Michele Carducci
Le affinità “emissive”. La giurisprudenza comparata destinata a incidere sul contenzioso climatico italiano
Com’è noto, in Italia pendono due contenziosi climatici «propriamente» strategici, ossia fondati sulla tutela dei diritti umani nei riguardi di Stati o imprese, che non provvedono alla mitigazione dei gas serra in funzione dell’eliminazione di danni, presenti e futuri, alla persona (su questa proposta classificatoria, si v. A. Pisanò, L’evoluzione dei contenziosi climatici nei Report UNEP (2017-2023) e Elementi per una definizione dei contenziosi climatici «propriamente» strategici).
Si tratta delle azioni civili, avviate da associazioni e singoli, verso lo Stato italiano e verso l’impresa multinazionale dell’Oil & gas ENI, entrambe pendenti davanti al Tribunale civile di Roma. La prima, identificata con l’intestazione “Giudizio Universale”, è stata già decisa in primo grado, con una sentenza di inammissibilità per difetto assoluto di giurisdizione. La seconda, denominata “La Giusta Causa”, è stata rimessa, su istanza degli attori, alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, per regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell’art. 41 c.p.c. (si legga il ricorso qui), proprio allo scopo di affidare al supremo giudice italiano la risposta sulla praticabilità o meno del contenzioso climatico in Italia.
Del resto, nel nostro contesto, il punto focale resta quello della giurisdizione: esiste un giudice per la materia climatica?
Stando alla sentenza di “Giudizio Universale”, la risposta sarebbe negativa per quattro ragioni;
- per assenza di «una obbligazione dello Stato (di natura civile coercibile da parte del singolo) di ridurre le emissioni nel senso voluto dagli attori»,
- per constatazione che «l’interesse invocato dagli attori non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati»
- per il fatto che «le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico – che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana – rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio»,
- per l’esistenza di «atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione, indubbiamente emergenziale, del cambiamento climatico antropogenico» (il testo della sentenza è scaricabile qui).
Questo ordito argomentativo è stato oggetto di diffuse critiche (in questo blog, si v. Cecchi, Il Giudizio (o Silenzio?) Universale: una sentenza che non farà la storia).
Tuttavia, proprio a cavallo della sentenza di primo grado del Tribunale romano, sono maturate novità giurisprudenziali – internazionali, europee e nazionali – destinate a segnare per sempre il futuro del contenzioso climatico italiano, in ragione della loro portata generale. Esse, infatti, rispondono ai cinque interrogativi giuridici, costitutivi della lotta al cambiamento climatico: quali caratteristiche presenta il sistema delle fonti del diritto climatico; che cos’è l’obbligazione climatica; in che cosa consiste la mitigazione climatica; che cos’è l’emergenza climatica; quali sono i fatti non contestati dagli Stati in questo campo di azione.
Gli arresti giurisprudenziali di risposta sono in tutto otto, di cui gli ultimi tre provenienti dalla Corte costituzionale italiana. Per tale motivo, se ne offre una sintetica rappresentazione, nella divisione i due blocchi.
I primi cinque sono i seguenti.
a)
La sentenza CEDU sul caso “Agostinho Duarte et al.”.
Con questa decisione, la Corte europea ha affermato che il giudice naturale della responsabilità statale sulla mitigazione climatica è quello nazionale, a meno che il sistema costituzionale e legislativo domestico escluda espressamente la responsabilità extracontrattuale dello Stato, giustificando l’accesso per saltum a Strasburgo. In questo contenzioso, l’Italia è stata parte convenuta, argomentando, congiuntamente con gli altri Stati, l’accessibilità al contenzioso climatico italiano, negato invece in Italia (cfr. §§ 84 ss. della sentenza e, in dottrina, il commento di Bruno, Contenziosi climatici e la doppia verità dell’Avvocatura dello Stato).
b)
La sentenza CEDU sul caso “Verein KlimaSeniorinnen” (su cui, in questo blog, si v. Guarna Assanti, Verein KlimaSeniorinnen and others v. Switzerland: una conferma del ruolo fondamentale dei diritti umani per la tutela del clima).
Essa risponde a tutte e cinque le domande elencate, spiegando, alla luce dell’art. 8 CEDU:
- la differenza tra sistema del diritto ambientale e sistema del diritto climatico nonché tra causalità ambientale e causalità climatica (in merito, si v. Giaccardi, Dalla causalità ambientale a quella climatica);
- i caratteri dell’emergenza climatica come “fatto dannoso” già in corso (dunque ingiusto), idoneo a integrare i contenuti dell’obbligazione climatica;
- i contenuti dell’obbligazione climatica, da individuare non nella mera mitigazione (com’era nel Protocollo di Kyoto), per di più senza vincoli di tempo e scopo (come sostenuto dal Tribunale di Roma), bensì nell’eliminazione del pericolo dentro le soglie (quantitativo-temporali) dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi e del conseguente obiettivo di stabilizzazione del sistema climatico, richiesto dall’art. 2 UNFCCC (parametri normativi di fondazione del § 550, che elenca i limiti esterni al margine di apprezzamento degli Stati);
- la conseguente mitigazione come condotta materiale finalizzata a evitare danni irreversibili nel presente e nel futuro (e non semplicemente a ridurre le emissioni, come ritenuto, invece, dal Tribunale di Roma);
- la proiezione necessariamente intergenerazionale della stessa;
- l’esistenza di fatti non contestati da tutti gli Stati in sede di COP (a partire dal c.d. “Global Stocktake” di COP28: cfr. §§ 139-140) e di IPCC, da porre a base degli accertamenti giudiziali.
Anche in questo giudizio ha preso parte lo Stato italiano per intervento volontario, argomentando l’insindacabilità assoluta delle scelte nazionali (rigettata dalla Corte), ma senza contestare le risultanze fattuali dell’IPCC e delle COP (utilizzate dalla Corte: cfr. §§ 370 e 429 ss.).
c)
La sentenza della Corte di Giustizia UE sul “caso ex Ilva” (Causa C-626/22).
In essa, si chiarisce che il parametro giuridico europeo in tema di emissioni (industriali e quindi sia inquinanti che climalteranti) è dato dal combinato disposto degli artt. 35 e 37 CDFUE, da cui deriva che qualsiasi decisione deve avere contenuto di prevenzione degli impatti sia ambientali che sanitari, tenendo conto della “nocività” delle emissioni non solo alla luce delle indicazioni normative, ma anche di quelle scientifiche, ai fini appunto della “elevata protezione” della salute e per evitare danni nel presente e nel futuro (se ne è proposto un breve commento qui).
d)
L’ordinanza delle Sezioni Unite dalla Corte di cassazione civile, n. 5668/2023, in tema sempre di inquinamento, nello specifico atmosferico dunque da combustione fossile.
Questa pronuncia riconosce che il diritto alla salute non tollera mai compressioni neppure da parte dei pubblici poteri, sicché la giurisdizione a sua tutela spetta al giudice ordinario, chiarendo altresì, attraverso il ricorso all’analogia con le “immissioni intollerabili” regolate dall’art. 844 Cod. civ., che l’attività emissiva si qualifica nociva, anche ove conforme a norme o atti, allorquando derivi da un comportamento materiale dei poteri pubblici, negligente nel considerare tutti i fattori incidenti negativamente sulla salute umana e, dunque, omissivo nella precauzione necessaria a evitare danni (in merito, si v. il commento di Vaira, Il danno alla salute da inquinamento atmosferico e l’omessa adozione di provvedimenti da parte della p.a. per la tutela dell’ambiente).
e)
L’opinione consultiva dell’ITLOS n. 31/2024, in tema di obblighi di protezione degli Stati sul mare rispetto ai cambiamenti climatici.
Anche in questo atto si conferma che l’obbligazione climatica è da imputare ai singoli Stati, al fine di proteggere i propri territori dall’interazione tra cambiamento climatico e inquinamento, sempre allo scopo di prevenire ed evitare danni irreversibili, in un quadro di fonti di tutela ambientale (nel caso specifico, riferite al mare) da leggere in combinato disposto con le fonti internazionali climatiche (si v. il commento di Belendi-Schiano di Pepe, Il parere consultivo del Tribunale internazionale per il diritto del mare in materia di cambiamento climatico).
Le cinque decisioni elencate presentano diversi elementi in comune:
- cambiamento climatico e inquinamento sono inquadrati come due facce della stessa medaglia;
- l’obbligazione climatica serve a entrambe per proteggere, ossia per evitare danni, e non solo per mitigare;
- le emissioni – di qualsiasi natura essere siano – identificano un problema di tutela della salute umana e non solo dell’ambiente, a maggior ragione quando la loro “nocività” è suffragata dalla scienza;
- in Italia, i parametri normativi di tutela (e quindi di interesse) esistono e sono costituzionali (art. 32 Cost.), convenzionali (art. 8 CEDU), unionali (artt. 35 e 37 CDFUE da applicare sempre congiuntamente) e persino internazionali (Convenzioni da leggere in combinato disposto, come spiega ITLOS);
- la Due Diligence statale risiede nella prevenzione intertemporale e intergenerazionale sui danni (a maggior ragione se irreversibili: interessanti, in merito, i commenti di Trivi, Cambiamento climatico e inquinamento, alla luce di sei recenti decisioni giudiziali, e Catalogo aperto delle emissioni pericolose e tutela della persona tra diritto interno ed europeo);
- di conseguenza, l’obbligazione climatica si manifesta come una prestazione protettiva (appunto di Due Diligence) a “pluralità di fondamenti” (diritto climatico internazionale, altre fonti internazionali, diritto UE e CEDU, Costituzione), in conformità, per l’ordinamento civilistico italiano, con quanto ammesso dall’art. 1173 Cod. civ. (sull’ammissibilità di “prestazioni a pluralità di fondamenti” ai sensi dell’art. 1173, cfr. Petronio, Fonti delle obbligazioni).
A queste cinque decisioni si devono aggiungere tre sentenze della Corte costituzionale, ineludibili per la lettura (e contestualizzazione) delle precedenti nell’ordinamento interno.
Si elencano anche queste.
f)
La n. 7/2024, § 13.1 in diritto.
