Ilaria Ricci
La libera interpretazione della libera prestazione di servizi: i mutevoli confini dell’istituto
Con la sentenza del 24 settembre 2013, Demirkan, C-221/11, la Corte di giustizia ha stabilito che i cittadini turchi che vogliono entrare nel territorio di uno Stato membro dell’Unione europea, per ivi fruire di servizi, debbono preventivamente ottenere un visto.
La questione era stata sollevata da una cittadina turca, la sig.ra Demirkan, la quale si era vista negare dalle autorità tedesche un visto per recarsi in Germania a far visita ad un familiare.
La cittadina turca aveva dunque proposto ricorso contro la Repubblica federale di Germania, dinanzi al Tribunale amministrativo di Berlino, affinché si accertasse il suo diritto a recarsi in Germania senza necessità di visto oppure, in subordine, ad ottenere un visto per scopo di visita.
Sosteneva la ricorrente che il diritto all’ingresso in Germania senza visto deriverebbe dall’art. 41 del Protocollo addizionale (firmato il 23 novembre 1970 e concluso, approvato e confermato a nome della Comunità mediante il regolamento (CEE) n. 2760/72 del Consiglio, del 19 dicembre 1972) all’Accordo di associazione tra la Turchia e la Comunità economica europea (firmato il 12 settembre 1963 e concluso, approvato e confermato a nome della Comunità con la decisione 64/732/CEE del 23 dicembre 1963).
Con l’Accordo di associazione, la Turchia e la Comunità economica europea hanno istituito un’associazione con l’obiettivo di promuovere un rafforzamento delle reciproche relazioni commerciali ed economiche, tenendo conto della necessità di assicurare un più rapido sviluppo dell’economia della Turchia e il miglioramento del livello di occupazione e del tenore di vita del popolo turco.
A tal fine, l’Accordo prevede, tra l’altro, che le parti contraenti si ispirino alle norme del trattato che istituisce la Comunità economica europea al fine di realizzare la libera circolazione dei lavoratori, nonché di eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazioni di servizi.
L’art. 41 del Protocollo addizionale contiene una clausola di “standstill” che vieta alle parti contraenti di introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi.
Alla data di entrata in vigore del Protocollo addizionale nei confronti della Germania, nel 1973, i cittadini turchi che intendevano soggiornare in Germania per non più di tre mesi, e senza esercitare un’attività lavorativa, erano esenti dall’obbligo di visto.
Solo nel 1980 è stato introdotto l’obbligo generale di visto per i cittadini turchi, obbligo che permaneva alla data del procedimento.
Inoltre, dal 2001, anche il diritto dell’Unione ha previsto un obbligo di visto per i cittadini turchi; in base al Regolamento (CE) n. 539/2001 del Consiglio, del 15 marzo 2001, che adotta l’elenco dei Paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne e l’elenco dei Paesi terzi i cui i cittadini sono esenti da tale obbligo.
Sosteneva la ricorrente che la clausola di standstill vieterebbe l’obbligo di restrizioni, come l’obbligo di ottenimento di un visto, non solo nei confronti di coloro che intendono effettuare una prestazione di servizi (libera prestazione di servizi “attiva”), ma anche nei confronti di coloro che intendono fruire di una prestazione di servizi (libera prestazione di servizi “passiva”).
La sig.ra Demirkan rilevava che una visita ad un familiare in Germania avrebbe necessariamente implicato la fruizione di servizi e, dunque, aveva invocato la norma di standstill, in virtù della quale si sarebbe dovuta applicare la disposizione vigente in Germania alla data di entrata in vigore del Protocollo addizionale, in base alla quale non era richiesto l’ottenimento del visto nel caso di soggiorni in Germania per scopo di visita.
Il giudice adito in prima istanza aveva respinto il ricorso, per cui la sig.ra Demirkan aveva proposto appello dinanzi alla Corte d’appello amministrativa di Berlino-Brandeburgo, che aveva sospeso il giudizio e presentato domanda di pronuncia pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, chiedendo di precisare la portata della clausola di standstill e di stabilire, in particolare, se nella nozione di libera prestazione di servizi di cui all’art. 41, paragrafo 1, del Protocollo addizionale rientrasse anche la libera prestazione di servizi passiva.
