delle vicende processuali di Donald Trump. Nelle prime due occasione si è trattato della possibile squalifica di Trump dalla competizione elettorale per aver preso parte – come ritenuto dalla Corte suprema del Colorado – all’insurrezione del 6 gennaio 2021; la successiva sentenza della Corte suprema federale avrebbe poi cassato quel verdetto.
Ora, con la sentenza del 1° luglio 2024, la Corte suprema federale si è pronunciata, sempre su sollecitazione di Trump, sull’immunità penale del Presidente degli Stati Uniti d’America.
Si ricorda che, nella costellazione di vicende processuali che coinvolgono Trump, a livello federale, il procuratore speciale Jack Smith aveva avviato due filoni giudiziari relativi, rispettivamente, al ruolo di Trump nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 (sotto la giurisdizione della D.C. District Court) e alla sottrazione da parte di Trump di documenti segreti dalla Casa Bianca (giurisdizione della Southern Florida District Court).
Con riguardo al primo filone, Trump era stato destinatario di quattro capi d’accusa (utilizzo del Dipartimento di Giustizia per convincere alcuni Stati a sostituire i legittimi elettori con falsi elettori di Trump, pressioni sul suo vicepresidente di allora affinché non certificasse il voto federale, tentativi di far cambiare voti in suo favore, tweet e discorsi incendiari prima degli attacchi del 6 gennaio 2021). In generale, secondo il procuratore speciale, Trump avrebbe creato una “diffusa sfiducia [...] attraverso bugie pervasive e destabilizzanti sulla frode elettorale” e avrebbe cospirato per minare “il processo nazionale di raccolta, conteggio e certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali”.
Trump aveva fatto ricorso contro queste accuse, sostenendo che in qualità di ex Presidente avrebbe diritto a un’”immunità assoluta” per gli atti compiuti durante il mandato e che quindi non potrebbe essere sottoposto a procedimenti penali. Il giudice di primo grado e la Corte distrettuale d’appello di Washington avevano decisamente respinto questa tesi.
Il 28 febbraio 2024 la Corte Suprema federale aveva accettato di rivedere il caso, precisando, in un comunicato, che il suo esame sarebbe limitato a decidere whether and if so to what extent does a former President enjoy presidential immunity from criminal prosecution for conduct alleged to involve official acts during his tenure in office.

Con la sentenza in questione, la maggioranza della Corte (6-3), per mano del Chief Justice Roberts, ha stabilito in 43 pagine quanto segue:
i) Gli ex Presidenti non possono essere perseguiti per azioni legate all’esercizio di poteri fondamentali del loro ufficio, conferiti direttamente dalla Costituzione e per l’esercizio dei quali non è richiesto l’intervento di altri poteri dello Stato. Sono poteri espressivi di una “authority conclusive and preclusive”: rientrano in tale categoria, ad esempio, il potere di concedere grazia, l’apposizione del veto alla legislazione, l’accreditamento di ambasciatori. In questi casi né Congresso né il potere giudiziario possono “criminalizzare” o “perseguire penalmente” le azioni funzionali all’esercizio di questi poteri.
ii) Quanto agli atti ufficiali in senso più ampio, secondo Roberts bisogna muovere almeno dalla presunzione che una tale immunità sussista, a meno che l’accusa non dimostri che la sottoposizione a procedimento penale non minaccerebbe il potere e il funzionamento dell’Esecutivo. In questo caso, infatti, secondo Roberts – il quale ammette che, in mancanza di significativi precedenti giudiziari e appigli storici, è dovuto ricorrere all’analisi della divisione dei poteri disegnata in Costituzione – bisogna bilanciare l’interesse pubblico a un’”applicazione equa ed efficace” delle leggi penali con la necessità di evitare influenze indebite sul processo decisionale di un Presidente in carica. Influenze che si verificherebbero nella misura in cui il Presidente sa che sarà oggetto di accuse penali una volta cessato dall’ufficio: “un Presidente incline a seguire una certa condotta basata sull’interesse pubblico potrebbe invece optare per un’altra, preoccupato di incorrere in sanzioni penali alla fine del suo mandato”. Bisogna invece impedire la prospettiva di “un Esecutivo che si cannibalizza, con ogni nuovo Presidente libero di perseguire i suoi predecessori, ma incapace di svolgere senza paura i suoi doveri per paura che possa essere il prossimo”.
iii) Non esiste immunità per atti non ufficiali. Determinare quali atti siano ufficiali e quali non ufficiali “può essere difficile”, ammette Roberts. Di certo, precisa il Chief Justice, nel discernere la distinzione, i tribunali non possono considerare le motivazioni del Presidente, né possono designare un atto come non ufficiale semplicemente perché presumibilmente viola la legge.
iv) Immunità penale e impeachment sono istituti diversi e non necessariamente contigui. Secondo la difesa di Trump, avendo questi superato indenne le due procedure di impeachment a cui è stato sottoposto durante il suo mandato, non potrebbe essere sottoposto a incriminazioni penali. Secondo la Corte tutta, la tesi è insostenibile, soprattutto quando si parla di former e non di sitting President, essendo contraria alla lettera della Costituzione e alla ratio dell’impeachment, che è un “processo politico”, non un istituto di diritto penale.

Applicando questo ragionamento alle specifiche accuse mosse contro Trump oggetto della giurisdizione del D.C. Circuit, la maggioranza della Corte suprema stabilisce che le azioni di Trump sono coperte da immunità assoluta e lui non può essere perseguito per i presunti tentativi di “sfruttare il potere e l’autorità del Dipartimento di Giustizia per convincere alcuni Stati a sostituire i loro legittimi elettori con falsi elettori di Trump”. E questo perché “l’azione penale è prerogativa speciale dell’Esecutivo”.
Per quanto riguarda l’accusa secondo cui Trump avrebbe fatto pressioni sul suo vice-Presidente, Mike Pence, in qualità di Presidente del Senato, affinché rifiutasse la certificazione dei voti o li restituisse alle legislature statali, la Corte ritiene Trump “presuntivamente immune”, trattandosi di interazioni ufficiali implicanti l’esercizio di “responsabilità ufficiali”. D’altra parte, osserva Roberts, il ruolo del vice-Presidente come Presidente del Senato non rientra tra quelli svolti in qualità di membro dell’Esecutivo. La Corte lascia quindi al tribunale distrettuale il compito di decidere se perseguire Trump per questa condotta inficerebbe il potere e il funzionamento dell’Esecutivo.
La Corte fa lo stesso ragionamento per le accuse riguardanti le interazioni di Trump con individui privati e funzionari statali, con le quali tentò di convincerli a cambiare i voti a suo favore, così come i tweet di Trump prima degli attacchi del 6 gennaio 2021 e il suo discorso a Washington quel giorno. Per determinare la qualità di questi comportamenti (se ufficiali o meno), scrive Roberts, sarà necessaria “un’analisi approfondita delle ampie e interrelate accuse dell’incriminazione”, da rimettere al tribunale distrettuale.

 Roberts respinge poi l’argomentazione secondo cui, anche se posta l’immunità per gli atti ufficiali, sarebbe possibile comunque utilizzare prove di quegli atti ufficiali per portare il caso davanti a una giuria popolare – ad esempio, per dimostrare che Trump sapeva che le sue affermazioni di frode elettorale erano false. Questa tesi, scrive Roberts, “consentirebbe a un procuratore di fare indirettamente ciò che non può fare direttamente – invitare la giuria a esaminare atti per i quali un Presidente è penalmente immune per dimostrare comunque la sua responsabilità su qualsiasi altra accusa.”

Il giudice Thomas concorda con la sentenza della maggioranza, ma deposita un’opinione concorrente in cui mette in discussione la costituzionalità della nomina di Jack Smith come procuratore speciale, osservando che “nessun ex Presidente ha affrontato una persecuzione penale per i suoi atti mentre era in carica nei più di 200 anni dalla fondazione del nostro Paese”: “se questa persecuzione senza precedenti deve procedere”, scrive Thomas, “deve essere condotta da qualcuno debitamente autorizzato a farlo dal popolo americano”.
Proprio facendo leva sulla concurring di Thomas, nei giorni immediatamente successivi alla pronuncia della Corte suprema, la giudice distrettuale Aileen Cannon della Southern Florida District Court, ha respinto il secondo filone d’inchiesta aperto dal procuratore speciale Smith, secondo cui Trump aveva illegalmente trattenuto documenti classificati dopo aver lasciato l’incarico da Presidente. La giudice ha sostenuto che il procuratore speciale è stato nominato illegalmente dal Dipartimento di Giustizia: “La posizione del Procuratore Speciale […] minaccia la libertà strutturale inerente alla separazione dei poteri”. Sul tema delle nomine di procuratori speciali, pratica a cui era ricorso lo stesso Trump durante il suo mandato, si veda da ultimo Melica.

Nella concurring depositata dalla giudice Coney Barrett, questa dichiara che avrebbe affrontato la questione dell’immunità per altri atti ufficiali in modo diverso, indagando prima di tutto se la legge penale in base alla quale un ex Presidente è accusato si applichi ai suoi atti ufficiali e, quindi, valutando se perseguire l’ex Presidente interferirebbe con la sua autorità costituzionale.
Applicando tale ragionamento ai fatti di questo caso, Coney Barrett ritiene che almeno alcuni dei comportamenti alla base delle accuse mosse a Trump – come la sua richiesta al Presidente della Camera dei rappresentanti dell’Arizona di tenere una sessione speciale sulle accuse di frode elettorale – non sarebbero coperte da tale immunità: “il Presidente non ha autorità sulle legislature statali o sui loro leader, quindi è difficile vedere come perseguirlo per crimini commessi quando trattava con il Presidente della Camera dell’Arizona interferirebbe incostituzionalmente con il potere esecutivo.”
Coney Barrett ha anche disapprovato la tesi della maggioranza della Corte riguardo la possibilità che i procuratori utilizzino davanti a una giuria popolare prove relative ad atti ufficiali di un Presidente: “la Costituzione non richiede di tenere le giurie popolari all’oscuro delle circostanze che caratterizzano la condotta per la quale i Presidenti possono essere ritenuti responsabili”. La giudice riconosce la preoccupazione della maggioranza che l’uso di tali prove potrebbe influenzare la giuria, ma insiste che le regole federali? in materia probatoria e i tribunali di prima istanza possono affrontare tali preoccupazioni caso per caso.