Essa spiega – a conferma dei precedenti – che il giudice comune è vincolato, ex art. 117 c.1 Cost., alla CEDU così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, potendosi emancipare da tale vincolo solo per via di questione di legittimità costituzionale, mentre le decisioni non giurisdizionali internazionali – come potrebbero essere il parere ITLOS e quelle dei Comitati ONU in materia climatica – restano interposte ex art. 117 c.1 Cost. ma non vincolanti per il giudice comune, interrogandolo solo sulla loro interpretazione rispetto alle leggi interne.
g)
La n. 15/2024, ai §§ da 7.3 a 8.3.
Questa importantissima decisione risolve contemporaneamente un conflitto di attribuzione fra ente politico (Regione) e potere giurisdizionale, in ordine all’ammissibilità di condanne giudiziali di facere, e una questione di legittimità costituzionale delle fonti sul facere per contrasto con la CDFUE (abilitando la c.d. “inversione della doppia pregiudizialità”) (per un sintetico commento, si v. Scarcello, Un altro passo nel processo di riaccentramento del sindacato di costituzionalità eurounitario), responsabilizzando il giudice comune nella lettura della struttura plurale dei parametri dell’azione a tutela dei diritti.
h)
La n. 105/2024 spec. al § 5.1.2.
In essa, si parla di un nuovo “mandato costitizionale” di protezione ambientale intergenerazionale, contenuto nei riformati artt. 9 e 41 Cost., di fatto equivalente al «beneficio della presente e delle future generazioni» previsto dall’UNFCCC per la mitigazione climatica, dalla Corte EDU applicato nel cit. caso “Verein KlimaSeniorinnen”. Tale “mandato” vincola esplicitamente tutte le pubbliche autorità, affinché attivino decisioni intertemporali volte a non recare danno alla salute e all’ambiente e a garantire nel tempo il neminem laedere (se ne è offerto un breve commento qui).
A questo punto, ecco tracciato il nuovo panorama giurisprudenziale complessivo. Inedite coordinate lo contraddistinguono, tutte ruotanti sul facere a tutela dei diritti e sul ruolo del giudice nel sindacare le attività emissive antropogeniche, in nome appunto di quei diritti e sulla base di plurimi parametri: dagli artt. 35 e 37 CDFUE (che intrecciano la Costituzione e vincolano il giudice comune), dall’art. 8 CEDU (anch’esso vincolante nelle interpretazioni della Corte di Strasburgo), dalla Costituzione stessa (contenente, ora, un esplicito “mandato” di protezione intergenerazionale per non recare danni alla salute e all’ambiente), da altre fonti (come spiegato dall’ITLOS).
Da queste coordinate, l’obbligazione di mitigazione climatica emerge nitida e incontestabile: si tratta di dovere di eliminazione di danni presenti e futuri, non certo di indefinita mera riduzione delle emissioni, di fronte a fatti dannosi (ingiusti) non contestati dagli Stati, come quelli ricavabili dalle COP e dall’IPCC (in merito, si v. Cardelli, Se gli Stati riconoscono di sbagliare sul clima), soddisfacendo in pieno le condizioni di identificazione italiana delle fonti – come atti e come fatti – delle obbligazioni civili, di cui all’art. 1173 Cod. civ
Di conseguenza, con queste coordinate e con questi fatti non contestati qualsiasi prospettazione giudiziale dovrà fare i conti, d’ora in poi.
11 Luglio 2024
L’installazione “ex Ilva” dopo la sentenza della Corte di giustizia UE: le emissioni climalteranti tra interesse “strategico” e generazioni future
In data 25 giugno 2024, è stata pubblicata l’attesa decisione della Corte di giustizia della UE sui c.d. “decreti salva Ilva” (Causa C-626/22). Rispondendo a tre quesiti pregiudiziali del Tribunale per le imprese di Milano, dove pende la prima class action italiana contro il colosso siderurgico (per una ricostruzione, si v. F. Laus, La saga Ilva all’attenzione della Corte di Giustizia), il Giudice lussemburghese ha sostanzialmente bocciato, perché contrarie al diritto europeo, le «ripetute proroghe» italiane delle attività industriali (appunto i c.d. “decreti salva Ilva”), in presenza di «individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana», affermando non solo la doverosità del riesame dell’autorizzazione all’esercizio dell’installazione considerando, «oltre alle sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi, tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale», ma anche la possibilità di sospensione delle attività, in assenza di siffatte verifiche o di riscontri problematici per la tutela della salute e dell’ambiente.
È una sconfitta sonora su tutti e quattro i fronti delle difese dello Stato italiano e dei privati convenuti (Ilva Spa in Amministrazione Straordinaria, Acciaierie d’Italia Holding Spa, Acciaierie d’Italia Spa):
- quello di reputare l’attività privata “ex Ilva” sottratta agli obblighi europei, perché contenuti in direttive vincolanti solo gli Stati;
- quello dell’invocazione del bilanciamento, avallato dalla Corte costituzionale nella famosa decisione n. 85/2013, per giustificare che «l’adozione delle norme speciali applicabili all’Ilva deriverebbe da una ponderazione tra gli interessi in gioco, vale a dire la protezione dell’ambiente, da un lato, e quella dell’occupazione, dall’altro» (come si legge in sintesi al par. 129 della sentenza);
- quello dell’inquadramento riduzionistico della “protezione dell’ambiente” ai soli profili emissivi indicati in autorizzazione, senza alcuna considerazione del fatto che «i grandi impianti di combustione contribuiscono considerevolmente all’emissione di sostanze inquinanti nell’atmosfera, che hanno gravi ripercussioni sulla salute umana», e non solo sull’ambiente, come pur dichiarato dalla normativa europea;
- quello consequenziale di escludere dai presupposti dei provvedimenti nazionali tanto il danno sanitario “reale” quanto gli impatti anche solo “potenziali” sulla salute umana, nonostante la condanna già ricevuta, sempre sulla vicenda “ex Ilva”, dalla Corte europea dei diritti umani (sentenza “Cordella et al.” del 2019), in forza proprio di studi scientifici su quegli impatti reali e potenziali (sulla giurisprudenza della Corte si v. in questo blog Greco).
Il primo fronte di difesa è stato facilmente demolito dalla Corte di giustizia, in ragione del fatto che, nel diritto europeo, sono assimilabili a uno Stato membro anche gli «organismi o entità, anche se disciplinati dal diritto privato, che sono soggetti all’autorità o al controllo di un’autorità pubblica o che sono stati incaricati da uno Stato membro di svolgere un compito di interesse pubblico», a maggior ragione se rubricato come “strategico” (par. 60 ss.). L’ “interesse strategico nazionale”, da formula magica cavalcata dal legislatore italiano per legittimare il regime derogatorio del siderurgico tarantino, è degradato a boomerang, tradotto nel motivo della sottoposizione dell’impresa a tutti i vincoli europei.
Sugli altri tre fronti, il giudice unionale smantella l’uso aziendale del bilanciamento costituzionale, dai più abusato in quest’ultimo decennio di agonia tarantina (su cui, si v. un accenno in Carducci, La fine dell’uso “aziendale” della Costituzione nella saga ex Ilva). Tale bilanciamento, infatti, deve fare i conti con il parametro unitario degli artt. 35 e 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Se l’art. 35 stabilisce che deve essere garantito un «livello elevato di protezione» della salute umana, lo stesso criterio è indicato dall’art. 37, per la tutela dell’ambiente. Pertanto, il bilanciamento serve ad “elevare” la tutela di salute e ambiente, non ad annichilirla o a sostituirla, come piattamente rivendicato dalla vulgata statale.
Per i grandi impianti di combustione che contribuiscono considerevolmente all’emissione di sostanze inquinanti, la “elevazione” della protezione si apprende dai paragrafi 109-122 della sentenza:
- è indispensabile un approccio di prevenzione,
- che valuti tutti gli «effetti significativi delle emissioni sull’ambiente»,
- tenendo conto «di tutte le fonti di inquinanti e del loro effetto cumulativo»,
- e che assuma come «oggetto», oltre alle «sostanze inquinanti prevedibili tenuto conto della natura e della tipologia dell’attività industriale di cui trattasi», anche «tutte quelle oggetto di emissioni scientificamente note come nocive che possono essere emesse dall’installazione interessata, comprese quelle generate da tale attività che non siano state valutate nel procedimento di autorizzazione iniziale di tale installazione».
La nitida distinzione tra “fonti di inquinanti”, “sostanze”, “emissioni” ed “effetti significativi delle emissioni sull’ambiente” è determinante. Essa non consiste in una classificazione tassativa o formalisticamente chiusa dentro il procedimento di autorizzazione inziale. Diventa totalmente aperta, in nome appunto del duplice «livello elevato di protezione» della salute e dell’ambiente, a «tutte [le sostanze] oggetto di emissioni scientificamente note come nocive».
È questa la più significativa novità della sentenza. Una clausola onnicomprensiva e includente è abilitata dalla Corte per favorire una lettura della questione delle emissioni industriali, da parte dei giudici nazionali, non più appiattita sul riduzionismo delle singole discipline di settore.
Ma allora quali sono «tutte [le sostanze] oggetto di emissioni scientificamente note come nocive»?
La risposta non può che essere triplice, nella conformità con il riparto di competenze ex artt. 4, 191 e 193 TFUE. “Tutte” significa:
- quelle già previste come nocive, dunque dannose, dalle fonti europee, anche quando non riguardanti i parametri dello specifico provvedimento autorizzatorio;
- quelle che la scienza rende “note” come dannose;
- infine quelle che il diritto interno, in nome del medesimo duplice «livello elevato di protezione» della salute e dell’ambiente, contempla come dannose, in aggiunta (aggiunta ammessa dall’art. 193 TFUE) al diritto europeo.
Da quel “tutte”, quindi, non si può escludere nulla; neppure le “sostanze” oggetto di emissioni climalteranti, ovvero i gas serra (in primis, CO2 e CH4)
Il dato scandisce una constatazione significativa per il prosieguo del contenzioso davanti al Tribunale di Milano, dove i ricorrenti hanno lamentato – tra gli altri diritti lesi – quello umano al clima stabile e sicuro (come ricordato dalla stessa Corte di giustizia nel suo paragrafo 37), vincolando di conseguenza il giudice, in forza dell’art. 112 Cod. proc. civ., a esprimersi in merito.
I gas serra industriali sono sostanze “nocive” all’ambiente e alla salute.
Lo dice inequivocabilmente la scienza, con i Report dell’IPCC, dato che essi alterano la loro concentrazione atmosferica, destabilizzando il sistema climatico e proiettandolo oltre le soglie di sicurezza, fissate dagli Stati nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015.