La Corte, con una articolata motivazione, ha statuito che la nozione di libera prestazione di servizi di cui all’art. 41, paragrafo 1, del Protocollo addizionale deve essere interpretata nel senso che essa comprende esclusivamente la libera prestazione di servizi “attiva” e non include la libertà per i cittadini turchi, destinatari di servizi, di recarsi in uno Stato membro per ivi fruire di una prestazione di servizi.
La motivazione della Corte sembra artificiosamente orientata, ab initio, al raggiungimento della predetta decisione.
Ai sensi dell’art. 56 TFUE, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro diverso da quello del destinatario della prestazione.
La giurisprudenza comunitaria ha stabilito che il diritto alla libera prestazione di servizi conferito dall’art. 56 TFUE ai cittadini degli Stati membri include la libera prestazione di servizi sia “attiva” che “passiva” (sentenza del 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone, 286/82 e 26/83; sentenza del 2 febbraio 1989, Cowan, 186/87; sentenza del 24 novembre 1998, Bickel e Franz, C-274/96).
In particolare, è stato precisato che, al fine di consentire l’esecuzione della prestazione di servizi, può aversi uno spostamento sia del prestatore che si reca nello Stato membro in cui il destinatario è stabilito, sia del destinatario che si reca nello Stato di stabilimento del prestatore per ivi fruire di servizi, senza soffrire restrizioni (sentenza Luisi e Carbone cit., punto 16).
La libera prestazione di servizi “passiva” è stato statuito, costituisce «il necessario complemento» della libera prestazione di servizi “attiva”, rispondendo «allo scopo di liberalizzare ogni attività retribuita e non regolata dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali» (sentenza Luisi e Carbone cit., punto 10).
Ne consegue che debbono essere considerati fruitori di servizi anche i turisti, i fruitori di cure mediche e coloro che effettuano viaggi di studio o d’affari (sentenza Luisi e Carbone cit., punto 16).
Sembrerebbe dunque che la questione all’esame della Corte sia di agevole soluzione: la clausola di standstill vieta l’introduzione di restrizioni alla libera prestazione di servizi, in tale nozione si ricomprende anche la prestazione di servizi “passiva”, e ciò anche quando la fruizione di servizi nel Paese di stabilimento del prestatore avviene da parte di turisti o soggetti che effettuino viaggi a titolo personale.
Da ciò sembrerebbe discendere immediatamente che la Germania non avrebbe potuto imporre alla Sig.ra Demirkan il previo ottenimento di un visto al fine di recarsi nel territorio tedesco per effettuare una visita ad un familiare.
La Corte, tuttavia, non giunge a tali conclusioni.
Per la Corte, infatti, la nozione di libera prestazione di servizi applicabile al caso della cittadina turca non comprenderebbe la libera prestazione di servizi “passiva”.
Secondo la Corte, in buona sostanza, l’ambito della nozione di libera prestazione di servizi può variare a seconda (della nazionalità) del soggetto individuato come fruitore di servizi, ovvero della “fonte” della tutela della libera prestazione di servizi.
Rileva la Corte come l’identificazione dei confini di tutela della libera prestazione di servizi nel caso di cui si discute andrebbe effettuata tenendo in considerazione lo scopo dell’Accordo di associazione e del Protocollo addizionale e la volontà effettiva delle parti nello stipulare tali atti.
Trattandosi di trattati internazionali, la metodica della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati impone che un trattato sia interpretato in buona fede secondo il significato ordinario da attribuirsi ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato stesso.
In questo senso, è stato chiarito che «l’estensione dell’interpretazione di una disposizione del Trattato ad una disposizione, redatta in termini paragonabili, simili o addirittura identici, figurante in un accordo concluso dall’Unione con uno Stato terzo dipende in particolare dalla finalità perseguita da ciascuna di queste disposizioni nel proprio ambito specifico» (sentenza Demirkan, cit., punto 47).
Al riguardo, la Corte ha rilevato come, ai sensi del TFUE la tutela della libera prestazione di servizi si baserebbe sull’obiettivo consistente nella realizzazione di un mercato interno tra i Paesi membri dell’Unione, concepito come spazio senza frontiere interne, eliminando tutti gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un siffatto mercato. Tale obiettivo differenzierebbe il Trattato dall’Accordo di associazione, il quale perseguirebbe una finalità essenzialmente economica.
