Giuseppe Martinico
Anna Margherita Russo (a cura di), Los escenarios móviles del derecho regional europeo Reflexionando en el palacio de Godoy, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2015, pp. 171
Come la dottrina ha messo in luce, la crisi che (ancora) tormenta l’Unione Europea non è solo di natura economica, trovando le proprie radici in questioni molto più profonde che rivelano alcune debolezze del processo integrativo. Nelle parole di Menéndez “the European Union is not undergoing one crisis, but is instead suffering several simultaneous, interrelated, and intertwined crises—crises, which are global, not exclusively European. Put differently, the subprime crisis turned the economic, financial, fiscal, macroeconomic, and political structure weaknesses of the Western socio-economic order into at least five major crises” (A. Menéndez, “The Existential Crisis of the European Union”, German Law Journal, 2013, 453-526). È normale, allora, cercare di affrontare tali questioni da più punti di vista, privilegiando l’interdisciplinarietà, che è da sempre caratteristica essenziale degli studi europei.
30 Marzo 2015
Federico Fabbrini, Fundamental Rights in Europe. Challenges and Transformations in Comparative Perspective (Oxford University Press, Oxford), 2014
Il libro qui recensito rappresenta la versione rivista e aggiornata della tesi di dottorato discussa dall’Autore presso l’Istituto universitario europeo di Fiesole. Si tratta di un lavoro dove Fabbrini ripropone tesi in parte anticipate in articoli pubblicati su prestigiose riviste internazionali (fra cui, a titolo esemplificativo, ricordiamo la European Constitutional Law Review e il Georgetown Journal of International Law). Il volume si divide in sei capitoli a cui si aggiungono un’Introduzione- in cui l’obiettivo e la struttura del lavoro vengono presentati al lettore- ed una breve sezione conclusiva.
La premessa da cui Fabbrini prende le mosse è la simultanea protezione offerta ai diritti umani dai diversi livelli ordinamentali: Costituzioni nazionali, CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (e Trattati sovranazionali) sono appunto viste come le “Carte” a cui la pluralità di attori fa riferimento nella “complex constitutional architecture” europea (p. 1). Scopo della ricerca è analizzare le implicazioni di tale architettura e le interazioni dinamiche fra gli ordinamenti coinvolti. Per tentare di rispondere alle questioni sollevate dalle dinamiche multilivello, Fabbrini adotta un approccio comparatistico: “The core methodological claim of the book is that the comparative approach provides the most suitable laboratory to explain the constitutional dynamics at play in the European multilevel human rights architecture. In particular, on the basis of several structural and normative arguments, the book maintains that the European multilevel human rights architecture can be meaningfully compared with the federal system of the United States (US)” (p. 1).
16 Ottobre 2014
Antonio Padoa Schioppa, Verso la federazione europea? Tappe e svolte di un lungo cammino. Il Mulino, Bologna, 2014, p. 541 (38 euro).
Recentemente il Mulino ha pubblicato una lunga raccolta di saggi scritti da Antonio Padoa Schioppa in un volume unico dall’emblematico titolo “Verso la federazione europea? Tappe e svolte di un lungo cammino”.
Si tratta di una serie di articoli redatti fra il 1981 ed il 2014, quasi a scandire idealmente le tappe che hanno condotto l’UE alle ultime vicende, segnate da numerose ombre sul destino del progetto europeo ma anche dalle ultime elezioni europee caratterizzate dalla, di fatto, elezione indiretta del Presidente della Commissione, secondo il modello dello Spitzenkandidaten.
13 Ottobre 2014
La Forma Del Poder: Estudios Sobre la Constitución, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2012.
L’Opera recensita raccoglie in tre volumi una nuova ed ampliata edizione del famoso libro del Prof. Rubio Llorente “La forma del poder”, pubblicata sempre dalla casa editrice del Centro de Estudios Políticos y Constitucionales di Madrid. Nello specifico si tratta della terza edizione ma si dovrebbe parlare di una nuova pubblicazione date le differenze, sia nella struttura che nei contenuti, che caratterizzano la versione qui recensita.
Il merito di un’Opera del genere non è solo quello di raccogliere testi dispersi fra riviste e volumi collettanei, quanto soprattutto quello di offrire una visione davvero completa del pensiero di uno dei massimi costituzionalisti dell’Europa continentale (e non solo). Proprio con questo secondo intento la terza edizione si caratterizza per l’abbandono del criterio “cronologico” (che limitava la raccolta ai soli scritti del periodo 1978-1992), sostituito da un criterio tematico che ha indotto il Prof. Rubio Llorente a recuperare gli scritti anteriori al 1978 e quelli successivi al 1992. L’Opera finale si divide in quattro parti: la prima è dedicata al tema “Poder constituyente y constitución” e si divide a sua volta in quattro sezioni. La prima sezione della prima parte si concentra sul processo di elaborazione e sulle caratteristiche generali del testo costituzionale spagnolo e include due dei più famosi scritti del Maestro spagnolo: quello sul “Bloque de constitucionalidad”e quello sulla “La Constitución como fuente de derecho”. La seconda sezione della prima parte, a conferma dell’abbandono del criterio cronologico, si intitola “Constitución e integración europea” e raccoglie vari scritti sul processo di integrazione, sul costituzionalismo sovranazionale e sul rapporto fra diritto interno e comunitario (o dell’Ue, come si direbbe oggi). La terza sezione della prima parte (“Constitucionalistas españoles”) raccoglie alcuni studi sul pensiero di altri Maestri spagnoli come Manuel García Pelayo, Adolfo Posada, Diego Muñoz Torrero e Francisco Tomás y Valiente, mentre la quarta consta di due scritti sull’insegnamento del diritto costituzionale.
5 Febbraio 2014
Il giurista quantistico. A proposito di “Roberto Bin, A discrezione del giudice. Ordine e disordine una prospettiva “quantistica”, Franco Angeli, Roma, 2013”
Il nuovo libro di Roberto Bin si caratterizza per un approccio fortemente innovativo ed interdisciplinare.
L’Autore sviluppa una serie di intuizioni già presenti in altri suoi precedenti scritti, trasformandole in un libro davvero ricco, stimolante e godibile.
Bin prende le mosse, come risulta evidente fin da subito, da un fortunato scritto di Laurence Tribe, “The Curvature of Constitutional Space: What Lawyers Can Learn from Modern Physics” (pubblicato su Harvard Law Review, Vol. 103, No. 1, 1989, 1-39).
L’obiettivo del lavoro viene descritto chiaramente nell’Introduzione: anche il diritto deve conoscere la sua rivoluzione quantistica; cioè, abbandonare alcuni luoghi comuni che non corrispondono a ciò che realmente accade.
Per intraprendere un’impresa tanto ardita, l’Autore decide di prendere in esame il tema della discrezionalità del giudice nell’applicazione delle leggi, partendo dall’asimmetria presente nei moderni sistemi costituzionali fra giudici e legislatori, essendo i secondi “l’unica autorità che nel nostro sistema può vantare una piena legittimazione democratica, per cui ogni esercizio di potere pubblico che non si leghi saldamente alle sue indicazioni appare arbitrario e inaccettabile” (p.7).