Lo dicono gli Stati, che alla COP28 del 2023 si sono impegnati ad abbandonarli.
Lo ammette anche il diritto europeo, dopo l’introduzione del principio DNSH (Do No Significant Harm), riaggiornato dai Regolamenti UE nn. 2020/852 e 2021/241, proprio in funzione della lotta al cambiamento climatico antropogenico, spiegando che il carattere “significativo” dell’effetto emissivo deve sempre essere rapportato anche «al fine di individuare il grado di ecosostenibilità di un investimento» (come quelli di cui ha bisogno l’installazione tarantina), ai criteri elencati dall’art. 3 del cit. Reg. 853.
Ma lo conferma pure l’ordinamento italiano, in particolare con la “Guida operativa per il rispetto del principio di non arrecare danno significativo all’ambiente”, adottata dalla Presidenza del Consiglio e allegata alla Circolare n. 22 del 14 maggio 2024, dove le fonti fossili sono escluse dalla compatibilità con il suddetto principio DNSH.
E lo fa proprio persino la Soft Law delle Linee Guida OCSE, applicabili alle imprese come quelle di Taranto in virtù del c.d. “nexus Stato-Imprese” stabilito dal Piano d’azione nazionale su impresa e diritti umani, con l’aggiornamento 2023 della Due Diligence sugli impatti climatici negativi, anche solo potenziali, parametrati agli scenari di sicurezza dell’art. 2 dell’Accordo di Parigi.
Insomma, la valutazione preventiva dell’installazione “ex Ilva” o sarà olistica o non sarà; e, nell’essere olistica, non potrà non essere anche climatica.
Non esistono alternative a questo sbocco. Dopo questa sentenza, un esito differente risulterebbe formalmente illegittimo e inadeguato: illegittimo perché antieuropeo, visto che, in nome dell’attuazione del diritto europeo a garanzia della “elevata protezione” di salute e ambiente, si pretenderebbe di escludere le “sostanze” climalteranti, esplicito ostacolo di tale garanzia; inadeguato perché materialmente schizofrenico, come, tra l’altro, fatto presente da una recente, importante decisione della Corte suprema del Regno Unito, nel caso “R. (Appellant) v Surrey County Council and others” del 20 giugno 2024, pretendendo di considerare settoriali impatti ambientali e sanitari nell’omissione delle “sostanze” destabilizzanti il sistema climatico che li include.
Invero, sarebbe pure incostituzionale e in violazione della CEDU, se solo si pone attenzione a due importanti sentenze, quasi coeve a quella della Corte di Lussemburgo:
- la decisione della Corte costituzionale n. 105/2024, che affida a soggetti pubblici e privati il “mandato” di coniugare i riformati artt. 9 e 41 Cost. in prospettiva intergenerazionale per non «recare danno alla salute e all’ambiente» (in merito, rinvio a Carducci, Il duplice “mandato” ambientale);
- il famoso caso “climatico” Verein KlimaSeniorinnen (ricorso n. 53600/20), che nella medesima proiezione colloca proprio quell’art. 8 CEDU, già utilizzato nel citato caso “Cordella”, nella situazione di fatto dell’emergenza climatica in corso (cfr. per una sintesi, F. Gallarati, Il costituzionalismo climatico dopo KlimaSeniorinnen e in questo blog Guarna Assanti).
Il “combinato disposto” delle tre sentenze supreme (Corte UE, Corte EDU e Corte costituzionale) è convergente: se davvero si deve decidere sul futuro dell’installazione “ex Ilva” in nome della “elevata protezione” della salute e dell’ambiente, quel futuro non può estromettere gli impatti climatici e l’interesse anche delle generazioni future.
27 Giugno 2024
Diritto umano al clima e innaturalità del bilanciamento in situazione di “minaccia esistenziale”
Una recente decisione della Corte Suprema dello Stato delle Hawaii (Scot-22-0000418 Appeal Docket No. 2017-0122 march 13, 2023, consultabile qui) offre spunti interessanti di riflessione sul tema dell’esistenza o meno di un diritto umano al clima stabile e sicuro e sulla sua bilanciabilità con altri diritti o interessi; questione, com’è noto, dibattuta anche in Italia (cfr., per tutti, i diversi studi di A. Pisanò, a partire dalla monografia Diritto al clima).
Il caso posto all’attenzione dei giudici hawaiani riguardava un progetto di impianto a biomassa, respinto dall’autorità amministrativa competente (la Public Utilities Commission) per il fatto di non garantire la neutralità climatica dell’opera (ovvero lo stato di equilibrio, all’interno di tutto il processo produttivo, tra emissioni di gas serra e loro rimozione) e dunque di non coniugare la transizione “energetica” come effettiva transizione “ecologica” per la stabilizzazione del sistema climatico locale.
I giudici di appello hanno confermato la legittimità della decisione, non solo richiamando la Costituzione dello Stato, il cui art. XI, Sezione 1, dispone che i poteri pubblici custodiscono e proteggono tutte le risorse naturali dell’isola a beneficio della presente e delle future generazioni, ma escludendo anche qualsiasi bilanciamento assiologico o economico tra costi e benefici dell’iniziativa proposta, a favore della priorità da accordate alla dipendenza biofisica di ciascun abitante isolano dalla stabilità del sistema climatico locale, unico bene giuridico da tutelare senza compromessi.
In questo modo, il diritto a un ambiente salubre, scandito in Costituzione alla Sezione 9 del medesimo articolo, è stato esplicitato, con opinione concorrente del Justice Michael Wilson, come diritto di ciascuno a un «sistema climatico in grado di sostenere la vita» (right to a life-sustaining climate system), prevalente su (e non bilanciabile con) qualsiasi altro diritto o interesse in ragione della natura di «minaccia esistenziale» dell’emergenza climatica, riconosciuta dalla scienza e dichiarata pure dallo Stato hawaiano.
È la prima volta che un giudice, chiamato a decidere su questioni di transizione “energetica” ed “ecologica”, si esprime con un lessico così netto sulla questione del bilanciamento di diritti e interessi rispetto al carattere esistenziale della minaccia dell’emergenza climatica.
Ma che cosa significano «sistema climatico in grado di sostenere la vita» e «minaccia esistenziale»?
L’interrogativo interessa anche noi europei, perché il termine “minaccia esistenziale” ricorre in tutti i documenti fondativi del Green Deal della UE nella lotta appunto all’emergenza climatica (per una ricostruzione di questa ricorrenza, si v. M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente).
Quest’ultima formula linguistica non è sinonimo di rischio o di pericolo: significa, purtroppo, Endgame, partita finale tra condizioni della vita umana e condizioni geofisiche e biofisiche del sistema climatico, da cui la vita umana dipende (si v., in merito, L. Kemp et al., Climate Endgame. Exploring Catastrophic Climate Change Scenarios).
Le scienze del sistema terrestre (dalla biofisica all’epigenetica all’ecologia ecc…) lo hanno evidenziato su due fronti: in primo luogo, rivoluzionando il paradigma epistemico della salute umana con l’approccio di analisi “One Health-Planetary Health” (la salute umana è un tutt’uno con gli equilibri della biosfera e delle altre sfere terrestri), accolto ora non solo dall’ONU (con la c.d. “Tripartite+“, le iniziative dell’UNFCCC – la Convenzione quadro sul cambiamento climatico – e le ricognizioni dell’IPCC – il Panel intergovernativo sul cambiamento climatico), ma anche dalla UE (con il Planetary Health European Hub) e dall’Italia (con il c.d. SNPS); in secondo luogo, iniziando a studiare i c.d. “Tipping Point esistenziali” dell’essere umano.
Quest’ultimo campo apre alla comprensione del costrutto «sistema climatico in grado di sostenere la vita».
La letteratura scientifica sta constatando sempre più dettagliatamente come l’accelerazione dell’emergenza climatica incida non solo sul piano geofisico (con i “Tipping Point” del sistema climatico, ossia la destabilizzazione irrimediabile delle fondamentali dinamiche che supportano i processi del pianeta, come le correnti marine, i cicli del carbonio, i flussi di energia e materia ecc…), ma pure su quello biofisico (i “Tipping Point” appunto “esistenziali” che colpiscono la vita umana nella qualità dei suoi contenuti di sopravvivenza o di loro patogenesi).
Purtroppo, il primo “Tipping Point esistenziale” è stato ufficializzato di recente dall’ONU, in occasione della UN 2023 Water Conference: nel 2030 (ossia fra soli 7 anni), la domanda di acqua potabile supererà del 40% l’offerta di risorse idriche potabili naturali, compromesse dall’emergenza climatica. Questa forbice è una media, il che significa che è ubiqua nel suo manifestarsi ed è destinata solo ad aumentare: da qui il “Tipping Point”, il non ritorno.
I “Tipping Point esistenziali”, quindi, descrivono una regressione irreversibile della condizione quotidiana di esistenza di ciascun singolo individuo umano, indipendentemente se ricco o povero, se del nord o sud del mondo. In altre parole, tracciano i percorsi di perdita di qualità (e dignità) quotidiana della vita a causa del degrado altrettanto irreversibile del sistema climatico.
Molte di queste regressioni sono ormai prevedibili perché certe nella termodinamica del pianeta e, sciaguratamente, alcune di esse risultano ormai inevitabili (come nel caso dell’acqua potabile naturale). Sulla scorta di simili prospettive, confermate anche dal recente “Synthesis Report Climate Change 2023” dell’IPCC, si parla anche di “rischi esistenziali” e non più soltanto “sistemici”: rischi personali di ciascuno. The Existential Risk Space of Climate Change è il primo studio che prova a misurarne le manifestazioni spaziali. L’Università di Cambridge è la prima ad aver istituito un centro specializzato in questo genere di ricerche: il Center for the Study of Existential Risk.
Anche nella letteratura giuridica alcuni, pochi, se ne stanno rendendo conto, evocando la “rottura dell’Antropocene” per spiegare che è finita l’era della pressione umana sulla Terra e della “società del rischio”, perché saranno i “Tipping Point” del sistema climatico a premere sempre più frequentemente e pesantemente sugli esseri umani, sottoponendoli non più al “rischio” bensì alla irreversibilità dei “Tipping” della qualità della loro vita (R.E. Kim, Taming Gaia 2.0: Earth System Law in the Ruptured Anthropocene).