Secondo la Corte, l’interpretazione data alle disposizioni del diritto dell’Unione relative al mercato interno, comprese quelle del Trattato, non potrebbe essere trasposta in modo automatico all’interpretazione di un accordo concluso dall’Unione con uno Stato terzo, salvo che lo stesso accordo non contenga espresse disposizioni in tal senso (sentenza del 9 febbraio 1982, Polydor e RSo Records, 270/80).
Ebbene, l’art. 14 dell’Accordo di associazione stabilisce che le parti contraenti debbano “ispirarsi”alle (to be guided by) disposizioni del Trattato relative alla libera prestazioni di servizi, incluso l’attuale art. 56 del TFUE, per eliminare tra loro le restrizioni alla libera prestazione di servizi.
Inoltre, secondo la giurisprudenza, la clausola di standstill prevista dall'art. 41, n. 1, del Protocollo addizionale rappresenta il corollario degli artt. 13 e 14 dell’Accordo di Associazione, del quale costituisce lo strumento indispensabile per realizzare la progressiva abolizione degli ostacoli nazionali alle libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi (sentenza del 21 ottobre 2003, Abatay e a., C-317/01 e C-369/01).
D'altro canto, ha stabilito la giurisprudenza, dallo stesso tenore letterale dell'art. 14 dell'Accordo di associazione, nonché dall'obiettivo perseguito dall'associazione in questione, si evince che i principi sanciti nell'ambito delle disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi devono essere applicati, nei limiti del possibile, ai cittadini turchi per abolire, tra le parti contraenti, restrizioni alla libera prestazione dei servizi (sentenza Abatay, cit., punto 112).
Nonostante ciò, la Corte ha ritenuto che nulla nell’Accordo di Associazione e nel Protocollo addizionale potesse consentire di interpretare la libera prestazioni di servizi nello stesso modo in cui viene interpretata ai sensi del Trattato quando destinatari di tale libertà sono i cittadini dell’Unione.
Sotto un ulteriore profilo, sostiene la Corte che nessun elemento indicherebbe che le parti contraenti abbiano inteso la nozione di libera prestazione di servizi, al momento della stipula dell’Accordo di associazione e del Protocollo addizionale, come comprendente anche la libera prestazione di servizi “passiva”.
In effetti, il contenuto della libera prestazione di servizi era incerto al momento degli accordi in questione. L’estensione delle libera prestazione di servizi di cui al diritto comunitario alla libera prestazione “passiva” è stata effettuata solamente nel 1984 con la citata sentenza Luisi e Carbone.
In considerazione di ciò, tuttavia, se non può dirsi con certezza che le parti contraenti l’Accordo di associazione e il Protocollo aggiuntivo, alla data della loro stipula, avessero in mente di estendere la tutela alla prestazione di servizi “passiva”, allo stesso modo non può dirsi che i Paesi membri dell’Unione, alla data di stipula dei Trattati istitutivi, avessero in mente una nozione dell’istituto così ampia.
Dalle sue origini, il diritto dell’Unione ha subito una progressiva evoluzione, durante la quale si è passati da una comunità essenzialmente economica, che sembrava poter sancire esclusivamente i diritti strettamente necessari alla progressiva instaurazione del mercato unico (le quattro libertà di circolazione), ad una Unione che si occupava (e preoccupava) anche della tutela dei diritti dei suoi cittadini.
In questo ambito, gran parte degli istituti del diritto comunitario e, soprattutto le quattro libertà di circolazione, hanno subito nel corso del tempo modifiche e sviluppi amplissimi, probabilmente impensabili (ed impensati) nel periodo della stesura delle relative disposizioni dei trattati istitutivi.
Se l’intenzione del legislatore, al momento della stesura dei trattati, era quello di riferirsi esclusivamente alla prestazione di servizi “attiva”, ciò non ha impedito che, successivamente, l’art. 56 TFUE potesse essere interpretato anche come comprendente la prestazione di servizi “passiva”.
Non si vede dunque perché anche le previsioni dell’Accordo di associazione e del Protocollo addizionale non possano essere “attualizzate”, ossia aggiornate conformemente alla nozione di libera prestazione di servizi oggi riconosciuta, ma debbano restare ancorate ad una interpretazione ormai superata dell’istituto.
Le parti contraenti l’Accordo di associazione e il Protocollo aggiuntivo hanno stabilito di ispirarsi all’(attuale) art. 56 TFUE, proprio per eliminare le reciproche restrizioni alla libera prestazione di servizi.
