Irene Spigno
Messico: uno Stato fallito?
Nella notte tra il 26 e il 27 settembre 2014, a Iguala, nello Stato messicano di Guerrero, a poche centinaia di chilometri dalla paradisiaca Acapulco, spariscono 43 studenti della scuola normale rurale “Raul Isidro Burgos” con sede a Ayotzinapa.
La notizia, nel giro di poco tempo, fa il giro del mondo, suscitando diverse emozioni: sdegno, tristezza, rassegnazione e paura. Molta paura. Pare assurdo ed inaccettabile che 43 giovani possano sparire nel nulla anche in uno Stato come il Messico che, nonostante lavori intensamente per il consolidamento democratico delle proprie istituzioni, in realtà ha completamente perso il controllo e non riesce a mantenere l’ordine e la legalità. Uno Stato nel quale fatti come quelli che si vanno descrivendo rappresentano quasi l’ordinarietà, in particolare in alcuni contesti specifici quali il territorio di Guerrero. Nonostante le ricche risorse naturali (sfruttate prevalentemente nel settore turistico e minerario), la sua ferita è profonda: violenza, corruzione e povertà estrema nel tempo hanno generato nella maggioranza della popolazione dei modelli comportamentali di adattamento alla situazione o, in altre parole, di sopravvivenza nell’illegalità. Le scuole normali rurali sono dei centri di formazione per maestri che insegneranno nelle zone interne più decentrate: generalmente, sono frequentate da giovani provenienti da famiglie disagiate e all’interno del centro, oltre all’educazione e al materiale didattico, si offre anche vitto e alloggio. Spesso, come nel caso della normale di Ayotzinapa, gli stessi studenti si impegnano nella coltivazione dei prodotti alimentari e, in considerazione degli scarsi mezzi a loro disposizione, stabiliscono degli accordi tendenzialmente taciti, ad esempio con le compagnie di autobus, che gli permettono di appropriarsi dei propri mezzi a fini formativi, come per recarsi in altri centri dello Stato e vedere come si svolge l’insegnamento in altri contesti.
26 Marzo 2015
di Irene Spigno
La protezione dell’interesse superiore del minore migrante: la stella cometa della più recente giurisprudenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo.
Dopo un’attesa durata tre anni, il 19 agosto 2014 la Corte interamericana dei diritti dell’uomo si è finalmente espressa sulla richiesta presentata da Argentina, Brasile, Paraguay ed Uruguay sul tema ‘‘Derechos y garantías de niñas y niños en el contexto de la migración y/o en necesidad de protección internacional’’.
L’Opinione Consultiva 21/14 ha un’importanza ed un impatto dirompenti sulla realtà regionale interamericana, all’interno della quale l’immigrazione clandestina – anche di minori – è un problema estremamente e drammaticamente attuale, in particolare per quanto riguarda la violazione massiva e sistematica dei più elementari diritti fondamentali della persona umana. In questo contesto, la maggior parte degli ordinamenti difettano di indicazioni normative chiare e precise circa l’impegno che gli Stati devono mantenere nei confronti dei minori migranti. Il giudice interamericano ha risolto molti dubbi applicativi ed interpretativi, avvalendosi di un complesso sistema normativo composto sia dalla Convenzione interamericana dei diritti dell’uomo (1969), che dalla Dichiarazione americana dei diritti e doveri dell’uomo (1948) e dalla Convenzione interamericana sulla prevenzione e sanzione della tortura (1984), dal quale ha ricavato, nel modo più chiaro possibile, gli obblighi giuridici che gli Stati devono tenere in considerazione nel momento in cui pianificano, adottano e implementano le proprie politiche migratorie.
9 Dicembre 2014
di Irene Spigno
La storia infinita e il reato di negazionismo
Ciclicamente ci si riprova. Ancora una volta, il Parlamento italiano si ritrova a discutere dell’opportunità e/o della necessità (pratica o politica) di introdurre all’interno dell’ordinamento giuridico la previsione del reato di negazionismo. Tale fattispecie penale, presente nell’arsenale giuridico di numerosi paesi europei, prevede la punizione, mediante la privazione della libertà personale, della condotta del negare, giustificare, banalizzare determinati eventi criminosi, come il genocidio, altri crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. In questo contesto sanzionatorio, l’Italia sembra quasi una mosca bianca, distinguendosi proprio per l’assenza di qualunque disciplina giuridica di tale condotta (anche se questo non ha impedito alle Corti di condannare i negazionisti per il reato di discriminazione razziale). Nonostante tale assenza, non è mancato un acceso e vivace dibattito sull’opportunità di prevedere tale reato. I contendenti, da un lato, si proclamano a favore della regolamentazione (in questo senso ovviamente il Governo e le associazioni ebraiche), dall’altro, invece, si ergono a difensori della libertà di manifestazione del pensiero, che risulterebbe palesemente violata dalla previsione del reato di negazionismo (così, le associazioni degli storici). Già nel 2007 i media avevano diffuso la notizia che l’allora Ministro della Giustizia Clemente Mastella, per mettere l’Italia alla pari con gli altri ordinamenti europei, intendeva proporre un disegno di legge che avrebbe previsto la condanna alla pena della reclusione, per chi avesse negato l'esistenza storica della Shoah. Il governo Prodi avrebbe dovuto presentare questo progetto di legge al Parlamento proprio il giorno della memoria, scelta questa di indubbio impatto emotivo e simbolico. A tale notizia fece ben presto seguito un accorato appello firmato da un gruppo nutrito di storici italiani poi presentato al Consiglio dei ministri il 26 gennaio 2007. Dall’appello emergeva la – peraltro condivisa da chi scrive – preoccupazione che il negazionismo rappresentasse un problema culturale, sociale e politico di grande rilevanza. Preoccupazione ancora maggiore era manifestata nei confronti del tentativo di trovare una soluzione a tale problematica attraverso lo strumento penale che costituisce l’extrema ratio sanzionatoria all’interno di qualsiasi ordinamento che si proclami democratico.