Orbene, la notorietà del bad-to-worst scenario ha spinto per la rivendicazione del diritto umano a un sistema climatico stabilizzato e sicuro in quanto situazione giuridica specifica non negoziabile per evitare appunto la regressione (si v., per esempio, la Declaration del Global Network for Human Rights and the Environment). Secondo alcuni, un così congegnato ordito disvelerebbe il carattere “adespota” o non esclusivamente individuale della pretesa (cfr., per esempio, S. Vincre, A. Henke, in One Health. Dal paradigma alle implicazioni giuridiche). L’evidenza scientifica sui “Tipping Point esistenziali”, tuttavia, consegna conclusioni opposte. Ci dice che tali “Tipping”, in quanto biofisici e non solo geofisici, sono propriamente individuali e non affatto indistintamente collettivi, colpendo, la regressione, ciascun singolo soggetto nella misura del suo incomparabile ed esclusivo metabolismo di materia ed energia con il sistema climatico circostante (si pensi, per esempio, al c.d. “Heat Index” che quantifica la capacità individuale di sopportazione degli stress climatici: cfr. L.R. Vargas Zappetello et al., Probabilistic Projections of Increased Heat Stress Driven by Climate Change). Detto in termini più semplici, i “Tipping Point esistenziali” riguardano tutti in modo irreversibile (per es. tutti noi avremo meno acqua potabile), ma il grado di gravità di tale regressione metabolica resta individuale, esattamente come avviene per l’altrettanto individuale salute del proprio corpo, oggetto del già riconosciuto “One Health-Planetary Health Approach”.
Ne consegue che negare dignità esistenziale al diritto umano al clima consumerebbe un’euristica tanto antiscientifica quanto contra naturam.
A questa euristica si sono opposti i giudici hawaiani, prendendo atto della impossibilità del bilanciamento tra questa esigenza umana al «sistema climatico in grado di sostenere la vita» e tutto il resto (inteso come altre pretese umane, altri interessi, altri valori, altri beni, altri diritti e così discorrendo nel profluvio delle invenzioni umane). D’altro canto, “tutto il resto” (le invenzioni umane, assiologiche o economiche che siano) dipende biofisicamente dal sistema climatico (che non è un’invenzione umana); di riflesso, non risulta esistenzialmente autonomo e separato da esso. Assumerne la bilanciabilità consumerebbe il vizio logico della c.d. implicazione inversa: una equivalenza tra fattori (stabilità del sistema climatico e “tutto il resto”) oggettivamente falsa riguardo all’ordine naturale della Terra.
Condurrebbe al paradosso del “suicidio” del bilanciamento stesso (G. Campeggio, L’emergenza climatica tra “sfera dell’insindacabile” e istituzioni suicide), garantendo magari la transizione “energetica”, ma non certo la transizione “ecologica”.
18 Aprile 2023
Stato di diritto, art. 28 Cost. e precedenti di contenzioso climatico nello spazio della UE
L’espandersi di contenziosi climatici contro gli Stati all’interno dell’Unione europea, con la prevalenza delle condanne giudiziali del convenuto al facere della mitigazione climatica sulla base dei migliori standard di metodo scientifico, sta aprendo inediti scenari di osservazione e riflessione sul tema del valore dei precedenti con riguardo alla responsabilità extracontrattuale statale per danni da cambiamento climatico (e, ora, da emergenza climatica) (cfr. Zarro).
In sintesi, da questi precedenti risulta che lo Stato convenuto: a) non gode di immunità giurisdizionale per le sue azioni od omissioni nella lotta al cambiamento climatico e, ora, all’emergenza climatica; b) soggiace a un principio di comuni ma differenziate responsabilità, che, non ammettendo obbligazioni alternative (nei termini, per esempio, dell’art. 1285 Cod. civ. italiano), si traduce in un unitario dovere di tutela preventiva dei diritti umani attraverso la protezione del sistema climatico del proprio territorio; c) è sindacabile dal giudice non sul piano degli atti e della loro forma, bensì su quello tecnico-scientifico dell’assenza o dell’inadeguatezza e non conformità delle misurazioni quantitative (pur richieste dalle fonti giuridiche climatiche) di mitigazione, su cui poi fondare qualsiasi atto formale; d) di conseguenza non può pararsi dietro la rivendicazione dell’atto politico (cfr. Magi) né può invocare casi fortuiti o cause di forza maggiore al fine di giustificare le conseguenze dannose – ormai scientificamente conosciute, dimostrabili, prevedibili ed evitabili – delle proprie condotte materiali.
Com’è noto, il “caso Urgenda”, per il fatto di essere giunto a sentenza definitiva di condanna dello Stato olandese, rappresenta l’apripista di questo orientamento giurisprudenziale, che altri giudici nazionali, dentro la UE, hanno deciso o stanno affrontando.
In particolare, da un recente Report della London School of Economics, risalente a fine 2022 (Setzer, Narulla et al.), risaltano tre evidenze significative: a) innanzitutto, i contenziosi climatici pendenti coinvolgono più della metà dei paesi europei (includendo anche Regno Unito e Svizzera); b) di essi, circa il 75% è rivolto ai poteri statali e si fonda sulla tutela dei diritti umani e fondamentali, alla luce delle rispettive Costituzioni; c) quelli già decisi sono prevalentemente di condanna dello Stato (per lo spazio UE, oltre al definitivo cit. “Urgenda”, si richiamano i casi Friends of the Irish Environment c. Irlanda, Klimaatzaak c. Belgio, Notre Affaire à Tous c. Francia, Commune d Grande-Synthe c. Francia, Neubauer et al. c. Germania, Klimaticka žaloba ČR c. Repubblica Ceca, tutti reperibili dalla banca dati del Sabin Center della Columbia University).
Il panorama rappresentato sollecita diversi spunti di riflessione.
Infatti, quello dei contenziosi climatici verso lo Stato è un caso giudiziale oggettivamente “paradigmatico” (sulla categoria dei “casi paradigmatici” nella dottrina dei precedenti, si v. Tesauro), dato che affronta un tema di “preoccupazione comune” dell’intera umanità (come recitano le fonti del diritto internazionale climatico), riguardante ineluttabilmente qualsiasi Stato e qualsiasi essere umano.
Dentro lo spazio giuridico dell’Unione europea, tuttavia, il caso “paradigmatico” si arricchisce di alcune “peculiarità”, che meritano considerazione.
In alcuni recenti commenti, si è già fatto riferimento a due di esse: a) il presupposto di fatto dell’azione (il cambiamento climatico degenerato in emergenza climatica), riconosciuto da un giudice di uno Stato membro come offensivo dei diritti della persona umana, difficilmente potrà essere disconosciuto da altro giudice di altro Stato membro della UE, se non a costo di consumare una palese disparità di trattamento fra cittadini dell’Unione e una manifesta illogicità fra presupposti di fatto comuni – l’emergenza climatica, tra l’altro dichiarata formalmente dalla UE – e tutele soggettive non necessariamente conseguenti (Bruno); b) il sempre più corale consenso giurisprudenziale internazionale sul rispetto dei principi internazionali del “No Harm” e del “neminem laedere”, nella lotta all’emergenza climatica, improbabilmente potrà essere contestato da giudici nazionali, tenuti comunque ad argomentare in buona fede le fonti di diritto internazionale generale e convenzionale (Motta).
A queste, se ne possono aggiungere altre cinque.
1) In primo luogo, l’Unione europea si fonda sui «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri» in materia di responsabilità civile (come si legge negli artt. 340 n. 2 del TFUE e 41 n. 3 della Carta di Nizza). Di questi principi comuni ovviamente è parte il “neminem laedere”, tanto da costituire base della disciplina comune europea del Regolamento c.d. “Roma II” (n. 864/2007), dei c.d. “Principles of European Tort Law” (PETL) e della responsabilità extracontrattuale degli Stati verso i loro cittadini per violazione del diritto europeo (cfr. Di Marco). Una volta che questo “principio comune” ha trovato applicazione pure in sede di contenzioso climatico verso uno Stato membro, apparirà irrazionale e illogico disconoscerlo al cospetto di altri Stati membri della UE, convenuti per altri contenziosi climatici dentro il medesimo spazio UE.
2) In secondo luogo, le fonti del diritto internazionale climatico, utilizzate nei contenziosi nazionali verso gli Stati membri della UE (in particolare, la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici del 1992 e l’Accordo di Parigi sul clima del 2015), sono state tutte “europeizzate”, ossia tradotte – in ragione dell’adesione della UE a tali accordi – in fonti del diritto europeo. Per esse, dunque, vale la disciplina sulle conseguenze delle violazioni del diritto europeo da parte degli Stati membri, anche in termini di danni causati ai singoli, lì dove la fonte “europeizzata” sia preposta a tutelare diritti (com’è per l’Accordo di Parigi, con il suo Preambolo riferito appunto alla protezione e promozione dei diritti umani).
3) In terzo luogo, i contenziosi climatici europei invocano disposizioni della CEDU, in particolare gli artt. 2 e 8 così come interpretati dalla Corte europea di Strasburgo, i cui contenuti non solo concorrono alla conformazione dei principi generali UE, in forza dell’art. 6 n. 3 TUE, ma integrano i livelli di protezione dei diritti, nei termini indicati dall’art. 53 della Carta di Nizza.
4) In quarto luogo, l’accesso dei cittadini al giudice, ammesso dai contenziosi climatici verso uno Stato membro, concretizza la tutela giudiziale effettiva, principio generale anch’esso di diritto europeo (derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dagli artt. 6 e 13 della CEDU), nonché diritto fondamentale di ogni cittadino della UE (in base all’art. 47 della Carta di Nizza) oltre che fondamento dell’obbligo di ogni Stato membro che ha sottoscritto, insieme alla UE, la Convenzione di Aarhus del 1998 sui diritti ambientali procedurali (incluso, appunto, quello di accesso al giudice).
5) Infine, la mancata considerazione dei precedenti di contenzioso climatico, da parte di giudici chiamati a decidere sulla responsabilità di altri Stati della UE, violerebbe il principio di uguaglianza tra gli Stati membri e la leale cooperazione tra questi e l’Unione in funzione anche dei diritti, in controtendenza con quanto la Corte di giustizia ha sempre confermato come ineludibile (di recente, con la sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21).
