Giuseppe Martinico
Julio Baquero Cruz, What's Left of the Law of Integration? Decay and Resistance in European Union Law, Oxford University Press, 2018
Il libro qui recensito rappresenta lo sviluppo di un corso tenuto dall’Autore, membro del servizio giuridico della Commissione europea, alla prestigiosa Academy of European Law dell’Istituto universitario europeo. Julio Baquero Cruz non è però soltanto un giurista, ma un intellettuale a tutto tondo, autore anche di romanzi e saggi di successo. Il volume qui recensito tocca vicende note, ma lo fa da una prospettiva non consueta per lo studioso di diritto europeo. Partendo dall’idea del processo integrativo come strumento di civilizzazione, Baquero Cruz si sofferma sulle ragioni della sua decadenza e della resistenza a livello nazionale (e non solo). Nel farlo, ripropone la celebre lettura di Pierre Pescatore del diritto dell’integrazione, chiedendosi cosa sia rimasto di quella idea di Europa.
Il volume si sviluppa in otto capitoli, alcuni dei quali riprendono saggi già pubblicati nelle principali riviste di diritto europeo, in cui l’Autore ritorna su diversi temi chiave dell’attuale crisi del processo integrativo.
La trattazione potrebbe apparire eterogenea, ma in realtà non lo è perché si tratta di casi di studio uniti dal fatto di essere emanazioni della natura (potremmo dire dell’identità) dell’ordinamento europeo (si vedano i par. 163 e ss. del Parere 2/13, ad esempio). Proprio il primo capitolo è dedicato al ricordo e all’insegnamento di Pierre Pescatore (“Some Things Pierre Pescatore Told Me”) in cui l’Autore traccia il suo ricordo di Pescatore durante gli anni da lui trascorsi alla Corte di giustizia come référendaire soffermandosi sull’importanza che Le droit de l'intégration ha avuto (e ancora, ovviamente, ha oggi, a più di quaranta anni dalla sua pubblicazione) nella storia degli studi europei.
Per introdurre i concetti chiave della teoria di Pescatore, Baquero Cruz ricorda tre episodi. Il primo riguarda una confidenza fattagli da Pescatore stesso secondo cui la versione originale del Trattato di Roma del 1957, firmata dai rappresentati degli Stati, fu in realtà una serie di fogli bianchi a causa di un ritardo nella stampa dovuto alla Zecca di Stato. Da questo aneddoto, Baquero Cruz prende le mosse per sottolineare come, secondo una visione dinamica del processo sovranazionale, l’integrazione europea sia sempre stato “a journey to an unknown (or not totally known) destination” (p. 2), una metafora, come noto ripresa poi, fra gli altri, anche da Weiler. Il secondo punto centrale della visione di Pescatore riguarda l’idea del processo integrativo come “a mobile, not a solid piece of stone with a more or less readable inscription entrusted to high priests to be worshipped by an eternal political community” (p. 3). Infine, e qui si va al cuore dell’idea pescatoriana, l’idea stessa del fenomeno giuridico come processo aperto e inclusivo. Il libro può allora leggersi come una finissima critica alle costruzioni teoriche che – fino a qualche anno fa, in realtà – hanno giocato il ruolo di narrazioni dominanti negli studi europei, in primis le varie teorie costituzionali del diritto dell’Unione, con un “posto” speciale riservato al c.d. pluralismo costituzionale (in tutte le sue versioni). Baquero Cruz ricorda anche tre aspetti che, a suo avviso, erano stati sottovalutati da Pescatore: per il giurista lussemburghese (e per la Corte di giustizia ovviamente) il diritto comunitario era soprattutto un diritto autonomo (senza che ciò necessariamente lo portasse a definire la sua natura in termini internazionali, costituzionali o sovranazionali):
“Pescatore's mobile seemed to contain only the European system, conceived as a self-sufficient machine. He seemed to pay less attention to the various ways in which that machine was symbiotic with the national systems” (p. 5).
Il secondo aspetto trascurato da Pescatore riguarda i diversi modi in cui capitalismo e liberismo hanno influenzato il diritto dell’integrazione. Infine, una terza dimensione del pensiero di Pescatore non totalmente accolta da Baquero Cruz riguarda “his faith in the potential of law as a tool to civilize the behaviour of European Nations” (p. 5).
Il libro recensito ha come obiettivo quello di scoprire cosa resta del diritto dell’integrazione, in altre parole:
“An attempt at recovery, recognition, and resistance. Recovery of the initial meaning of legal integration, not as a historical exercise but as an exploration of its lasting significance. Recognition of the problems that legal integration has today, problems which, while note identical, resemble those encountered by previous generations of European lawyers. And resistance against the relentless march towards disintegration” (p. 5).
Il secondo capitolo (“Law after Auschwitz”) contestualizza l’origine del processo comunitario, legandolo necessariamente agli orrori del dopoguerra. Nonostante la natura economica dei Trattati fondativi, come giustamente sottolinea l’Autore, sbaglia chi vede in questo – e nel fallimento del tentativo di costruzione della Comunità europea di difesa – un motivo per “underrate their significance” (p.14). Chiaramente l’orrore della guerra è stato alla base dell’esperimento europeo e quelle che possono apparire come nozioni tecniche (effetto diretto in primis) non possono che spiegarsi anche alla luce di quello che era stato il passato. L’assenza di riferimenti testuali all’orrore della guerra nel testo di Van Gend en Loos, del resto, come ricorda l’Autore, non esclude che questi fattori abbiamo avuto peso in quello che Stone Sweet ha definito un juridical coup d’état. Dopo tutto, si potrebbe aggiungere, le stesse Costituzioni del dopoguerra risultano forgiate dalla Resistenza e hanno spesso celato gli strascichi delle divisioni sociali post-belliche puntando sul carattere compromissorio e, in alcuni casi, omettendo di esprimersi su questioni sensibili. Del resto, come gli scritti di Foley insegnano, il silenzio ha sempre svolto un ruolo centrale nella vita delle costituzioni e non solo di quelle non scritte ed evolutive. È interessante notare che per Baquero Cruz, una delle ragioni della decadenza del diritto dell’integrazione deve ravvisarsi nel progressivo allontanarsi dalle ragioni che hanno reso l’esperimento europeo possibile. Nel terzo capitolo (“Against Constitutional Pluralism”), l’Autore si scaglia contro il pluralismo costituzionale, ricostruendone la genesi negli anni Novanta e la ragione di quest’attacco può essere rinvenuto a pag. 39. Da un lato, i “constitutional pluralist” vengono accusati di trascurare le ragioni storiche che hanno portato al diritto dell’integrazione; dall’altra, questo insieme di dottrine sembra enfatizzare troppo la centralità del disaccordo che, specie in un’organizzazione caratterizzata da un numero elevato di Stati membri, finisce per minare le fragili basi del processo integrativo:
“In their account of the legal landscape, the pluralists never pause to consider the significant practical problems encountered by Union law in commanding a general habit of compliance in the Member States” (p. 41).