9 Gennaio 2014
di Irene Spigno
Il giudice antropologo, di Ilenia Ruggiu (FrancoAngeli, 2012)
Nonostante gli studi sul multiculturalismo occupino l’attenzione della dottrina costituzionalista ormai da tanti anni, l’applicazione degli schemi tipici del costituzionalismo di matrice liberale ha messo in evidenza le lacune di un sistema che in questa materia – tanto interessante quanto sfuggente – si è rivelato essere per alcuni tratti obsoleto e per altri inadeguato. Difatti, tutti gli strumenti classici elaborati dal costituzionalismo per la costruzione di una dogmatica dell’uguaglianza devono ammettere la propria sconfitta nel momento in cui non riescono a soddisfare la necessità di predisporre una “dogmatica della differenza”. Le “scintille multiculturali” agitano ormai anche le società che per tradizione sono culturalmente omogenee, dando vita a conflitti per la cui soluzione sociologi, antropologi, giuristi etc. hanno fatto scorrere fiumi di parole nel tentativo di trovare delle soluzioni adeguate.
Ed è in questo contesto che si inserisce l’opera di Ilenia Ruggiu, Il giudice antropologo, opera già recensita su questo stesso blog da Pannia e Stradella. Brillante e vivace giurista, la Ruggiu ha affrontato una questione tanto delicata come quella dei conflitti culturali vestendo lei stessa per prima i panni dell’antropologo, contemporaneamente interrogandosi su quale dovrebbe essere l’iter logico-argomentativo utilizzato dal giudice chiamato a pronunciarsi su casi che coinvolgono l’argomento culturale. Con un approccio provocatorio ed originale, l’Autrice affronta la tematica dei conflitti culturali con una verve che aggiunge linfa vitale tanto agli studi culturali quanto a quelli giuridici. Originalità e provocazione che, partendo dalla scelta del titolo, si dipanano per tutta l’articolazione dell’esposizione e nella metodologia utilizzata, mantenendosi vive in tutta la loro intensità fino a raggiungere l’apice nella proposta conclusiva.
Ma procediamo con ordine.
Diversi sono i meriti dell’opera: innanzitutto, l’Autrice è stata coraggiosa nell’optare per degli stili alternativi rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati dai giuristi. Attraverso nuovi linguaggi, quali la narrativa, il cinema e la fotografia e un approccio casistico l’Autrice si improvvisa cantastorie, trattando fatti oggetto di vicende giuridiche in modo narrativo, veicolando così le diverse idee di cultura che convivono nello stesso spazio e facendo intersecare il piano sociale con quello giuridico. Il lettore non rimane spettatore passivo, ma si trasforma in protagonista: viene preso per mano e condotto attraverso i meandri di una tematica tanto complessa quanto affascinante, quale quella dell’utilizzo dell’argomento culturale da parte dei giudici.
Il punto di partenza del lavoro è costituito dalla presa d’atto della mancanza di modelli di riconoscimento condivisi (che di fatto ha ostacolato una compiuta teorizzazione del multiculturalismo dentro la teoria dei diritti fondamentali); il punto di arrivo è invece rappresentato dall’elaborazione di una teoria sistematica per la composizione dei conflitti culturali. Il trait d’union è rappresentato dall’interpretazione giudiziale dell’argomento culturale, la cui analisi è stata condotta mediante l’utilizzo del metodo comparato e di un approccio interdisciplinare. Cosi, il viaggio in cui l’Autrice ci fa da brillante guida turistica si compone di diverse tappe: da una prima tappa “descrittiva” si approda ad un livello “prescrittivo”, lasciando la fase “de-costruttiva” come passaggio intermedio. Il collegamento tra le tre diverse tappe avviene in modo fluido, anche se non va esente da pericoli, di cui le stesse Pannia e Stradella ci avvertono.