Al contrario “sempre più spesso le valutazioni del giudice sembrano prive di briglie, libere di svolgersi secondo convinzioni personali, piuttosto che nell’alveo dei criteri fissati dal legislatore” (p.7).
La questione della discrezionalità del giudice è sempre stata al centro dell’interesse degli studiosi. Bin ricorda due approcci diversissimi al tema: quello della teoria del diritto di Kelsen e quello della teoria dell’interpretazione di Dworkin.
Si tratta di due concezioni diversissime eppure, secondo Bin, entrambe molto “newtoniane” nel percepire il giudice quale realtà esterna all’oggetto dell’interpretazione: è come se il giudice fosse una sorta di Demone di Laplace, un osservatore esterno che non influisce sul sistema che scruta (“Entrambi gli approcci hanno un punto debole che vorrei sottoporre a critica e che riguarda la loro comune premessa epistemologica. Si tratta della netta separazione tra l’oggetto e il soggetto dell’interpretazione/applicazione del diritto”, p. 15).
Proprio questa scissione soggetto/oggetto è messa in discussione dall’Autore e definita con la formula “ontologia del materialismo” o “ontologia materialistica”: “l’idea cioè che nel processo di interpretazione e di applicazione del diritto l’interprete abbia a che fare con ‘cose’ che esistono a prescindere dal suo intervento. Moltissima attenzione viene dedicata di solito all’interpretazione e ai suoi metodi, molto poca invece alla scelta del suo oggetto.” (p. 11).
Il libro si divide in due grandi sezioni (più un’Introduzione). La prima, intitolata “Ciò che i giuristi possono imparare dalla fisica moderna” (dal saggio di Tribe), si suddivide a sua volta in sei capitoli. La seconda, “La ruota dei criceti”, in quattro ulteriori capitoli, fra cui ricordiamo anche le Conclusioni.
Il primo capitolo (“Perché la fisica?”), è dedicato ai “Demoni di Laplace” del diritto, cioè alle ricostruzioni- così diverse ma anche così simili da questo punto di vista- che si fondano proprio su quell’ontologia del materialismo prima ricordata. Particolarmente interessante, sotto questo punto di vista, è il paragone fra il giudice Ercole di Dworkin e il Demone in questione. L’idea di base è quella per cui la teoria quantistica possa presentare degli spunti interessanti anche con riferimento alla teoria dell’interpretazione. Per avanzare questo argomento, Bin ricorda quattro premesse della teorie della fisica quantistica che, a suo parere, ben si applicano al diritto:
- a) “l’osservatore agisce all’interno del sistema osservato e ne fa parte” (p. 18)
- b) “se ogni osservatore è parte del sistema osservato, allora ... tutti i possibili risultati dell’osservazione possono coesistere ed essere egualmente validi” (p. 19)
- c) “l’osservazione determina ciò che deve essere osservato, perché il risultato di un’osservazione dipende da ciò che l’osservatore decide di osservare” (ibidem).
- d) “l’osservazione determina ciò che deve essere osservato, perché il risultato di un’osservazione dipende da ciò che l’osservatore decide di osservare” (p. 20).
Queste quattro premesse vengono richiamate per sostenere sostanzialmente due punti: confutare la scissione oggetto/soggetto nell'interpretazione (interpretare, come osservare, vuol dire agire nel sistema; e quindi interagire con il ‘dato’ da interpretare vuol dire anche alterarlo o, comunque, implica uno “scegliere”) e sostenere la non-univocità e non-oggettività dell’interpretazione
Il secondo capitolo (“Meccanica quantistica e hard cases: questioni di risoluzione ottica”) si incentra sulla necessità di rileggere l’asimmetria ricordata in apertura: quella fra legislatore e giudice (come la fisica quantistica non rappresenta infatti una totale negazione ma un completamento della fisica classica, così Bin suggerisce di integrare, non di superare totalmente l’approccio classico degli studi sull’interpretazione).
Nello specifico si tratta di rivedere, con occhio diverso, il rapporto interprete/testo e di concepire il caso come una costruzione influenzata dal contesto in cui l’interprete opera e l’interpretazione come attività di interazione fra oggetto e soggetto che porta alla trasformazione del dato interpretato: “I ‘fatti’ sono accadimenti oggettivi, i ‘casi’ non lo sono. Il ‘caso’ è una costruzione della mente umana. L’approccio quantistico ci suggerisce di guardare agli interpreti del diritto come a
una parte del sistema che essi stanno interpretando. Non possiamo avere una percezione adeguata del problema dell’interpretazione giuridica senza prestare attenzione alle premesse culturali e istituzionali del sistema nel suo complesso’ (p. 25).
Il terzo capitolo (“Indeterminazione giuridica – e allora?”) prende le mosse da quella che potremmo chiamare la fisiologia dell’indeterminazione giuridica, dei conflitti e dell’incoerenza, a volte, degli stessi testi costituzionali, quale prodotto di compromessi politici, che trovano “sfogo” nei complessi bilanciamenti che l’interprete costituzionale deve talvolta fare.
Ancora una volta, l’interprete è condizionato e condiziona il sistema in cui vive (il proprio contesto culturale), ovvero “subisce” le incoerenze di un sistema giuridico ma cerca di ovviarvi secondo dinamiche non riportabili a quelle che caratterizzerebbero l’operato del giudice “bocca della legge” (nell’abusata formula di Montesquieu): “l’indeterminazione è una situazione costante e oggettiva che accompagna l’interpretazione e il giudizio quando si esaminano le dimensioni infinitamente piccole o infinitamente grandi – gli hard cases di cui si diceva” (p. 31).
Evitando di rivisitare, in termini generali, la teoria dell’interpretazione, Bin prende in considerazione due aspetti principali: il momento immediatamente precedente e quello immediatamente successivo all’interpretazione in senso stretto, ovvero la scelta del testo da interpretare e la descrizione del risultato dell’interpretazione.
Il quarto capitolo (“Interpretazione di che cosa?”) si sofferma sul problema della scelta del testo da interpretare. Non si tratta di un problema di poco conto. Cosa è davvero fonte del diritto? Come si deve muovere, ad esempio, il giudice nella giungla di atti para-normativi rappresentata dal soft law o di quelle disposizioni prive di vero effetto normativo ancorché incluse in “atti tipici di legislazione” o di testi meramente ricognitivi? Un secondo problema riguarda la questione dell’attuale vigenza o, ancora, della attuale capacità di produrre effetti da parte di un atto giuridico.
Questo porta l’Autore ad affrontare il tema dell’abrogazione implicita e del rapporto fra legislatore e prodotto della sua attività, con un interessante parallelismo fra Stati Uniti ed Europa, relativo all’espresso potere di dichiarare l’invalidità della legge riconosciuto ai giudici. Questo è un elemento che, secondo Bin, rende la questione “counter-majoritarian” meno problematica e in parte spiega anche le radici di tutto il dibattito sull’originalismo in America.