Nell’esaltazione del concetto di eterarchia, i “constitutional pluralist” farebbero dell’eccezione (i conflitti, qui intesi come disaccordi interpretativi) la regola, costruendo un sistema teorico che finirebbe per non rispondere alle funzioni stesse del fenomeno giuridico: quello di assicurare ordine, stabilità e certezza. L’Autore critica nel dettaglio le opere dei più famosi esponenti di questo movimento teorico, ricordando anche gli sforzi fatti da figure come MacCormick, Walker, Maduro e Kumm per rimediare, cercando di fornire alternative per assicurare l’integrità del sistema. La diagnosi è, allo stesso tempo, inesorabile e spietata, relegando il pluralismo costituzionale a ideologia o falsa rappresentazione:
“Constitutional pluralism was exactly this sort of false idea. It came. It stirred things up, to the point where it amounted to a proposal to subvert integration and the very structure of law. But its force is now spent. We should turn to something else” (p. 51).
È interessante comparare queste considerazioni con quelle fatte in altra sede da un altro critico del pluralismo costituzionale, Avbelj, che pare invece muovere un’accusa opposta. Per Avbelj, infatti, il pluralismo costituzionale sarebbe in realtà ossessionato dall’idea della coerenza. Probabilmente sono corrette tutte e due le analisi, solo che entrambe scontano l’incredibile varietà di posizioni che si cela dietro la stessa formula del pluralismo costituzionale.
Vale la pena però di sottolineare che l’impostazione prescelta da Baquero Cruz pare trascurare il ruolo che tradizionalmente i conflitti hanno avuto nello sviluppo del diritto europeo (fin dagli anni Settanta e, quindi, ben prima della nascita di tale “movimento teorico”, come lo stesso Autore finisce per riconoscere, del resto, nel sesto capitolo) e sembra anche muovere da una concezione prevalentemente negativa dei conflitti. La realtà pare più complessa, come del resto dimostrano le diversissime reazioni suscitate dalla saga Taricco. Mentre per Baquero Cruz, M.A.S. ha il torto di aggiungere confusione e incertezza, per altri autori, Sarmiento ad esempio, la stessa decisione può essere invece letta come una positiva evoluzione, in quanto “good proof of how the Court of Justice is starting to realise that fundamental rights are not only institutional tools to enhance its jurisdiction, or to send popular messages to a demanding audience”.
Tornando all’affascinante excursus offerto da Baquero Cruz, l’itinerario prosegue in una vera e propria panoramica sulla crisi del processo integrativo. Il diritto dell’integrazione viene definito dall’Autore “a complex assemblage of values, principles, rules, institutions, and powers” (p. 53) e, come anticipato, nei capitoli seguenti Baquero Cruz guarda all’evoluzione del diritto dell’Unione in alcuni “structural fields” che possono essere visti come veri e propri pilastri dell’ordinamento. Di nuovo guardando al già citato Parere 2/13 si trova la conferma della centralità del procedimento pregiudiziale ex art. 267 TFEU che:
“Instaurando un dialogo da giudice a giudice proprio tra la Corte e i giudici degli Stati membri, mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza van Gend & Loos, EU:C:1963:1, pag. 23), permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati (v., in tal senso, Parere 1/09, EU:C:2011:123, punti 67 e 83)” (par. 176).
Proprio alla genesi e all’evoluzione (passando per decisioni come Rheinmühlen-Düsseldorf e CILFIT) del procedimento pregiudiziale viene dedicato il quarto capitolo (“The Preliminary Rulings Procedure: Cornerstone or Broken Atlas?”), in cui l’Autore conferma la sua nota posizione secondo cui i principi strutturali del diritto comunitario (effetto diretto e primato) sarebbero in realtà impliciti nella struttura del procedimento pregiudiziale. Tuttavia, quello disegnato dall’art. 267 TFUE non è un meccanismo perfetto e la Corte infatti negli anni ha cercato di provvedere a tali mancanze, ideando possibili “sanzioni” per rimediare (oltre alle note Köbler e Traghetti del Mediterraneo si veda la recente Commissione c. Francia). Il quinto capitolo, emblematicamente intitolato “Partial Eclipse of Union Citizenship: From Grzelczyk to Dano”, “fa i conti” con la problematica (e a tratti schizofrenica) giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di cittadinanza europea: dalla “promessa” in Grzelczyk, secondo cui “lo status di cittadino dell'Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”, ai dubbi suscitati da Dano. Conferme delle incertezze giurisprudenziali della Corte vengono anche dal ritorno della giurisprudenza Zambrano dopo casi come Rendón Marín e Chavez-Vilchez. Il capitolo successivo è inevitabilmente dedicato al rapporto fra diritti fondamentali e processo integrativo (“Fundamental Rights and the Integrity of Union Law”) in un’analisi che si sofferma nel dettaglio sull’importante opera di completamento del diritto dei Trattati. Inevitabilmente, particolare attenzione viene dedicata agli ultimi sviluppi: la nota sentenza Melloni e il suo “frutto amaro”, il Parere 2/13 in materia di accesso dell’UE alla CEDU. La conclusione è che l’attuale fase di confusione che circonda il “posto” dei diritti nel processo integrativo è dovuto principalmente all’ambiguo ruolo degli Stati. Anche in questo l’Autore vede una “lack of memory about the ultimate aims of integration and a reassertion of the nation state as the predominant form of political organization in contemporary Europe” (p.167).
Nel settimo capitolo (“Rigidity, Fragmentation and the Allure of International Law”) vengono ricordate le ragioni che rendono problematica l’uscita dall’attuale fase di regressione per il diritto dell’UE, innanzitutto la difficile emendabilità dei Trattati. Per compensare questa situazione l’Autore esamina alcune possibili strategie che vanno dal peso normativo assunto dalle decisioni della Corte di giustizia al possibile ruolo svolto dai meccanismi asimmetrici previsti dai Trattati o sperimentati attraverso l’uso del diritto internazionale (l’esempio del Fiscal Compact). Il capitolo ottavo (“Concluding Thoughts”) conclude l’ideale viaggio proposto dall’Autore, che in quella sede ricorda le condizioni necessarie per assicurare la sostenibilità del diritto europeo: il consenso degli Stati e dei cittadini dell’Unione sui fondamenti del processo integrativo, il perseguimento dell’interesse generale, una sufficiente legittimazione e una maggiore inclusione dei cittadini.
Il volume si chiude dove era iniziato, con il ricordo di un Pescatore un po’ deluso dalla formazione stato-centrica dei giuristi del dopoguerra, ma anche speranzoso nelle nuove generazioni.
What’s Left of the Law of Integration è una ricca, colta e lucida analisi dei malesseri del processo integrativo, coltivata a partire dalle radici storiche che ne avevano consentito l’avvio. È un libro che farà discutere e che non si fa mancare spunti polemici verso quelle che vengono percepite come le narrazioni dominanti che, in qualche modo, vengono indirettamente accusate di essere parte della decadenza del diritto dell’Unione.
28 Febbraio 2019
Scelte sovrane e doveri nella sentenza Wightman
Nei giorni scorsi, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) si è espressa nel già pluri-commentato caso Wightman, confermando più o meno quanto “suggerito” dall’Avvocato Generale Campos Sánchez-Bordona.
Vi sono, però, alcune differenze significative e una di queste può essere (deve essere) fonte di critica, come si cercherà di sottolineare in questo breve commento.