È la stessa Autrice che sottolinea le istruzioni per l’uso: il lettore viene quindi sollecitato a prestare attenzione, innanzitutto, per quanto riguarda i confini dell’oggetto e l’aurea di novità che lo circonda (almeno agli occhi del giurista). In secondo luogo, quello dei conflitti culturali costituisce un terreno nel quale le più generali trasformazioni che inevitabilmente stanno investendo il diritto costituzionale si manifestano con più vigore, determinando l’inadattabilità degli strumenti tradizionali ai conflitti culturali. Gli studi culturali in generale sfuggono al prisma degli schemi costituzionalistici di tradizione classica. Nonostante una loro possibile collocazione nella teoria dei diritti fondamentali, la lettura attraverso le lenti del positivismo o comunque attraverso il classico bilanciamento tra diritti incontra degli ostacoli: le dinamiche multiculturali sfuggono a questi meccanismi, che spesso si macchiano di etnocentrismo e di imperialismo occidentale.
Date le carenze dei metodi tradizionali, uno dei punti di forza del presente lavoro è l’abilità con la quale l’Autrice mostra di destreggiarsi tra differenti metodi combinandoli saggiamente tra di loro. Si tratta del metodo casistico, di quello comparato e, infine, di quello interdisciplinare: i passaggi dall’uno all’altro sono dinamici, bypassando soluzioni troppo statiche. Se da un lato, l’approccio casistico consente di ricondurre a sistema una teoria in via induttiva, che abbia come punto di partenza i principi elaborati dalla giurisprudenza, dall’altro è proprio in tematiche come quelle multiculturali che il metodo comparato riesce ad esprimere tutte le sue virtualità. L’analisi di soluzioni giudiziali adottate in ordinamenti “altri” consente anche al giurista di casa nostra di poter usufruire di un paniere di soluzioni e di argomenti e tecniche sviluppate altrove, consentendogli di riflettere, con un orizzonte interpretativo ampliato dalle esperienze altrui, su quali possano essere gli elementi da utilizzare e quali invece eliminare perché legati ad un contesto storico specifico o perché non sufficientemente persuasivi.
Ma ciò non basta. È necessario avvalersi di un metodo ulteriore che funzioni come raccordo e sia in grado di mettere in comunicazione le idee di cultura che circolano nell’antropologia e nell’argomentazione giuridica. In primo luogo perché affrontare il tema della cultura senza l’apporto dell’antropologia viene definito dall’Autrice stessa come un suicidio scientifico. Il giurista che si approccia agli studi sul multiculturalismo è tenuto a possedere la massima conoscenza del concetto cardine: la cultura. Egli deve però avere uno sguardo aperto trattandosi di una materia agitata da una complessa rete di problematiche e da un articolato sovrapporsi di soluzioni, ripensamenti, correzioni ed evoluzioni che consentono allo studioso che si occupa di questa materia di avere una quantità rilevante di materiale sul quale lavorare. In secondo luogo, quando il discorso culturale si sviluppa nella società e viene concettualizzato dagli studi antropologici, la sua commistione con il diritto diventa inevitabile richiedendo allo stesso tempo che quest’ultimo sia un protagonista attivo di questo processo di commistione.
E il diritto interpreta questo ruolo di protagonista attivo proprio nelle aule giudiziarie e nell’iter argomentativo che li viene prodotto. Così, frugando nel marasma di decisioni nelle quali in un modo o nell’altro la cultura viene in rilievo (secondo le delimitazioni del concetto individuate dall’Autrice) quando i giudici sono chiamati ad occuparsi di “cultura” è possibile rinvenire dei loci o dei topoi che fungono da punti fermi nella risoluzione dei conflitti sui quali è possibile fare affidamento?
Uno dei momenti più delicati del lavoro della Ruggiu, che poi rappresenta anche uno dei punti più facilmente contestabili e problematici dell’attività svolta dagli stessi giudici, è rappresentato dalla necessità di fornire una definizione preliminare del campo di indagine. Come si individua l’argomento culturale giuridicamente rilevante? Nonostante le difficoltà e forse anche l’inutilità di ingabbiare un concetto tanto cangiante e dalle mille sfaccettature quale quello di cultura in una definizione che lo priverebbe di tutte le sue virtualità espressive, l’Autrice circoscrive l’argomento della sua trattazione individuandolo sia in senso soggettivo, che in senso oggettivo. In primo luogo, occorre sgombrare il campo da un pregiudizio che può portare confusione. Non sono culturali tutti quei casi individuati per il solo fatto di coinvolgere stranieri. Sarebbero culturali, invece, quei conflitti che intercorrono tra la maggioranza della società ed immigrati e minoranze nazionali, con esclusione sia delle minoranze regionali, che di tutti quei gruppi che potrebbero essere considerati culturali in seguito alla dilatazione del concetto stesso di cultura, ma che in realtà altro non sono che gruppi sociali. La ratio della distinzione risiede in un contrasto normativo, tra due ordini giuridici diversi: uno è quello dello Stato, l’altro sarebbe l’ordinamento culturale di appartenenza dell’individuo. Il “sistema cultura” sarebbe allo stesso tempo rete di significati e rete di regole e darebbe vita ad una sorta di ordinamento giuridico parallelo, che ha propri criteri di riconoscimento.