Ebbene, in virtù del richiamo effettuato dalle parti contraenti all’art. 56 TFUE, le disposizioni degli accordi in questione dovrebbero essere interpretate sulla base dell’art. 56 TFUE nel suo significato e contesto attuale e vigente, come oggi esso è concepito.
Se è vero che probabilmente le parti non avevano inteso equiparare completamente la portata della libera prestazione di servizi di cui agli accordi in discussione a quella di cui al Trattato (altrimenti avrebbero potuto utilizzare espressioni meno ambigue da cui emergesse senza alcun dubbio la volontà di una “interpretazione conforme”), il termine utilizzato all’art. 14 dell’Accordo di associazione, ossia “ispirarsi”, sembra tuttavia confermare l’intenzione delle parti contraenti di adeguare l’interpretazione e la portata della tutela della libera prestazione di servizi tra Unione e Turchia all’interpretazione e alla portata della tutela della libera prestazione di servizi tra cittadini dell’Unione come sviluppantesi nel tempo, aggiornandola ed integrandola prendendo come principio ispiratore proprio la portata dell’art. 56 TFUE.
Pur considerando tali elementi, non può tuttavia non darsi conto di una visione della questione più ampia e sfaccettata.
E’ stato notato come, nella tutela della libera prestazione di servizi “passiva” e in quella “attiva” emergano differenze sostanziali.
In particolare, la libera prestazione di servizi “attiva” risulta riferibile ai prestatori di servizi transfrontalieri e, dunque, ad un gruppo definibile di persone. La libera prestazione di servizi “passiva”, invece, si rivolge al gruppo dei consumatori di servizi cui tutti potenzialmente appartengono (si vedano le conclusioni dell’avvocato generale Pedro Cruz Villalòn presentate l’11 aprile 2013 nella causa Demirkan, cit., punto 49).
Anche in considerazione di ciò è stato rilevato come l’applicazione della clausola di standstill anche ai destinatari di servizi farebbe implodere la politica comune dei visti (conclusioni dell’avvocato generale Pedro Cruz Villalòn presentate l’11 aprile 2013 nella causa Demirkan, cit., punto 42).
In tal caso, infatti, i cittadini turchi fruitori di servizi, invocando l’art. 41, paragrafo 1, del Protocollo addizionale potrebbero far ingresso senza visto non solo in Germania, ma anche negli altri Paesi Schengen soggetti agli obblighi dell’Accordo di associazione e del Protocollo addizionale, mentre altri Paesi dell’Unione imporrebbero loro tale obbligo in base alla normativa comunitaria.
In questo modo, si verrebbe a creare una «grave minaccia per l’omogeneità dello spazio Schengen» (conclusioni dell’avvocato generale Pedro Cruz Villalòn presentate l’11 aprile 2013 nella causa Demirkan, cit., punto 42).
L’apertura ai cittadini turchi della nozione di libera prestazione di servizi come comprendente anche la prestazione “passiva” comporterebbe una rilevante apertura delle frontiere dell’Unione ai cittadini turchi, tutti potenziali consumatori.
In questo modo si consentirebbe alla libera prestazione di servizi “passiva”, nella sostanza, di costituire il varco attraverso il quale (implicitamente) garantire ai cittadini turchi la (tutela della) libera circolazione delle persone (in quanto consumatori poiché potenziali fruitori di servizi).
Tali considerazioni sembrerebbero costituire la “reale” (o comunque il substrato della) motivazione della sentenza in commento.
In questo senso può comprendersi che la Corte abbia negato di riconoscere la libera prestazione di servizi di cui all’Accordo di associazione e al Protocollo aggiuntivo come includente anche la prestazione di servizi “passiva”.
Un tale riconoscimento avrebbe portato con sé la sostanziale apertura ai cittadini turchi delle frontiere di Paesi membri e, dunque, la sostanziale possibilità per gli stessi di circolarvi liberamente.
Sembrerebbe dunque che la Corte abbia voluto anticipare ed evitare eventuali pericolose derive che una tale apertura avrebbe potuto comportare, non necessariamente con riferimento alla popolazione turca, ma in relazione a qualunque potenziale estensione analogica, nei confronti di chiunque, di una tale interpretazione.