Si tratta, in generale, di una sentenza molto “ispirata” e ricca di riferimenti alla giurisprudenza precedente della CGUE, quella, per intendersi, in cui la Corte usa apertamente la terminologia costituzionalistica, inaugurata con Les Verts e richiamata “a singhiozzo”. Non a caso, proprio Les Verts – insieme alla sentenza Kadi e al Parere 2/13 e Achmea (fra le altre), viene citata al par. 44, per ricordare la natura “costituzionale” dei Trattati e il carattere peculiare dell’ordinamento dell’Unione:
“In that respect, it must be borne in mind that the founding Treaties, which constitute the basic constitutional charter of the European Union (judgment of 23 April 1986, Les Verts v Parliament, 294/83, EU:C:1986:166, paragraph 23), established, unlike ordinary international treaties, a new legal order, possessing its own institutions, for the benefit of which the Member States thereof have limited their sovereign rights, in ever wider fields, and the subjects of which comprise not only those States but also their nationals (Opinion 2/13 (Accession of the European Union to the ECHR) of 18 December 2014, EU:C:2014:2454, paragraph 157 and the case-law cited).”
La Corte, come ha fatto anche in altre decisioni “storiche” (questa inevitabilmente lo è, trattandosi della prima interpretazione offerta dalla CGUE sull’art. 50 TUE), ha cercato di dare continuità e profondità alla sua pronuncia, leggendo la disposizione in questione e tutta la sentenza in contesto.
Si spiega in questo senso anche il riferimento all’impatto dell’eventuale uscita del Regno Unito sulla cittadinanza dell’UE al par. 64:
“It must also be noted that, since citizenship of the Union is intended to be the fundamental status of nationals of the Member States (see, to that effect, judgments of 20 September 2001, Grzelczyk, C‑184/99, EU:C:2001:458, paragraph 31; of 19 October 2004, Zhu and Chen, C‑200/02, EU:C:2004:639, paragraph 25; and of 2 March 2010, Rottmann, C‑135/08, EU:C:2010:104, paragraph 43), any withdrawal of a Member State from the European Union is liable to have a considerable impact on the rights of all Union citizens, including, inter alia, their right to free movement, as regards both nationals of the Member State concerned and nationals of other Member States.”
Si tratta di un riferimento dovuto, ma non di un approfondimento scontato. La Corte, come già scritto, cerca di offrire una lettura “contestualizzata” dell’art. 50 TUE, cercando, in altre parole, di interpretare tale disposizione alla luce dei valori che caratterizzano il processo integrativo.
Questo, però, porta la CGUE a privilegiare una conclusione opposta a quella sposata dalla High Court di Inghilterra e Galles e dalla Corte Suprema del Regno Unito nella saga Miller.
In quell’occasione, entrambe le corti britanniche sottolinearono il necessario coinvolgimento del Parlamento nella decisione relativa alla notifica dell’intenzione di recedere. La non revocabilità della notifica fu una delle premesse fondamentali del ragionamento dei giudici, una premessa esterna rispetto all’ordinamento nazionale stricto sensu inteso e di non univoca interpretazione, come la dottrina aveva in precedenza sottolineato.
In questo senso la vicenda britannica è emblematica della natura “complessa” del sistema europeo, frutto dell’intreccio normativo fra ordinamenti nazionali e diritto dei Trattati. Ci si riferisce all’inestricabilità ordinamentale che lega diritto interno e sovranazionale e che viene ribadita dalla CGUE al par. 45 in cui si scrive di “a structured network of principles, rules and mutually interdependent legal relations binding the European Union and its Member States reciprocally as well as binding its Member States to each other”.
Tuttavia, proprio per l’impatto che la questione della revocabilità o meno della notifica ha avuto sul margine di manovra del Parlamento, si può sottolineare l'eccessiva sbrigatività di alcuni rilevanti passaggi nelle due pronunce, come attenta dottrina immediatamente ha segnalato, criticando la scelta di non sollevare una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE.
La CGUE è, invece, giunta ad altra conclusione, puntando su una lettura sistematica dell’art. 50 TUE (par. 61- 67), in cui la CGUE prima (par. 61-62) ricorda le finalità del processo integrativo e, in particolare, l’importanza giocata dai valori della libertà e della democrazia (in questo passaggio viene anche richiamata la sentenza Kadi):
“As regards the context of Article 50 TEU, reference must be made to the 13th recital in the preamble to the TEU, the first recital in the preamble to the TFEU and Article 1 TEU, which indicate that those treaties have as their purpose the creation of an ever closer union among the peoples of Europe, and to the second recital in the preamble to the TFEU, from which it follows that the European Union aims to eliminate the barriers which divide Europe.
It is also appropriate to underline the importance of the values of liberty and democracy, referred to in the second and fourth recitals of the preamble to the TEU, which are among the common values referred to in Article 2 of that Treaty and in the preamble to the Charter of Fundamental Rights of the European Union, and which thus form part of the very foundations of the European Union legal order (see, to that effect, judgment of 3 September 2008, Kadi and Al Barakaat International Foundation v Council and Commission, C‑402/05 P and C‑415/05 P, EU:C:2008:461, paragraphs 303 and 304).
Inoltre, dopo aver scartato il parallelismo con la decisione di chiedere un’estensione dei negoziati ex art. 50.3 TUE (par. 60), la CGUE si sofferma sull’art. 49 TUE per ribadire come la decisione di aderire all’UE si fondi su un impegno libero e volontario (par. 63):
“As is apparent from Article 49 TEU, which provides the possibility for any European State to apply to become a member of the European Union and to which Article 50 TEU, on the right of withdrawal, is the counterpart, the European Union is composed of States which have freely and voluntarily committed themselves to those values, and EU law is thus based on the fundamental premiss that each Member State shares with all the other Member States, and recognises that those Member States share with it, those same values (see, to that effect, judgment of 25 July 2018, Minister for Justice and Equality (Deficiencies in the system of justice), C‑216/18 PPU, EU:C:2018:586, paragraph 35)”
Infine, sempre giocando sul parallelismo art. 49 TUE e art. 50 TUE, la CGUE conclude per la revocabilità della notifica (par. 65-67):
“In those circumstances, given that a State cannot be forced to accede to the European Union against its will, neither can it be forced to withdraw from the European Union against its will. However, if the notification of the intention to withdraw were to lead inevitably to the withdrawal of the Member State concerned from the European Union at the end of the period laid down in Article 50(3) TEU, that Member State could be forced to leave the European Union despite its wish — as expressed through its democratic process in accordance with its constitutional requirements — to reverse its decision to withdraw and, accordingly, to remain a Member of the European Union. Such a result would be inconsistent with the aims and values referred to in paragraphs 61 and 62 of the present judgment. In particular, it would be inconsistent with the Treaties’ purpose of creating an ever closer union among the peoples of Europe to force the withdrawal of a Member State which, having notified its intention to withdraw from the European Union in accordance with its constitutional requirements and following a democratic process, decides to revoke the notification of that intention through a democratic process”.
Non si trattava, a mio avviso di un esito scontato. La dottrina aveva spiegato le ragioni che ispiravano prudenza: la disposizione dell’art. 50 TUE – come molte clausole sulla secessione – è uno “strumento di gestione del rischio politico”. Cerca di proceduralizzare, il rischio dell’uscita affidando al diritto un fenomeno che rischierebbe altrimenti di esprimersi in forme potenzialmente, ma non necessariamente, violente.
Come tale, deve essere letto in maniera restrittiva, anche per evitare il rischio di un abuso. L’abuso in questione potrebbe essere dato da un’utilizzazione strategica della minaccia dell’uscita per rinegoziare condizioni più favorevoli. In parte era stato così: se non ci fosse stato il voto del 23 giugno 2016 sarebbe entrato in vigore la problematica “Nuova intesa per il Regno Unito nell'Unione europea”, come sottolineato dai primi commentatori.