Dal punto di vista oggettivo, la delimitazione del campo d’indagine è forse più complicata in quanto deriva dalla combinazione di due definizioni: la prima è quella fornita dall’antropologia interpretativa (alla quale l’Autrice fa ampio riferimento nel cap. 3, par. 7), l’altra invece è quella più comunemente indicata nei manuali di antropologia. Dalla combinazione di queste due definizioni, l’Autrice delimita il campo d’indagine individuandolo nelle «operazioni argomentative del giudice che opera come interprete di modelli di pensiero e azione, di sistemi semiotici, diversi da quelli cui lui appartiene e in cui i membri della maggioranza comunicano (…)» (Il giudice antropologo, pag. 55).
L’assenza di un approccio teorico sistematizzato e completo, pertanto, è stata supplita (forse forzatamente) dal basso. Sono i giudici – e non i legislatori – che, protagonisti di queste dinamiche (essendo chiamati di volta in volta a comporre i conflitti culturali), sono arrivati, forse anche involontariamente e inconsapevolmente, a cercare delle soluzioni che piano piano stanno assumendo la dignità e la sistematicità di teoria. Accusati spesso di attivismo giudiziario, i giudici si rendono protagonisti di una dinamica di formazione giurisprudenziale del diritto che, nonostante le resistenze dei giuspositivisti, non rappresenta una novità e trova il suo momento emblematico proprio nel multiculturalismo. Il diritto diventa cosi arte di risolvere casi concreti attraverso un ragionare per problemi piuttosto che per sistemi astrattamente dedotti da una norma: la composizione dei conflitti culturali ha determinato il risveglio della tradizione topica. Ed è proprio questo il secondo punto del lavoro della Ruggiu che potrebbe prestarsi a critiche.
In realtà, la ricostruzione della giurisprudenza che, sia a livello nazionale che comparato, si è occupata dei conflitti culturali, viene condotta dall’Autrice con passione e profondità, ponendo l’accento sugli elementi che i giudici considerano maggiormente rilevanti nel dare riconoscimento alla cultura e su quali siano le tecniche argomentative da questi privilegiate.
L’approccio casistico sviluppato dai giudici non rinuncia comunque ad una sistematizzazione teorica dei risultati, fondamentale nel momento in cui si cerca di dare una qualche formalità giuridica ad un iter logico-argomentativo elaborato sul campo. Ma anche nel momento in cui si dovesse arrivare ad una dogmatica ben precisa e sistematizzata, si andrebbe comunque incontro a dei rischi che secondo l’Autrice potrebbero essere evitati mediante una via d’uscita che rappresenta il fulcro della ricerca. Si tratta del test culturale, cartina al tornasole per “misurare” i conflitti multiculturali, il cui fine ultimo sarebbe quello di procedimentalizzare l’iter argomentativo condotto dal giudice. Il test culturale proposto dall’Autrice svolgerebbe la funzione di guidare il giudice, che nella sua motivazione può usufruire di guide sicure per affrontare le questioni culturali. Ed è proprio questo il punto di grande originalità del lavoro della Ruggiu: il tentare di trovare una soluzione, presa in prestito dall’esperienza comparata (in particolare, dalla giurisprudenza nordamericana) per portare a soluzione i conflitti culturali. Premessa irrinunciabile ad un corretto utilizzo di qualunque test (ma anche condizione di pre-comprensione dello stesso argomento culturale) è rappresentato dalla lettura del fatto oggetto della controversia attraverso la prospettiva della parte che è portatrice di un’altra visione del mondo (pag. 289).
Grandi le potenzialità del test culturale, ma numerosi anche i rischi. Da un lato, il test potrebbe essere usato anche a livello normativo dai legislatori che si adoperano per fornire delle risposte a tali conflitti. Allo stesso tempo potrebbe funzionare come criterio di ragionevolezza nell’iter logico argomentativo condotto dalla stessa Corte costituzionale. Dall’altro, è la stessa tradizione giuridica italiana che nel fare resistenza ad accogliere il test, strumento nato e cresciuto nel campo delle discipline scientifiche, evidenzia come si tratti di uno strumento potenzialmente pericoloso. La sua introduzione nell’argomentazione giuridica sarebbe quindi stridente specialmente laddove fosse visto come una “ricetta preconfezionata”, come una griglia con domande alle quali il giudice è chiamato a rispondere o si o no.
Ma, come sottolinea l’Autrice, il test non vuole introdurre delle gerarchie di valori: il suo potenziale risiede nel rappresentare uno strumento antropologico di base da fornire ai giudici laddove siano chiamati ad occuparsi di tematiche che coinvolgono elementi “altri” o “extra-sistema” o comunque materie sulle quali persiste ancora un poco di confusione dovuta al fatto che mancano gli adeguati strumenti conoscitivi. Questa carenza può comportare il rischio, come avverte l’Autrice, a sentenze troppo distanti tra di loro e alla perpetuazione di stereotipi e pregiudizi.