Il terzo problema analizzato in questo capitolo (che è forse quello più ricco di spunti), attiene alla riconciliazione fra norme in conflitto, secondo tecniche come l’interpretazione conforme o l’interpretazione sistematica.
Si tratta forse dell’ultimo tentativo a disposizione dell’interprete al fine di evitare il riconoscimento dell’invalidità della norma, rispettando una sorta di presunzione di costituzionalità della stessa (su questo sarebbe interessante comparare le pagine del libro di Bin con quelle del volume di Ferreres Comella, sempre recensito su questo blog (https://www.diritticomparati.it/2013/01/recensione-a-v%C3%ADctor-ferreres-comella-justicia-constitucional-y-democracia-centro-de-estudios-pol%C3%ADtic.html, soprattutto p. 130 e ss. del volume).
La conclusione cui giunge l’Autore è che l’interprete ha a sua disposizione uno strumentario molto ampio: “Sono decisioni che l’interprete prende prima di imboccare il corso principale dell’interpretazione. È stata proposta una distinzione tra questioni che riguardano l’applicazione di una legge e questioni che attengono alla sua giustificazione: le prime s’interrogano sulla appropriatezza prima facie di una norma rispetto alla situazione descritta nel caso da decidere, non ancora sulla sua validità, che è questione ulteriore” (p. 48).
Tutte queste tecniche rispondono alla presunzione del “legislatore coerente e non contraddittorio” (p. 51) ma hanno come prezzo quello di allentare la “stretta relazione fra la norma del caso e lo specifico testo normativo a cui essa va fatta risalire” (ibidem).
Il quinto capitolo s’intitola “Risposte giuste e domande sbagliate” ed è quello in cui Bin risponde positivamente alla domanda relativa all’esistenza di una “one right answer”, mettendo in discussione, allo stesso tempo, la rappresentazione del giudice Ercole, dato che non corrisponde alla reale attività del giudice.
Per dimostrare questo punto l’Autore sviluppa ulteriormente il tema dell’interazione fra testo e contesto e fra soggetto e oggetto dell’interpretazione. Attraverso operazioni come l’interpretazione sistematica, l’interprete finisce per applicare qualcosa che è diverso dalla norma originariamente presa in considerazione e le sue scelte relative al dover “contestualizzare” il testo finiscono per portarlo oltre, secondo un processo che non permette di distinguere con chiarezza fra l’individuazione del testo da applicare e l'interpretazione in senso stretto (p. 55).
Tuttavia, il giudice deve decidere, alla luce del principio del non liquet, che non gli permette alternative o fughe di responsabilità: arriva allora l’arduo momento della motivazione, in cui gli argomenti per giustificare la scelta interpretativa compiuta diventano inevitabili e pesanti:
“Non Ercole, ma qualsiasi giudice è richiesto di dare l’unica risposta giusta al la domanda che gli viene posta dalle parti: deve essere data, deve essere univoca, deve essere ritenuta dal giudice quella giusta – e la motivazione deve cercare di persuadere che il giudice non poteva rispondere meglio. È il dovere istituzionale del giudice in quanto giudice – giudice ordinario, nulla di mitologico” (p. 59).
L’ultimo capitolo della prima sezione (“’Penumbra of uncertainty’, il favoloso mondo dell’entropia”) riprende il sottotitolo del volume (“ordine e disordine in una prospettiva ‘quantistica’) ed è dedicato all’idea di entropia.
L’immagine viene presa a prestito per descrivere la massa di informazioni raccolte e filtrate dal giudice prima, durante e dopo l'operazione di interpretazione in senso stretto. L’idea chiave è ancora una volta quella di mettere in dubbio la separazione oggetto/soggetto propria dell’ontologia del materialismo. Il giudice, nell’interpretazione, nella sua interazione con la norma, finisce per prendere in considerazione una serie di elementi aggiuntivi che irreversibilmente cambieranno la stessa (atti di soft-law, non diritto, situazioni di fatto, situazioni legate al contesto in cui opera). Per quanto sia accurata la motivazione il giudice non riuscirà mai a ripresentare coerentemente la massa di elementi presi in considerazione (“L’entropia è legata all’informazione, nel senso che ciò che si produce è una riduzione dell’ordine iniziale del sistema, perché – per dirla in termini volgari – mescolandosi gli elementi perdono le loro caratteristiche iniziali; perciò l’entropia è espressione di disordine e casualità”, p. 62).
Bin ricorda l’adagio di Greene “Eggs break, but they don’t unbreak” (B. Greene, The Fabric of the Cosmos: Space, Time, and the Texture of Reality, New York, 2004, 13) e per sviluppare a pieno il parallelismo si potrebbe dire che l’interpretazione è come una frittata: una volta fatta non è possibile ricomporre le uova (“come le uova rotte non possono ritornare intere, un giudice non può riuscire a “ricreare” esattamente il complesso delle informazioni che lo hanno guidato alla conclusione. Né potrebbe attribuire l’esatto peso argomentativo a ogni fonte che ha influenzato la decisione, sia o meno menzionata nella motivazione”, p. 66).
La seconda sezione inizia con un capitolo intitolato “Il diritto è ciò che il giudice dice essere, ma è il diritto a dire chi è il giudice” e presenta un’interessante argomento contro possibili derive giusrealistiche nella teoria dell’interpretazione. Come ricordato, testo e contesto non sono scindibili e così anche l’attività del giudice e quella degli altri attori non possono essere separate; esse sono parte di un tutto. Il giudice non decide in splendido isolamento, né ha il monopolio dell’interpretazione.
Prendendo spunto dagli scritti di Vermeule e Tuori (p. 70 ss), Bin rappresenta giudici e legislatori come sub-sistemi che fisiologicamente si intrecciano, interferendo gli uni nell’attività degli altri: “Entrambi i sub-sistemi hanno a che fare con diritti e interessi, ed entrambi perciò sono connessi agli individui. Ma c’è una differenza fondamentale: il legislatore tratta i diritti come un problema di politica generale, mentre i giudici li trattano affrontando un caso specifico alla volta”, p. 73).
Il capitolo ottavo (“Il signor Mani e la retorica del giudizio”) è dedicato alle sentenze come “atti retorici, diretti a uditori particolari” (p. 81) e tocca il triangolo caso-sentenza-motivazione.
L’idea è quella di porre in dubbio la famosa immagine dworkiniana della giurisprudenza come chain novel e, per farlo, Bin punta molto sulla sentenza come atto con forme distinte a seconda del suo pubblico: quello che l’Autore vuole dire è che il procedimento conta e moltissimo. Non è un caso allora che le sentenze dello stesso giudice presentino spesso forma e soluzione diversa a seconda dell'interlocutore che il giudice ha: “Quando la Corte affronta questioni delicate che insorgono nei rapporti tra gli organi costituzionali (nei conflitti di attribuzione tra poteri dello stato, per esempio), l’impegno teorico è spesso molto evidente, così come è spesso manifesto lo sforzo di inserire la risposta alla domanda sollevata da un organo politico(o contro di esso) all’interno di una quadro istituzionale generale, altamente teorico. Del tutto diversi sono invece il linguaggio e la strumentazione teorica che la Corte impiega quando il giudizio riguardi il riparto delle competenze tra Stato e regioni... Nei giudizi sollevati dai giudici in via incidentale, invece..., in cui l’unico uditorio è formato dai giudici ordinari, il linguaggio e le argomentazioni si fanno tecnici, perché sarebbe fuori luogo ogni trattazione troppo ‘dottrinale’, p. 84-85).