In questo senso, come è stato detto in varie sedi, si può sostenere che l’UE stia vivendo una crisi necessaria e inevitabile: anche la vittoria del Bremain non avrebbe evitato un necessario ripensamento del processo integrativo e una stagione di conflitti.
Questo mi porta al secondo punto: dovremmo privilegiare una lettura sostenibile dell’art. 50 TUE, proprio per evitare che il processo integrativo in quanto tale rimanga ostaggio di possibili usi strumentali di questa disposizione.
Sia ben chiaro, anche ordinamenti dove l’uscita non viene contemplata non sono estranei a tali dinamiche, la crisi spagnola è emblematica da questo punto di vista.
Eppure, c’è qualcosa che non convince in questa sentenza: innanzitutto il continuo richiamo al concetto di sovranità, mentre sparisce, invece, il riferimento al concetto di identità nazionale ex art. 4 TUE richiamato dall’Avvocato Generale ai par. 110 e 130-137. L’aggettivo “sovereign” viene ripetuto sette volte nel testo della sentenza e rappresenta, indubbiamente, una delle premesse della Corte.
Si tratterebbe di una scelta ragionevole, se non fosse che così facendo si rischia di esporre le dinamiche dell’art. 50 TUE a pericolose letture unilaterali. Ovviamente la CGUE sapeva di doversi esprimere su una questione sensibilissima e sapeva anche che fra lettori della sua pronuncia ci sarebbero stati (anche) populisti e sovranisti. In questo senso, l’insistenza sul concetto di sovranità potrebbe essere vista come una scelta strategica più che obbligata. Del resto, è la stessa lettera dell’art. 50 TUE che rinvia agli ordinamenti interni al par. 1.
Molti autorevoli colleghi, del resto, hanno insistito sulla differenza esistente fra il concetto di recesso (“withdraw” è il verbo utilizzato nel testo inglese) ex art. 50 TUE e quello di secessione. Per alcuni, in particolare, una differenza chiave risulterebbe dalla natura unilaterale del recesso e nel carattere necessariamente negoziato della secessione.
Credo che questa distinzione possa essere criticata e, del resto, uno dei padri della c.d. Compact Theory, John Calhoun, nella sua lettera a Hamilton chiariva che “secession is a withdrawal from the Union”. Inoltre, anche la Corte Suprema canadese, nella sua celebre Reference re Secession of Quebec di 20 anni fa, utilizzava il verbo “withdraw” (par. 83, per esempio) per ragionare sull’ammissibilità o meno di una secessione unilaterale del Québec.
Tutto questo per dire che vi sono rischi nella lettura che scorge nella disposizione dell’art. 50 il quadro procedurale di un’uscita unilaterale.
Un altro passaggio interessante della sentenza è quello in cui – cosa rara nella giurisprudenza sovranazionale – la CGUE guarda ai lavori preparatori della seconda Convenzione (quella relativa al Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa) per trovare un argomento a supporto della propria decisione. In particolare, si ricorda come fossero stati rigettati tutti gli emendamenti relativi alla possibilità di espellere uno Stato membro al fine di evitare il rischio di abusi durante la procedura di recesso (par. 68- 70):
“The origins of Article 50 TEU also support an interpretation of that provision as meaning that a Member State is entitled to revoke unilaterally the notification of its intention to withdraw from the European Union. That article largely adopts the wording of a withdrawal clause first set out in the draft Treaty establishing a Constitution for Europe. Although, during the drafting of that clause, amendments had been proposed to allow the expulsion of a Member State, to avoid the risk of abuse during the withdrawal procedure or to make the withdrawal decision more difficult, those amendments were all rejected on the ground, expressly set out in the comments on the draft, that the voluntary and unilateral nature of the withdrawal decision should be ensured.
It follows from the foregoing that the notification by a Member State of its intention to withdraw does not lead inevitably to the withdrawal of that Member State from the European Union. On the contrary, a Member State that has reversed its decision to withdraw from the European Union is entitled to revoke that notification for as long as a withdrawal agreement concluded between that Member State and the European Union has not entered into force or, if no such agreement has been concluded, for as long as the two-year period laid down in Article 50(3) TEU, possibly extended in accordance with that provision, has not expired.
That conclusion is corroborated by the provisions of the Vienna Convention on the Law of Treaties, which was taken into account in the preparatory work for the Treaty establishing a Constitution for Europe”.
Si tratta di una curiosa “riesumazione” dei lavori preparatori di un testo mai entrato in vigore.
Allo stesso tempo, la CGUE, consapevole del rischio di una lettura eccessivamente unilaterale di questa disposizione, cerca di limitare l’ambito temporale in cui una tale decisione possa essere presa, quando dice (ripetutamente, quasi a volersi rassicurare) che:
“The Member State concerned has a right to revoke the notification of its intention to withdraw from the European Union, for as long as a withdrawal agreement concluded between the European Union and that Member State has not entered into force or, if no such agreement has been concluded, for as long as the two-year period laid down in Article 50(3) TEU, possibly extended in accordance with that provision, has not expired” (per esempio, al par. 57).
In questo modo la Corte sembra circoscrivere al periodo di due anni (salvo quanto stabilito dall’art. 50.3 TUE) i rischi connessi all’unilateralità della revocabilità dell’intenzione di uscire, ma si tratta di un periodo di incertezza non da poco, che può generare confusione nelle istituzioni e nei mercati.
A questo accorgimento segue una precisazione procedurale quando si aggiunge che:
“In the absence of an express provision governing revocation of the notification of the intention to withdraw, that revocation is subject to the rules laid down in Article 50(1) TEU for the withdrawal itself, with the result that it may be decided upon unilaterally, in accordance with the constitutional requirements of the Member State concerned.” (par. 58).
Abbiamo già visto come il mancato riferimento al concetto di identità nazionale rappresenti una delle differenze fra le Conclusioni dell’Avvocato Generale e la sentenza della CGUE. Ve ne è un’altra, però, che conviene sottolineare. Mentre l’Avvocato Generale aveva cercato di trovare un limite a questa scelta sovrana del Paese interessato nei princìpi di buona fede e di leale cooperazione (sempre richiamati dall’art. 4 TUE), tale riferimento sparisce nel testo della sentenza.
Questa assenza mi pare difficilmente giustificabile e mi fa guardare con preoccupazione agli esiti di una decisione che in molti stanno già celebrando come illuminata.
Indubbiamente gran parte della sentenza è condivisibile e, come scritto in apertura, “ispirata”, ma il rischio dell’uso strategico dell’art. 50 TUE non viene, a mio avviso, del tutto scongiurato, anche se in altri passaggi la stessa Corte si affretta a definire tale (possibile) revoca come “unequivocal and unconditional” (par. 74- 75). In questo senso, la natura incondizionata di tale revoca è da intendersi nel senso che “the purpose of that revocation is to confirm the EU membership of the Member State concerned under terms that are unchanged as regards its status as a Member State, and that revocation brings the withdrawal procedure to an end” (par. 74).
Sarà sufficiente per evitare rischi di abusi? Difficile da dire, di sicuro il Regno Unito è ancora – e a pieno titolo, nonostante le affrettate considerazioni fatte da molti all’indomani del voto del 23 giugno – uno Stato membro dell’UE e, a questo punto, tutto può accadere.