Per quanto opinabile possa essere la bontà dell’utilizzo di un test culturale nell’argomentazione giudiziale (sulla cui bontà, peraltro, concordo pienamente), il merito del lavoro svolto dall’Autrice è quello di rilevare come ci troviamo di fronte ad una tradizione giuridica comune, seppur in divenire. Tradizione che nascerebbe come risultato di un dialogo tra giurisprudenze e che, oltre a sfociare nella circolazione di modelli, si auspica confluisca anche in una consapevolezza giuridica che consenta al diritto costituzionale contemporaneo di dotarsi di un bagaglio categoriale e argomentativo che doti il giudice antropologo di una bussola per districarsi tra le intricate rotte del multiculturalismo (pag. 349).
25 Aprile 2013
di Irene Spigno
Il passato che non passa e il relativismo culturale dei diritti fondamentali. Brevi considerazioni a margine della sentenza Peta Deutschland v. Germany.
Ci sono alcuni temi del passato che non costituiscono solo materiale di lavoro per gli storici. Essi travalicano la passione degli studi storiografici ed entrano nella memoria collettiva, dove rimangono, risvegliando, ogni volta che vengono richiamati all’attenzione pubblica, dolori e ferite mai completamente rimarginate. Ma il “passato che non passa” lascia anche lo spazio per delle suggestioni di più ampio respiro sulla portata dei diritti umani oggi, in particolare in un momento in cui sempre più si dibatte sugli effetti della globalizzazione sulle istituzioni giuridiche, sull’abbattimento dei confini nazionali, sul rapporto particolarismo vs. universalismo. Tematiche queste che coinvolgono non più solo il continente europeo, che era stato quello più direttamente coinvolto dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
È questa la cornice all’interno della quale deve essere letta la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Peta Deutschland v. Germany (43481/09). Il cuore della questione portata all’attenzione del giudice europeo è ancora una volta l’Olocausto quale limite alla libertà di espressione. L’associazione animalista Peta Deutschland (ramo tedesco dell’organizzazione internazionale “People for the Ethical Treatment of Animals” che si occupa della tutela dei diritti degli animali) per sostenere la propria campagna contro il maltrattamento degli animali aveva utilizzato dei poster che riproducevano delle fotografie nelle quali erano raffigurati, accanto a degli animali maltrattati in modo evidente, dei detenuti nei campi di concentramento. Tale campagna, il cui obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa dell’associazione stessa, fu invece percepita come offensiva e lesiva della dignità umana e dei diritti della persona da parte di alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, che presentarono ricorso alle competenti autorità tedesche con la richiesta di una misura civile idonea a far desistere l’associazione Peta dal continuare a utilizzare tale pubblicità.
I ricorrenti ottennero ragione in tutti i gradi di giudizio, mentre qualunque istanza presentata da Peta basata sull’esercizio della propria libertà di espressione fu respinta. Difatti, anche se la campagna pubblicitaria contestata rappresentava comunque una forma di espressione garantita dall’art. 5 della Legge Fondamentale tedesca (posto che rappresenta un orientamento pacifico nella giurisprudenza tedesca, che tale norma protegge anche espressioni formulate in modo polemico o offensivo), le immagini denunciate, nell’accomunare animali maltrattati e persone internate in un campo di concentramento, trasmettevano il messaggio che si trattava di esseri posizionati sullo stesso livello. Allo stesso modo, tutte le autorità che si sono pronunciate sul punto hanno riconosciuto che non vi era motivo alcuno di pensare che l’obiettivo della campagna fosse quello di umiliare le vittime dell’Olocausto, posto che risultava evidente come il loro fine fosse quello di criticare le condizioni in cui gli animali vengono trattati.
Sulla questione si è pronunciata anche la Corte Costituzionale, la quale ha preferito non addentrarsi nella questione se la campagna pubblicitaria di Peta rappresentava anche la violazione della dignità umana, sia dei ricorrenti che delle persone ivi raffigurate, optando per le rive più sicure dei diritti della personalità.
Così, anziché procedere al bilanciamento tra interessi costituzionali tutti meritevoli di tutela (dignità umana vs. libertà di espressione), il giudice di Karlsruhe ha richiamato la precisa opzione effettuata dalla Legge Fondamentale tedesca che mette al centro la dignità umana (riconosciuta peraltro all’art. 1) e solo marginalmente tutela gli animali, concludendo quanto meno per l’arbitrarietà della similitudine effettuata tra animali ed essere umani, che di fatto banalizzava la sofferenza delle vittime dell’Olocausto. Tali conclusioni, secondo la Corte, sarebbero inoltre giustificate anche dall’idea che gli ebrei che vivono in Germania appartengono ad un gruppo nei confronti del quale lo Stato ha uno speciale obbligo morale.
Con una decisione presa all’unanimità e dopo aver speso poche parole circa la sussistenza dei requisiti formali previsti dal comma 2 dell’art. 10 della Convenzione per la limitazione del diritto alla libera espressione (e quindi che la restrizione sia prevista da una legge e che sia idonea a proteggere la reputazione o i diritti altrui), la Corte si è soffermata su quello che è il punto generalmente foriero di dibattiti e cioè se la limitazione ad un diritto possa essere considerata necessaria in una società democratica. Se da un lato, il test elaborato dalla Corte richiede che esista un pressing social need, dall’altro lato, gli Stati hanno comunque un margine di apprezzamento abbastanza ampio per valutare la sussistenza di tale necessità ed effettuare un bilanciamento dei vari interessi in gioco. Ciò non esclude comunque che vi sia un controllo europeo, essendo la Corte titolare del diritto all’ultima parola sulla compatibilità di atti normativi o decisioni giudiziali nazionali con le disposizioni della Convenzione.