Nel dissentire – ma senza il tradizionale avverbio “rispettosamente”, anzi aggiungendo “con paura per la nostra democrazia” – la giudice Sotomayor, cui si associano Kagan e Jacskon, sostiene che la decisione della maggioranza “rimodella l’istituzione della Presidenza”.
Niente nel testo della Costituzione o nella storia degli Stati Uniti, secondo Sotomayor, supporta il tipo di immunità che la Corte ha elaborato (“sembra che a questa Corte la storia interessi solo quando le conviene”). Al contrario, i redattori della Costituzione hanno creato una chiara immunità per i membri del Congresso, e alcune costituzioni statali dell’epoca includevano esplicitamente l’immunità penale per i governatori degli Stati, ma i padri costituenti non hanno scientemente previsto alcuna disposizione simile per il Presidente degli Stati Uniti. Anzi, aggiunge Sotomayor, questi hanno lasciato intendere che il Presidente potesse affrontare una incriminazione penale, indicando nella disposizione che riguarda l’impeachment che un Presidente può essere perseguito anche dopo o comunque indipendentemente dall’esito dell’impeachment.
Quanto poi allo standard inventato da Roberts (mutuato da un caso – Nixon v. Fitzgerald, 1982 – che però riguardava la responsabilità patrimoniale del Presidente), secondo cui da incriminazioni per atti ufficiali non deve derivare “alcun pericolo di interferenza” per il funzionamento Esecutivo, è difficile immaginare un’incriminazione penale che non integri comunque una tale intrusione. Ma è sbagliato, secondo Sotomayor, proprio l’utilizzo di un simile standard quando sono in gioco processi penali federali, dove l’interesse pubblico è qualitativamente diverso da quello sotteso a procedimenti civili. Il ragionamento della maggioranza si basa infatti sulla “preoccupante” idea che un Presidente sia “incapace di affrontare le decisioni difficili richieste da questo incarico restando nei limiti della legge”: come se “il nostro Paese ci perdesse qualcosa” quando un Presidente, “preso dall’ansia di finire sotto processo”, “è costretto a operare entro i dettami del diritto penale”. La Corte, conclude Sotomayor, “non dovrebbe avere così poca fede nei nostri Presidenti”.
Fuori luogo, secondo la dissenting, è poi la costruzione così laboriosa di un’immunità assoluta legata all’esercizio dei poteri essenziali della Presidenza. Non si poneva infatti di fronte alla Corte un caso che riguardasse tali funzioni: Trump non è stato incriminato per l’esercizio illegale del potere di veto o di grazia, o altro, ma per aver preso parte al tentativo di sovvertire l’elezione presidenziale. Lo zelo di Roberts, invece, lo porta addirittura a iscrivere tra le funzioni “conclusive and preclusive” anche quella di “far sì che le leggi siano fedelmente eseguite” (articolo II, sez. 3 della Costituzione): una visione così ampia dei poteri essenziali del Presidente, secondo la giudice, isolerà efficacemente ogni sorta di condotta non-essenziale da procedimenti penali.
In conclusione, e in un climax di scenari drammatici delineati dalla giudice in cui un Presidente risulterebbe impunito per tutto, anche per aver organizzato un colpo di Stato (p. 29-30 della dissenting), Sotomayor ritiene che la decisione della maggioranza rischia di avere una portata più ampia di quanto immaginino i suoi colleghi: la linea tracciata da Roberts tra condotta ufficiale e non ufficiale “restringe la condotta considerata ‘non ufficiale’ quasi a niente”, poiché ogni volta che il Presidente agisce in un modo che non si collochi manifestamente al di fuori della sua autorità, starebbe agendo comunque in veste ufficiale. Qualunque sia l’accezione e l’uso del “potere ufficiale,” conclude Sotomayor, “il Presidente è diventato ora un re al di sopra della legge.”

Nel proprio dissenso, la giudice Jackson ricostruisce l’impatto della sentenza in parola sul sistema penalistico statunitense e sul principio della divisione dei poteri. Su questo secondo versante, in particolare, ribadisce la preoccupazione per la predetta elevazione del Presidente degli Stati Uniti (“i semi del potere assoluto per i Presidenti sono stati piantati”), ma sottolinea anche il maggiore protagonismo così assunto dalla Corte Suprema. La maggioranza, infatti, non fornisce alcuna guida effettiva su come applicare il nuovo paradigma così creato, su come ad esempio classificare la condotta di un Presidente, o su cosa costituisca “potere costituzionale fondamentale” (standard e definizioni non presenti nella Costituzioni), richiedendo quindi che ogni questione ripassi dal suo scrutinio. In sostanza, dice Jackson, la Corte ha ora imposto il proprio requisito di pre-approvazione sull’applicazione delle leggi del Congresso a un ex Presidente presumibilmente colpevole di aver commesso crimini mentre era in carica. In altri termini, “mentre il Congresso (il ramo più responsabile di fronte al popolo) è l’organo che la Costituzione incarica di decidere, in generale, quale condotta è consentita o vietata, la Corte ora arroga a sé quel potere quando quella questione riguarda il Presidente”.

In un evidente esercizio di legislazione giudiziale, senza seguire metodologie originaliste o testualiste, senza appigli storici ai lavori costituenti o a precedenti significativi, andando ancora una volta (dopo la risposta al caso del Colorado) oltre quanto strettamente necessario per decidere la questione, la Corte Suprema per mano del suo Chief Justice abbandona la storica remissività nell’affrontare i mutamenti della forma di governo statunitense e, con un cambio radicale di postura, riscrive la struttura della separazione dei poteri declinando i checks and balances in termini non più di flessibilità e adattabilità funzionali a evitare concentrazioni anomale di potere politico (cfr. Buratti, qui, p. 82-84, 93-95), ma in termini di insularità e sfiducia tra poteri dello Stato, a cominciare da quella espressa verso altri attori istituzionali dalla Corte stessa. Com’è stato efficacemente scritto, infatti, nella sua giurisprudenza sui casi riguardanti Donald Trump, la Corte sembra essersi eretta a ultimo baluardo nel tentativo di salvare il Paese dalle risposte sproporzionate di altre istituzioni al fenomeno-Trump, giungendo a essere “così certa che le altre istituzioni non siano affidabili da dimenticarsi di guardarsi allo specchio”.


Trump v. Anderson e il patchwork della giustizia americana sul candidato insurrezionalista

Con una pronuncia collegiale (per curiam), il 4 marzo 2024 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cassato la sentenza con cui la Corte Suprema del Colorado il 19 dicembre 2023 aveva ritenuto Donald Trump squalificato dalla competizione elettorale per la carica di Presidente, avendo questi – secondo i giudici statali – partecipato all’insurrezione del 6 gennaio 2021 ed essendo quindi incorso nella fattispecie delineata dalla Sezione 3 del XIV Emendamento della Costituzione (in avanti, “Sezione 3”).
Alla pronuncia dei giudici del Colorado avevano poi fatto seguito decisioni simili adottate in Maine e in Illinois, anch’esse ora travolte dalla decisione Corte Suprema. I singoli Stati – scrivono i giudici di Washington – non hanno il potere di dar autonomamente seguito alla citata Sezione 3 nei confronti di uffici federali, men che meno nei confronti di candidati alla carica di Presidente degli Stati Uniti.
L’arresto della corte federale, pressoché scontato, è stato raggiunto all’unanimità, ma con due significative concurring in the judgement.

Passaggi principali della pronuncia collegiale sono i seguenti:

1) È possibile dare attuazione a quanto previsto dalla Sezione 3 solo a livello federale. segnatamente da parte del Congresso, e non a livello statale. Questo perché:
a) decisioni come quelle sottese alla squalifica di ufficiali federali devono essere prese da organi espressivi della popolazione nel suo complesso (federal officers “owe their existence and functions to the united voice of the whole, not of a portion, of the people”):
i) ciò non solo per i possibili diversi esiti nel merito che nei vari Stati si potrebbero raggiungere su una stessa vicenda, ma anche per le diverse regole processuali che potrebbero governare tali decisioni (The “patchwork” that would likely result from state enforcement would “sever the direct link that the Framers found so critical between the National Government and the people of the United States” as a whole);
i) singoli Stati possono al più squalificare coloro che sono titolari o che sono candidati a un ufficio di carattere statale;
b) così impone il rinvio, contenuto nella Sezione 5, al Congresso quale organo chiamato a dare attuazione, by appropriate legislation, alle previsioni del XIV Emendamento;
c) così si dovrebbe dedurre anche dall’ultima previsione della stessa Sezione 3, che permette appunto al solo Congresso di rimuovere un’ipotetica squalifica;
d) non risulta alcuna tradizione storica o prassi applicativa che sia andata nel senso di permettere ai singoli Stati di applicare la Sezione 3 a ufficiali federali o candidati a cariche federali.

2) Solo il Congresso potrebbe dare applicazione alla Sezione 3 e nel far ciò deve comunque muovere dall’assunto che, trattandosi di limitare e punire condotte individuali, la disciplina deve riflettere congruence and proportionality tra necessità di prevenzione e necessità di porre rimedio. Questo a maggior ragione quando è in gioco l’ufficio di Presidente degli Stati Uniti.

Le due concurring opinion – una firmata dalla sola giudice Barrett, l’altra congiuntamente dalle giudici Sotomayor, Kagan e Jackson – aderiscono sostanzialmente al solo punto 1.a.i) della predetta argomentazione.  Entrambe le opinioni, ma la seconda con maggiore vis polemica, ritengono infatti che la Corte si sarebbe dovuta limitare a dichiarare soltanto la competenza federale sulla materia: tanto bastava per chiudere un caso che, secondo le giudici, “gridava judicial restraint”.
Non c’era invece alcun bisogno di aprire (e soprattutto di chiudere) la questione dell’individuazione del soggetto istituzionale chiamato a dare attuazione alla previsione della Sezione 3, né quella sulle modalità con cui farlo: e questo fondamentalmente perché tali questioni non erano parte del thema decidendum.

Ai fini di un inquadramento critico della pronuncia si possono appuntare le seguenti osservazioni.

In primo luogo, in nessun punto della pronuncia o delle concurring viene contestata la qualificazione di “spergiuro insurrezionalista” (oathbreaking insurrectionist) attribuita a Trump dalla Corte Suprema del Colorado, anzi, nell’opinione firmata da Sotomayor, Kagan e Jackson si ricorre con frequenza a questa espressione; né vengono in alcun modo affrontate le conclusioni raggiunte dai giudici del Colorado secondo cui Trump avrebbe commesso un attentato alla costituzione il 6 gennaio 2021.
In nessun punto della pronuncia o delle concurring viene poi discussa la tesi, pur sostenuta dai legali di Trump in Colorado, secondo cui il Presidente non sarebbe tecnicamente “un ufficio degli Stati Uniti”, e quindi non sarebbe soggetto alla previsione della Sezione 3. Non è chiaro se la tesi sia stata ritenuta, come fa gran parte della dottrina, semplicemente senza senso. Di certo, la pronuncia collegiale pone molta enfasi sulla peculiarità della Presidenza, esplicitamente ritenuta un federal office, soprattutto nel sottolineare come la decisione se limitarne o meno l’accesso sulla base della Sezione 3 non possa che essere presa a livello centrale.
La tesi secondo cui gli Stati potrebbero squalificare dalla competizione elettorale ai sensi della Sezione 3 solo funzionari statali ma non quelli federali, secondo Graber (autore del più recente studio in materia), non ha alcun fondamento nel testo costituzionale o nella storia costituzionale americana, non prevedendo il XIV Emendamento procedure diverse per la rimozione dei funzionari federali rispetto a quelle utilizzate per la rimozione dei funzionari statali.
L’argomento secondo cui è la “voce unitaria” della federazione a dover legittimare (e quindi se del caso squalificare) un ufficiale federale, soprattutto se questi ricopre la carica monocratica deputata a rappresentare l’unità nazionale per eccellenza, non viene poi minimamente posto a raffronto col fatto che proprio le elezioni presidenziali negli Stati Uniti non sono tecnicamente nazionali, dal momento che ogni Stato stabilisce proprie regole per lo svolgimento di tali elezioni, a cominciare dalle primarie (fase da cui era appunto partita la controversia giudiziaria in Colorado). È anzi nota – e spesso critica – la differenza tra voto popolare e collegio elettorale (c.d. Electoral College), tanto che si può dire che la legislazione elettorale sul punto sia già abbondantemente un patchwork. Una trama che invero la Corte Suprema sembra ora contribuire a infittire ancora di più.
L’argomentazione circa la competenza federale a dare attuazione alla Sezione 3 lascia infatti molti dubbi già tra le giudici che firmano le due opinioni concorrenti, ma anche tra i primi commentatori del caso, e questo sia per quel che riguarda l’esclusività della titolarità di tale competenza in capo al Congresso che, soprattutto, per quel che riguarda la sua estensione:

- Quanto al primo aspetto, ad esempio, non è chiaro se ora uno Stato della federazione possa rifiutare di inserire nella scheda elettorale il nominativo di un candidato al Senato o alla Camera del Congresso (queste, sì, cariche espressamente citate dalla Sezione 3) quando quello Stato stesso abbia ritenuto la persona inidonea a ricoprire un ufficio federale ai sensi della Sezione 3.
- Quanto al secondo e più critico aspetto, da quello che scrivono le giudici concorrenti sembrerebbe che la pronuncia collegiale abbia voluto impedire al Congresso di adottare una qualunque misura volta a squalificare ufficiali federali sulla base della Sezione 3 fino a quando il Congresso stesso non avrà approvato una specifica “legislazione di attuazione” di quella previsione costituzionale. Non sarebbe quindi possibile squalificare un ufficiale federale tramite atti non legislativi come, per esempio, il rifiuto delle due Camere di convalidare – on Section 3 grounds – il conteggio dei voti durante la seduta comune del prossimo 6 gennaio 2025.
Tanto almeno si evincerebbe da alcuni passaggi delle opinioni concorrenti come quelli in cui Sotomayor, Kagan e Jackson scrivono che secondo la maggioranza il Congresso must enact legislation under Section 5 prescribing the procedures to ascertain what particular individuals should be disqualified, e come quello in cui scrivono che con questa pronuncia di fatto the majority shuts the door on other potential means of federal enforcement. In un ulteriore commento, anche Graber (in particolare dal min. 30’) legge nella sentenza l’invenzione da parte della Corte Suprema di una regola, priva di basi storiche, secondo cui solo il Congresso può squalificare ufficiali federali tramite apposita legislazione.
Invero la pronuncia della maggioranza, pur riferendosi sempre e comunque al Congresso quale attore competente e pur ritenendo critical il potere del Congresso di dare attuazione alla Sezione 3 con l’appropriate legislation di cui alla Sezione 5, da un lato non chiarisce mai cosa intenda con critical, ma dall’altro e soprattutto non sembra contenere un’indicazione così precisa e vincolante sulle modalità di azione del Congresso (legiferando appunto), il che ha lasciato supporre (ad esempio a Lederman, punto 7) che le giudici abbiano basato la loro concurring su una precedente versione della decisione collegiale, più netta in quel senso, prima di una successiva, più generica riscrittura.
Resta comunque un’importante ambiguità circa le modalità con cui, secondo la Corte Suprema, il Congresso potrà legittimamente agire – e in particolare squalificare un candidato alla Casa Bianca ritenuto insurrezionalista – ai sensi della Sezione 3.

Chiusa pur con queste incertezze la vicenda della candidabilità di Donald Trump ai sensi della Sezione 3 del XIV Emendamento, in punto di cronaca giudiziaria, l’agenda dell’ex Presidente resta comunque molto fitta, essendo ancora coinvolto in svariati processi.
A livello statale, il 25 marzo 2024 nello Stato di New York inizierà il processo sull’utilizzo dei fondi elettorali per pagare Stormy Daniels affinché tacesse sulla loro relazione. Sempre nello Stato di New York è stata di recente emessa la sentenza che condanna Trump a pagare una multa da 454 milioni di dollari per aver alterato i valori delle sue proprietà al fine di ottenere condizioni favorevoli sui prestiti richiesti e, per proseguire con il ricorso in appello, Trump dovrebbe versare una cauzione per l’intera somma. Ancora a livello statale, è in corso in Georgia il processo sul tentativo da parte di Trump di alterare i risultati del voto del 2020 in quello Stato, ma è stata chiesta la ricusazione di Fani Willis, la procuratrice che ha istruito il caso, e il processo potrebbe slittare dopo le presidenziali.
A livello federale, il procuratore Jack Smith ha avviato due processi che riguardano, rispettivamente, il ruolo di Trump nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e la sottrazione da parte di Trump di documenti segreti dalla Casa Bianca. Trump ha fatto ricorso contro entrambe le accuse, sostenendo che in qualità di ex Presidente avrebbe diritto all’“immunità assoluta” per gli atti compiuti durante il mandato e che quindi non potrebbe essere sottoposto a procedimenti penali. Il giudice di primo grado e la Corte distrettuale d’appello di Washington avevano decisamente respinto questa tesi. Il 28 febbraio 2024 la Corte Suprema ha accettato di rivedere il caso, precisando, in un breve comunicato, che il suo esame sarà limitato a decidere whether and if so to what extent does a former President enjoy presidential immunity from criminal prosecution for conduct alleged to involve official acts during his tenure in office. Contestualmente la Corte ha respinto la richiesta avanzata dai legali di Trump di annullare cautelativamente i predetti pronunciamenti delle corti federali.
Le udienze sull’immunità presidenziale davanti alla Corte Suprema inizieranno il 22 aprile 2024, giusto alla fine del term in corso, lasciando suppore che la decisione potrebbe arrivare a fine giugno. Tuttavia, secondo alcuni commenti, anche laddove l’immunità venisse definitivamente disconosciuta, sarebbe molto difficile riprendere i processi istruiti da Smith e arrivare a una sentenza entro il giorno delle elezioni presidenziali. E in tal caso, se Trump le vincesse, da Presidente potrebbe poi far cancellare, nominando un nuovo procuratore federale, i procedimenti a suo carico; e questo anche perché, stando una direttiva del 1973 risalente all’amministrazione Nixon, il Justice Department non incrimina i Presidenti in carica.
I possibili scenari – legati anche all’andamento dei processi statali che un Presidente non avrebbe il potere di bloccare – restano comunque numerosi e incerti. Corrispettivamente – e nello smarrimento generale del diritto costituzionale statunitense (ma i segnali in questo senso erano stati dati già vent’anni fa) – le prospettive di un inasprimento della crisi istituzionale si fanno sempre più concrete.
La campagna elettorale di Trump procede in ogni caso spedita. Dopotutto, il tema delle responsabilità dell’ex Presidente non sembra aver scalfito il suo elettorato, che lo ha ampiamente confermato candidato presidenziale del Partito Repubblicano.


We travel in uncharted territory. L’insurrezione di Trump secondo il Colorado e il lungo inverno dello scontento americano

Nell’autunno 2023 un gruppo di elettori del Colorado presentava una petition alla Corte distrettuale di Denver, chiedendo che l’ex Presidente Trump non venisse ammesso alle primarie statali per la scelta del candidato del Partito repubblicano alla Casa bianca, in quanto egli – “avendo partecipato all’insurrezione del 6 gennaio 2021” – risulterebbe “squalificato” ai sensi della Sezione 3 del XIV Emendamento alla Costituzione federale (in avanti “Sezione 3”), varato nel 1868.
In primo grado, la Corte distrettuale di Denver il 17 novembre 2023 aveva ritenuto da un lato che Trump fosse effettivamente incorso nella fattispecie di insurrezione delineata dalla Sezione 3, ma dall’altro che questa previsione non fosse applicabile al Presidente degli Stati Uniti, respingendo pertanto la petizione.
In appello, la Corte suprema del Colorado, con sentenza del 19 dicembre 2023 presa a maggioranza dei componenti (4-3), correggendo questa seconda parte della decisione distrettuale e confermandone per il resto l’argomentazione, riteneva l’ex Presidente Trump squalificato ai sensi della Sezione 3.
Consapevole di aver intrapreso un viaggio in “un territorio inesplorato”, la Corte ha poi disposto la sospensione dell’esecutività della sentenza fino al 4 gennaio 2024 (giorno antecedente alla certificazione dei candidati), aggiungendo che qualora nel frattempo fosse stata richiesta una revisione alla Corte suprema federale – eventualità poi verificatasi – la sentenza sarebbe stata da intendersi sospesa fino al pronunciamento del consesso federale.

Si tratta del primo caso nella storia statunitense in cui viene applicata la c.d. insurrection clause alla carica presidenziale (ritenuta, come si vedrà, un office under the United States). L’ultimo caso di rilievo sembra risalire al 1919, quando in base alla Sezione 3 venne negata, dallo stesso Congresso, l’elezione a deputato del socialista Victor Berger, colpevole di aver boicottato lo sforzo bellico americano durante la prima Guerra Mondiale (per un approfondimento storico sulla previsione del XIV Emendamento si veda il recente studio di Graber).
Al di là degli effetti giuridici di questa pronuncia (appunto sospesi, per cui ad oggi Trump può partecipare alle primarie del Partito repubblicano in Colorado), dell’attenzione che ha suscitato tanto questo processo (che ad esempio è stato seguito passo passo da Magliocca su Balkinization) quanto altri casi (in Maine, il 28 dicembre 2023, il Segretario di Stato ha raggiunto una decisione molto simile, ma anche in questo caso sospendendola), e al di là delle ripercussioni effettive sull’andamento della campagna per le elezioni di novembre 2024 (la corsa di Trump alle primarie repubblicane, peraltro sostanzialmente già vinte, procede spedita verso il c.d. Super Tuesday),  è utile qui provare a tracciare qualche confine di questo “unchartered territory” che la Corte suprema del Colorado propone di esplorare.
Si riportano quindi alcuni dei principali argomenti alla base di questa decisione.

1. Secondo i giudici del Colorado, il codice elettorale statale consente di contestare l’elettorato passivo di Trump ai sensi della Sezione 3 del XIV Emendamento: è vero che la petition solleverebbe questioni di natura costituzionale, ma la stessa viene ancorata all’analisi dei poteri di un funzionario (il Segretario di Stato, che ha il compito di certificare e validare le candidature) ai sensi del predetto codice elettorale. Dopotutto, la seconda clausola della Sezione 1 dell’Articolo II della Costituzione autorizza le assemblee statali a definire le procedure elettorali dei candidati presidenziali e col tempo gli Stati sono giunti a elaborare codici anche molto articolati, come appunto quello del Colorado.
1.2 Secondo la Corte non è necessario che il Congresso approvi una legislazione attuativa della Sezione 3 del XIV Emendamento: si tratta, infatti, di una previsione self-executing.
A tal proposito non è ritenuto conferente il richiamo alla Sezione 5 del medesimo Emendamento, che dà al Congresso il potere di dare esecuzione alle previsioni di quell’articolo: la Corte suprema federale, nei Civil Rights Cases (1883), aveva infatti detto che il XIV Emendamento “is undoubtedly self-executing without any ancillary legislation, so far as its terms are applicable to any existing state of circumstances”.
I resistenti invitano allora a considerare il c.d. Griffin’s Case del 1869, nel quale il signor Griffin contestava la condanna penale subìta, ritenendola nulla perché comminata da un giudice che, avendo precedentemente perso parte all’insurrezione contro la federazione, doveva ritenersi “squalificato” ex Sezione 3; in questo caso il Chief Justice Chase aveva osservato che, a riconoscere immediata operatività alla Sezione 3, si sarebbe rischiato di svuotare e paralizzare gli uffici pubblici, che all’epoca vedevano ancora impiegate persone inevitabilmente colluse con l’insurrezione sudista. Ma la Corte del Colorado non si ritiene vincolata da questo precedente, viste soprattutto la contingenza storica e la cautela che ne informavano l’argomentazione.
1.3 In Colorado non ha avuto presa neanche la c.d. political question doctrine: una controversia, secondo i giudici statali, implica una questione politica “solo quando questa è testualmente assegnata dalla costituzione all’organo politico o quando mancano pratici standard giudiziari per risolverla” (così citando dal caso Nixon v. United States, 1993). E se da un lato, non può darsi il primo caso (come visto, la Costituzione federale autorizza gli Stati a legiferare sul tema), dall’altro non può darsi neanche il secondo, essendo indubbia la presenza nella Sezione 3 di “judicially discoverable and manageable standards”.