15 Dicembre 2018
Recensione a “Robert Schütze, From International to Federal Market. The Changing Structure of European Law, Oxford University Press, 2017”
Con il suo nuovo libro Robert Schütze continua un percorso già iniziato con la sua prima monografia. Il volume qui recensito, infatti, si presenta come il secondo tassello di una “trilogy on the Changing Structure of European Law” (p. v) dedicata all’evoluzione del diritto dell’Unione. Lo stesso Autore lo scrive più volte, per esempio, nelle conclusioni, ma anche nella prefazione quando anticipa che il terzo volume si intitolerà “From International to Federal Union: The Changing Structure of European Law”. Inoltre, quasi a voler prevenire possibili critiche sull’ordine di uscita di questi tre volumi, Schütze subito aggiunge che: “The publishing chronology of the three volumes is thematically inverted when compared to how they should finally be arranged. This 'inversion', while not ideal, results from my—methodological—belief that good constitutional law (and theory) must never start with some lofty ideal but ought to grow from a concrete constitutional ‘order’ on the ground” (p. v).
Questa presa di posizione metodologica lo porterà poi, come vedremo, a discutere radicalmente alcune delle posizioni teoriche più affermate nel diritto dell’Unione e può essere vista come una conferma della portata innovativa del suo approccio.
C’è un altro aspetto che vorrei sottolineare. Poche volte come in questa, in effetti, il lettore che conosce l’Opera di Schütze ha l’impressione di trovarsi in perfetta continuità con i suoi lavori precedenti: sia il primo libro sia il volume qui recensito si dividono in sei capitoli più un’introduzione e una conclusione; ogni capitolo generalmente si divide in due sezioni. I sei capitoli poi vengono a loro volta distribuiti - in entrambi i casi - in una parte generale e in una speciale. Infine, le introduzioni ai due primi volumi e le parti speciali hanno gli stessi titoli: rispettivamente, “Coming to Constitutional Terms” e “The Changing Structure of European Law”.
La struttura dell’argomentazione seguita dall’Autore è molto simile, il metodo comparato è una risorsa e lo stesso si può dire per l’approccio federale. Vi sono, ovviamente, anche molte differenze. Il lavoro qui recensito riguarda la progressiva trasformazione della concezione e della disciplina del mercato interno; si tratta quindi di un lavoro dal taglio se vogliamo più specialistico. Tuttavia, al netto delle differenze, la capacità di strutturare l’argomento in coerenza con il primo libro della serie è davvero sorprendente e il dettaglio dell’analisi proposta fa degli studi di Schütze un punto di riferimento fondamentale per gli studiosi di diritto comparato e di diritto dell’Unione europea. Aggiungo che il libro in questione si inserisce anche in quel filone di ricerca misto, fra la storia del diritto (penso ai lavori Morten Rasmussen, ad esempio), la sociologia giuridica (penso ai lavori di Antoine Vauchez) e la comparazione diacronica, che tanto vanno di moda adesso nella contestazione della “traditional narrative” già “sfidata” negli anni Novanta da Ole Spiermann e prima ancora, ovviamente, da Hjalte Rasmussen.
L’obiettivo del libro è quello di studiare le dinamiche che hanno portato alla creazione di un mercato comune in Europa, partendo dall’esistenza di diversi mercati nazionali.
La domanda di ricerca è relativa alla reale finalità della previsione delle c.d. quattro libertà; in altre parole, esse sono destinate alla “liberalizzazione degli scambi intracomunitari ovvero […] più in generale a promuovere il libero esercizio dell'attività commerciale nei singoli Stati membri?”. Giocando con le parole di un celebre passaggio delle Conclusioni dell’Avvocato Generale Tesauro al caso Ruth Hünermund, l’Autore prende le mosse dalla presentazione di tre modelli di intensità integrativa: il modello internazionale, quello federale e quello nazionale. A quale modello appartiene l’UE? La risposta è, come spesso accade, “dipende”: alcune disposizioni dei Trattati sembrano ispirarsi al modello internazionale, altre a quello nazionale, altre sono più neutre.
Sulla base di questi modelli prototipici l’Autore, come anticipato, offre nella prima parte del libro (“International and Federal Markets”) prima un’analisi dell’evoluzione diacronica del diritto volto a regolare il commercio internazionale (Cap. I), descrivendo le fisionomie dello Stato mercantilista e quello che chiama il suo modello nazionale. In seguito, si sottolinea il passaggio da un approccio prevalentemente bilaterale a uno multilaterale, grazie anche all’emersione dell’organizzazione mondiale del commercio e all’affermazione del paradigma moderno caratterizzato dalla cooperazione statale nel contesto globale. Il modello statunitense (analizzato nel Cap. II “American Law and Market Integration”) è l’archetipo di quello che Schütze definisce il modello federale. Qui, di nuovo, è fondamentale per l’esercizio comparativo l’analisi diacronica che porta l’Autore ad analizzare l’originario schema della Costituzione statunitense del 1787 e la sua evoluzione anche, ovviamente, alla luce della giurisprudenza della Corte Suprema. In tutto questo un ruolo essenziale è stato svolto dalla Commerce Clause, nella sua trasformazione da clausola assopita (“dormant clause”, p. 81) a fondamentale volano dell’integrazione dei mercati.
Nella seconda parte del libro (la c.d. parte “speciale” intitolata “The Changing Structure of European Law”), l’Autore fa i conti con il diritto dell’Unione europea (Cap. III, “The Decline of the International Model”), identificando la genesi internazionalistica, sottolineando analogie e differenze con il modello federale. Sono molto interessanti in questo senso le pagine dedicate al parallelismo con l’art. 34 TFUE, definito come la “Europe’s dormant Commerce Clause” (p. 108). Anche qui si può apprezzare il dettaglio con cui l’Autore ricostruisce il dibattito sulle previsioni normative equivalenti all’Art. 34 TFUE, le diverse opzioni dottrinali presenti all’inizio e la progressiva giurisprudenza della Corte di giustizia, con la svolta rappresentata da Cassis de Dijon che ha portato a quello che si definisce come il declino del modello internazionale. La graduale federalizzazione del modello europeo viene analizzata nei Cap. IV e V (rispettivamente intitolati “The Rise of the Federal Model” “I” e “II”). Nel Cap. IV l’Autore si sofferma molto sul rapporto fra Cassis de Dijon e una delle pronunce più ambigue della Corte di giustizia: Keck. Nell’analisi di Keck Schütze dà molto spazio al dibattito dottrinale e questo gli darà modo di estendere le sue conclusioni nell’ultima parte del volume. Nel Cap. V, invece, l’Autore affronta alcuni aspetti specifici legati alle previsioni relative alla libera circolazione dei beni, soffermandosi soprattutto sul rapporto fra Art. 34 e 35 TFUE. Nelle sue parole:
“Having remained loyal to an international law reading here, the Union legal order has been forced the Union legal order has been forced to acknowledge two heterogeneous definitions of MEEQR [“measure having equivalent effect to a quantitative restriction”] for Articles 34 and 35 respectively. How can we explain this? The best answer, in my view, is that the rejection of the federal interpretation of Article 35 is required so as to stabilize the federal interpretation of article 34; and since the latter is infinitely more important in the fight against State the Court sacrificed the development of Article 35 so as to allow Article 34 to grow” (p. 226).
Nella seconda parte del Cap. V l’Autore analizza il tema delle giustificazioni e delle deroghe, sottolineando il ruolo della Corte nell’ampliamento dei c.d. “imperative requirements”, vedendo anche in questo una traccia della progressiva federalizzazione del mercato europeo.
