Luigi Testa
I controlimiti d’oltremanica e la sovranità di Westminster
Sulla strada dell’annunciato referendum per “uscire” dall’Unione Europea, la Corte Suprema del Regno Unito deposita una decisione che, pur priva di particolare impatto nel suo dispositivo, offre il fianco, nelle pieghe del suo reasoning, ad un ripensamento del rapporto tra fonti interne e fonti eurounitarie – ma che forse, a ben vedere, fa anche di più.
La vicenda concreta su cui interviene il giudizio è, invero, piuttosto complessa, e non rileva qui ricostruirla puntualmente. È sufficiente conoscere che si tratta di una controversia relativa ad una infrastruttura ad alto impatto ambientale, che, a detta del giudice Hale della stessa Supreme Court, avrebbe dimensioni tali da essere seconda soltanto all’impianto delle reti ferroviarie nel Paese nel corso del 19° secolo. Si tratta, senza scendere troppo nei dettagli, di una sorta di «alta velocità» (high speed rail link) che collegherebbe la città di Londra con il nord della Gran Bretagna, attraversando praticamente tutto, o quasi tutto, il Paese. L’inizio dei lavori risulta comunque condizionato ad una sorta di autorizzazione legislativa, per cui si sceglie di seguire il particolare iter legis noto come «hybrid bill procedure». Il carattere “ibrido” del provvedimento, e quindi del procedimento, sarebbe dato dal fatto che esso mutuerebbe alcune caratteristiche dei c.d. public bill e, parimenti, alcune note dei c.d. private bill, posto che – come nelle dichiarazioni dello Speaker – esso si risolve in «a public bill which affects a particular private interest in a manner different from the private interests of other persons or bodies of the same category or class». Si tratta, in estrema sintesi, di un procedimento “rinforzato”, che prevede diversi passaggi in commissione e una triplice lettura, con la possibilità, per i privati – o per le autorità locali – che vi abbiano interesse, di intervenire ed essere ascoltati.
27 Marzo 2014
di Luigi Testa
Minorenni sì, detenuti no: la strada scozzese per l’autonomia.
Con il royal assent allo Scottish Independence Referendum (Franchise) Bill, lo scorso 7 agosto, dopo il via libera del Parlamento di Holyrood il 27 giugno, comincia il conto alla rovescia per il referendum scozzese del 18 settembre 2014. Il testo del quesito è già fissato, ed è di univoca chiarezza: «Should Scotland be an independent country?». Un conto alla rovescia, per la verità, che sul sito istituzionale che sponsorizza l’esito positivo della consultazione c’è già da un pezzo, con tanto di calcolo anche dei minuti secondi che separano dal grande giorno (v. www.scotreferendum.co).
Lo Scottish Independence Referendum (Franchise) Bill è, in effetti, il primo atto ufficiale – in materia – approvato in maniera definitiva dal Parlamento scozzese, dopo l’Edinburh Agreement con il governo di Londra, del 15 ottobre 2012. Un iter un po’ precipitoso, se si considera che il bill in esame, che ci dice chi può votare al referendum, è stato non solo approvato, ma addirittura presentato al Parlamento prima della normativa che regola la sostanza del referendum – cosa e come si vota. La disciplina della titolarità del diritto di partecipazione al referendum è, infatti, riservata allo Scottish Independence Referendum (Franchise) Bill da un articolo dello Scottish Independence Referendum Bill, che, però, presentato al Parlamento per l’approvazione nove giorni dopo il primo bill, il 21 marzo 2013, in effetti, ad oggi, non è stato ancora approvato definitivamente. La normativa “madre”, che disciplina, inter alia, le modalità di gestione della campagna elettorale e gli aspetti più strettamente procedurali (come, e.g. il ruolo del Chief Counting Officer), è attualmente all’esame di una commissione ad hoc, la Referendum (Scotland) Bill Committee, istituita il 23 ottobre 2012. Al momento in cui si scrive, gli undici membri della Commissione sono alle prese con l’esame delle segnalazioni raccolte attraverso una procedura di partecipazione pubblica conclusa il 6 giugno scorso; la prossima riunione pubblica è fissata, da calendario, a settembre, mentre il tutto dovrebbe finire, almeno nelle dichiarazioni d’intento del governo, con il royal assent entro il dicembre di quest’anno.
Come forse si ricorderà, dopo la vittoria elettorale alle elezioni politiche dello Scottish National Party (SNP), nel maggio 2011, il primo passo è stato quello di una consultazione pubblica, Your Scotland Your Voice, aperta dal gennaio al maggio 2012, alla quale partecipavano 26.000 persone – dati governativi alla mano, e senza distinguere tra risposte positive o negative al quesito. Intervenuto l’accordo con il governo di Londra, era necessario modificare lo Scotland Act del 1998, e a tal uopo si interveniva inserendo nelle materie riservate al governo di Edimburgo l’indizione di un referendum «on the independence of Scotland from the rest of the United Kingdom», purché questo si svolgesse entro il 31 dicembre 2014, in una data diversa da quella di altre consultazioni, con una sola scheda ed un solo quesito, suscettibile di una risposta nei termini univoci di “sì” o “no”.