7 Novembre 2013
di Ilaria Ricci
La forza espansiva della libera circolazione dei lavoratori: la sentenza della Corte di Giustizia del 20 giugno 2013, Elodie Giersch e altri, causa C-20/12
Non può negarsi che, nell’ambito dell’Unione Europea, la libera circolazione dei lavoratori sia stata (e sia) una delle libertà fondamentali maggiormente soggette ad una evoluzione progressiva e costante che ne ha plasmato nel tempo la forma e il contenuto sino a ridisegnarne i confini e (talvolta) gli obiettivi.
Il principio enunciato all’art. 45 (ex articolo 39 CE) del TFUE, come un moderno “cavallo di Troia”, ha in più occasioni consentito alla Corte di Giustizia di aprire una breccia nell’acquis comunitario in materia, dilatando l’applicazione e l’applicabilità del principio in questione al di là del suo stretto tenore letterale, costituendolo garante non solo del diritto dei cittadini europei di circolare liberamente nel territorio dell’Unione Europea per motivi di lavoro, ma anche dei più ampi diritti sociali dei lavoratori e dei loro familiari.
Una recente sentenza della Corte di Giustizia del 20 giugno 2013, Elodie Giersch e altri, causa C-20/12) conferma la forza espansiva del principio di libera circolazione dei lavoratori, precisando ed allargando l’ambito di applicazione dello stesso principio.
La questione portata all’attenzione della Corte di Giustizia riguarda i figli di alcuni lavoratori frontalieri, occupati in Lussemburgo, ai quali era stata negata la concessione di un sussidio economico volto ad incentivare il compimento di studi superiori sul territorio lussemburghese o di altro Paese dell’Unione. Tale sussidio viene concesso dal Lussemburgo agli studenti, lussemburghesi o cittadini di un altro Stato membro, che risiedano in Lussemburgo nel momento in cui intraprendono gli studi superiori. In tal modo, i figli dei lavoratori frontalieri che risiedano in un Paese limitrofo del Lussemburgo risultano esclusi dal beneficio del sussidio.
Con la citata sentenza la Corte, investita della questione dal tribunal administratif lussemburghese, ha rilevato che il sussidio economico in questione costituisce, per il lavoratore medesimo, un vantaggio sociale (in questo senso si era pronunciata anche nella sentenza del 26 febbraio 1992, Bernini, causa C‑3/90 e nella sentenza del 18 luglio 2007, Hartmann, causa C‑212/05) che deve essergli riconosciuto alle stesse condizioni dei lavoratori nazionali e che, dunque, deve essere garantito non solo ai lavoratori migranti residenti in uno Stato membro ospitante, bensì parimenti ai lavoratori frontalieri i quali, pur ivi esercitando la loro attività lavorativa dipendente, risiedano in un altro Stato membro.
La Corte ha precisato che il requisito di residenza costituirebbe una discriminazione indiretta fondata sulla cittadinanza, ma ha riconosciuto che l’obiettivo dichiarato dal Lussemburgo di voler incrementare la percentuale dei residenti titolari di un diploma di istruzione superiore costituisca un legittimo obiettivo idoneo a giustificare tale disparità di trattamento e che tale requisito di residenza sia idoneo a garantire la realizzazione di tale obiettivo. Tuttavia, il requisito della residenza eccederebbe quanto necessario ai fini del raggiungimento dell’obiettivo perseguito, poiché impedirebbe di tener conto di altri elementi potenzialmente rappresentativi del reale grado di collegamento del richiedente il sussidio economico con la società o con il mercato del lavoro del Lussemburgo. La normativa lussemburghese contestata, pertanto, a giudizio della Corte, andrebbe al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito dal legislatore e sarebbe pertanto contraria al principio di libera circolazione dei lavoratori.
Tale posizione risulta confermata anche in altre decisioni (sentenza del 14 giugno 2012, Commissione/Paesi Bassi, causa C-542/09 e sentenza del 18 luglio 2013, Laurence Prinz/Region Hannover, Philipp Seeberger/Studentenwerk Heidelberg, cause riunite C-523/11 e C-585/11), con le quali la Corte ha stabilito che sarebbe contrario al principio di libera circolazione subordinare il beneficio di un sussidio economico al requisito della residenza almeno per un determinato periodo nel Paese concedente il sussidio. Tale requisito, infatti, potrebbe creare una disparità di trattamento tra i lavoratori nazionali e i lavoratori migranti e frontalieri e potrebbe eccedere quanto necessario per conseguire l’obiettivo posto dal Paese ospitante.