Esempi analoghi vengono tratti anche dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale tedesca e della Corte di giustizia. Particolare è il caso americano: Autori come Cappelletti o Lasser, hanno già sottolineato il particolare impatto che le sentenze della Corte Suprema hanno sull’opinione pubblica e questo spiega anche l’importanza data alla motivazione e la lunghezza di molte delle pronunce del giudice americano. Il capitolo si chiude con un cenno alle possibili soluzioni ai problemi democratici che l’operato dei giudici presenterebbe, con uno sguardo ad alcune delle proposte provenienti dagli Stati Uniti, in cui spesso si scrive- a volte anche sulla scia della distinzione fra political e legal constitutionalism (si veda il bel pezzo in italiano di M.Goldoni su questo dibattito: “Che cos’è il costituzionalismo politico?”, http://www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2010_n10/3-05_studi_M_Goldoni.pdf)- di abolizione del judicial review come soluzione (M. Tushnet, “Abolishing Judicial Review”, in 27 Const. Comment., 581 (2010-2011).
Il penultimo capitolo (“La ruota dei criceti”) prende spunto dalla nota vicenda Englaro, che ha visto Parlamento e Corte di Cassazione (con tanto di intervento anche della Corte costituzionale) fronteggiarsi in un feroce scontro che ha spaccato l’opinione pubblica.
Da un lato un Parlamento inerte, che non avrebbe saputo intervenire per regolare la questione, dall’altro dei giudici che avrebbero stravolto il dettato normativo. Entrambi, per motivi diversi, secondo molti, criticabili.
Ma questi tipi di conflitti sono davvero rari? È davvero possibile pensare di confinare i due sub-sistemi (Giudici e Parlamento) con una precisa actio finium regundorum?
Bin rilegge la separazione dei poteri alla luce della tensione fra le rationes dei giudici e la voluntas del legislatore, tensione che produce un complesso di azioni e reazioni: i conflitti, secondo questa lettura, sono fisiologici e sono alla base di quella che Halberstam chiama eterarchia costituzionale (D.Halberstam, “Constitutional Heterarchy: The Centrality of Conflict in the European Union and the United States” in J. Dunoff and J. Trachtman [eds.], In Ruling the World? Constitutionalism, International Law and Global Governance (2009) pp. 326-355).
Le conclusioni (“Qualche conclusione”) ripercorrono quanto proposto al lettore e cercano di ribadire l’importante lezione che dalla fisica viene al giurista, nel tentativo di superare definitivamente quell’ontologia del materialismo citata in apertura.
Allo stesso tempo viene ribadita l’importanza delle tensioni esistenti fra legislatore e giudice come momento di forza –e non di debolezza- dello Stato di diritto: “La tensione tra il potere di emanare le leggi e il potere di interpretarle e applicarle ai casi concreti genera l’equilibrio di forze che sostiene lo Stato di diritto e che dà senso alla separazione dei poteri. Come mostrano le strutture triangolari delle capriate che reggono le volte, talvolta per secoli e secoli, i due montanti si uniscono al centro e lì scaricano le loro forze opposte: perché ne risulti un equilibrio bisogna che siano ben distanziati i punti in cui essi si fissano alla base e che l’ancoraggio sia saldo” p. 107.
Il volume riesce a cogliere il suo obiettivo: quello di aprire una discussione importante su un terreno (quello dell’interpretazione) che, comunque, come lo stesso Bin riconosce, è stato già “arato” ma alla luce di argomenti e suggestioni nuove, quelle provenienti dalla fisica quantistica.
Un modo per sviluppare questo legame fra diritto e fisica è forse anche quello del linguaggio della complessità: in Francia, per esempio, il connubio fra fisica e scienze sociali ha influenzato, e non poco, l’opera di molti giuristi (pensiamo ai volumi di Delmas Marty anche alla luce dell’insegnamento di Edgar Morin).
Le stesse pagine su ordine e disordine o sull’entropia, presenti nel libro qui recensito potrebbero essere completate dal quanto scritto in un altro “classico” in questo ambito: la “Nuova Alleanza” di Prigogine e Stengers (I. Prigogine- I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1999).
Il libro qui recensito è davvero ricchissimo. Tuttavia, Va precisato che non si tratta di un libro facile, anzi: il vostro recensore confessa di averlo dovuto leggere due volte per ritrovarvi tutto quello che vi ha raccontato. Probabilmente se lo leggesse ancora vi troverebbe altri spunti. Si tratta di un complimento che nasconde una certa invidia: non è facile trattare in meno di 110 pagine la mole di temi affrontati dall’Autore. Molto si trova nelle note, molte intuizioni non sono forse a pieno riscontrabili a prima vista, anche per la varietà di casi a cui Bin fa riferimento (si va dalla giurisprudenza italiana, a quella della Corte Suprema, alla Corte di giustizia, al Tribunale costituzionale tedesco). Insomma, si tratta di un libro-miniera, da leggere più volte, un vero arsenale di idee da maneggiare con cura per il giurista cultore del diritto nazionale, europeo o comparato; ovvero per il giurista moderno, quello che si potrebbe chiamare il “giurista quantistico”.
20 Giugno 2013
Laura Cappuccio- Andrea Lollini- Palmina Tanzarella, Le corti regionali tra stati e diritti. I sistemi di protezione dei diritti fondamentali europeo, americano e africano a confronto, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012
Raramente un volume collettaneo raggiunge coerenza e sistematicità anzi, spesso accade il contrario: il mercato è davvero pieno di opere “a cura di” che raccolgono contributi del tutto sganciati e indipendenti, se non a volte ripetitivi, caratterizzati solo da un generico rinvio al titolo prescelto per la raccolta dei saggi.
Non è un caso che, prima all’estero e, poi finalmente, a quanto pare, anche in Italia, ci si sia accorti in fase di valutazione della pochezza di molte opere appartenenti a questo “genere”.
I collettanei dovrebbero essere un’eccezione, frutto di lavori davvero di gruppo, che condividono un’impostazione e delle domande di ricerca comuni.
17 Maggio 2013
Gianluigi Palombella, È possibile una legalità globale? Il Rule of law e la governance del mondo. Collana "Studi e Ricerche".
Il nuovo libro di Gianluigi Palombella nasce da un interrogativo, che rappresenta anche il titolo del libro: “È possibile una legalità globale?”.
Con un titolo del genere il volume qui recensito non poteva non dare una visione problematica e affascinante di tutta una serie di temi- affrontanti e legati con grande cura ma potenzialmente oggetto di separati saggi- che oggi sono al centro della riflessione giuridica, economica e politica.