Con riferimento alla libertà di espressione il discorso si complica ulteriormente, in particolare per quanto riguarda i discorsi politici e/o i temi di pubblico interesse. Infatti, in quest’ultima ipotesi solo weighty reasons possono giustificare la limitazione del diritto alla libera espressione.
Weighty reasons individuate nella strumentalizzazione delle vittime dell’Olocausto, per di più se mostrate in uno stato di profonda vulnerabilità. Difatti, nonostante la Corte, condivida con le diverse autorità tedesche che si sono pronunciate sulla questione la considerazione che la pubblicità contestata costituiva l’espressione di un’opinione protetta dal diritto ad una libera espressione su una materia di evidente interesse pubblico, condivide anche l’idea che si è avuta una violazione dei diritti dei ricorrenti in quanto ebrei sopravvissuti all’Olocausto che vivono in Germania.
Elemento imprescindibile nella risoluzione del presente caso è rappresentato dalla considerazione dal contesto sociale e storico di riferimento, che consente al giudice di Strasburgo di sottolineare le differenze con casi analoghi avvenuti in giurisdizioni diverse. Cosi qualunque riferimento all’Olocausto deve essere visto alla luce della storia tedesca e delle politiche adottate dal Governo che si considera sottoposto ad una speciale obbligo morale nei confronti degli ebrei che vivono in Germania. Ed è proprio tale contesto che quindi giustifica la restrizione di un diritto fondamentale, quale la libertà di espressione, seppure attraverso una sanzione civilistica, che comunque impedisce all’associazione Peta di pubblicare solo sette poster specifici, senza privarla peraltro di tanti altri mezzi per fare la campagna e convergere le attenzioni dell’opinione pubblica sul tema della protezione degli animali.
L’Olocausto continua quindi ad essere un tema tanto delicato, che nel contesto tedesco ancora oggi consente limitazioni alla libertà di espressione, seppur effettuate mediante lo strumento civilistico, anche laddove non si vuole mettere in dubbio la brutalità dell’evento e si voglia farne uso in senso positivo per interessi pubblici. Ma la decisione della Corte, anche a causa della scarna motivazione data, cela un pericolo nascosto, sapientemente messo in luce nell’opinione concorrente firmata dai giudici Zupančič e Spielmann. Si tratta della relativizzazione dei diritti fondamentali. Nessun problema si pone e la relativizzazione sarebbe solo un’ombra nel caso in cui la campagna pubblicitaria contestata fosse stata a sostegno del nazismo. Ma nel caso di specie, l’errore sarebbe da rinvenirsi proprio alla radice del problema: considerare la comparazione tra esseri umani e animali come una forma di espressione sarebbe un’aberrazione, sostengono i concurring judges, che rende difficile capire cosa non è coperto dalla libertà di espressione. Tale similitudine, che sarebbe di per se inaccettabile, nel caso di specie risulterebbe illegittima solo perché fatta nel particolare contesto tedesco.
In ogni caso, a prescindere dalla qualificazione della campagna come libertà di espressione o meno, tale relativizzazione risulta profondamente problematica da un punto di vista democratico e tale situazione risulta amplificata dal grande assente: il mancato riferimento alla dignità umana, infatti, mette in evidenza una forma di relativismo culturale dei diritti che avrebbe probabilmente condotto la Corte europea ad un risultato differente nel caso in cui teatro della vicenda fosse stato un altro Paese, seppur con una storia simile come l’Austria (a tale proposito si veda la sentenza della Corte suprema austriaca no. 6 Ob 321/04f, che nel decidere un caso analogo ha affermato che la campagna pubblicitaria in contestazione era protetta dalla libertà di espressione).
Rimane sempre la domanda alla quale non si riesce ancora a dare una risposta soddisfacente: qual è il limite della tolleranza? E la mancanza della risposta è legata ad una forma di relativismo culturale ancora troppo marcato che rende inaccettabile in Germania un qualcosa che inaccettabile non è (o non è più) in Austria, in Italia o in altre parti del mondo.
10 Gennaio 2013
di Irene Spigno
Da Roper e Graham a Miller: il passo in avanti della Corte suprema. Quanto manca alla quadratura del cerchio?