2, Punto cruciale della sentenza è l’applicabilità della Sezione 3 al Presidente degli Stati Uniti, figura che non è letteralmente nominata dalla previsione costituzionale.
La Corte suprema del Colorado ritiene – ribaltando in questo unico ma decisivo punto la decisione di primo grado – che a) la Presidenza è un “ufficio, civile o militare, presso gli Stati Uniti”, b) il Presidente è un “ufficiale degli Stati Uniti”, e c) quello prestato dal Presidente ai sensi dell’Articolo II della Costituzione è un giuramento “di difendere la Costituzione degli Stati Uniti”. Si tratta dei tre elementi che identificano il soggetto delineato dalla Sezione 3.
Secondo i giudici di primo grado, non essendo letteralmente nominata, la Presidenza degli Stati Uniti non potrebbe ritenersi inclusa in una generale definizione di “ufficio civile o militare”.  Secondo i giudici della Corte suprema del Colorado, invece, bisogna intendere i concetti nel loro significato normale e non secondo “interpretazioni tecniche od oscure che non sarebbero state capite da semplici cittadini al tempo della ratifica” (così citando dal caso District of Columbia v. Heller, 2008). E da un’agile consultazione di dizionari, dibattiti parlamentari e stampa dell’epoca, si può chiaramente dedurre che la Presidenza non era stata inclusa nel dettato della Sezione 3 semplicemente perché era ovviamente ritenuta un ufficio pubblico. E se è vero che senatori e deputati, a differenza del Presidente, sono espressamente nominati nella previsione, è anche vero che in nessun punto della Costituzione queste figure sono intese come “uffici”, quanto piuttosto come “membri” dei rispettivi organi: la Costituzione invece si riferisce alla Presidenza come “ufficio” ben venticinque volte.
I giudici distrettuali avevano poi rilevato che la Presidenza era stata inizialmente contemplata in una versione iniziale della Sezione 3, per cui la sua successiva espunzione non potrebbe rimanere senza rilievo. Ma la Corte suprema del Colorado, citando ancora da Heller, ricorda che “è sempre pericoloso ricavare il significato di una previsione che è stata adottata da un’altra che nel corso dell’iter decisionale era stata poi eliminata”.
In conclusione – dicono i giudici del Colorado dopo aver impiegato gli argomenti di una delle sentenze più iconiche della dottrina originalista – questa interpretazione è corroborata dalla storia costituzionale sottostante all’adozione del XIV Emendamento.

3. Specifico motivo di ricorso in appello alla Corte suprema del Colorado è stata poi la contestazione, da parte dei resistenti, di aver ammesso come elemento probatorio in primo grado alcune parti del report del Congresso sui fatti 6 gennaio 2021.
Si tratta del rapporto stilato dalla Commissione d’inchiesta su quei fatti, secondo i difensori di Trump del tutto inaffidabile e partigiano, in quanto firmato da parlamentari che avevano già votato a favore del suo impeachment prima che l’inchiesta iniziasse, perché gli esponenti del Partito democratico erano sette contro i due del Partito repubblicano, e in generale perché basato su un pregiudizio politico nei confronti di Trump. Secondo la Corte suprema del Colorado questi elementi provano troppo: tutte le commissioni parlamentari d’inchiesta si basano su un certo grado di motivazione politica e in ogni caso le relative risultanze non sono per ciò stesso inammissibili ai sensi delle regole processuali applicabili (punto 803.8 delle Colorado Rules of Evidence).
La Corte ricorda comunque che, ai sensi delle stesse regole, lo standard di revisione sui fatti accertati in primo grado è debole, per cui la censura ricorre solo in caso di “chiaro errore” nella loro ricostruzione; ciò a differenza dell’analisi in diritto, che è piena.
Rileggendo così le parti dell’inchiesta ammesse in primo grado, la Corte conclude che solo due delle undici risultanze dell’inchiesta parlamentare sono classificabili come inaffidabili (“hearsay”). Per il resto, la ricostruzione dei fatti su cui si è basata la decisione di primo grado non è manifestamente errata. D’altro canto, se è vero che i giudici della Corte suprema del Colorado avevano esordito dicendo che “we do not reach these conclusions lightly”, è anche vero che dopo aver revisionato fatto e diritto hanno avuto “little difficulty” nel concordare con la conclusione raggiunta in primo grado.

4. Segue una nuova frammentazione analitica del dettato della Sezione 3.
Viene ripercorsa la storia del concetto di “insurrezione” (insurrection).  Sempre partendo dai dizionari in circolazione nel 1860, la Corte conclude che insurrezione è a) un uso pubblico della forza o la minaccia di ricorrervi, b) da parte di un gruppo di persone, c) al fine di minare o impedire l’esecuzione della legge costituzionale. I legali di Trump sostengono che l’insurrezione sia qualcosa di più di una rivolta di strada (riot) ma qualcosa di meno di una ribellione contro il governo (rebellion), e comunque implica comportamenti estesi nel tempo e nello spazio; ma tali argomenti, ad avviso della Corte, creano distinzioni apparentemente tecniche senza individuare una nozione precisa di insurrezione. Non hanno errato quindi i giudici di primo grado nel ritenere che la folla riunitasi a Capitol Hill, le dichiarazioni rese e gli atti compiuti, con l’assalto armato al Campidoglio, costituissero un’insurrezione ai sensi della Sezione 3.
Si passa quindi all’analisi dell’azione: “prender parte a” (engaged in) un’insurrezione. Anche in questo caso si parte da dizionari e testimonianze letterali del tempo, per poi concludere che il verbo richiede “un’azione aperta e volontaria, compiuta con l’intento di coadiuvare o incoraggiare il comune scopo criminale”. Qui si raggiunge uno dei passaggi più passionali della sentenza: per una ventina di pagine i giudici del Colorado ripercorrono le dichiarazioni rese da Trump prima, durante e subito dopo il voto di novembre 2020, i sospetti preventivi e le denunce successive di brogli elettorali, quindi i post incendiari contro il conteggio dei voti, i retweet di esponenti dei gruppi più estremisti, gli inviti a riunirsi tutti il 6 gennaio a Washington, le esortazioni poi trasformatesi in minacce al Vicepresidente Pence, per concludere con le parole pronunciate dal palco dell’Ellipse sotto Capitol Hill il 6 gennaio 2021. E così, in un tripudio di virgolette e lettere maiuscole, si mettono in fila quei drammatici passaggi per comporre il puzzle di uno scenario che vede i messaggi del Presidente Trump come un chiaro invito a insorgere contro le elezioni rubate e i suoi sostenitori come aderenti a tale appello.

5. Ultimo punto della sentenza è il rapporto tra le dichiarazioni di Trump e la libertà di espressione protetta dal I Emendamento.
Basandosi sulla pronuncia della Corte suprema federale nel caso Brandenburg v. Ohio, 1969, i giudici del Colorado ricordano che “le garanzie costituzionali della libertà di parola protette dal I Emendamento non permettono di vietare o limitare l’incoraggiamento a usare la forza o a violare la legge, a meno che tale sostegno non sia diretto a provocare o produca un’imminente azione illegale ed è probabile che inciti o produca tale azione”. Rianalizzando quindi la decisione distrettuale, la Corte suprema del Colorado conclude che: a) il giudice di primo grado non ha errato nel valutare il percorso di “corteggiamento da parte di Trump dei gruppi estremisti” e di “incitamento alla violenza politica”, così come “i suoi sforzi per minare la legittimità dei risultati elettorali del 2020”; b) parimenti non c’è stato errore nel ritenere che il discorso di Trump all’Ellipse “sia stato interpretato da una parte della folla come una chiamata alle armi”; c) infine non è scorretto concludere che Trump fosse consapevole del fatto che il suo discorso avrebbe portato all’uso della violenza o ad azioni illegali per impedire il trasferimento pacifico del potere.

Donald Trump è dunque da ritenersi squalificato dalla carica di Presidente ai sensi della Sezione 3 del XIV Emendamento della Costituzione federale e, in quanto tale, se il Segretario di Stato riportasse il suo nominativo tra quelli dei candidati alle primarie presidenziali del Partito repubblicano commetterebbe un illecito ai sensi del codice elettorale del Colorado.

Sono in disaccordo con questa conclusione tre giudici della Corte suprema del Colorado. Tra le principali argomentazioni in dissenso si segnalano le seguenti: a) il codice elettorale statale non è stato pensato per fungere da base giuridica per valutare se un candidato abbia preso parte o meno a un’insurrezione; b) il legislatore statale potrebbe autorizzare questo tipo di cognizione, ma lo deve dire espressamente e non l’ha fatto; c) è palese la violazione del procedural due process, viste anche le norme applicabili a un contenzioso di questo tipo, che non consentono un contradditorio sufficiente a determinare se una persona va squalificata o meno da una carica pubblica; d) in assenza di una condanna penale che accertasse un reato di insurrezione, il caso non doveva proprio porsi.

Come detto, i legali di Trump sono già ricorsi alla Corte Suprema federale, che ha accettato la richiesta di un writ of certioriari e fissato l’udienza per l’8 febbraio 2024.
L’esito della pronuncia federale è dato per scontato praticamente da tutti i commentatori. Poche sorprese si ritiene possano derivare dall’apparente moderazione del Chief Justice Roberts (qui per una recente riflessione sul punto) e o dall’attitudine da swing justice del giudice Gorsuch, dal cui passato la stessa sentenza della Corte suprema del Colorado ripesca una pronuncia del 2012 (Hassan v. Colorado) nella quale, da giudice della Corte d’appello del decimo Distretto, proprio nella materia di cui si discute oggi, scrisse: “il legittimo interesse di uno Stato a proteggere l’integrità e il funzionamento pratico del processo politico consente di escludere candidati che hanno il divieto costituzionale di assumere incarichi pubblici”.
Al di là infatti della connotazione politica della maggioranza che compone la Corte suprema federale e delle judicial doctrines sviluppate da alcuni dei giudici più conservatori sui poteri del Presidente degli Stati Uniti (si pensi alla posizione di Kavanaugh sul tema), resta il dato che, ancorché almeno da questa parte dell’Atlantico sia difficile dubitare che la condotta di Trump sui fatti del 6 gennaio 2021 non integri un attentato alla Costituzione, lo stesso Trump per quei fatti in quella sponda dell’Atlantico non è ancora stato condannato da un tribunale. Per di più, ove lo fosse stato o lo fosse, soprattutto se la diretta applicazione della Sezione 3 proposta dai giudici del Colorado verrà respinta dai giudici di Washington, paradossalmente Trump potrebbe essere eletto Presidente ed esercitare ugualmente le sue funzioni, oltre che auto-graziarsi.