Il primo grande merito del libro di Gianluigi Palombella è proprio quello di riuscire ad emergere con una tesi chiara ed originale da questo groviglio di prospettive, dominando una letteratura che, nella sola “area” giuridica, ha visto confrontarsi studiosi del diritto amministrativo, internazionale- pubblico e privato- costituzionale, teorici e filosofi del diritto.
Il libro si divide in cinque capitoli principali, a cui vanno aggiunti un’Introduzione generale e un’Appendice dedicata al tema del diritto pubblico europeo oggi.
Gli obiettivi del lavoro sono descritti nelle primissime pagine, in cui l’Autore afferma di volersi interrogare sul senso della legalità in un contesto, come quello contemporaneo, caratterizzato da un diritto sempre meno statale e gerarchico, sempre più frammentato e “sconfinato” (per ricordare il titolo di un famoso libro di M.R.Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Roma-Bari, 2006). Nel farlo, Gianluigi Palombella prende con chiarezza posizione sostenendo che “la questione della legalità (posta nelle carte internazionali attraverso l’invocazione del Rule of law, accanto alla democrazia e ai diritti umani) attenga non solo agli stati e ai loro ordinamenti, e si riproponga in quello spazio che loro sfugge e che, in assenza di un ordine universale, ne ospita una multiforme pluralità” (p. 10).
Una legalità globale esiste ma non passa necessariamente per l’affermazione di una costituzione globale. È una legalità che non si alimenta dell’idea di unità e sistema del diritto ma che si declina nella possibilità di articolare la esistente pluralità di ordini, costituzioni e normatività, scorgendo in essi una fonte di arricchimento reciproco.
Nel tentativo di trarre il senso della legalità dal “principio del Rule of law”, l’Autore ricostruisce, nel primo capitolo (“L’ideale della legalità e il ‘Rule of law’”), il suo significato, distinguendolo da quelli solo parzialmente affini di “governo delle leggi”, “stato di diritto” e “principio di legalità”. L’obiettivo di questo capitolo è quello di trarre “una definizione filosofico-giuridica e indicando in che modo essa sia estensibile alle trasformazioni istituzionali contemporanee” (p.18).
Dopo avere individuato gli elementi di continuità che caratterizzano il Rule of law ovvero “la disposizione del diritto a impedire che l’esercizio della volontà di governo assorba completamente la normativà sociale” (p. 65), Palombella si interroga sui contorni che questo concetto assume oltre lo Stato (proprio il “Rule of Law oltre lo stato” è il titolo del secondo capitolo).
Giocando ancora una volta sulla distinzione fra Rule of law e stato di diritto, Palombella cerca di identificare “quale diritto venga in gioco al di là dello stato, e in quale relazione esso si ponga con il modello del Rule of law” (p. 67) e, nel farlo, si concentra dapprima sulle relazioni fra stati e, quindi, primariamente sul diritto internazionale- nel capitolo II- per spostare l’attenzione, in un secondo momento, su quello globale, nel capitolo III (intitolato: “Una mappa del globo: legalità al plurale”).
L’idea che emerge da queste pagine è quella di un ideale normativo (il Rule of law appunto) alle prese con fenomeni vari e multiformi (i processi della governance mondiale), che difficilmente possono essere ricondotti alle categorie classiche del diritto, un diritto spesso in passato concepito come pervaso tensione olistica e chiusa.
I livelli di legalità (diritto internazionale, diritto dell’UE, diritto globale) di cui scrive Palombella non vengono infatti “assorbiti” da un’autorità unica ma interagiscono, mantenendo la propria (le proprie) autonomia(e).
Le dinamiche in cui si sviluppa questa interazione fra livelli di legalità è al centro del libro. Come lo stesso Autore ammette: “Uno fra i principali propositi di questo volume è indicare come questi livelli di legalità entrino in rapporto e quale sia il ruolo che il Rule of law può assumere non solo nel diritto internazionale, come ordinamento separato, ma nell’insieme dei diritti (in senso oggettivo) concorrenti sulla scena del globo” (p. 106).
Il capitolo quarto (intitolato “Com’è possibile un ‘Rule of law’ globale?”) evidenzia come il Rule of law giochi un ruolo essenziale oltre lo stato, rendendo possibile “la sopravvivenza di legalità diverse” e la sostenibilità della governance, regolando la “qualità giuridica dell’interdipendenza” (p. 151). Sempre nel capitolo quarto, l’Autore si sofferma sugli aspetti centrali del c.d. “Global Administrative Law” (d’ora in poi GAL) e sul noto dibattito relativo al concetto di diritto nel GAL (a partire dal noto articolo di B.Kingsbury, “The Concept of ‘Law’ in Global Administrative Law”, European Journal of International Law, 2009, 23-57) e su altre ricostruzioni cercando di chiarire la funzione che il Rule of law può dispiegare nel contesto globale.
Come viene sostenuto con chiarezza a p. 162: “Certamente il Rule of law non può contribuire a generare una più o o meno realistica autorità mondiale: questo sarebbe un compito di attribuzione (costituzionale) di potere, di creazione e autorizzazione, di legittimazione, che non ha molto a che vedere con l’appello all’ideale del Rule of law come tale. Nondimeno il Rule of law può compiere un lavoro diverso ma ugualmente importante perché nel porre condizioni di equilibrio giuridico tra gli interlocutori, senza alcun progetto o fede perfezionista, può attivare un processo che porta oltre la qualità dei singoli separati ordini a confronto”.
Il Rule of law quindi non mira ad annullare la pluralità di ordinamenti (il GAL è solo uno di questi) ma a far interagire (“l’onere della comunicazione”), secondo dinamiche che vengono ricondotte ai modelli del discorso razionale e del discorso giuridico pubblico (da qui l’attenzione ad Autori come Habermas e Gadamer, citati a p. 173 ss.), i diversi attori e le diverse legalità presenti nella dimensione ultra-statale.
I giudici svolgono una funzione essenziale nel permettere la comunicazione fra ordinamenti, fornendo “ponti” fra legalità anche in assenza di disposizioni formali che colleghino ordinamenti diversi. In questo senso il Rule of Law richiede vincoli di mutuo riconoscimento, simmetria, razionalità e universabilità degli argomenti fra gli interlocutori presenti nell’arena globale.
L’ultimo capitolo (“la (Ri-)costituzione del pubblico) è teso a ridefinire (e ricostituire) il ruolo del pubblico in un diritto sempre meno statale. L’itinerario proposto da Gianluigi Palombella analizza in primo luogo le basi del moderno diritto pubblico per ricercarne, in un secondo momento, le proprie tracce nell’arena della governance mondiale.
Nel fare ciò l’Autore dapprima introduce i lettori alla dualità del pubblico (nelle sue strutturazioni giuridica e politica) del concetto di pubblico, quindi evidenzia il “de-coupling” della dualità giuridico e politica del pubblico e, infine, affronta in chiave critica una serie di modelli applicabili al tentativo di ricostituzione del pubblico nello scenario globale (fra questi, ad esempio, quello del conflict of laws di Joerges e Neyer, “‘Deliberative Supranationalism’ Revisited”, 2006, http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=963334), sottolineando come anche la ricostituzione del pubblico debba passare per quella interdipendenza nell’indipendenza che riconduce, ancora una volta, alla principale rivendicazione del Rule of law.