Da tali decisioni emerge una (più o meno consapevole) volontà di estendere il principio della libera circolazione dei lavoratori (e, in particolare, l’art. 7, comma 2 del regolamento n. 1612/68), in modo che questi giustifichi un allargamento delle prerogative del lavoratore che si sposta all’interno dell’Unione Europea, sino a comprendere diritti e garanzie riservati “direttamente” al familiare del lavoratore.
Sembrerebbe evidenziarsi, in questo ambito, la volontà del legislatore e della giurisprudenza di tutelare il lavoratore inteso non più solo come entità a sé stante, ma considerato nel suo più ampio contesto di interazioni sociali, quasi occupandosi (e, in un certo qual modo, preoccupandosi) della sua complessità familiare e sociale, e cercando, in tale ottica, di eliminare quegli ostacoli che non consentono una piena integrazione (sociale, umana e relazionale) non solo del lavoratore, ma anche dei suoi familiari, nel Paese dove questi è occupato.
L’acquis comunitario, in questa materia, sembra infatti orientato ad interpretare in maniera sempre più ampia ed elastica il principio della libera circolazione, quasi a voler immaginare e tutelare una sorta di “benessere sociale” del lavoratore, che si attui anche attraverso la soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni dei suoi familiari.
In particolare, infatti, il concetto della parità di trattamento tra lavoratori, indipendentemente dal criterio della nazionalità, viene oggi coniugato in vari modi: il lavoratore e i suoi familiari hanno diritto, tra l’altro, non solo ad ottenere i medesimi vantaggi fiscali del lavoratore residente o cittadino del Paese ospitante, ma anche i medesimi vantaggi sociali, con ciò comprendendo sia le prestazioni di natura finanziaria (quali l'assegno minimo per la sussistenza o l'indennità di educazione, le borse di studio, i prestiti e gli assegni di nascita), che quelle di natura non finanziaria che tradizionalmente non sono considerate vantaggi sociali. La Corte ha deciso, ad esempio, che il diritto di richiedere che un procedimento giudiziario si svolga in una determinata lingua (sentenza dell’11 luglio 1985, Pubblico Ministero/Robert Heinrich Maria Mutsch, causa C-137/84) e la possibilità per il lavoratore migrante di ottenere che il proprio compagno non coniugato sia autorizzato a soggiornare con lui (sentenza del 17 aprile 1986, Olanda/Ann Florence Reed, causa C-59/85) sono da considerarsi inclusi nel concetto di vantaggio sociale a norma dell'articolo 7, paragrafo 2, del citato regolamento (sul punto, si veda la Comunicazione della Commissione Com/2010/0373).
Appare dunque evidente che, ad oggi, il principio di libera circolazione dei lavoratori presenta molteplici sfaccettature e un notevole potenziale propulsivo per lo stesso sviluppo dell’Unione Europea.
D’altronde, come rilevato, è un dato di evidenza storica che il processo di integrazione europea presenti un carattere aperto di fenomeno in continua evoluzione, la cui originalità riflette proprio questa sua intrinseca natura evolutiva (Moccia L., Il “sistema” della cittadinanza europea: un mosaico in continua evoluzione, in Moccia L. (a cura di), Diritti Fondamentali e Cittadinanza dell’Unione Europea, Milano, 2010, 165).
In quest'ambito dinamico, caratterizzato da cambiamenti dettati dal processo di integrazione europea ma anche dalla politica del mercato del lavoro e dalla struttura della famiglia, la libera circolazione dei lavoratori può contribuire non solo alla realizzazione del mercato unico ma anche alla costruzione di una dimensione sociale significativa, attraverso la promozione dell'inclusione sociale, economica e culturale dei lavoratori migranti dell'Unione Europea negli Stati membri che li ospitano (Comunicazione della Commissione Com/2010/0373, già citata).
Occorrerà dunque verificare e monitorare il dinamismo del principio in questione e tentare di delineare, nella sua evoluzione, una progettualità complessiva che possa tracciarne e farne intravedere gli obiettivi dello sviluppo futuro nel più generale contesto del processo di integrazione europea.
25 Luglio 2013
di Ilaria Ricci