Ad ora, quindi, manca soltanto il terzo atto, quello a contenuto più generale – e che, si noti, nel suo draft iniziale non prevede nessun quorum funzionale per la validità della consultazione referendaria. In ogni caso, è abbastanza chiaro che l’SNP ha tutti i numeri, in Parlamento, per vedersi approvato lo Scottish Independece Referendum Bill, ed anche entro la scadenza sponsorizzata. E, forse un po’ in mala fede, si può pensare che la fretta che c’è stata per la normativa sul diritto al voto è, tutto sommato, niente più niente meno di una (abile, almeno nelle intenzioni della maggioranza politica) mossa elettorale, nella cornice di un referendum che sembra stare più a cuore al partito al governo che non alla generalità dei cittadini. Dati dell’ottobre 2012, mentre il governo definiva la sua volontà di procedere, riferiscono che solo un terzo dei più di 5 milioni di scozzesi è favorevole all’operazione che dovrebbe portare l’antica Caledonia ad essere Stato autonomo, pur membro del Commonwealth, per la fine del 2016.
Una mossa elettorale, si diceva, perché la prima delle due importanti previsioni dello Scottish Independence Referendum (Franchise) Bill, abbassa l’età per la titolarità del diritto di voto – limitatamente alla consultazione sulla secessione – a 16 anni compiuti, ammettendo ai seggi elettorali non soltanto cittadini scozzesi, ma qualsiasi cittadino britannico, del Commonwealth, o di qualsiasi Paese dell’Unione Europea, purché abbia previamente adempiuto all’iscrizione formale presso i registri elettorali o, per i minorenni, presso l’apposito Register of Young Voters. È lecito il sospetto che una simile misura – in relazione, specificamente, al dato anagrafico – colga il rilievo empirico per cui una certa fascia più giovane della popolazione è di natura più incline a soluzioni politiche di rottura (e, del resto, non solo in Scozia); anche se, stando almeno al primo Report della Commissione, reso pubblico il 7 maggio 2013, in questo senso (si badi: nel senso dell’allargamento anagrafico dell’elettorato attivo in generale, non specificamente al referendum sull’indipendenza) sono orientati da tempo molte associazioni e la maggior parte dei partiti politici locali (pf. 40, 1st Report, v. http://www.scottish.parliament.uk/parliamentarybusiness/CurrentCommittees/63008.aspx). E su tale posizione si allinea, naturalmente, anche lo Scottish Youth Parliament, l’organo rappresentativo scozzese formato da 200 membri tutti dai 14 ai 25 anni, eletti democraticamente tra persone che svolgano attività di volontariato presso ONG. D’altra parte, non si tratta neanche della prima volta che alle urne sono ammessi adolescenti compresi tra i 16 e i 18 anni. È accaduto già nel 2010, e, più di recente, del 2011, a confortare – al di là di ogni malizioso dubbio – una tendenza generale tendenzialmente condivisa dalle parti politiche e dalla società civile: un sondaggio dello scorso anno (ottobre 2012) consegna un quadro in cui il 56% degli interpellati si dichiara a favore dell’abbassamento dell’anagrafe elettorale a 16 anni, dai 18 attuali.
Il secondo importante capitolo dello Scottish Independence Referendum (Franchise) Bill riguarda poi i cittadini sottoposti a misure restrittive della libertà, in carcere, e conferma la tradizione inglese che esclude questi dal godimento dei diritti elettorali, attivi e passivi. Potranno soltanto votare, per corrispondenza o per procura, i detenuti in custodia cautelare («on remand»), conformemente a quando già definito dall’Act for parliamentary and local government elections del 1983. Nessun riscontro positivo, quindi, dei noti moniti che vengono dalla Corte di Strasburgo, in relazione al pieno godimento del diritto di voto dei cittadini detenuti, ai sensi dell’art. 3, Protocollo I, CEDU. Anche perché, stando all’eccentrica interpretazione esposta nel primo Report della Commissione (pf. 46), quella disposizione della Carta EDU si riferirebbe stricto sensu ai casi di «choiche of the legislature», e quindi non troverebbe applicazione per le consultazioni referendarie, quale è quella in esame. Arrivando al paradosso di presumere, quindi, che la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo richieda la garanzia della partecipazione democratica di tutti ai processi selettivi dei fini contingenti e non anche alle scelte sui fini permanenti, tra i quali rientra a pieno titolo l’autodeterminazione della sovranità con, nella specie, un referendum sull’indipendenza dello Stato.
Intanto, però, il cammino verso il referendum procede spedito. Con una campagna elettorale che, se pur non aperta ancora ufficialmente, vede molto attivo il fronte governativo a favore del “sì”. Certo, come si è accennato, le cose sembrano un po’ diverse da come stavano quando fu firmato l’Atto di Unione del 1707: pare che, allora, i fieri scozzesi – che ancora vantano di aver respinto i dominatori romani – erano quasi all’unanimità contrari all’unificazione, tanto che se ne diede quasi nulla pubblicità. Ma un fattore ritorna, e non è un fattore da poco. Furono i benefici economici che venivano dall’unione con gli inglesi che fecero accettare, obtorto collo, quella cessione di sovranità. Pure oggi, in effetti, è quella economica la principale preoccupazione di chi si dichiara contrario all’indipendenza. E – senza voler cedere alle leggende metropolitane sulla presunta sensibilità scozzese in materia – si sa: ora come allora, non si vive di (solo) patriottismo.
9 Settembre 2013
di Luigi Testa