Vi è comunque un ambito che sembra svolgere il ruolo di vera e propria eccezione al processo descritto dall’Autore, quello delle misure fiscali, a cui viene dedicato un lungo excursus (capitoli con questo titolo erano presenti anche nel primo volume) e in cui riconduce la ratio di tale eccezione alla natura stessa delle misure fiscali. In questo capitolo l’Autore ricorda anche le diverse posizioni dottrinali sulla questione della doppia tassazione e richiama alcune suggestioni comparatistiche provenienti dall’analisi del caso statunitense.
Nelle Conclusioni Schütze va oltre l’ambito della libera circolazione dei beni, generalizzando alcune delle riflessioni raggiunte nella propria disamina e sottolineando analogie e differenze fra il processo statunitense e quello europeo. Nonostante l’eccezione rappresentata dall’ambito delle misure fiscali e nonostante le ambiguità di Keck, per l’Autore l’ordinamento europeo “generally moved from an international to a federal market model” (p. 279), sulla scia (come riconosciuto nel primo capitolo) della spinta offerta dal GATT a suo tempo. L’ordinamento europeo, però, rimane ancora “incerto” in certi ambiti fra il modello nazionale, federale e quello internazionale, presentando elementi di tutti e tre i prototipi definiti nell’Introduzione. Qui l’Autore prepara il terreno per l’ultimo libro della trilogia, richiamando i vantaggi e gli svantaggi del modello federale - un modello capace di rispettare il pluralismo -, e di quello nazionale, che si avvale di un “unitary standard of constitutionality” (p. 282). Infine, nell’ultima parte delle conclusioni, Schütze sottolinea come conclusioni analoghe a quelle raggiunte per la libera circolazione dei beni possano essere riscontrate anche con riferimento alle altre libertà fondamentali. Questa è forse la parte più ambigua del libro, perché in essa l’Autore accenna solo a una comparazione che meriterebbe, come egli stesso riconosce a pag. 288, una trattazione a parte.
L’Epilogo (“Courts and Free Markets- the Legitimacy Question”) è un ideale ponte fra la seconda e la terza Opera della “trilogia” e in essa l’Autore si concentra sul lavoro che forse più di tutti ha condizionato la letteratura in questo ambito, il libro We the Court. The European Court of Justice and the European Economic Constitution dell’ex Avvocato Generale Miguel Poiares Maduro. Si tratta di un’analisi attenta della principale tesi di Maduro, quella relativa alla lettura della giurisprudenza economica della Corte di giustizia alla luce del concetto di majoritarian activism. Schütze, pur riconoscendo a Maduro il merito di avere tentato di inquadrare in un orizzonte teorico unitario la giurisprudenza della Corte di giustizia, rigetta sia la parte descrittiva (il concetto stesso di majoritarianism che risulta a Schütze come ambiguo, si veda la nota 15) sia quella normativa, contestando inoltre la lettura che del caso Keck viene data in quella sede (si vedano specialmente le pagine 291- 293). Importanti critiche, però, vengono riservate anche agli “agiografi” dell’integrazione europea, già sconfessati dalle famose pagine di Milward The European Rescue of the Nation State, che vengono non a caso ricordate in questo capitolo.
Il problema centrale che permette all’Autore di ripercorrere al contrario l’itinerario percorso è quello della legittimità della Corte di giustizia in quello che è stato il processo di costruzione del mercato europeo e qui arrivano altri attacchi alla traditional narrative (già presenti, per altro, anche nel primo volume, a partire dal noto rigetto dell’approccio sui generis che l’Autore aveva definito in quella sede una “non-theory”, p. 3). Si tratta, insomma, di un Epilogo ricco di “duelli a distanza” (si vedano le note 12, 53, 71, 73) e che promette molto. Sarà interessante vedere come la terza parte dell’Opera si concluderà, anche per inquadrare meglio questa appendice critica. In conclusione, si tratta di un libro davvero prezioso che conferma, sia dal punto di vista metodologico sia da quello contenutistico, l’importante contributo apportato da Schütze alla comunità scientifica.
4 Ottobre 2018
Constitutionalists' Guide to the Populist Challenge: Lessons from Canada
If in 2017 the academic community celebrated the Sesquicentennial of the Canadian Confederation, 2018 marks another important anniversary: the twenty years of the seminal reference of the Canadian Supreme Court on secession. On that occasion the Canadian Supreme Court broke a “constitutional taboo”, by treating secession in legal terms. That was a pretty brave decision, because the Canadian Supreme Court dealt frontally with the issue, accepting the challenge going beyond a formalist reading of its constitutional text(s), i.e. rejecting the argument according to which secession was banned since no written provision provided for that in the Canadian legal system. The Supreme Court did so by identifying the untouchable core of its constitution and reading the issue in light of the principles belonging to such a hard nucleus (federalism, democracy, constitutionalism and rule of law, protection of minorities). When offering its view, the Canadian Supreme Court did not limit its attention to domestic law only but, on the contrary, accepted to take international law into account. For all these reasons, this Reference has become a turning point. Since then a new debate has started about how to constitutionalize secession, how to tame something which had been considered for a long time as a sort of “beast” hard to domesticate.
However, that Reference has an incredible potential which offers important counter-arguments to the rise of populisms (I use the plural on purpose). These counter-arguments can be summarized as follows: first, the Canadian Court gave a complex notion of democracy which cannot be reduced to the mere majority rule. This is a very important point - as we will see later - which makes this Reference also a powerful tool against populism. Second, the Canadian Supreme Court also presented the referendum as an instrument which needs to be mediated and which should not be considered as a source of automatic political or legal truth. This explains the deference that characterizes the Reference, which is also clear in giving political actors the task “to determine what constitutes a clear majority on a clear question” (par. 153). This way the Canadian Court avoided treating the referendum as something alternative to representative democracy. In light of these considerations the legacy of the Canadian Reference is fundamental to challenge the constitutional “counter–narrative” advanced by populists. In this respect, as Corrias pointed out even populism “contains a (largely implicit) constitutional theory”. Even more recently Fournier defined this relationship by relying on a “parasite analogy”, saying that: “the relation between populism and constitutional democracy is comparable to a process of parasitism where constitutional democracy would be the host and populism the parasite”. In fact, one could say that the real aim of populist movements is to alter the axiological hierarchies that characterize constitutional democracies, for instance by presenting democracy (understood as the majority rule) as a kind of “trump card” which should prevail over other constitutional values. To question this argument, one could recall one of the most important “lessons learned” thanks to the Canadian Reference, which instead proposed a richer understanding of democracy – i.e., non-limited to its formal or procedural sense. Moreover, it is important to recall that the Canadian Supreme Court did not recognize a proper right to secession, rather it treated secession as an option that may be tolerated only in the presence of some important safeguards. In order to make this point the Canadian Court came up with a sort of “exit related conditionality”. To understand what I mean by exit related conditionality it is useful to recall par. 90 of the Reference: according to which, in case of activation of the negotiations with Québec, “The conduct of the parties in such negotiations would be governed by the same constitutional principles which give rise to the duty to negotiate: federalism, democracy, constitutionalism and the rule of law, and the protection of minorities”. This passage aimed at stressing the necessity of a sort of axiological continuity to be guaranteed in the transition from unity to secession. This axiological continuity would guarantee the rights of minorities. In other words, as Norman put it, this reasoning insists on “the perceived advantages of handling secessionist politics and secessionist contests within the rule of law rather than as ‘political’ issues that lie outside of, or are presumed (by the secessionists) to supersede, the law”. In this sense the Canadian case shows how even in the absence of explicit constitutional clauses it is possible to attempt to proceduralize this phenomenon, by contributing to its domestication and in that the Canadian Supreme Court has indeed sent a message of hope: law - especially constitutional law - can and must have a role, avoiding delegating this issue to violence and a power relationship.