“Le origini sono un inizio che spiega”
NYSRPA v. Bruen e il porto d’armi come diritto costituzionale tradizionale

Con la sentenza sul caso NYSRPA v. Bruen (597 U.S. __ 2022) la Corte Suprema degli Stati Uniti ha statuito che il diritto a detenere e portare armi da fuoco per autodifesa (codificato dal II Emendamento e garantito dal XIV Emendamento della Costituzione americana) può essere esercitato in ogni luogo, anche al di fuori della propria abitazione. Viola quindi tale diritto il requisito di una giusta causa (proper-cause) imposto dalla legislazione dello stato di New York a probi e onesti cittadini (law-abiding citizens) che vogliano ottenere una licenza totale (unrestricted license) di portar con sé un’arma da fuoco (concealed firearm).
In questo senso si è espressa una maggioranza di sei giudici contro tre, allargando il solco tracciato in questa materia dalle sentenze emesse nei casi Heller (2008) e McDonald (2010): se con Heller si è detto che il II Emendamento protegge il diritto individuale a possedere un’arma da fuoco, non legato al servizio in una militia, e di usarla per scopi tradizionalmente legittimi quali l’autodifesa domestica (e con McDonald si è precisato che tale diritto è garantito non solo a livello federale ma anche nei confronti delle autorità statali), ora si aggiunge che tale protezione va accordata anche alla conduzione di armi da fuoco al di fuori della propria abitazione.
La collocazione politico-culturale dei membri della Corte appare preliminare a una comprensione degli argomenti usati a sostegno della decisione. L’estensore dell’opinione di maggioranza è Clarence Thomas, il decano della Corte Suprema, nominato da Bush senior nel ‘91, tra i più radicali esponenti alla dottrina originalista. Hanno aderito alla sua opinion tutti e cinque i giudici nominati da amministrazioni a guida GOP, a loro volta in maggioranza di formazione originalista. Poi, attraverso separate concurring opinions, il giudice Kavanaugh ha cercato di descrivere due confini di questa pronuncia, la giudice Barrett ha evidenziato alcuni nodi metodologici rimasti irrisolti e il giudice Alito ha inteso rispondere alla dissenting opinion depositata dal giudice Breyer. Al dissenso di Breyer hanno quindi aderito le giudici Sotomayor e Kagan: tutti e tre i dissenzienti nominati da amministrazioni a guida Democrats. La polarizzazione ideologica è dunque manifesta.
Il repertorio argomentativo del conservatore originalista ruota attorno a una dichiarazione di purezza teorico-generale (separazione dei poteri e rigidità del testo storico), condensata nell’unica tecnica interpretativa possibile della Costituzione, il testualismo (che, applicato a un sistema di valori graficamente espressi in un documento sempre più lontano nel tempo, diventa testualismo storicistico). Le varianti su questo tema sono numerose (è nota, ad esempio, la differenza di posizione tra Thomas e un altro campione dell’originalismo, Scalia), ma l’approdo pratico delle pronunce non muta significativamente, così come ripetuta è la motivazione alla base della dottrina: assicurare un’idea di neutralità/non-politicità del judicial branch.
È appena il caso di rilevare che, nella pronuncia in commento, i canoni della dottrina originalista vengono necessariamente piegati alle esigenze poste dalla risoluzione della controversia in esame (allargare, anziché restringere o rimuovere, la garanzia costituzionale di un diritto).
E infatti il testo costituzionale, di solito inizio e fine di ogni ragionamento originalista, qui viene soltanto evocato. Non si trova traccia, ad esempio, di disamine come quella sulla parola “militia” contenuta nel II Emendamento, su cui tanto si era invece concentrata la Corte nel caso Heller.
Invero l’opinione della maggioranza in Bruen si presenta come mera rettifica dell’andamento preso dalla giurisprudenza federale successiva a Heller e McDonald, la quale aveva elaborato un doppio grado di scrutinio nel sindacato sulle limitazioni al II Emendamento: un primo basato sulla coerenza di tali restrizioni con testo costituzionale e storia, un secondo basato sul rapporto tra mezzi e fini. Per il giudice Thomas il constitutional standard da applicare quando si verte di limitazioni al diritto di portare armi da fuoco è solo uno: il primo. A dirlo, secondo Thomas, sarebbe proprio l’opinion di maggioranza nel caso Heller (errando invece la giurisprudenza successiva, che avrebbe aggiunto un criterio di proporzionalità): quella offerta nel caso Bruen vuol dunque essere una sorta di restaurazione del significato originario di quel precedente. Un originalismo, quindi, applicato alla giurisprudenza (più che al testo) costituzionale. Il che può già suggerire un confronto tra questa argomentazione e la storica resistenza degli originalisti a ritenere applicabile il principio dello stare decisis e quindi a vincolarsi ai precedenti giurisprudenziali (per un approfondimento v. qui).
Espunto così un giudizio di proporzionalità sulla materia, il giudice Thomas articola meglio la consistenza dell’unico standard applicabile alla materia.
In primo luogo, l’analisi storica che propone la Corte poggia su due metri di giudizio: bisogna analizzare a) se le attuali regolazioni del diritto all’autodifesa armata e quelle storicamente affermatesi nel tempo pongono a tale diritto una stessa tipologia di limitazione (a comparable burden), e quindi b) se la regolazione in esame è comparabilmente giustificata (comparably justified).
In secondo luogo, qualunque sia la consistenza di questo tipo di ricerca, il giudice Thomas precisa che la storia da prendere in considerazione non pesa tutta allo stesso modo (not all history is created equal), 4) né qualitativamente né quantitativamente. Dal primo punto di vista, ad esempio, la storia del common law inglese è ritenuta quantomeno ambigua (31 ss.), e in generale una historical evidence troppo precedente o troppo successiva all’adozione del testo costituzionale non sarebbe adatta a illuminarne il significato. Da un punto di vista quantitativo, invece, secondo la Corte non basterebbero appena tre casi di legislazione restrittiva risalenti al periodo coloniale (37 ss.) per argomentare l’esistenza di una tradizionale limitazione del diritto all’autodifesa armata.
Inoltre, viene sottilmente aggiornato anche il repertorio dell’argomentazione originalista: accanto alla (in questo caso, in assenza di) analisi sull’original meaning del testo costituzionale, la Corte propone anche uno studio della tradition, intesa come continuità di prassi su una certa materia: the regulation [must be] consistent with the Nation’s historical tradition of firearm regulation (8).  Secondo la maggioranza della Corte uno scrutinio di costituzionalità basato su questo tipo di analisi è più legittimo e più administrable rispetto a giudizi empirici su costi e benefici delle restrizioni al possesso di armi da fuoco (16). Non che l’analisi storica sia sempre facile per storici non professionisti come i giudici federali: il giudice Thomas ammette che si dànno casi difficili (18 ss.), ma anche casi fairly straightforward, come quello presente.
Alla fine, secondo la maggioranza della Corte, l’amministrazione dello stato di New York non riesce a fornire un’evidenza storica a sostegno della sua regolazione sufficiente a superare la confutazione di un’indagine che in circa 30 pagine (sulle 60 che compongono l’opinione di maggioranza) il giudice Thomas distende su oltre 600 anni di storia inglese e americana: indagine dalla quale non può emergere una normativa tradizionalmente comparabile con (che quindi possa storicamente giustificare) quella adottata dallo stato di New York. Il giudice Breyer impiegherà la stessa proporzione della sua opinione dissenziente (25 su una cinquantina di pagine) per ripercorrere lo stesso spettro di tempo e raggiungere una conclusione opposta a quella della maggioranza.
Questa pronuncia e le sue argomentazioni possono apparire di non immediata pregnanza per l’osservatore europeo, che a buon diritto potrebbe ricomprendere il caso Bruen tra le vicende di cronaca che connotano la cultura politica dell’America contemporanea.
Il ragionamento originalista, qui variato da un argomento tradizionalista (su cui v. Balkin), pone tuttavia degli interrogativi non nuovi alla cultura giuridica eurocontinentale, e al contempo non lontani da quelli che l’interprete di questo costituzionalismo potrebbe porsi davanti alla maturazione di una distanza storica dai patti costituzionali.
Dal primo punto di vista, è risalente il dibattitto sulle capacità del giudice, il quale secondo Croce non può permettersi di fare lo storico, secondo Calamandrei non può permettersi di fare il politico, ma come detto da Calogero non può essere più ritenuto mera bocca del legislatore (si v. la ricostruzione di Ridola, qui commentata). Ma, sul secondo punto di vista, se è vero che il confronto fra il ruolo dello storico e quello del giudice costituisce un locus classicus del dibattito sul mestiere dello storico (v. per es. Ginzburg), è anche vero che esso è stato spesso appiattito su quella che è ritenuta la maggiore delle differenze che connotano il giudizio storico e il giudizio giudiziario, per cui il primo sarebbe volto a indagare azioni collettive, il secondo ad accertare responsabilità individuali (v. Garapon).
Il ragionamento originalista provoca a chiedersi se questi steccati restino validi anche quando il giudizio verta sull’interpretazione costituzionale, dove vengono piuttosto in rilievo comportamenti o azioni di istituzioni ed entità, e dove soprattutto un testo è al tempo stesso parametro di giudizio e fatto storico.
Nell’ideale originalista, l’approdo di questo ragionamento – chiaramente consegnato a questa pronuncia – diventerebbe la trasformazione del giudice costituzionale, ormai espressione di una professionalità generale, in custode della storia (più che della costituzione) e la sostituzione al judicial review di una sorta di historical review of legislation.
Tuttavia, se si pensa alla forza motrice dell’originalismo (la neutralità politica della funzione giudiziaria, la non-legittimazione democratica dei giudici, la difficoltà contro-maggioritaria della Corte, etc.), è di tutta evidenza che l’uso della storia proposto da questa dottrina diventa un rudimentale espediente argomentativo che sottintende una chiara politicità nell’interpretazione costituzionale non diversa da quella espressa da altre dottrine del postmoderno; fino a portare anche la dottrina più conservatrice a definire fraudolenta la pretesa dell’originalismo di evitare posizioni morali nell’interpretazione costituzionale.
In ogni caso, volendo conferire una dignità tecnica a questo modo di risolvere controversie costituzionali, rimarrebbe ancora del tutto irrisolto da parte dell’originalista il dilemma sulla terzietà di questa indagine storica. E infatti, muovendo dalla posizione  che tanto lo storico quanto il giudice vorrebbero occupare nello spazio pubblico (aspirando l’uno a verità, l’altro  a giustizia), Ricœur ha ricordato che tale posizione, legata a un voto di imparzialità, deve far capo a una filosofia critica della storia: solo così l’ambizione di verità e di giustizia può diventare oggetto di una “vigilanza di frontiera”, al cui interno la legittimità di tale ambizione può dirsi totale.
Della cosciente elaborazione di una filosofia della storia non si trova traccia nel movimento originalista, pur non essendo mancati nella cultura giuridica statunitense interrogativi sul tema. Mentre non sembra destinato ad essere accolto il monito del giudice Breyer (che con questo Term conclude il suo mandato alla Corte Suprema) secondo cui gli storici si impegnano in metodi di ricerca e approcci interpretativi non compatibili con la risoluzione delle moderne questioni giuridiche, politiche o economiche.
Non sorprende dunque che dal magazine dell’American Historical Association le indagini in cui si è esercitata la Corte Suprema siano state ritenute “astoriche” e “dilettantistiche”, del tutto inconciliabili con la ricerca storica vera e propria.
Il tema della terzietà e dell’esplicitazione di una frontiera da cui poter vigilare la law office history della Corte Suprema rimane così ancora lontano dall’orizzonte di impegno degli originalisti.
Dopotutto, come temeva Bloch, “nel vocabolario corrente, le origini sono un inizio che spiega. Peggio ancora: che è sufficiente a spiegare”.