Si potrebbe, allora, concludere che l’espandersi del contenzioso climatico statale nello spazio europeo militi a favore del rafforzamento del primato dello Stato di diritto e dei diritti umani, così come richiesto dall’art. 2 TUE, smentendo quelle minoritarie voci di dottrina, le quali addirittura hanno letto le iniziative climatiche cittadine contro gli Stati quasi come una minaccia ai principi democratici (cfr. Magri e ivi riferimenti).
Del resto, è la stessa UE a spiegare ai suoi cittadini, in modo semplice e chiaro, che il principio dello Stato di diritto implica «l’astensione dal prendere decisioni arbitrarie per i governi e la garanzia, per i cittadini, di poterne contestarne l’operato dinanzi a un tribunale indipendente» (cfr. Violazione dei valori europei: cosa può fare l’UE). Le decisioni di condanna giudiziale dei contenziosi climatici verso lo Stato hanno tutte per oggetto – come accennato – proprio l’ “arbitrarietà” delle decisioni statali, lì dove prive di quelle misurazioni tecniche di quantificazione della mitigazione (a partire dalla c.d. “equity climatica”) che identificano il presupposto indefettibile (per previsione legale e per principi di termodinamica) dell’efficacia ed effettività della lotta all’emergenza climatica.
Se dubbi dovessero residuare, sulla espressività di questi precedenti “climatici” in termini di rafforzamento dello Stato di diritto nello spazio UE, i giudici nazionali non avrebbero altra via che l’esperimento della questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, interrogandola, con tutti i dovuti rigori argomentativi e di riscontro richiesti dai giudici di Lussemburgo, sulla questione se il diritto europeo, incluso il diritto climatico “europeizzato” nel quadro della CEDU e della Carta di Nizza, osti all’accesso al giudice di un cittadino dello Stato membro per veder condannare il suo Stato di appartenenza al facere di mitigazione climatica secondo misurazioni tecniche prescritte da fonti internazionali “europeizzate”.
In un contesto di “comunità di corti nazionali” (come ricordato proprio dalla Corte costituzionale nella sent. n. 67/2022 in tema di pluralità di giudici nello spazio europeo dei diritti), sembra questa l’unica possibilità di “distinguishing” dai precedenti europei, in nome proprio dello Stato di diritto e alla luce anche della recentissima giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (casi “Spasov c. Romania” n. 27122/14 del 6 dicembre 2022, e “Georgiou c. Grecia” n. 57378/18 del 14 marzo 2023) in tema di lesione dell’art. 6 CEDU per omesso rinvio pregiudiziale e di eventuale conseguente imposizione, allo Stato in causa, della riapertura del processo interno.
La posta in gioco, del resto, non sarebbe l’autonomia procedurale di ogni singolo ordinamento processuale nazionale, ma la questione del diritto di accesso al giudice a parità di condizioni con situazioni analoghe (Corte di Giustizia in causa 199/82) e l’equivalente legittimazione passiva degli Stati membri davanti ai cittadini della UE (Corte di Giustizia in causa C-637/17).
Volgendo lo sguardo all’Italia, due osservazioni finali appaiono significative.
Il diffondersi europeo dei contenziosi climatici sembra giovare al rafforzamento della normatività dell’art. 28 della Costituzione, architrave, proprio attraverso l’imputazione della responsabilità extracontrattuale, del superamento di «antichi privilegi a favore della pubblica amministrazione, non più giustificabili in uno Stato di diritto» (Corte cost. n. 156/1999).
Quel contenzioso europeo ridimensiona pure la dottrina giurisprudenziale domestica dei c.d. “diritti immaginari”, coniata dalla Corte di cassazione (a partire dalle decisioni nn. 26972/2008, 9422/2011, 21725/2012) per sostenere che la “qualità della vita”, lo “stato di benessere” e la “serenità esistenziale” della persona umana non rientrerebbero nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e del risarcimento del danno, in quanto non tipizzati da una fonte costituzionale o primaria (ancorché inconfutabilmente inclusi da altri formanti a livello internazionale e comparato: cfr. Piciocchi) e per il fatto che la loro lesione risulterebbe priva dell’«ingiustizia costituzionalmente ed internazionalmente riconosciuta e qualificata» (così Cass. n. 9422/2011) (su questi orientamenti, si v. criticamente Viana).
L’emergenza climatica è notoriamente una terribile minaccia alla “qualità della vita”, allo “stato di benessere” e alla “serenità esistenziale” della persona umana, per la banale constatazione di essere un incombente “Endgame” nell’interdipendenza biofisica (tutt’altro che “immaginaria”) di ciascun individuo dal sistema climatico. I contenziosi climatici che lo affermano, e condannano gli Stati alle misurazioni tecniche necessarie per scongiurare il peggio, forniscono prova, soprattutto nello spazio giuridico europeo, dell’«ingiustizia costituzionalmente ed internazionalmente riconosciuta e qualificata»; prova invero già fornita da una risalente giurisprudenza costituzionale, dalla stessa Consulta definita «fermissima» (Corte cost. n. 307/1990), di riclassificazione, costituzionalmente orientata, dell’art. 2043 Cod. civ. quale fonte di «divieto primario di ledere la salute» (Corte cost. n. 202/1991), e confermata, ora, dallo statuto epistemologico “One Health”, cui aderisce anche l’Italia (cfr. Violini e la sezione One World, One Health…Wich law? della rivista Corti Supreme e Salute).
Pare, pertanto, che i margini per altra “immaginazione”, che abiliti a sottrarsi alla forza persuasiva dei precedenti europei di contenzioso climatico, siano diventati molto stretti e minimamente plausibili.
28 Marzo 2023
Il tempo del pianeta come bene della vita nell’emergenza climatica
Che il tempo sia un elemento determinante di qualsiasi esperienza giuridica (si v., per tutti, le originali ricostruzioni di L. Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale, e L. Di Santo, L’universo giuridico tra tempo pratico e tempo gnosico) è acquisizione che nessun teorico e pratico del diritto si sognerebbe di contestare.
Ma il tempo è anche un fattore costitutivo della vita come scansione cronologica tra un prima e un dopo (Erfahrung, nel lessico della fenomenologia) e come condizionamento esistenziale su quella scansione (Erlebnis, si dovrebbe dire sempre con quel lessico fenomenologico).
Diventa allora interessante interrogarsi su come il diritto narri e regoli il tempo della vita rispetto a questa biforcazione tra Erfahrung ed Erlebnis.
Due classici non possono essere taciuti nella ricerca di una risposta: il nostro Giuseppe Capograssi e Gerhart Husserl (sulla ineludibilità di questo richiamo, si v. ancora L. Di Santo, Tempo e diritto nella prospettiva filosofica di Giuseppe Capograssi. Un confronto con Gerhart Husserl).
Il diritto non osserva né si adatta al tempo: lo condiziona (come Erlebnis) o addirittura lo crea (come Erfahrung).
Ecco allora che il tempo giuridico oscilla costantemente tra verità, con Capograssi, e finzione, con Husserl. Diventa un oggetto di manipolazione che può persino prescindere dai tempi della vita terrestre. Il diritto, in altri termini, opera anche come “detemporalizzazione” (Entzeitung) della connessione biofisica della vita umana, ossia della relazione tra società e sua dimensione terrestre.
Eppure la specie Homo è figlia dei tempi della terra, non viceversa; il che significa che tutti noi, come tutti gli altri esseri viventi, prima ancora che “biologici”, siamo e restiamo “geologici”: dipendiamo dai tempi del pianeta Terra (si v. L. Dartnell, Origins: How the Earth Shaped Human History).
Scopriamo, così, che la più grande finzione del diritto risiede proprio nella sua Entzeitung. Si può fingere di fronte al pianeta Terra? Si può fingere di fronte ai suoi tempi? Qualsiasi scienziato della Terra (dai biologi ai geologi ai fisici) direbbe di no. Del resto, come scrisse Einstein, il secondo principio della termodinamica permane come base universale di osservazione del tempo terrestre.
Tuttavia, osservare il tempo e raccontarlo non identificano necessariamente la stessa operazione intellettuale (cfr. J.E. McTaggart, The Unreality of Time).
Il racconto giuridico del tempo è dissociato dalla sua osservazione. In particolar modo, la cultura giuridica (più correttamente la cultura della tradizione giuridica occidentale) ha “creato” il “suo” tempo progressivamente sempre più autopoietico e autoreferenziale, approdando al “presentismo” della regolazione sociale (cfr. F. Hartog, Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo), alla elusione delle leggi temporali della biologia (specificamente con riguardo al tempo della formazione della vita e all’epigenetica), al “bilanciamento” come commensurabilità a-temporale dei diritti.
Così “detemporalizzando”, però, questa cultura ci costringe alla resa dei conti con il tempo del pianeta Terra.
Proprio in questo consiste l’emergenza climatica, denunciata dagli scienziati del sistema Terra (ovvero del sistema climatico in tutte le sue sfere di composizione: atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera e biosfera) e dichiarata da numerose istituzioni, inclusa la UE.
Essa non consiste in una situazione fattuale che “mette in pericolo i tempi” del diritto e dei diritti. Tutte le emergenze, ad oggi, sono sempre state rubricate come parentesi o eccezioni nella normalità giuridica. I due anni di pandemia li ricordiamo appunto come una brutta parentesi che ha costretto a sospendere la normalità temporale. Ci raccontiamo che da questa partentesi siamo usciti e che il diritto e i diritti hanno ripreso a scorrere nella loro precedente, immutata temporalità.
L’emergenza climatica, però, non è questo. Non è una parentesi; è un’irreversibile transizione termodinamica verso una nuova condizione temporale, nei cui riguardi il fattore di pericolo è segnato proprio dai tempi autoreferenziali del diritto. Non a caso, il suo fulcro è reso dalla formula τ/T (cfr. T.M. Lenton et al., Climate tipping points. Too risky to bet against). L’emergenza non deriva da un vettore esogeno rispetto ai tempi concordati dagli esseri umani per la loro convivenza (com’è stato, da ultimo, il virus pandemico). Il vettore dell’emergenza climatica è endogeno alla convivenza umana stessa e dipende tutto ed esclusivamente dal tempo, più dettagliatamente dalla relazione tra il tempo deciso politicamente e regolato dal diritto (τ) e il tempo naturale restante (T) affinché l’intero sistema climatico (ossia il pianeta Terra) non si destabilizzi nelle condizioni attuali di scansione – temporale – della vita (le c.d. “nicchie ecologiche e climatiche” della sopravvivenza nel tempo).