L’Appendice finale (intitolata “Il diritto pubblico dell’Europa: un’impresa incompiuta”) offre una ricostruzione dello stato attuale dell’Unione europea, all’indomani del c.d. fallimento costituzionale, sulla base di una rilettura affascinante del noto saggio di Weiler “The Transformation of Europe”, (Yale Law Journal, 1991, 1991, 2403-2483).
Se, attraverso la rilettura, a più di venti anni di distanza dalla sua pubblicazione, del ‘classico’ di Weiler, Gianluigi Palombella deduce i “parametri” che saranno utilizzati nel corso del capitolo, i “tre ambiti da cui è possibile osservare la composita realtà della costruzione europea” (p. 242) sono rappresentati dalla costituzione di un diritto pubblico europeo, dalla trasformazione dei diritti e dal dominio della governance.
Facendo perno su queste tre aree, Palombella giunge a dimostrare il distacco dell’attuale fase di integrazione europea dagli ideali fondativi, i cambiamenti occorsi e i tentativi falliti di definire il processo di integrazione.
Il quadro che risulta dall’Appendice è quella di un’Europa afflitta da un male grave ma non incurabile.
Da questa breve rassegna appare chiaro come il volume di Gianluigi Palombella si presenti di sicuro interesse anche per costituzionalisti e comparatisti (i principali, ma non unici, fruitori di questo blog), anche per la sua capacità di spaziare dalla teoria del diritto all’arena dei leading cases con la stessa sicurezza ed esaustività.
Questo è solo di uno dei molteplici pregi di un libro che non mancherà di suscitare dibattito, come è stato per un altro recente volume (N.Krisch, Beyond constitutionalism. The pluralist structure of postnational law, Oxford, Oxford University Press, 2010 ), con cui l’Opera qui recensita sembra condividere una certa diffidenza verso l’opzione di un diritto costituzionale globale e, soprattutto, la premessa secondo cui l’esistenza di una costituzione o di un diritto costituzionale globale debba necessariamente tendere alla creazione di un sistema olistico chiuso e verticistico. Si tratta di una ricostruzione abbastanza diffusa fra gli studiosi in questi anni ma che, come segnalato altrove (G.Martinico, Lo spirito polemico del diritto europeo Studio sulle ambizioni costituzionali dell’Unione, Aracne, Roma, 2011), sembra dimenticare l’apertura che è propria delle costituzioni del dopoguerra (A.Saiz Arnaiz, La apertura constitucional al derecho internacional y europeo de los derechos humanos. El articulo 10.2 de la Constitución española, Madrid: CEPC, 1999) e quel grado di pluralismo presente in contesti sicuramente leggibili attraverso le categorie del diritto costituzionale (A.Stone Sweet, “Constitutionalism, Legal Pluralism, and International Regimes”, Indiana Journal of Global Legal Studies, 2009, 621-645).
Si tratta solo uno dei mille spunti offerti dal lavoro, un esempio della molteplicità delle prospettive presenti: il nostro augurio è che, a partire dalla sue pagine, si apra, anche in Italia, un dibattito altrettanto interdisciplinare e aperto sulle nuove dimensioni e ragioni della legalità e del pubblico (del resto, siamo sicuri, questo era uno degli intenti dell’Autore).
14 Febbraio 2013
“I Need a (Super) Lawyer!”. Recensione a “ James Daily e Ryan Davidson, The Law of Superheroes, 2012”, Gotham Books, Penguin Group (USA), New York
Is Batman above the law? In realtà no e questa è una delle certezze che ci dà il libro qui recensito “The Law of Superheroes”, scritto da due giovani avvocati americani, James Daily e Ryan Davidson, già curatori di uno dei blog giuridici più originali e divertenti degli ultimi anni, “Law and the Multiverse. Superheroes, supervillains, and the law”.
Si tratta di un’originale opera che affronta i dubbi che ogni bravo giurista appassionato di fumetti si potrebbe porre leggendo i volumetti della DC o della Marvel.
Stiamo parlando (rectius, scrivendo) di un tema forse leggero, ma che ha dato origine ad un libro interessante anche dal punto di vista giuridico; del resto, i fumetti (da noi ritenuti volgare sub-cultura) hanno già destato l'interesse di altre discipline, basti pensare a quanti articoli sul tema pubblica una rivista come il Journal of Popular Culture (stampato da un editore di punta come Wiley-Blackwell) oppure al noto (almeno oltreoceano) dibattito “etico” sull'influenza che molti degli storici fumetti dedicati ai supereroi avrebbero sui giovanissimi, dibattito scatenato all'indomani della pubblicazione del saggio “Seduction of the Innocent”, scritto dallo psichiatra Fredric Wertham nel 1954.
In quel saggio Wertham metteva sotto accusa molti dei supereroi entrati nell'immaginario collettivo, additati come causa della delinquenza e della perversione giovanile: il dibattito suscitato da quel volume portò indirettamente alla creazione della Comics Code Authority, un organo di censura auto-imposto dalla fumettistica statunitense.
A questo si può aggiungere che sempre Blackwell ha pubblicato nella sua collana, intitolata “Philosophy and Pop Culture Series”, alcuni interessanti libri dedicati alla “filosofia” dei supereroi (fra cui “Batman and Philosophy: The Dark Knight of the Soul”, curato da Mark D.White e Robert Arp, per rimanere in tema). Forse i primi ad interessarsi dell'ambito sono gli studiosi delle scienze naturali, fra cui James Kakalios, Taylor Distinguished Professor alla School of Physics and Astronomy dell'Università del Minnesota, già autore di “The Physics of Superheroes”.
Tutto questo per dire che, in realtà, il tema è tutt'altro che arido anche da una prospettiva, diciamo, “impegnata” ed in effetti il libro qui recensito- dopo un primo, forse comprensibile, scetticismo- si dimostra ricco di spunti, offrendo una interessante introduzione, per molti versi, al diritto statunitense (dal diritto costituzionale alla procedura penale, passando per quello amministrativo e privato), senza scadere nel pressappochismo ma anche, altro merito importante a mio avviso, senza prendersi troppo sul serio, offrendo una gradevole introduzione al 'tema'.
“The Law of Superheroes” si divide in tredici capitoli più un'introduzione: i primi nove capitoli procedono per “branche” giuridiche, offrendo una interpretazione di alcuni dei più noti personaggi dei comics (Batman, Superman, Spiderman etc) secondo prospettive disciplinari (diritto costituzionale, diritto penale, procedura penale, diritto privato, diritto commerciale, diritto amministrativo, diritto della proprietà intellettuale) mentre gli ultimi quattro capitoli (con l'eccezione del cap. undici, dedicato al diritto internazionale) affrontano questioni più specifiche (“Travel and Immigration”, “Immortality, Alter Egos, and Resurrection”and “Non-human Intelligences”).