La Corte Suprema come problema

Torna con ciclicità il tema della riforma della Corte Suprema federale statunitense. L’occasione questa volta è rappresentata dall’istituzione, il 9 aprile 2021, di una commissione di studio da parte dell’amministrazione Biden per una riforma dell’organo.
La stampa di area liberal sintetizza la direzione dei lavori come volti principalmente a sondare la possibilità di allargare il numero dei componenti della Corte Suprema (dalla fine del XIX secolo fisso a nove), affinché l’attuale amministrazione possa esprimere con sicurezza nuovi giudici e così riequilibrare la composizione politica dell’organo; composizione che si ritiene attualmente troppo sbilanciata dal lato dei conservatori, con sei giudici nominati da amministrazioni a guida Repubblicana e tre nominati da amministrazioni a guida Democratica.
Invero l’attività della commissione non sembra limitata a questo obiettivo, né più in generale sembra vincolata a produrre raccomandazioni di sorta, mentre deve presentare un report entro 180 giorni dell’inizio dei lavori. Ma gli animi sono infuocati e incitano comunque all’innesto di nuovi giudici (c.d. Court-packing) da quando, alla vigilia delle drammatiche elezioni presidenziali del novembre 2020, l’amministrazione Trump ha sollecitamente nominato in Corte Suprema Amy Coney Barrett in sostituzione della giudice Ruth Bader Ginsburg, scomparsa il 18 settembre 2020. Il risultato – fortemente cercato da tutto il Partito Repubblicano, anche nelle sue frange più opposte alla linea del Presidente Trump – ha suscitato ferventi polemiche e la promessa elettorale di Biden di occuparsi del problema-Corte Suprema qualora eletto. Tra i numerosi motivi di polemica, si è ricordato che, a parti inverse, nel 2016 all’uscente amministrazione Obama fu impedito di nominare un sostituto al posto del giudice Antonin Scalia, con la scusa che bisognava attendere l’espressione del voto popolare sulla nuova amministrazione (tuttavia, ed è questa la principale differenza rispetto alla nomina di Coney Barrett, in quel caso il Partito Repubblicano già deteneva la maggioranza del Senato e dettava le regole delle udienze di conferma). Rare e tendenzialmente inascoltate sono invece state le voci da area progressista che hanno suggerito di abbandonare del tutto la retorica basata sul controllo della Corte.
Al momento è difficile proporre previsioni sull’andamento dei lavori della commissione, anche perché insieme a una evidente maggioranza di giuristi di orientamento liberal (tra gli altri, Laurence H. Tribe da Harvard, Jack M. Balkin da Yale, Olatunde C. Johnson da Columbia), sono presenti anche studiosi conservatori del calibro dell’originalista Keith E. Whittington (Princeton).
Si apprende che la commissione lavorerà in cinque sottogruppi, composti da circa sette membri ciascuno. Il primo si dovrebbe occupare di raccogliere materiale preparatorio al lavoro della commissione, comprese le informazioni su quali problemi abbiano reso la riforma della Corte Suprema una questione di dibattito ricorrente. Il secondo gruppo di lavoro si occuperà della posizione della Corte Suprema nel più ampio ordine costituzionale; dovrebbe anche istruire proposte come quelle volte a spogliare la Corte della giurisdizione su certe tematiche o a prevedere maggioranze qualificate del collegio per l’annullamento di atti del Congresso. Il terzo gruppo si occuperebbe di temi come quello dell’anzianità di servizio e del turnover dei giudici, e proposte come quella di istituire tetti massimi di permanenza in carica o di imporre un’età pensionabile obbligatoria. Il quarto gruppo dovrebbe analizzare la questione del numero e delle procedure di nomina dei giudici della Corte Suprema. Un quinto e ultimo gruppo di studio dovrebbe riguardare le modalità di selezione dei casi di cui la Corte Suprema sceglie di occuparsi, modalità ritenute oggi troppo discrezionali.
Bisogna comunque segnalare che i lavori della commissione a stento sono iniziati e già al Congresso è stata presentata una proposta di legge (intitolata Judiciary Act of 2021) volta ad aumentare a tredici il numero dei componenti della Corte Suprema.
In attesa di ulteriori sviluppi, nel complesso mondo di questo organo, si possono appuntare i seguenti dati:

  • Modificare il numero dei componenti della Corte Suprema non richiede una riforma del testo costituzionale, ma è una facoltà che rientra nel dominio del Congresso (cfr. III § 1 della Costituzione federale). Ciò che si ritiene fissato in Costituzione è invece il mandato vitalizio dei giudici federali (during good Behaviour).
  • Il Congresso ha variato il numero dei seggi già sette volte nel corso della storia statunitense, passando da un minimo di cinque giudici a un massimo di dieci. In particolare vanno ricordate le modifiche introdotte a cavallo della Guerra Civile: nel 1863 i Repubblicani aumentarono il numero dei seggi a dieci, per controbilanciare i Democratici (allora esponenti del partito Sudista) in una Corte il cui Chief Justice era Roger Taney; dopo l’assassinio di Lincoln, nel 1866 gli stessi Repubblicani lo abbassarono a sette per impedire al Democratico Johnson di nominare giudici di suo gradimento; infine, dopo l’elezione di Grant, col Judiciary Act del 1869, il numero di giudici fu riportato a nove e da allora non è più stato cambiato.
  • Tra i tentativi non riusciti di modificare il numero dei componenti dell’organo, famoso è quello dell’amministrazione Roosevelt, tramite il Judicial Procedures Reform Bill del 1937, con cui si volevano superare le continue censure di costituzionalità che una Corte figlia dell’Era Lochner poneva al New Deal; tentativo poi fallito sia per le opposizioni interne al partito del Presidente Roosevelt, che per il noto riposizionamento del giudice Owen Roberts nel caso West Coast Hotel Co. v. Parrish (1937).
  • Dall’inizio degli anni ’70 del XX secolo, le amministrazioni guidate dal Partito Repubblicano hanno potuto nominare in Corte Suprema ben quindici giudici, e hanno espresso gli ultimi due Chief Justices, William Rehnquist (1986-2005) e John Roberts (in carica dal 2005). Nello stesso arco di tempo, le amministrazioni guidate dal Partito Democratico sono riuscite a intestarsi solo quattro nomine (Bader Ginsburg, Breyer, Sotomayor e Kagan).
  • A partire dalla nomina a Chief Justice di Roberts (approvata dal Senato con 78 voti favorevoli contro 22), tutte le udienze di conferma successive si sono sistematicamente concluse con maggioranze risicate e un Senato spaccato a metà.

Senza scomodare Tocqueville, bastano forse questi pochi dati per rendere l’idea di quanto il potere giudiziario statunitense sia per statura un campo di battaglia politica, nonché forse proprio il principale problema alla base delle crisi di identità che questa cultura costituzionale propone ciclicamente.
Sul tema, un recente contributo di uno dei membri della commissione di studio istituita dal Presidente Biden, Jack M. Balkin, sembra proporre la tesi di un radicale superamento della finzione secondo cui, continuando a predicare la neutralità del judicial review fatto dalla Corte Suprema federale, è possibile nobilitare l’idea di un sistema costituzionale (ovvero, di un certo grado di razionalità insito nel discorso costituzionalistico statunitense). Tutto invece è ormai polarizzato: élite altamente istruite «discordano sulla natura del mondo, sui fatti della politica americana, sulle fonti della corruzione, soprattutto su quali sono le più gravi minacce alla democrazia». E anche l’apparato giudiziario è polarizzato, nella sua composizione e nella sua giurisprudenza. L’indipendenza dei giudici va quindi pacificamente dichiarata perduta.
A questa constatazione il Balkin-autore non unisce un’indolente rassegnazione. Anzi, coglie l’occasione per sanzionare l’alta politicità della Corte Suprema tramite un pacchetto di riforme –nomine regolari e prevedibili dei giudici della Corte, istituzione di limiti temporali al loro mandato, minore discrezionalità alla Corte nella scelta dei casi, automatismi per compulsare riforme bipartisan – che appunto ruota attorno non a un superamento ma a una esplicitazione e regolarizzazione dell’intreccio partitico che ha connotato il funzionamento dell’organo. Non è possibile prevedere quanto queste proposte entreranno a far parte del contributo del Balkin-commissario, ma certamente si muovono nel solco di quanto quella dottrina sostanzialmente propone ormai da tempo sul tema. Così come, più ampiamente, in uno stesso solco sembra muoversi il pensiero costituzionalistico statunitense, che continua a coltivare una sorta di ossessione verso il judicial constitutionalism, alla quale non si riesce più ad accompagnare una riflessione comprensiva sulla sorte dei pesi e contrappesi in quella forma di governo.


Hyatt III e la tentazione dell’overruling

In Nord America, prima della costituzione di un ordinamento federale, i singoli Stati (le ex Colonie) erano considerati entità sovrane, reciprocamente autonome e indipendenti.
Con la ratificazione ed entrata in vigore della Costituzione degli Stati Uniti (1788-1789), gli Stati necessariamente cedevano alcune prerogative sovrane. Tra queste, essi abdicavano alla prerogativa di citarsi in giudizio a vicenda nelle rispettive corti territoriali: conseguenza, dunque, di una costituzione federale, e quindi dell’«eguale dignità e sovranità» degli Stati, era l’imposizione agli stessi di un’immunità reciproca (c.d. sovereign immunity).
Tanto si apprende dalla storia del periodo della fondazione, e in particolare dai dibattiti che hanno accompagnato la redazione dell’Art. III, e dalla storia sottesa all’approvazione (nel 1795) dell’XI Emendamento, nonché dal generale impianto della Costituzione americana.

A questa conclusione è giunta, il 13 maggio 2019, la Corte Suprema degli Stati Uniti, con una maggioranza (5-4) guidata dal giudice Clarence Thomas.

Nel dichiarare che la Costituzione federale impone agli Stati di garantirsi vicendevolmente detta immunità (un cittadino non può, per tabulas, citare in una corte territoriale di uno Stato le autorità di un altro Stato), la Corte revoca espressamente la validità di precedente alla sentenza pronunciata in Nevada v. Hall (1979), nella quale si era invece sostenuto che la Costituzione non obbligherebbe ma permetterebbe agli Stati di riconoscere (o meno) una tale immunità.