Con una decisione molto contrastata, che ha assistito ad una spaccatura interna della Corte suprema, gli Stati Uniti hanno messo un altro tassello fondamentale verso una ricostruzione sempre più liberale dell’ VIII Emendamento. Difatti, con la decisione Miller v. Alabama (567 U. S. ____ (2012)), cinque giudici della Corte (Kagan, Kennedy, Ginsburg, Breyer e Sotomayor) hanno dichiarato l'incostituzionalità, per violazione del divieto di “cruel and unusual punishment”, di quel sistema sanzionatorio contenuto nella legislazione di alcuni Stati che prevedeva l'obbligo per i giudici di comminare la pena dell'ergastolo senza libertà condizionale per il reato di omicidio anche a coloro che all'epoca del fatto erano minorenni. Questo l'esito di due ricorsi, presentati da due giovani, all’epoca dei fatti quattordicenni.
Diversi gli elementi in comune dei ricorsi presentati alla Corte: l’accusa di aver commesso lo stesso reato (omicidio); entrambi i ricorrenti erano stati processati secondo le procedure previste per gli adulti; gli era stata comminata la stessa pena (ergastolo senza possibilità di libertà condizionale). Inoltre, in entrambi i casi, i giudici non avevano alcuna discrezionalità per applicare un differente tipo di sanzione. Le leggi dell’Alabama e dell’Arkansas imponevano automaticamente tale sanzione anche ai minorenni riconosciuti colpevoli di tale reato, senza che l’organo giudicante potesse in alcun modo dare rilevanza ad elementi ulteriori, relativi sia al reato commesso, che alle caratteristiche personali dell’imputato, tra le quali, ad esempio, la giovane età. Tali valutazioni non erano ammesse nemmeno qualora avrebbero potuto condurre all’applicazione di una pena diversa, considerata più appropriata. Di fatto, tale tipo di schema sanzionatorio impediva ai giudici di considerare sia la affievolita colpevolezza dei minori, che la loro potenzialità di cambiamento.
La decisione della Corte rappresenta il punto di congiunzione e di convergenza tra due filoni giurisprudenziali, che ormai rappresentano due punti fermi della giurisprudenza statunitense in materia di VIII Emendamento, e che si intersecano nella necessità di garantire il principio della proporzionalità della pena. Esigenza che si manifesta in tutta la sua forza nel caso di pene comminate ad imputati minorenni.
Tra le altre cose, l'VIII Emendamento garantisce il diritto a non essere sottoposti a sanzioni eccessive, quale corollario di quell’irrinunciabile principio di giustizia secondo il quale la pena deve essere “graduated and proportioned” sia rispetto all'autore del reato, che al reato stesso. Il concetto di proporzionalità che, più che elaborato attraverso un prisma storico, si riferisce agli “evolving standards of decency that mark the progress of a maturing society” (cosi in Estelle v. Gamble, 429 U. S. 97, 102 (1976) che riprende Trop v. Dulles, 356 U. S. 86, 101 (1958)) è pertanto punto nevralgico nell’interpretazione dell’VIII Emendamento. Di conseguenza, se da un lato esso rappresenta un limite costituzionale all’imposizione della pena capitale per i minorenni (cosi in Roper v. Simmons, 543 U. S. 551, 560), dall’altro anche l’ergastolo senza libertà condizionale per i minori di 18 anni condannati per reati diversi dall'omicidio violerebbe il disposto costituzionale, essendo quest’ultima sanzione affine alla condanna alla pena capitale (cosi in Graham v. Florida (2010) 560 U.S. ___).
Tale affinità rileva ancor più nel momento in cui le autorità giudicanti non possono prendere in considerazione la personalità del reo e i dettagli del reato prima di decidere quale pena comminare.
La mancanza di maturità, il minore senso di responsabilità e la maggiore influenzabilità a situazioni e pressioni negative provenienti dall'ambiente che li circonda rendono i minorenni vulnerabili e incapaci di allontanarsi da quei contesti delittuosi, giustificando cosi l’imposizione di pene meno afflittive nei loro confronti anche nel caso in cui abbiano commesso crimini efferati, tra cui anche l'omicidio.
Questo in via generale. Ma vi è di più. Un sistema sanzionatorio (quale quello previsto in Alabama ed Arkansas, ma condiviso anche da altri numerosi Stati) che non prevede la possibilità per i giudici di considerare elementi quali la giovane età del reo o le circostanze del reato viola il principio di base comune sia a Graham che a Roper: lo Stato non può comminare delle pene ai minorenni come se non fossero minorenni. E ciò è ancora più vero in considerazione del parallelismo che si può fare tra la pena di morte e l’ergastolo senza libertà condizionale.
Anche se parte da i due filoni giurisprudenziali ormai consolidati di Roper e Graham, il giudice supremo statunitense si spinge un pochino oltre e pone un altro tassello, senza però completare la quadratura del cerchio.
Come visto, Roper ha riconosciuto che l'VIII Emendamento è violato nel caso di pena capitale comminata ai minorenni; Graham ha esteso il tiro, affermando che tale disposizione vieta una condanna all'ergastolo senza la possibilità di libertà condizionale per un minorenne che ha commesso un reato diverso dall'omicidio, sottolineando come tale sanzione sia paragonabile alla stessa pena capitale.