Il quadro che ne risulta è tuttavia coerente anche se sconta la mancanza di un capitolo conclusivo, ma il fine degli autori non era certo quello di scrivere un libro scientifico, quanto quello, appunto, di offrire una interessante lettura giuridica di un fenomeno molto ampio che fosse rivolta ad un pubblico vasto e non composto necessariamente da fini giuristi.
Si tratta quindi di un libro divertente che risponde a molte delle domande che la genuina curiosità di un giurista appassionato di fumetti si potrebbe porre leggendo le avventure dei suoi eroi preferiti: “Batman è un 'attore statale' (nel significato coperto dalla 'state-actor doctrine' sviluppata in casi come Lugar v. Edmondson Oil Co.457 U.S. 922 [1982])'?” “La S.H.I.E.L.D.- .- è un'organizzazione internazionale in senso tecnico?”, “Che rapporto di lavoro intercorre fra Batman e Robin?”, “La testimonianza resa da Hawkman in 'Trial By Fire, Part. 2: Witness for the Prosecution' viola uno dei cardini del sistema processale americano, come la confrontation clause (codificata dal VI emendamento secondo cui 'In all criminal prosecutions, the accused shall enjoy the right to … be informed of the nature and cause of the accusation; to be confronted with the witnesses against him')?”. A tutte queste ipotetiche questioni giuridiche gli Autori tentano di rispondere utilizzando il diritto esistente (con episodiche scorribande nel diritto 'fittizio' creato dagli universi Marvel e DC per 'coprire' l'attività dei nostri supereroi, ovvero il 'Superhuman Registration Act' o un alternativo XII emendamento della Costituzione americana) e questo rende il libro un elegante esercizio giuridico, una miniera per chi voglia preparare dei casi di studio ipotetici da sottoporre ai propri studenti (in un corso di diritto processuale americano, soprattutto).
In conclusione, se già qualche sospetto circa la non 'invulnerabilità giuridica' dei nostri eroi ce l'aveva fatto venire un bislacco fatto di cronaca (un malcapitato 'epigono' di Batman fermato dalla polizia a bordo della sua bat-mobile), più seriamente, “The Law of Superheroes” si conferma una bella lettura per giuristi e non e rivela un potenziale che nemmeno i più arditi studiosi di “diritto e letteratura”- da noi, almeno- avevano mai esplorato: recommended!
31 Gennaio 2013
Recensione a “Víctor Ferreres Comella, Justicia constitucional y democracia, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2012”
Il libro qui recensito rappresenta la seconda edizione del fortunato volume scritto da Víctor Ferreres Comella e pubblicato dal Centro de Estudios Políticos y Constitucionales di Madrid per la prima volta nel 1997.
La prima edizione dell'opera fu pubblicata dopo essere stata insignita, nel 1996, del premio “Francisco Tomás y Valiente” (http://www.cepc.gob.es/investigacion/premiosalainvestigacion/premio-francisco-tomas-y-valiente). Il libro suscitò molta attenzione, avendo, per certi versi, 'esportato' parte del dibattito statunitense sulle corti supreme (o da noi costituzionali) come attori caratterizzati da un ruolo “contro-maggioritario”.
Senza richiamare la sconfinata letteratura sulla funzione giudiziale negli Stati Uniti (un’ottima sintesi si può ritrovare in questo contributo di Dyevre http://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/8510/MWP_2008_09.pdf;jsessionid=2946F1323F0FD916739663CB7F8A02EC?sequence=1), mi limiterò in questa sede a presentare brevemente le caratteristiche principali di questo pregevole- e già molto conosciuto- volume.
Una prima precisazione: come è esplicitato nella “Nota dell'Autore alla seconda edizione” (p. 13 ss), questa seconda edizione non differisce quasi in nulla rispetto alla prima (salvo per alcuni aggiornamenti giurisprudenziali o normativi; per esempio, nelle ultime pagine del volume Ferreres Comella fa riferimento alla questione relativa al matrimonio fra persone appartenenti allo stesso sesso- questione su cui recentemente è intervenuto il Tribunale Costituzionale con la decisione n. 198/2012 http://www.boe.es/diario_boe/txt.php?id=BOE-A-2012-14602). Si tratta di una scelta coraggiosa che, per certi versi, può apparire coerente con l'intento del lavoro (aprire- e non esaurire- il dibattito in Spagna, utilizzando le categorie concettuali che lo avevano caratterizzato negli Stati Uniti), ma che indubbiamente rischia di far apparire oggi il testo come una mera ristampa, non tenendo conto degli sviluppi e delle critiche emersi già all'indomani della sua pubblicazione.
Come si vedrà in chiusura, però, questa critica risulta parzialmente controbattuta da argomentazioni di tipo “sistemico”, che leggono l'opera segnalata come un “pezzo” del pensiero di Ferreres Comella sul ruolo della giustizia costituzionale.
La domanda fondamentale a cui l'Autore cerca di rispondere riguarda la giustificazione del controllo di costituzionalità da un punto di vista democratico e per tentare di rispondere a questo quesito Ferreres Comella ha inteso strutturare il libro in sei capitoli (più un'introduzione). Nel primo capitolo l'Autore analizza quelle caratteristiche che rendono il giudizio di costituzionalità particolare rispetto all'operato del giudice comune e lo fa puntando sull'indeterminazione del testo costituzionale (dato dal suo carattere vago e ambiguo e dalla natura controversa delle previsioni costituzionali) e su quella che chiama la “dignità democratica” della legge. Su questa premessa si reggono due principi chiave nell'attività interpretativa del giudice: il principio dell'interpretazione conforme (che deve caratterizzare l'interpretazione della legge) e il principio di deferenza verso il legislatore democratico (che deve caratterizzare l'interpretazione della Costituzione).
Sempre nel primo capitolo l'Autore affronta gli argomenti normalmente presi in considerazione per sostenere la problematica compatibilità della giustizia costituzionale con il principio democratico (la minore legittimità dei giudici costituzionali di fronte ai parlamenti; la rigidità costituzionale, che rende più difficile- per il parlamento- “neutralizzare” la decisione di incostituzionalità della legge; la controvertibilità interpretativa della Costituzione) e gli argomenti normalmente richiamati per sostenere la presunta irrilevanza dell'obiezione democratica alla giustizia costituzionale (il fatto che il controllo di costituzionalità sarebbe previsto nelle costituzioni approvate democraticamente- ma questo argomento varrebbe anche nel caso statunitense?- e la necessità di contemperare il principio democratico con quello relativo alla protezione dei diritti fondamentali).
Dopo avere analizzato punti di forza e debolezza degli argomenti sopra richiamati, Ferreres Comella affronta due ricostruzioni che hanno cercato di rispondere al problema della giustificazione democratica della giustizia costituzionale: la teoria della “Costituzione procedurale” (a cui è dedicato il secondo capitolo, in cui l'Autore riprende -e in parte confuta- le teorie di Ely) e quella della “Costituzione di dettaglio” (a cui è dedicato il terzo capitolo).