Per questo si parla di Antropocene (come epoca geologica condizionata dai tempi umani), “accelerazione” dell’Antropocene (come aumento della pressione dei tempi umani sui tempi terrestri), “rottura” dell’Antropocene (come insostenibilità dei tempi umani da parte dei tempi terrestri) (cfr. R.E. Kim, Taming Gaia 2.0: Earth system law in the ruptured Anthropocene).
In conclusione, il tempo autopoietico e autoreferenziale della convivenza umana e del suo diritto si presenta come causa dell’emergenza, non come sua vittima; ancor meno, evidentemente, esso può fungere da soluzione.
Tra le due sfere temporali è ormai in atto la “partita finale”; il “Climate Endgame”, su cui addirittura si sollecita un urgente Rapporto speciale dell’ONU per indagare tutte le incognite della collisione (L. Kemp et al., Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios). Perché di collisione si tratta (fra τ e T), solo illusoriamente risolvibile con i bilanciamenti (“definitori” o “ad hoc” poco importa, consistendo, i bilanciamenti, in altrettante finzioni giuridiche sul tempo).
Torna in mente il dialogo platonico del Filebo su che cosa sia la vita buona rispetto al tempo: è buona la vita che gestisce il proprio tempo o quella che rispetta tempi altrui? La prima procura il piacere; la seconda garantisce sicurezza.
Il mondo di oggi è proiettato prioritariamente sulla prima dimensione (su questo, si v. le imbarazzanti constatazioni di S. Bauman, Tutti schiavi del fitness: la compassione dov’è?) e considera la seconda strumentale alla prima.
Ne è dimostrazione la qualificazione del tempo come bene della vita nei procedimenti “creati” dal diritto (cfr. R. Caponigro, Il tempo come bene della vita). Solo in tali casi, infatti, la sicurezza del tempo è meritevole di riconoscimento e tutela, ma perché buona per la vita propria, non per altro.
Suona, però, stonata e beffarda una simile accettazione, nella contestuale indifferenza o incapacità di considerare il tempo terrestre quale l’unico e insostituibile bene della vita per la sicurezza e la sopravvivenza di tutti gli altri beni della vita “creati” dal diritto e dal suo tempo.
Abbiamo il dovere, proprio come giuristi, di non dimenticare che non nasciamo dai tempi del diritto, ma da quelli del pianeta Terra: un primo, semplice passo per individuare il bene della vita nell’emergenza climatica.
6 Settembre 2022
Il cambiamento climatico nella giurisprudenza italiana
A differenza di quanto riscontrabile in altri Stati europei (Olanda, Germania, Francia, Irlanda) ed extraeuropei (recentemente censiti dall'Unep nel Global Climate Litigation Report: 2020 Status Review, Nairobi, 2020), non esiste ancora, in Italia, una giurisprudenza esplicitamente ed esclusivamente dedicata al tema del cambiamento climatico antropogenico e alle connesse obbligazioni, pubbliche e private, di adempimento.
Pende il contenzioso amministrativo, promosso da ENI contro la sanzione dell'Antitrust per «infondati vanti ambientali» del prodotto fossile "diesel+", vertente sul c.d. "Greenwashing" nella comunicazione commerciale delle aziende climalteranti.
Una sessantina di cittadini ha avviato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica contro il Ministero dello sviluppo economico, in merito a un nuovo metanodotto, autorizzato e prorogato ignorando le dichiarazioni di emergenza climatica del Governo stesso e del Parlamento europeo e senza previa valutazione di compatibilità e utilità climatica dell'infrastruttura nel nuovo scenario di drastico abbattimento delle emissioni di gas serra, sancito dal "green deal" europeo (almeno - 55% entro il 2030), e di rispetto del bilancio di carbonio, da non sforare per mantenersi nei limiti di aumento della temperatura, concordati dall'Accordo di Parigi a salvaguardia della stabilità termodinamica del pianeta (tra 1,5°C e 2°C).
Infine, è imminente l'avvio della prima causa civile contro lo Stato per inadempimento climatico, intitolata "Giudizio Universale" (www.giudiziouniversale.eu).
A lato di queste pendenze, tuttavia, sono rinvenibili arresti giurisprudenziali con spunti comunque collegabili al fenomeno del cambiamento climatico antropogenico.
Essi possono essere classificati in cinque gruppi.
1.Il primo spunto investe la qualificazione delle emissioni climalteranti e si rinviene nella risalente giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di gas. Con la sentenza interpretativa n. 127/1990, la Consulta scandisce quattro giudicati interpretativi, di lì in poi non più contestati:
a) in materia di emissioni di gas, i limiti fissati da norme o autorizzazioni amministrative non sono di per sé risolutivi dei dubbi sulla loro tollerabilità per la salute umana e la salubrità ambientale;
b) di conseguenza, quella delle emissioni di gas non è materia di mera osservanza dei suddetti limiti, bensì di tutela effettiva del diritto alla salute e all'ambiente;
c) da inquadrare attraverso «indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo di emissioni con la loro tollerabilità»;
d) senza che alcuna norma ordinaria possa sottrarsi a questa conformità costituzionale.
In pratica, la decisione del 1990 anticipa alcuni elementi costitutivi, che due anni dopo saranno formalizzati dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (la UNFCCC del 1992): la definizione legale del riscaldamento globale e del conseguente cambiamento climatico non come fissazione e rispetto di limiti quantitativi di emissioni dei gas serra, bensì come verifica della tollerabilità di quelle emissioni per la salute umana ed ecosistemica e per la stabilità climatica del pianeta, alla luce delle conoscenze scientifiche costantemente aggiornate (si v. gli artt. da 1 a 4 dell'UNFCCC).
L'orientamento della Corte costituzionale affiancherà la già avviata giurisprudenza della Corte di cassazione sull'art. 844 Cod. civ. (da Cass. sez. II n. 2062/1980 in poi), sempre in tema di tollerabilità delle emissioni gassose e di calore, secondo l'avanzamento delle conoscenze scientifiche e non per mero ossequio formale di leggi e autorizzazioni amministrative.
2.Il secondo spunto riguarda il riconoscimento, nell'ordinamento italiano, di un doppio principio di conformità costituzionale in materia energetica: quello del «favor per le fonti energetiche rinnovabili al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili» e della «massima diffusione dell’energia rinnovabile». Anch'esso è stato elaborato dalla Corte costituzionale in tre decisioni: le nn. 124/2010, 286/2019 e 237/2020. L'esistenza del doppio principio è stata dedotta da disposizioni normative di dettaglio, ma argomentata anche in forza dell'ingresso ufficiale dell'Italia nell'IRENA (l'Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili), letta dalla Consulta come opzione sovrana di progressivo abbandono delle fonti fossili a favore appunto della rinnovabilità energetica che elimina «la dipendenza dai carburanti fossili».
3.Il terzo spunto è riferibile all'inquadramento delle fonti internazionali di diritto climatico nel sistema costituzionale italiano. Su di esso converge la giurisprudenza sia costituzionale che amministrativa. Nello specifico, le decisioni della Corte costituzionale nn. 124/2010 e 85/2012, e quelle del Consiglio di Stato sez. V n. 4768/2012, sez. VI n. 4567/2016, Ad. plen. n. 9/2019, e sez. V n. 677/2020, collocano le fonti internazionali di diritto climatico tre le "norme interposte" di cui all'art. 117 comma 1 della Costituzione, in quanto tali sovraordinate alle altre fonti primarie e integrative dei parametri di legittimità dell'agire pubblico e privato. In tale ottica, tra l'altro, il recente TAR Campania, Salerno, n. 259/2020, ha ritenuto illegittimo un provvedimento di compatibilità ambientale privo di valutazioni di contenuto climatico nel quadro appunto degli impegni internazionali (come, del resto, richiesto dall'art. 3-bis del d.lgs. n. 152/2006).
4.All'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2019 si deve invece l'emersione del quarto spunto: il dovere di perseguire il «preminente interesse della collettività alla graduale riduzione della componente di anidride carbonica presente nell’atmosfera», cui corrisponde il «superiore interesse» a contrastare il cambiamento climatico da parte dello Stato, «da intendersi sia come Stato-persona, in rapporto ai vincoli internazionali ..., sia come Stato-comunità in rappresentanza dell’interesse collettivo al miglioramento della qualità ambientale».
Con questa decisione, i contorni della giurisprudenza italiana sul fenomeno del cambiamento climatico appaiono tratteggiati nei loro elementi basilari.
Se la valutazione legale delle emissioni di gas non è riducibile né al rispetto formale dei limiti di legge né alla mera conformità amministrativa, radicandosi invece nelle acquisizioni evolutive della scienza sulla loro tollerabilità per salute e ambiente (Corte cost. n. 127/1990), il principio del «favor» e della «massima diffusione dell'energia rinnovabile» orienta e condiziona la discrezionalità pubblica, nel perseguimento del «fine» di «eliminare la dipendenza dai carburanti fossili» (Corte cost. cit. supra al punto 2) per l'interesse «preminente» alla riduzione delle concentrazioni dei gas serra quale concretizzazione effettiva dell'interesse «superiore» dello Stato-persona/Stato-comunità a contrastare il cambiamento climatico (Cons. St. Ad. plen. cit.), così adempiendo a un sistema specifico di fonti di diritto internazionale "interposte" tra Costituzione e leggi interne (Corte cost. e Cons. St. cit supra al punto 3).
5.L'ordito risulta ulteriormente corroborato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, dalla quale deriva il quinto spunto in tema.
In Cass. civ. sez. III n. 25143/2020, adottata in tema di protezione internazionale, il cambiamento climatico è identificato come fatto noto di incisione dei diritti umani, resi vulnerabili dall'esposizione agli eventi meteorologici estremi ad esso conseguenti. Il legame tra cambiamento climatico e diritti, e non solo interessi, trova così ingresso nella cognizione del giudice (come auspicato dal "Joint Statement on Human Rights and Climate Change", adottato nel 2019 dai cinque organismi ONU per i diritti umani).