La pronuncia merita di essere segnalata (e inviterebbe a un’analisi più approfondita) sotto diversi profili. Tra questi:

a) L’interpretazione proposta dalla maggioranza della Corte. Thomas è ritenuto uno dei giudici originalisti della Corte Suprema. Il c.d. originalismo è una judicial doctrine elaborata nella seconda metà del secolo scorso (risalente agli studi di Berger e Bork), e divenuta bandiera del movimento conservatore che, tramite l’influente Federalist Society, consiglia le amministrazioni Repubblicane nella nomina dei giudici federali.
L’originalismo conosce varie sfaccettature. Quella sposata da Thomas appartiene alla specie di originalismo secondo cui, tramite una lettura neutrale della storia legislativa, è possibile discernere l’intenzione del legislatore, quindi il significato del testo. Diversa, ad esempio, era l’idea di originalismo di un altro giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, che, screditando la storia legislativa, proponeva un approccio misto di testualismo e storia: il significato della norma è quello che sarebbe stato ragionevolmente trasmesso a un cittadino al tempo in cui la legge fu adottata (un significato quindi pubblico-storico).
Ebbene, dopo un succinto excursus sul pensiero in materia di diritto internazionale diffuso al tempo della fondazione (si muove dall’autorità di Emer de Vattel), l’originalismo di Thomas si palesa nella lettura delle norme dell’Art. III e dell’XI Emendamento, interpretate alla luce dei dibattiti delle assemblee costituenti del tempo, come registrati nei biblici Elliot’s Debates.
Tuttavia, a questa chiave di lettura – cui Thomas forse sa di non poter dare il rigore che la sua dottrina esigerebbe (le norme citate disciplinano la giurisdizione delle corti federali, non quella delle corti statali) – la maggioranza della Corte aggiunge quella di natura deduttiva: dal momento che nessuna previsione in Costituzione letteralmente prevede una tale immunità, ma della sua necessità è piena la storia del periodo costituente, essa va data per implicita e necessariamente embedded nella Costituzione.
La disinvoltura di richiami come quello al «constitutional design», al «plan of the Convention», o alla «structure» della Costituzione viene duramente censurata dall’opinione dissenziente firmata dal Stephen Breyer. Replicando con argomento testualista, il giudice Breyer nota che è certamente vero che la Costituzione federale ha privato gli stati di certi diritti sovrani, ma quando ha fatto ciò ha «teso» a essere esplicita (si citano la Import-Export Clause, la Full Faith and Credit Clause): e dove non lo è stata, vale il dettato del X Emendamento, secondo cui tutto ciò che non è espressamente attribuito alla Federazione o proibito agli Stati, va ritenuto di competenza degli Stati o del popolo.

b) Un apparente crossover L’ala liberal della Corte, argomentando principalmente dal testo della Costituzione, si trova a difendere l’impianto federale originario: gli Stati della Federazione dovrebbero poter mantenere la prerogativa sovrana di concedere o meno l’immunità giurisdizionale agli altri Stati della federazione; che poi nella prassi tale immunità sia quasi sempre accordata, visto il timore di vedersela poi negare in futuro, non fa altro che dimostrare la natura di soggetti di diritto internazionale indipendenti (v. p. 10 della dissenting opinion). L’ala conservatrice della Corte, invece, con argomenti extra-testuali e invocando lo spirito o il non-detto della Costituzione, sembrerebbero compattare l’assetto federativo: la pubblica autorità di uno Stato non può citare in un proprio tribunale la pubblica autorità di un altro Stato, e ciò per lo stesso motivo per cui non può decidere da sola dispute riguardanti i confini o diritti fluviali (la natura interstatale della controversia rende inappropriata l’applicazione di una normativa locale).

c) Argomenti per il superamento dello stare decisis. Anche in questo caso l’onere argomentativo è assolto in poche righe (p. 17). Quattro aspetti andrebbero considerati, secondo la Corte, ai fini di un overruling: la qualità del ragionamento contenuto nella decisione, la sua coerenza con decisioni simili, lo sviluppo normativo successivo, l’affidamento maturato sulla stabilità della decisione. Trattando il secondo e il terzo come equivalenti, la Corte ritiene che tutti e tre «confortano la nostra decisione di superare [Nevada ] Hall»: Hall non aveva tenuto conto della comprensione storica della state sovereign immunity, né aveva considerato quanto la privazione dei tradizionali strumenti diplomatici avesse riorganizzato le relazioni tra gli stati; la giurisprudenza in materia, inoltre, mostrerebbe come Hall sia rimasta una pronuncia «anomala». Quanto al quarto argomento a sostegno dell’overruling, si dispiace la Corte per il signor Hyatt, che ha fatto affidamento sulla tenuta del precedente (in una controversia durata peraltro circa un ventennio), ma le perdite economiche cui andrà incontro «non rientrano tra gli interessi che ci persuaderebbero ad aderire a una soluzione sbagliata su un’importante questione costituzionale».

d) Which case the Court will overrule next? Questa è la domanda (retorica) che si pone il giudice Breyer e in essa si racchiude forse il principale motivo di interesse in questa pronuncia.
Quello che occupa la Corte è il terzo episodio della saga Hyatt: le autorità della California avevano accusato Gilbert P. Hyatt di aver simulato un trasferimento in Nevada nei primi anni Novanta per eludere il fisco californiano; ma il modo in cui furono condotte le indagini (con ricerche nei rifiuti domestici, interrogatori ai colleghi di Hyatt, avvicinamento ai suoi familiari) indussero Hyatt a citare in giudizio gli inquirenti californiani in una corte del Nevada; Hyatt vinse la causa, aggiudicandosi un risarcimento inizialmente fissato a circa mezzo milione di dollari. Le autorità californiane, ritenendo di non dover essere affatto chiamate a rispondere davanti a una giurisdizione di altro Stato, avevano invocato l’intervento della Corte Suprema: ciò in un primo momento  sulla base della Full Faith and Credit Clause, che però secondo una Corte unanime non rappresentava motivo per censurare la giurisdizione del Nevada (Hyatt I, 2003); in un secondo momento, davanti agli sviluppi processuali del caso (i giudici del Nevada non avevano ritenuto valido anche per le autorità californiane il tetto massimo al risarcimento previsto invece per i danni cagionati dalle autorità del Nevada), l’ala conservatrice della Corte Suprema cambiò idea, ma non poté raggiungere un verdetto di maggioranza, essendo il collegio allora composto da otto membri (Scalia era da poco deceduto, non era stato ancora nominato il sostituto, e la Corte si divise a metà, 4-4) (Hyatt II, 2017). Ora finalmente si può confermare quanto lasciato intendere in quella sede: ogni Stato ha il dovere di garantire l’immunità giurisdizionale agli altri Sister States.
Il tema della state sovereign immunity, invero, appare di scarsa importanza in sé considerato (e il contenimento della sentenza in appena trenta di pagine, dissenting opinion inclusa, dimostra la poca animazione dei membri della Corte). Lo stesso Breyer nota come siano stati soltanto 14 i casi in cui, nei quarant’anni passati dal caso Hall, uno Stato ha celebrato un processo nelle proprie corti contro le autorità di un altro Stato.
Si tratta di un overruling sostanzialmente innocuo per la tematica coinvolta. Eppure importante per il messaggio che pare sottendere.
Il giudice Breyer rileva come Hall sia stato sempre sostenuto dalla giurisprudenza successiva, seppur con vari distinguishing. Ma se anche ci fosse qualche dubbio circa la sua validità, già solo il fatto che si tratti di una mera indecisione non autorizza la Corte ad abiurare quella decisione: e alla solidità dei precedenti l’ala liberal della Corte è ultimamente molto sensibile.
Nel suo dissenso, infatti, Breyer lascia intendere di avere in mente ben altre tematiche: quella sulle affirmative actions e, in particolare, il diritto all’interruzione della gravidanza.
Quanto a quest’ultimo, è noto come l’overruling dello storico precedente che lo ha riconosciuto a livello federale (Roe v. Wade, 1973) sia da tempo, e sempre di più al centro dello dibattito politico statunitense. È anzi esplicita l’intenzione delle frange più estreme del Partito Repubblicano di provocare un casus ad arte per raggiungere quanto prima una Corte Suprema, che ora sarà più incline a prestare ascolto alle ragioni del movimento c.d. pro-life: le vicende delle ultime settimane sulla legislazione adottata dall’Alabama sono solo l’ultima manifestazione di una consapevole strategia di politica costituzionale, di cui su questo blog Laura Pelucchini ha dato ampiamente conto (link 1, link 2).
Non casualmente Breyer conclude il suo dissenso (p. 13) ricordando alcuni passi della sentenza emessa nel caso Planned Parenthood v. Casey (1992), in cui l’overruling di Roe v. Wade fu evitato grazie al voto del giudice Kennedy, celebre swing justice, ritiratosi proprio lo scorso anno e sostituito da Brett Kavanaugh (le cui posizioni in materia di overruling e aborto sembrano abbastanza delineate). «Un conto – ricorda Breyer – è superare un precedente quando “è divenuto a stento praticabile”, quando “i principi di diritto si sono talmente sviluppati da aver fatto di quella regola poco più di un residuo di una dottrina abbondata”, o quando “i fatti sono talmente cambiati, e sono visti in modo così diverso, da aver privato quella pronuncia di ogni giustificazione o applicazione pratica”». Altro conto, e «molto più pericoloso», ammonisce Breyer, è «contraddire una decisione sol perché cinque Membri di una nuova Corte si trovano d’accordo con i giudici dissenzienti di una precedente Corte su una delicata questione di diritto».
La maggioranza della Corte, con Hyatt III, ha ceduto a questa «tentazione». E potrebbe ricadervi nel prossimo futuro.


La nomina di Brett Kavanaugh

Cinquantatré anni, maschio, bianco, cattolico, Brett Kavanaugh è il giurista che l’amministrazione Trump ha scelto di proporre al Senato per colmare il posto liberato da Anthony Kennedy nella Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.

1.Per avere un primo inquadramento di questa nomina è opportuno muovere preliminarmente dalla ricostruzione del profilo politico del magistrato, un passaggio divenuto imprescindibile per orientarsi nell’agonismo che ormai anima l’attenzione verso la composizione della Corte Suprema (per una recente testimonianza, v. qui).
Il nome di Brett Kavanaugh era presente nella lista composta appositamente per il Presidente Trump dalla zelante Federalist Society, l’organizzazione di ispirazione conservatrice, attiva dagli anni ‘80, e ormai specializzata nel fornire supporto organizzativo e culturale alle amministrazioni a guida Repubblicana.
Kavanaugh, infatti, viene da un cursus politico molto eloquente. Nato nella capitale, cresciuto nel Maryland, dopo aver compiuto gli studi a Yale, Kavanaugh è stato assistente di vari magistrati tra i quali Kenneth Starr e, da ultimo, proprio Anthony Kennedy. Ha poi coadiuvato lo stesso Starr nell’indagine per l’impeachment di Bill Clinton. Sotto la presidenza di George W. Bush, mentre la moglie era la segretaria personale del Presidente, Kavanaugh ne è stato prima consigliere poi capo dello staff. Nel 2006 lo stesso Presidente lo ha nominato giudice federale per il Distretto di Columbia, carica ricoperta fino ad oggi.