Brevemente la prima ricostruzione vede nella giustizia costituzionale un baluardo contro le possibili derive della maggioranza parlamentare, garantendo così quei diritti di partecipazione e accesso che dovrebbero caratterizzare il testo costituzionale (l'argomento che vede nella garanzia dei diritti di partecipazione politica l'unico limite per il legislatore democratico, p. 53 ss). La seconda ricostruzione mira a ridurre quell'ineludibile margine di controvertibilità e ampiezza che normalmente caratterizza il testo costituzionale, auspicando una costituzione di dettaglio che finirebbe non solo per ridurre il margine di manovra del giudice, ma anche per vincolare in maniera evidente quello del legislatore e, potendo, dei parlamenti futuri alle scelte del passato.
Entrambe queste posizioni presentano ambiguità e non convincono a pieno Ferreres Comella che, nei capitoli successivi presenta la sua preferenza per una Costituzione sostanziale (non procedurale) e di principio (non di dettaglio). I principi che caratterizzano questo tipo di Costituzione permetteranno di superare i limiti testuali relativi all'inevitabile “invecchiamento” del testo costituzionale, favorendo la protezione di nuovi diritti ed alimentando i processi di integrazione.
Ecco che qui Ferreres Comella sviluppa la sua teoria, secondo cui la giustificazione principale della judicial review consiste nella “contribución que puede hacer el juez al mantenimiento de una cultura de deliberación pública” (p. 130); a questo punto però, l'Autore, presenta anche una serie di caveat: “ese control debe llevarse a cabo bajo la presunción de que la ley a enjuiciar es constitucional. En virtud de esta presunción que protege a la ley, el juez debe actuar con deferencia hacia el legislador y, por tanto, debe escuchar desde una actitud de confianza las razones que éste aduce para justificar la ley cuestionada” (p.130).
Nei capitoli IV, V e VI l'Autore si concentra sulla presunzione di costituzionalità della legge, introducendone i caratteri, giustificandola da un punto di vista teorico e analizzandone le “gradazioni”. Tale presunzione si fonda su tre ordini di argomenti che dovrebbero guidare il giudice costituzionale in caso di dubbio sulla validità della legge: quello epistemico (secondo cui la decisione adottata dal legislatore ha maggiore probabilità di essere corretta rispetto a quella adottabile dal giudice costituzionale), quello dell’uguale dignità politica (secondo cui la dichiarazione di incostituzionalità di una legge approvata dall'organo rappresentativo della volontà popolare rappresenta potenzialmente un'offesa all'eguale dignità delle persone) e, infine, l'argomento della correggibilità degli errori (secondo cui è meno difficile correggere l'errore consistente nell'avere dichiarato valida una legge invalida che l'errore opposto, ovvero quello di avere dichiarato invalida una legge in realtà valida).
Se il giudice costituzionale deve seguire questa presunzione di costituzionalità della legge, ci sono casi in cui tale a presunzione si deve potere rinunciare. Il giudice, infatti, dovrà tenere in considerazione, di volta in volta, numerosi fattori che potranno rafforzare (nel caso in cui la legge in questione benefici di un vasto consenso parlamentare o extraparlamentare, cosa che, peraltro, non esclude la possibilità di superare la presunzione di costituzionalità) oppure ribaltare tale presunzione (quando, per esempio, la legge minacci gli interessi dei gruppi socialmente più vulnerabili- p. 220 ss.- oppure in caso di restrizione dei diritti di partecipazione politica, p. 244 ss.).
La natura pregevole dell'opera non esclude -ovviamente- la possibilità di sollevare rilievi critici: anche qui, però, conviene concentrarsi su ciò che è presente nel lavoro (per questo si è cercato di richiamarne la struttura in maniera dettagliata seppur sintetica), piuttosto che puntare su ciò che nell'opera manca. Non si tratta di essere generosi con l'Autore, quanto di leggere il libro per quello che è: una parte di un ragionamento più ampio che ha fatto di Ferreres Comella un punto di riferimento, non solo in Spagna (o nell'Europa continentale) ma anche negli Stati Uniti, dove la Yale University Press ha pubblicato nel 2009 il suo “Courts and Democratic Values. A European Perspective”, http://yalepress.yale.edu/yupbooks/book.asp?isbn=9780300148671(poi tradotto in castigliano nel 2011 con il titolo “Una defensa del modelo europeo de control de constitucionalidad” (Marcial Pons) http://www.marcialpons.es/static/pdf/100895039.pdf).
Quello che si vuole dire è che molte delle critiche avanzate all'indomani della pubblicazione della prima edizione del volume qui recensito non trovano replica nella seconda edizione per una precisa scelta dell'Autore, che ha inteso distinguere, nei suoi lavori, i molteplici approcci possibili al tema del rapporto fra giustizia costituzionale e democrazia.
In parte quanto appena scritto potrebbe essere richiamato anche per contrastare un'altra critica spesso fatta e che lo stesso Autore riconosce come fondata, ovvero la necessità di precisare meglio la connessione fra protezione dei diritti fondamentali ed effettivo arricchimento de la “calidad deliberativa del proceso politico”, un punto che Ferreres Comella affronta nella Nota alla seconda edizione (p. 14-15). Si tratta, in altre parole, di chiarire il tipo di contributo che ci si può aspettare dalle corti costituzionali al processo politico alla luce della loro peculiare natura, ovvero il maggior peso che diritti fondamentali e principi costituzionali hanno nel ragionamento e nell'azione dei corti costituzionali (rispetto ad un Parlamento che “está abierto a un abanico de intereses más amplio, en detrimento del mayor peso que deben tener esos derechos y principios” (p. 15).
Un altro elemento che ci aiuta a comprendere che tipo di contributo possa essere lecito aspettarsi dai corti costituzionali deriva dalla loro tendenziale imparzialità (frutto del fatto che essi decidono tenendo in considerazione “una serie de criterios generales que deben aplicar de manera coherente en los diversos casos, lo que asegura una cierta tendencia a la imparcialidad” (p.15). Si tratta di due concetti ripresi nel corpo principale del testo- e in parte sviluppati negli altri volumi menzionati- ma che sarebbe stato interessante approfondire.
Ad ogni modo, “Justicia constitucional y democracia”, nonostante il passare degli anni, rimane uno dei migliori volumi in Europa sul tema, caratterizzato come è dal merito di combinare pregevolmente le categorie sviluppate nel dibattito statunitense sul counter-majoritarian activism delle corti con la migliore tradizione della filosofia politica e del diritto (Carlos Nino, soprattutto, ma anche Habermas).
24 Gennaio 2013
Martinico: The Tangled Complexity of the EU Constitutional Process: The Frustrating Knot of Europe
Giuseppe Martinico (Centro de Estudios Politicos y Constitucionales) has publishedThe Tangled Complexity of the EU Constitutional Process: The Frustrating Knot of Europe (Routledge 2012). Here's the abstract:
Despite the rejection of the EU Constitutional Treaty eventually leading to the adoption of the Lisbon Treaty, the debates concerning the European Union’s constitutional framework continue. This book builds on the discourse in European Union constitutionalism in order to offer a novel analysis of the EU’s constitutional developments.
21 Novembre 2012