Agli inizi del 2021, poi, precisamente in diciannove decisioni emesse dalla sez. VI della Corte di cassazione in materia tributaria (si v., per tutte, la n. 2572/2021), due ulteriori acquisizioni sono aggiunte:
- quella di attribuire alle fonti internazionali sul cambiamento climatico l'identità del diritto europeo, per via dell'adesione della UE alle stesse, dotate quindi del requisito della primauté e dell'effetto utile (come, del resto, già sancito dalla Corte di giustizia della UE, in Grande Sezione Causa C-366/10, in particolare ai §§ 10, 24, 73, 101-109, 129, sulla scorta della costante giurisprudenza inaugurata dal "caso Haegeman" in Causa C-181/73);
- quello di definire l'Accordo di Parigi del 2015 sul clima, contenente specifiche obbligazioni di risultato temporale e quantitativo (ridurre le emissioni entro il tempo utile a conseguire la neutralità climatica e mantenere la temperatura tra 1,5°C/2°C, sulla base appunto delle conoscenze scientifiche) «primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici».
Da questi cinque spunti sembra possibile dedurre la conclusione che il tema del cambiamento climatico sia sottratto all'ordinario discorso sul diritto ambientale (le cui disposizioni in effetti tacciono del tutto in materia), in quanto radicato in un sistema di fonti speciali "interposte", vincolanti e contestualmente dotate di effetto utile per la loro inclusione nel diritto europeo, basate sulla conoscenza scientifica aggiornata del fenomeno e orientate al «favor» di abbandono delle risorse fossili, in nome della «massima diffusione dell’energia rinnovabile» e del «preminente» e «superiore» interesse pubblico alla riduzione dell'anidride carbonica in atmosfera, per la tutela della salute, dell'ambiente e dei diritti umani.
Il che fa emergere proprio quegli elementi indefettibili, che il citato Report 2020 dell'Unep rinviene nel contenzioso climatico praticato in tutto il resto del mondo e su cui i casi giudiziali italiani, pendenti e a venire, dovranno misurarsi.
8 Marzo 2021
Covid-19 e uscita "energetica" dall'emergenza
La pandemia del Covid-19 ha messo in ginocchio l'economia globale. Con essa, ha condizionato il presente e futuro della convivenza sociale e politica delle comunità statali. Nel contempo, essa ha inaugurato anche quello che il Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente (SNPA) inquadra come "inedito ed eccezionale laboratorio", che «permetterà di studiare meglio, sotto molti aspetti, la portata dell’impatto antropico sull'ambiente e sui cambiamenti climatici» (SNPA, Guardiamo al futuro, tra crisi e opportunità, 11 maggio 2020). La pandemia ha distrutto per offrire.
Questa singolare contraddizione è alla base di un ricco dibattito mondiale di ecologia, da un lato, e politica economica e diritto dell'economia, dall'altro.
Dal punto di vista ecologico, la contraddizione deriva dalla circostanza che la zoonosi, a base della pandemia, appare strettamente connessa alla perdita di biodiversità, alimentata dai cambiamenti climatici. La distruzione degli ecosistemi, insieme all'estinzione di determinate specie predatrici, sta facendo crollare le cosiddette "barriere naturali" di trasmissione interspecie dei virus (Vidal J. Destroyed Habitat Creates the Perfect Conditions for Coronavirus to Emerge, in Scientific American, march 18, 2020). Il dato comporta la presa d'atto che la lotta la virus non è più un problema esclusivamente epidemiologico e di copertura con un vaccino: rappresenta un tassello della lotta al cambiamento climatico e ai sui c.d. "Feedback Loop", che coinvolgono la biodiversità e quindi anche le barriere di contenimento di nuovi virus. Se non si affronta risolutivamente la questione dei cambiamenti climatici, le zoonosi si moltiplicheranno, come del resto già proiettato da una serie di ricerche dell'OMS (Climate Change and Infectious Diseases, 2017).
Dal punto di vista di governo dell'economia, sembra utile partire da uno studio dell'Università di Oxford, che ha coinvolto 231 esperti di banche centrali, ministeri delle finanze, ricercatori e think tank di tutto il mondo, coordinati, tra gli altri, del premio Nobel Joseph Stiglitz (Hepburn C. et al. Will COVID-19 fiscal recovery packages accelerate or retard progress on climate change?, Smith School Working Paper 2, 2020). Esso ha provato a tradurre la contraddizione in proposta di ripresa economica. Ne è emerso uno scenario strutturato su quattro dimensioni: un ruolo rafforzato dello Stato nella regolazione degli investimenti per la ripresa; una funzionalizzazione di questi investimenti alle politiche di compatibilità ambientale e di lotta al cambiamento climatico; una riformulazione delle relazioni industriali nel quadro di infrastrutture energetiche connesse a fonti rinnovabili come eolico e solare, in quanto più "resistenti" agli effetti perversi della globalizzazione, come le delocalizzazioni, e del tutto coerenti con il "phase out" dell'energia fossile; una coniugazione della ripresa con azioni di resilienza verso le trasformazioni indotte dai cambiamenti climatici senza condizionamenti geopolitici sull'uso delle risorse. Ecco allora che lo studio osserva, attraverso il riscontro di pratiche esistenti e di studi e verifiche già condotte, che, già nel breve termine, la costruzione di infrastrutture per l'energia pulita attiverebbe impiego di nuova manodopera, creando almeno il doppio dei posti di lavoro per dollaro rispetto agli investimenti nei combustibili fossili (dato che ogni milione di dollari di spesa genera 7,49 posti di lavoro a tempo pieno nelle infrastrutture per le energie rinnovabili, 7,72 nell'efficienza energetica, ma solo 2,65 nei combustibili fossili). Inoltre, le nuove infrastrutture solleciterebbero politiche attive anche in ricerca e sviluppo a sostegno delle nuove energie rinnovabili per l'adeguamento degli ecosistemi urbani e dei complessi industriali. Infine, non entrerebbero in conflitto con gli indirizzi ambientali di rigenerazione degli ecosistemi.
Questo significa, però, che tutta la ripresa economica post Covid-19 non dovrebbe passare attraverso il semplice sostegno all'esistente o, peggio, il salvataggio incondizionato di qualsiasi impresa (a partire da quella del trasporto aereo); e questo, non per discriminazione politica, ma piuttosto proprio per convenienza economica, giacché qualsiasi semplice, ma costoso, "salvataggio" o "sostegno" produrrebbe, in comparazione con la promozione delle nuove infrastrutture energetiche, risultati scarsi sia in termini di impatto economico, sia in termini lavorativi, ambientali e climatici. Replicherebbe, in definitiva, la contraddizione tra crisi e opportunità, fotografata dal SNPA.
Sembra, allora, che l'uscita dall'emergenza non possa che essere "energetica", per "utilità" tanto economica quanto climatica. In tal senso, si pone il manifesto italiano "Uscire dalla pandemia con un nuovo Green Deal per l'Italia", promosso dalla Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e sottoscritto da centodieci rappresentanti del mondo dell'impresa. Anche l'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA) intravede come necessaria la stessa via, nel suo "Global Energy Outlook 2020".
Tuttavia, se l'ipotesi richiamata risolve una contraddizione, essa stessa ne alimenta un'altra. L'emergenza Covid-19, infatti, ha condizionato le premesse di questa prospettiva, imponendo ampi interventi di politica economica, progettati sotto la pressione del tempo e non lasciando margini di valutazione del loro impatto sul clima e sull'ambiente. L'urgenza lavorativa, tra l'altro, sta giocando paradossalmente a favore delle industrie gravemente colpite dalla crisi, non necessariamente propense al cambiamento.
è dunque divenuta concreta quella "tragedia dell'orizzonte", paventata appena cinque anni addietro per descrivere l'effettivo contenuto del dilemma energetico: il tempo asimmetrico tra urgenze economiche e urgenze climatiche (Carney M. Breaking the Tragedy of the Horizon. Climate Change and Financial Stability, Speech at Lloyd's of London, 2015). Con il Covid-19, le urgenze climatiche non sono venute meno, anche se è emersa drammaticamente prorompente e inaspettata l'urgenza economica della crisi.
Ecco allora che la vera partita della politica "post emergenziale" del governo dell'economia si gioca sull'orizzonte temporale; e dalla scelta dell'orizzonte temporale deriverà l'attenzione o meno alla persistente e preesistente urgenza climatica. Per lo Stato, gli scenari di uscita "energetica" sono solo tre: l'orizzonte a breve termine, fermo sull'immediata risposta alla crisi per l'emergenza sanitaria pubblica e l'incombente recessione economica (senza alcuna discontinuità energetica rispetto all'urgenza climatica); l'orizzonte di medio termine (proiettato su pochi anni), volto alla stimolazione della ripresa economica nel contenimento dell'impatto sulla salute pubblica, lasciando però che l'impatto economico continui a modellare le scelte energetiche rispetto all'urgenza climatica; l'orizzonte a lungo termine (proiettato sui decenni), incentrato sulla trasformazione energetica per rispondere all'urgenza climatica e promuovere economie resilienti al cambiamento climatico e agli shock eco-sanitari da esso prodotti, ridimensionando possibili repliche di zoonosi (Steffen B. et al. Navigating the Clean Energy Transition in the COVID-19 Crisis, in 4 Joule, 2020, 1-5).
28 Maggio 2020
La democrazia “Apartheid”
Alcuni commenti sul recente accordo parigino in tema di “controllo” dei flussi migratori dall’Africa e sul “Codice di condotta” italiano per le ONG che operano nel Mediterraneo hanno evocato categorie e ricostruzioni di Carl Schmitt nel “Nomos della terra” (cfr., tra gli altri, A. Rauti, Il Codice di condotta per le ONG tra “terra e mare”, in www.lacostituzione.info, 16/8/2017; F. Tedesco, I migranti, l’Europa e le nuove linee di amicizia, in www.ilfattoquotidiano.it, 4/9/2017). Si tratta di letture in qualche modo prevedibili ancorché importanti, che tuttavia scontano alcune insufficienze analitiche, rispetto al quadro europeo e mondiale contemporaneo. Queste insufficienze possono essere riassunte nelle esternazioni del Ministro Marco Minniti alla Festa dell’Unità di Pesaro, il 28 agosto 2017, e nelle comunicazioni parlamentari del Ministro Angelino Alfano, del 4 settembre.