As Fournier recalled, “Populist rhetoric argues that the rule-of-law is used for a specific agenda by non-elected (and so non-representative) bodies. Populism turns the original equilibrium of constitutional democracy into a balance of power in which the majority no longer sits alongside the rule of law, but rather is constrained by it”.
To impede such an alteration of the fragile equilibrium characterizing constitutional democracy it is necessary to embrace a complex (i.e., non-reductionist) notion of democracy. In this respect throughout the text of the Reference the Court clarified the relationship between democracy and majority. Here some key passages.
“Democracy, however, means more than simple majority rule. Constitutional jurisprudence shows that democracy exists in the larger context of other constitutional values… Canadians have never accepted that ours is a system of simple majority rule. Our principle of democracy, taken in conjunction with the other constitutional principles discussed here, is richer [….] While it is true that some attempts at constitutional amendment in recent years have faltered, a clear majority vote in Quebec on a clear question in favour of secession would confer democratic legitimacy on the secession initiative which all of the other participants in Confederation would have to recognize… However, it will be for the political actors to determine what constitutes 'a clear majority on a clear question' in the circumstances under which a future referendum vote may be taken”.
These words confirm the strong counter-majoritarian nature of constitutionalism as such and imply the necessity to understand democracy as a mosaic where the will of majority cannot be treated as a trump card against other constitutional values. This is also confirmed by the artificial concept of majority. It is possible to find confirmation of this in comparative law. Both the Clarity Act in Canada and Schedule I of the Good Friday Agreement give political actors a key role in detecting the existing majorities. The Clarity Act was a follow up to the secession Reference in the part in which the Canadian Supreme Court had said that: “in this context, we refer to a ‘clear’ majority as a qualitative evaluation”. In light of this the Clarity Act listed some factors that should be taken into account by the House of Commons to verify a posteriori the existence of a majority: This has provoked a harsh reaction in Québec as we know. A similar role, but to be played in the phase before the celebration of a referendum, is assigned to the Secretary of State by Schedule I of the Good Friday Agreement.
These two examples show that the majority is not a neutral or easy concept; on the contrary, it is an artificial one which can be constructed through political and legal decisions, by excluding or including someone from the right to vote, for instance. That is why procedural caveats are important since they contribute towards ensuring the preservation of that core of untouchable values that is up to constitutionalism to defend. When applied to referendums – frequently recalled by populists as a mantra - this means that the good reasons for the introduction of participation and direct democracy must be balanced with other values that are connected to the need to protect the untouchable core of a legal system.
5 Luglio 2018
Francesco Palermo - Karl Kössler, Comparative Federalism. Constitutional Arrangements and Case Law, Hart Publishing, Oxford, 2017
Nell’anno del centocinquantesimo anniversario di una “Old Lady” del federalismo (la Confederazione canadese) e della definitiva esplosione della vicenda catalana - senza dimenticare le convulse vicende italiane - non sono mancati contributi che hanno arricchito il sempre fecondo dibattito sul federalismo. Il volume qui recensito riesce nella difficile impresa di dare un contributo rilevante, offrendo una prospettiva chiara, sistematica e, al tempo stesso, originale. Il rigore metodologico e terminologico che caratterizza tutta l’opera conferma la qualità di una ricerca durata (rectius, coltivata) vari anni, come riconoscono gli stessi Autori nella prefazione.
In una ricca introduzione, in cui vengono esposte le ragioni di un volume come questo e ricordata la metodologia che lo ispira, “si fanno anche i conti” con l’annosa questione della definizione di cosa sia il federalismo e si privilegia, in ultima analisi, un approccio “prammatico”, che non nega l’importanza di una costruzione di alcuni concetti comuni, ma che rende giustizia alla varietà dei fenomeni offerti dalla comparazione. Nelle parole degli Autori:
“This book originates from the firm belief in the practical meaning of federalism in today’ s world. While based on the universal value of making power better organized and more inclusive by accommodating territorial and, where necessary, cultural and other forms of pluralism, federalism is deeply contextual about how to achieve such an ideal goal” (p. 4).
Se il dibattito sulle dimensioni comparate del federalismo è stato dominato soprattutto dai politologi, in questa sede si rivendica l’originalità e l’importanza di un approccio che sia allo stesso tempo giuridico e comparato senza, però, essere esclusivamente focalizzato sulle istituzioni. Questo spiega l’importanza data alle politiche nell’ultima parte del volume. Il libro si articola in tre parti. La prima parte (“Foundations”) affronta i concetti fondamentali (federalismo, regionalismo, regionalizzazione, multilevel governance, analizzati nel I capitolo) e le “epifanie” del federalismo nelle sue varie declinazioni (Confederazione, Stato federale, Stato regionale, analizzati II capitolo), ripercorre i modelli storici di Confederazione e alcuni esempi classici di Stato federale (descritti nel III capitolo) e i dibattiti, inerenti al rapporto fra federalismo e sfide della diversità e quello fra partecipazione democratica e federalismo, con tanto di analisi delle teorie sulla divisibilità o indivisibilità della sovranità (IV capitolo).
La seconda parte (“Self - Rule and Shared Rule”) è forse la più densa e guarda alla distribuzione delle competenze e dei poteri nei sistemi federali. Composta dai capitoli che vanno dal V al IX, questa parte spazia dall’autonomia delle unità sub-statali alla disciplina della loro partecipazione a livello nazionale, dalle relazioni finanziarie alla prevenzione e risoluzione dei conflitti fra livelli di governo. Nella terza parte (“Powers and Policies: Between Autonomy and Homogeneity”) si offrono invece dei casi di studio “trasversali” in cui vengono analizzate le risposte a comuni problemi alla luce delle specificità di alcuni ordinamenti:
“Concerning the first dimension, the distribution of legislative and executive powers is scrutinised which typically follows from the national constitution. In some cases, however, like Belgium and Spain, competences are at least partially allocated by special legislation so that these sources are equally taken into account. The second dimension concentrates on how subnational policies are formulated and implemented, in practice, upon this legal basis. Quite obviously, both subnational powers and, as a consequence, subnational policies can only exist within a certain scope of autonomy. Yet, autonomy is delimited by legal and political instruments aimed at ensuring some country-wide homogeneity, a necessary minimum of it or more. This inherent tension is epitomised by the subtitle of this part” (p. 318).
Vengono quindi presentate e debitamente comparate alcune rilevanti esperienze nei seguenti “ambiti” trasversali: diritti fondamentali (X capitolo), Stato sociale e tutela della salute (XI capitolo), protezione dell’ambiente (XII capitolo), immigrazione e integrazione dei migranti (XIII capitolo), relazioni esterne (XIV). Nell’analisi di queste aree si attinge da un paniere di esperienze federali che “si alternano” nei vari capitoli: Australia, Belgio, Canada, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svizzera.