2.Provando ora a tracciare alcune coordinate rappresentative della politica giudiziaria di Kavanaugh, si può muovere dai suoi orientamenti in materia di separazione dei poteri.
Su questo tema Kavanaugh ha tenuto dei corsi alla Harvard Law School, chiamato dalla allora preside Elena Kagan (che oggi siede in Corte Suprema, nominata sotto l’amministrazione Obama).  In un articolo pubblicato nel 2009 per la Minnesota Law Review Kavanaugh tirava le fila dei suoi anni trascorsi al servizio dell’Executive Branch, proponendo una serie di misure che potrebbero migliorare le dinamiche interne all’amministrazione federale. La prima di queste proposte, e quella che ha attirato le maggiori attenzioni della cronaca di questi giorni, è intitolata: «Assicurare ai presidenti in carica un differimento temporaneo delle cause civili e di indagini e incriminazioni penali».
Della sua attività giudiziaria si può ricordare il caso Al Bahlul v. United States, in cui l'imputato, l'autista di Osama Bin Laden, aveva presentato ricorso contro la condanna inflitta da una commissione militare sui crimini di guerra, sostenendo che gli articoli I e III della Costituzione impedissero al Congresso di rendere la cospirazione un reato perseguibile ad opera di una commissione militare, dal momento che la cospirazione non è un crimine secondo il diritto internazionale. Nel confermare la condanna, i giudici della Corte federale si erano mostrati divisi: quelli della maggioranza hanno evitato di affrontare la questione dell'autorità del Congresso; nella sua lunga concurring opinion, invece, il giudice Kavanaugh, rispondendo direttamente a quella domanda, ha dichiarato di non aver trovato alcun limite costituzionalmente imposto: «the federal courts are not empowered to smuggle international law into the U.S. Constitution and then wield it as a club against Congress and the President in wartime».
Altre pronunce concernenti la separazione dei poteri hanno tendenzialmente mirato a contenere l'autorità delle agenzie indipendenti. Più di recente, Kavanaugh ha dissentito da una sentenza che ha confermato la costituzionalità della struttura del Consumer Financial Protection Bureau: struttura in virtù della quale l'ufficio è diretto da un singolo funzionario, che può essere rimosso solo per giusta causa. Kavanaugh sarebbe invece dell’idea che una tale struttura violi l'articolo II della Costituzione che garantisce i poteri del Presidente: «Because of their massive power and the absence of Presidential supervision and direction – scrive Kavanaugh – independent agencies pose a significant threat to individual liberty and to the constitutional system of separation of powers and checks and balances». Da notare come Kavanaugh, in una nota a piè di pagina (la nota 18, a p. 61 della sua opinione dissenziente), abbia messo in dubbio il principio sancito in Humphrey’s Executor v. United States (1935), che rappresenta il fondamento storico della costituzionalità delle agenzie indipendenti, lasciando intendere che sarebbe incline a considerare un suo overruling.

3.Approfondendo il tema della regolazione amministrativa, è notorio che quella del Distretto di Columbia è una giurisdizione particolarmente impegnata nel judicial review of administration.
Kavanaugh, nel corso del suo mandato, si è segnalato per numerose pronunce in casi aventi ad oggetto atti di regolazione della Environmental Protection Agency (EPA). Sul tema, peraltro, in un più di un’occasione si sono registrate significative sinergie con Antonin Scalia, anch’egli esperto di regolazione amministrativa.
In un caso Kavanaugh, nel dissentire dal giudizio di inammissibilità su un ricorso riguardante la regolazione delle emissioni di gas serra, si è opposto al tentativo dell’EPA di adattare il testo di una legge del 1970, il Clean Air Act, per consentire la regolazione di una problematica ambientale che il Congresso non avrebbe potuto prevedere al tempo dell’emanazione della stessa, concludendo che l'EPA aveva ecceduto la sua autorità: secondo il giudice, «agencies presumably could adopt absurd or otherwise unreasonable interpretations of statutory provisions and then edit other statutory provisions to mitigate the unreasonableness». La Corte Suprema, con una maggioranza guidata da Scalia, nel rovesciare il verdetto, avrebbe preso le mosse dagli argomenti di Kavanaugh per sostenere che il Clean Air Act non autorizzava l'EPA a imporre alle fonti stazionarie di gas il previo ottenimento di autorizzazioni basate unicamente sulle emissioni prodotte.
In un altro caso il dissenso di Kavanaugh dalla maggioranza (che aveva sostenuto la decisione dell’EPA di non considerare i costi nel giudizio di proporzionalità – appropriate and necessary standard – in tema di regolazione delle centrali elettriche) sarebbe stato ripreso da Antonin Scalia, autore della sentenza con cui la Corte Suprema che avrebbe cassato quella decisione: «Put simply – aveva scritto Kavanaugh nel suo dissenso –  as a matter of common sense, common parlance, and common practice, determining whether it is “appropriate” to regulate requires consideration of costs».
Sebbene Kavanaugh non si sia sempre e sistematicamente pronunciato contro le misure dell’EPA (cfr. American Trucking Associations v. EPA 2010, National Mining Association v. McCarthy 2014, Natural Resources Defense Council v. EPA 2014) e abbia prediletto un approccio casistico, evitando attacchi frontali e sistematici alla dottrina Chevron sulla deferenza verso le interpretazioni delle agenzie, egli ha manifestato una chiara inclinazione a mitigare l’espansione delle autorità amministrative (conformemente alla tendenza ormai diffusa di rileggere criticamente la storia dello stato amministrativo americano). Conseguenziale è dunque lo stato di allerta in cui sono entrate le maggiori organizzazioni di protezione dell’ambiente dopo la nomina di Kavanaugh (v. ad esempio qui).
Per quanto concerne più in generale l’approccio al judicial review of administration, Kavanaugh è annoverabile tra i promotori della c.d. “major rules” doctrine, a tenore della quale, mentre le agenzie amministrative sono generalmente ritenute in possesso dell'autorità di emettere regole che risolvano ambiguità dell’atto di legge che delega loro il potere (e ciò in virtù della c.d. dottrina Chevron), le stesse possono adottare una regolazione importante (una major rule), ovvero una norma di grande significato economico e politico, solo a condizione che siano dotate di una puntuale autorizzazione del Congresso. La dottrina è notoriamente vista con favore dal Chief Justice Roberts, che ha improntato l’amministrazione della Corte Suprema a una forma di neutralismo scettico della funzione giudiziaria: a questa dottrina il giudice Roberts ha informato la decisione in King v. Burwell, 2015 (riguardante la riforma sanitaria voluta dall’amministrazione Obama), e la stessa è stata impiegata e spiegata dalla stesso Kavanaugh con un recente dissenso fatto registrare in un caso vertente sulla regolazione improntata alla c.d. net neutrality.
In un intervento tenuto nel 2017 alla Notre Dame Law School, Kavanaugh ha poi direttamente citato Roberts che nella sua confirmation hearings aveva paragonato il ruolo del giudice a quello di un arbitro di una partita di baseball.
Muovendo anche da queste considerazioni, dunque, secondo alcuni commentatori (v. qui v. qui), con la sostituzione di swinging Kennedy, potrebbe finalmente avviarsi il ciclo di una Corte Roberts.

4.Su un altro versante, risulta ancora difficile, all’indomani del suo ritiro, destreggiarsi tra le letture sull’eredità della giurisprudenza del giudice Kennedy, da un lato caratterizzata dalle monumentali tappe nella lotta per i diritti civili firmate dalla sua penna, e dall’altro sempre molto legata alle politiche del Partito Repubblicano.
Le reazioni dall’area progressista alla notizia delle sue dimissioni hanno oscillato tra lo sconforto e il disincanto. Ma il sentimento di gran lunga dominante all’indomani della nomina di Brett Kavanaugh è la preoccupazione verso la tenuta del principio di diritto dichiarato nella sentenza Roe vs. Wade (1973) sul diritto all’interruzione di gravidanza, il cui totale overruling è stato più volte evitato proprio dal giudice Kennedy.
Particolare attenzione sta ad esempio destando il caso Garza v. Hargan, che prende le mosse dalla vicenda di una minorenne incinta e senza documenti, in custodia per violazione della legge sull’immigrazione irregolare, che voleva interrompere la gravidanza ma aveva incontrato il diniego dei suoi tutori nominati dall’amministrazione. Davanti alla decisione della Corte federale (ottobre 2017) di rimettere a quella distrettuale l’esecuzione di un’ingiunzione che permettesse all’adolescente di ottenere l’aborto, il giudice Kavanaugh, sostenendo invece l’opportunità di annullare quell’ordine, ha dichiarato che una simile pronuncia è fondamentalmente basata «on a constitutional principle as novel as it is wrong: a new right for unlawful immigrant minors in U.S. Government detention to obtain immediate abortion on demand».
Da parte dei senatori Democratici si avanza in queste ore l’ipotesi di interrompere la prassi secondo cui, in sede di confirmation hearings, non si interrogano i giudici nominati su come deciderebbero uno specifico caso. Il leader della minoranza al Senato, Chuck Schumer,  sembra infatti intenzionato a rivolgere una netta domanda: «Do you support a woman’s constitutional right to an abortion, and will you vote to overturn the 1973 decision that guaranteed it nationwide, Roe v. Wade?».

5.Quanto alla tecnica interpretativa, nel citato intervento alla Notre Dame Law School, Kavanaugh ha chiarito la sua visione di giudice neutrale, in parte discostandosi dall’approccio puramente scettico sposato dal giudice Roberts. Secondo Kavanaugh, «[s]everal substantive canons of statutory interpretation, such as constitutional avoidance, legislative history, and Chevron, depend on an initial determination of whether the text is clear or ambiguous»; ma, piuttosto che sforzarsi di capire se una legge è chiara o ambigua, «judges should strive to find the best reading of the statute, based on the words, context, and appropriate semantic canons of construction».
Recensendo il libro di Robert Katzmann (Judging Statutes, Oxford University Press, 2014), Kavanaugh ha poi criticato il favore dell’autore verso l’impiego della storia legislativa per interpretare le leggi, ritenendo invece che «the decision whether to resort to legislative history is often indeterminate», e che  l'uso della storia legislativa dovrebbe «largely limited to helping answer the question of whether the literal reading of the statute produces an absurdity».
Questo approccio è stato seguito da Kavanaugh nella sua attività giudiziaria. Ad esempio, in Heller vs. District of Columbia (2011) – un caso riguardante una legge adottata dopo che nel 2008 la Corte Suprema, guidata da Scalia, aveva dichiarato incostituzionale una precedente regolazione di armi da fuoco – Kavanaugh ha dissentito dalla maggioranza per aver applicato uno scrutinio talmente amplio da arrivare ad ammettere la validità della legge: secondo Kavanaugh, invece, Scalia e la Corte Suprema avevano lasciato «little doubt that courts are to assess gun bans and regulations based on text, history, and tradition, not by a balancing test such as strict or intermediate scrutiny».
Nelle dichiarazioni successive alla presentazione della sua nomina, Kavanaugh si è quindi affrettato a ribadire il mantra secondo cui il giudice «should interpret the law, not make the law» (3’20’’).

6.Dalla già vastissima produzione giurisprudenziale di Kavanaugh (per alcuni dati statistici v. qui) non sembrano emergere orientamenti ben consolidati in materia di diritti civili, libertà d’espressione e diritto penale.
L’ingente dimensione del fascicolo che lo riguarda, in ogni caso, lascia supporre che il Senato impiegherà non pochi mesi per preparare la confirmation hearing.


Le finzioni di Marbury vs. Madison e la rule of law d’America

Note in margine a una rilettura di Paul W. Kahn, The  Reign  of  Law  -  Marbury  v.  Madison  and  the Construction  of  America  (Yale  University  Press,  New  Haven/London, 1997,  XII-306)