Partiamo dalle prime: il personale «timore per la tenuta democratica del Paese» avrebbe convinto un intero Governo (stando almeno al virgolettato non smentito dal Ministro Menniti, il quale ha fatto ricorso alla prima persona singolare per “confessare” il proprio “timore”, e alla prima plurale per definire l’azione conseguente) ad assumere quelle risolute decisioni nei confronti delle ONG e dell’Europa. Il sentimento emotivo soggettivo e solitario di un individuo (non di un individuo qualsiasi, ma di quel Ministro degli Interni istituzionalmente tenuto a doveri di correttezza costituzionale verso il Parlamento – quale organo di controllo politico informato – e il Presidente della Repubblica – quale garante dell’unità nazionale) assurge a dimensione fattuale, non documentata, di legittimazione dell’indirizzo politico. Assurge a “realtà”. Siamo ben al di là della “necessità” definita da Santi Romano. E siamo ben al di là anche dei “Laws of Fear”, descritti da Cass R. Sunstein (su cui, si v. l’ottimo scandaglio problematico di G. De Minico, Costituzione, emergenza e terrorismo, Napoli, Jovene, 2016). In questi casi, infatti, la “realtà” emerge tra eventi (accadimenti già occorsi e dunque conosciuti, da una parte, procedimenti di decisione, dall’altra). Nella “confessione” di Minniti, invece, la “realtà” risiede nelle sue “emozioni” di “timore”: un bel contributo alla dossologia della cosiddetta “post-verità” e delle “fake news”, di cui tutti lamentano insidie e strumentalizzazioni.
Dunque le “emozioni” sulla democrazia orientano la “realtà” delle politiche? Ma che cos’è la “tenuta democratica di un Paese” di fronte ai fenomeni migratori? Questo interrogativo sfugge alle categorie schmittiane e, per tale ragione, la loro evocazione appare oggi insufficiente. La sfida di oggi, infatti, non è più solo fra “terra e mare”, tra Europa e “the Rest”. La sfida di oggi è tutta dentro l’Europa e riguarda per l’appunto la “realtà” delle sue democrazie di fronte alla “realtà” dei fenomeni migratori: un inedito conflitto di “realtà” entrambe irreversibili – come lo stesso Presidente del Consiglio Gentiloni ha onestamente ammesso nella sua conferenza stampa di Parigi – ed entrambe “interne” all’Europa.
Le migrazioni non sono più una “emergenza”, un “flusso”. Esprimono la nuova “situazione costituzionale” (nel significato di contesto intersoggettivo di fatti e reazioni psico-sociali, spiegato da Elinor Ostrom) del mondo. Tutti i Rapporti dell’UNHCR, di altri organi dell’ONU e dell’OIM lo richiamano e lo documentano. Quei Rapporti, inoltre, ci dicono anche che le distinzioni tra migranti “economici” e “rifugiati” non sono più idonee a far conoscere e comprendere il nuovo contesto. In particolare, i cambiamenti climatici, stravolgendo la mobilità umana, minano le categorie moderne del diritto internazionale e costituzionale, costruite intorno alla semantica geopolitica della “stabilità” e storico-costituzionale della “titolarità identificabile” dei diritti. Lo scenario del Texas, afflitto dalla catastrofe naturale e ostacolato dal “muro antimigranti” di Trump, ne ha fotografato il triste paradosso; un paradosso che non si era mai affacciato, sino ad oggi, sulla scena del costituzionalismo democratico europeo.
Infatti, come ha ben sintetizzato Alain Badiou (Il secolo, 2005, trad. it. Milano, Feltrinelli, 2006, 14 ss.), il Novecento costituzionale europeo si è alimentato di una «procedura discorsiva di assoluzione», che ha permesso di identificare le democrazie attraverso l’accoppiamento «con ciò che, a cose fatte, esse definiscono come Altro da sé, la barbarie di cui sono innocenti». Tuttavia, questa “assoluzione” è stata possibile, fino a quando la “realtà” ha potuto essere effettivamente “sdoppiata” nello spazio tra Europa e Africa. Autori ormai “classici”, come Frantz Fanon (I dannati della terra, 1961, trad. it., Torino, Einaudi, 1962) e Aimé Césaire (Discorso sul colonialismo, Verona, Ombre corte, 2014), ne hanno consegnato alla storia il triste racconto (triste per l’Africa). Sulla “doppia realtà” sono state edificate le relazioni internazionali con l’Africa decolonizzata (A.A. Mazrui, Africa’s International Relations, London-Lusaka, Heinemann, 1977), la cooperazione allo sviluppo (M. Zupi, Disuguaglianze in via di sviluppo, Roma, Carocci, 2013), le conversioni monetarie con l’Europa (N. Agbohou, Le franc CFA et l'euro contre l'Afrique, Paris, ed. Solidarité mondiale,1999), gran parte delle discussioni scientifiche (I. van Sertima, Blacks in Science, J. of African Civilizations, 1984, 8 ss.), la comunicazione inter-personale e l’ufficialità del linguaggio (N. wa Thiong’o, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, Milano, Jaca Book, 2015). Anche l’ultimo Paese europeo non democratico e coloniale, il Portogallo, ha dovuto prendere atto della “utilità” della democrazia, come dispositivo abilitativo di discorsi appunto “assolutori” verso il colonialismo in Africa (si v. P. Villen Meirelles Alves, Tra armonia e contraddizione, Padova, il Poligrafo, 2010). La democrazia in Europa, dunque, con l’ “Altro da sé” in Africa.
Ma che fare della democrazia in Europa, una volta che questa separazione spaziale viene infranta dall’unità della “situazione costituzionale” irreversibile delle migrazioni proprio dall’Africa, ossia dall’ “Altro da sé”?
È evidente che il “timore per la democrazia” insorga, a questo punto non come “evento” (l’invasione degli africani, che non c’é), ma come difficoltà narrativa sulle ragioni della propria democrazia, di fronte a una “realtà” non più spazialmente separabile.
Si spiega così l’iniziativa italiana, entusiasticamente fatta propria dall’Europa, sia di stampo “schmittiano” sia, se così può dirsi, à la Badiou.
Al primo canone si ispirano i dispositivi del “Codice di condotta” delle ONG, i quali ricalcano perfettamente, come logica, i meccanismi della “Commissione mista lusitano-britannica” che si insediò a metà Ottocento a Boa Vista, nelle isole di Cabo Verde, con lo scopo di controllare la “tratta” atlantica degli schiavi (cfr. M. Turano, Il verde mare delle tenebre, Lecce, Argo, 2001): il controllo della “tratta” (oggi mediterranea) è sempre la priorità rispetto alla condizione degli esseri umani che la subiscono.
Sul fronte della democrazia, poi, la formula “aiutiamoli a casa loro” non registra un semplice slogan. Gli accordi di Parigi inaugurano una nuova rappresentazione di sé della democrazia in Europa.
La democrazia in Europa accetta l’Apartheid. È come se si stesse “africanizzando” nei suoi codici identificativi. Non si limita più a prendere atto, auto-assolvendosi, della esistenza di separazioni spaziali (la democrazia europea e l’ “Altro da sé”). Poiché qualsiasi separazione spaziale sarà sempre più vanificata dalla inedita “situazione costituzionale” dei migranti, l’Europa deve ineluttabilmente rimodularsi, definendo per se stessa, non più per l’ “Altro da sé”, le separazioni: prima di tutto narrative, emotive, discorsive, poi anche metodologiche, esattamente come uno Stato Apartheid dell’Africa.
Come funzioni effettivamente una democrazia Apartheid è stato lucidamente documentato da una recente ricerca, pubblicata proprio in Sudafrica (H. van Vuuren, Apartheid, Guns and Money, Cape Town, Jacana, 2017). Lo Stato Apartheid non è una specie di “doppio Stato”, nel significato reso celebre da Ernst Fraenkel e riferito alla dittatura (Il doppio Stato, 1974, trad. it., Torino, 1983). Quest’ultimo funziona come meccanismo di doppi poteri e meccanismi di decisione; al contrario, lo Stato Apartheid si mantiene in vita come “doppia realtà” dei soggetti, non dei poteri, ed è compatibile con le forme della democrazia. Esso, infatti, si fonda su quattro costrutti: 1) separando i soggetti, si separano i problemi; 2) separando i problemi, ogni soggetto può affrontare meglio i propri, magari con l’aiuto dell’altro; 3) l’esigenza di aiuto reciproco mantiene in piedi il dialogo e quindi la ricerca di cooperazione più o meno condivisa; 4) la ricerca di cooperazione salvaguardia le distinzioni e quindi le narrazioni sui diritti e la democrazia, di sé e degli “altri”, magari anche con le connesse “barbarie di cui si è innocenti”.
L’informativa parlamentare del Ministro Alfano del 4 settembre ha scandito, forse inconsapevolmente, quei quattro costrutti, riferendosi appunto all’Africa e specificamente all’Egitto (con la “barbarie” del “caso Regeni”).
Certo, l’analisi andrebbe approfondita e non è questa l’occasione per farlo. In ogni caso, essa contribuisce a far intravedere un ulteriore fronte di declinazione (e di declino?) della democrazia nel futuro dell’Europa e del mondo, su cui è bene non rinunciare a discutere.
11 Settembre 2017
Una Corte internazionale per l'epoca dei mutamenti costituzionali incostituzionali?
Il 28 gennaio 2013, la ventesima Conferenza dei Capi di Stato e di governo dell'Unione africana, su impulso della Tunisia, ha formalizzato la richiesta di istituzione di una Corte Costituzionale internazionale sotto l'egida dell'ONU (Doc. Assembly/AU/12 (XX) Add.1). Più precisamente, la Conferenza ha incaricato la Commissione sul diritto internazionale della stessa Unione (la AUCIL) a impostare i contenuti di una Risoluzione da far votare nella successiva Conferenza, per poi trasmetterla al Segretario generale dell'ONU e permetterne l'inserimento all'ordine del giorno della sessantanovesima Sessione dell'Assemblea Generale, programmata per settembre 2014, con la qualificazione della Corte costituzionale come "nuovo organo dell'ONU ai sensi dell'art. 22 dello Statuto". Già nel corso della Sessione ONU di settembre 2012, il Presidente della Repubblica di Tunisia, Mohamed Moncef Marzouki a publié dans le journal français « Libération » unMoncef Marzouki, ne aveva preannunciato, con un suo intervento all'Assemblea Generale, l'avvio, cui egli stesso ha fatto seguire, nel maggio 2013, un congresso internazionale di diritto costituzionale tenutosi sempre in Tunisia, a Cartagine, per verificare limiti e potenzialità di questo strumento di giustizia costituzionale universale, nel quadro più ampio, tra l'altro, degli obiettivi dell'Agenda post 2015 dell'ONU, mirati anche a elaborare inediti percorsi di "rafforzamento globale dello Stato di diritto".
5 Giugno 2014