Il passaggio ulteriore compiuto in questo caso dalla Corte consiste nell’interpretare in modo estensivo quanto già affermato in Graham, rilevando come anche se si riconosce la diversità di gravità tra i vari reati, per quanto riguarda gli imputati minorenni non sarebbe corretto fare distinzione alcuna a seconda del reato commesso, in quanto tutte le condizioni personali legate all’età non sarebbero “crime-specific”. Difatti, l’età non sarebbe solo un dato cronologico, ma vi sono studi scientifici e psicologici che mostrano come a quella si accompagni una certa dose di immaturità e di impetuosità che impedisce di valutare attentamente i rischi e le conseguenze delle proprie azioni.
Sulla base di queste argomentazioni, la (risicata) maggioranza della Corte respinge con forza la difesa proposta dagli Stati resistenti, i quali, con argomentazioni analoghe a quelle avanzate dai giudici dissenzienti, hanno sottolineato come l'orientamento della Corte suprema in particolare in Harmelin (Harmelin v. Michigan, 501 U. S. 957) era nel senso di non ritenere una pena “cruel and unusual” solo perché imposta automaticamente (Id., at 995). Tale principio generale era stato sfumato con esclusivo riferimento ai casi di applicazione della pena capitale, nei quali si era riconosciuta una regola differente, che imponeva un sistema sanzionatorio individualizzato. La non estensione ai casi diversi dalla pena di morte era stata giustificata proprio in base alle differenze di tipo qualitativo tra la morte e le altre pene.
La Corte non usa mezzi termini e respinge con forza questo approccio definendolo “miope”, in quanto non tiene in considerazione le fondamentali differenze tra adulti e minori. Non si vuole vietare a priori una certa pena per un'intera classe di rei o per un tipo di reato – dice il giudice supremo -: ciò che si vuole è che il giudice, quando pronuncia una sentenza nei confronti di un imputato minorenne, abbia la possibilità di seguire un certo processo mentale che tenga in considerazione, tra le altre cose, anche l'età del reo.
Lo sforzo compiuto dalla Corte suprema nel dare un’interpretazione più liberale dell’VIII Emendamento è sicuramente apprezzabile e condivisibile. Ma manca ancora un elemento per completare la quadratura del cerchio. Nessun dubbio sussiste circa le differenze tra imputati minorenni e adulti: ma il principio di proporzionalità della pena è un principio fondamentale di giustizia che si applica a tutti gli esseri umani, indipendentemente dall’età.
L’imposizione automatica di una sanzione che non lascia al giudice possibilità alcuna di pronunciare una sentenza che si adegui alle circostanze specifiche del caso sarebbe comunque illegittima, almeno secondo un’ottica costituzionale che considera il principio di proporzionalità delle pene, come corollario del più generale principio di eguaglianza, nella sua declinazione di principio di ragionevolezza, che esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso.
Senza poi considerare che, a parere di chi scrive, anche la pena di morte per un adulto rappresenta un “cruel and unusual punishment”. Ma questa è un’altra storia.
12 Novembre 2012
di Irene Spigno
Ancora sulle lois memorielles: la parola del Conseil constitutionnel sull’antinegazionismo
Anche il giudice costituzionale francese ha avuto l’occasione tanto attesa: con la decisione n. 2012-647 DC, il Conseil constitutionnel ha censurato la legge che avrebbe punito la contestazione dell’esistenza di quei fatti riconosciuti come genocidi dalla legge francese, inserendosi cosi finalmente nel dibattito mondiale sulla compatibilità costituzionale delle normative antinegazionismo.
19 Marzo 2012
di Irene Spigno
Tra le tessere del mosaico culturale canadese non c’è la poligamia
“L’ordinamento costituzionale canadese non può tollerare la poligamia, in quanto pratica idonea a provocare danni di natura fisica e psicologica nei confronti delle donne che partecipano alle unioni poligamiche, dei figli nati da quella, così come, più in generale, della società stessa e del matrimonio monogamico”.
26 Gennaio 2012
di Irene Spigno
Speech is powerful. La Corte suprema statunitense e il I Emendamento
Deve considerarsi protetta dal I Emendamento una manifestazione contro la politica di tolleranza degli Stati Uniti nei confronti dell’omosessualità – specialmente all’interno dell’esercito – e contro la corruzione del clero nella Chiesa cattolica svoltasi in occasione del funerale di un soldato americano morto in Iraq? La risposta a tale domanda, data dalla netta maggioranza dei giudici della Corte suprema degli Stati Uniti, è stata affermativa. Nella recente decisione Snyder v. Phelps (562 U.S., 2011), il giudice supremo americano ha ricondotto tale manifestazione sotto le garanzie del I Emendamento, richiamando così l’attenzione sul mai sopito dibattito relativo al valore e alla portata di quella norma che, nel riconoscere la libertà di espressione, rappresenta il fondamento irrinunciabile della democrazia statunitense. In particolare, ancora una volta la Corte si è concentrata sulla possibilità che vengano apposti dei limiti a tale libertà, specialmente con riferimento a quelle forme espressive odiose e oltraggiose o comunque idonee a provocare intenzionalmente un profondo disagio emotivo in coloro nei confronti dei quali sono dirette.
16 Maggio 2011
di Irene Spigno