Le conclusioni hanno il merito di ripercorrere i passaggi principali dell’itinerario proposto al lettore in questo prezioso volume e di soffermarsi su quelle che sono, ad avviso degli Autori, le nuove sfide del federalismo (riassunte con la formula “Four Ps”):
“Against this background, the main challenges to federal studies for the years to come can be summarised in terms of the four ‘Ps ’: managing pluralism by means of procedures, participation and policies. Managing pluralism, in its various territorial, ethno-cultural and other manifestations, has always been the core task of federal systems. Traditionally, however, this was done primarily using institutional structures, such as second chambers […] New, less institutionalised bodies or merely procedural arrangements are being established to supplement decision-making and more generally to overcome the structural limits of institutional arrangements. Focusing on procedures aimed at regulating decision-making, at coordinating the implementation of decisions, at preventing and settling conflicts, at including non-institutional actors (interest groups, experts, citizens, non-governmental organisations, etc) is of utmost importance in understanding federal dynamics. Participation has also been an essential element of the federal toolkit from the inception […] In present times, the pressure towards more democratic and participatory decision-making makes it necessary to look beyond merely institutional participation and to also include (and regulate) forms of societal participation. […] Finally, it is necessary for federal studies to look more closely at policies, including how they are managed on the basis of legal norms and how they are interpreted by courts” (p. 450).
È difficile dire quale sarà il futuro degli studi sul federalismo, ma indubbiamente le considerazioni formulate sulla necessità di rendere meno rigide le categorie acquisite da tempo sono preziose per il comparatista tout court (non solo per il giurista, ma anche per il politologo), insieme alla necessità di superare la tentazione di uno studio che si limiti al dato formale o istituzionale. Occorre invece guardare allo studio delle concrete interazioni (e conflitti) fra i livelli di governo. L’opera, come scritto in precedenza, risulta al tempo stesso organica e originale. Le preziosissime note in varie lingue ne fanno non soltanto un volume utile a capire cosa si celi dietro le diverse formule utilizzate nel dibattito scientifico, ma anche un indispensabile supporto per lo studioso che si è già formato e che voglia approfondire il dibattito. Particolarmente lucide appaiono le pagine sull’asimmetria - già definita altrove da Palermo come regola e non eccezione nei processi federativi - quelle sulla secessione, antico “tabù” dei costituzionalisti e riabilitata, per così dire, in una prospettiva giuridica dalla famosa Reference della Corte Suprema canadese del 1998. Molto interessanti sono anche le riflessioni che evidenziano l’importanza delle procedure nella gestione delle sfide di coesistenza che lo scenario sempre più globale e integrato presenta, come del resto conferma anche l’attenzione prestata alle dinamiche sovranazionali e ai regionalismi in generale. Si tratta, in altre parole, di un’opera di grande importanza, ispirata fortemente dall’esigenza di un approccio critico al dato normativo, per individuare e rimuovere i cliché presenti nel dibattito (bella la citazione di Mirkine-Guetzévitch a pag. 8: “Les études du droit constitutionnel comparé apprennent la relativité des textes, des formules et des dogmes”); un volume, insomma, che segna l’esistenza di un prima e un dopo negli studi sul federalismo e che è destinato ad essere punto di riferimento nella materia.
12 Marzo 2018
Giuseppe de Vergottini, Diritto costituzionale, IX edizione, Padova, CEDAM, 2017
In margine alla pubblicazione Diritto costituzionale, IX edizione dell'autore Giuseppe de Vergottini.
12 Gennaio 2018
Recensione a B. de Witte, A. Ott, E. Vos (eds), Between Flexibility and Disintegration: The Trajectory of Differentiation in EU Law, Edward Elgar, Northampton, 2017
Una costante dell’ultimo anno, specie all’indomani del voto del 23 giugno sul c.d. Brexit, è il richiamo alle possibilità offerte dagli strumenti asimmetrici e flessibili previsti nei Trattati europei per superare l’attuale fase di impasse che caratterizza il processo integrativo. L’ultimo esempio in ordine di tempo è offerto dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei ministri Gentiloni a proposito della c.d. web tax. Anche in precedenza, lo scorso marzo per la precisione, Italia, Spagna, Francia e Germania avevano insistito sull’opzione “Europa a più velocità” per rilanciare l’UE post Brexit. Eppure, quanto è stato sfruttato finora il potenziale asimmetrico dall’UE? A questo (e molto altro) è dedicato il libro qui recensito.
Si tratta di un volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi all’Università di Maastricht nel 2015 e ha il pregio di offrire una panoramica di visioni complementari sul tema dell’asimmetria nel processo di integrazione. Come dal titolo risulta chiaro, infatti, il focus del volume è chiaramente rappresentato dalla flessibilità nel diritto dell’Unione europea (UE); tuttavia, ciò non esclude una certa interdisciplinarità, essendo presenti anche contributi di sicuro interesse per i cultori del diritto costituzionale e comparato (si vedano, ad esempio, i saggi di Thym e di Curtin e Fasone). Si tratta di una scelta oculata perché anche nei processi federali l’asimmetria ha da sempre funzionato come strumento di integrazione: basti pensare al Canada o alla Svizzera. Il punto di partenza da cui prendono le mosse molti dei contributi del volume è il sospetto verso i meccanismi asimmetrici e di flessibilità che caratterizzano il diritto dei Trattati. Anche qui si possono scorgere delle similitudini con quanto discusso fra i comparatisti, vista l’iniziale reticenza che li ha caratterizzati con riferimento agli strumenti asimmetrici: si potrebbero qui richiamare le riflessioni di Tarlton, ad esempio, nel suo pionieristico saggio sul Journal of Politics.
Il volume si divide in due parti e si struttura in sedici capitoli. La prima parte è dedicata alla dimensione istituzionale, mentre la seconda a specifici aspetti di policy. Dopo un’Introduzione a firma dei tre curatori in cui vengono anticipati i contenuti dei singoli contributi, il volume si apre con un saggio di de Witte (“Variable Geometry and Differentiation as Structural Features of the EU Legal Order”), in cui l’Autore sottolinea la progressiva emersione degli strumenti di integrazione differenziata e la tendenza dell’opzione asimmetrica a lasciare il ruolo di eccezione per assurgere a caratteristica strutturale dell’ordinamento dell’UE. Il secondo saggio (“Competing Models for Understanding Differentiated Integration”), a firma di Thym, offre una panoramica dei differenti modelli utilizzabili per leggere e comprendere i rischi e le opportunità offerti dell’integrazione differenziata e richiama gli accorgimenti sostanziali e procedurali previsti dai Trattati europei per preservare il nucleo dell’ordinamento sovranazionale. Nel terzo capitolo (“Enhanced Cooperation: The Cinderella of Differentiated Integration”) Peers si sofferma sulla cooperazione rafforzata, quella che fino a pochi anni fa era un’opzione mai utilizzata a dispetto dell’importanza formale che, a una prima lettura dei Trattati, lo studioso del diritto dell’UE potrebbe riconoscerle. Nel quarto capitolo (“Modes of Flexibility: Framework Legislation v ‘Soft’ Law”) Dawson e Durana si soffermano su alcuni esempi di “flexible legal instruments” (p. 92), rispettivamente il caso delle direttive, di quella che potremmo chiamare in italiano “disciplina quadro” (analizzando alcuni casi specifici, in particolare nell’ambito della politica ambientale e del diritto anti-discriminatorio) e il c.d. soft law, con particolare attenzione all’uso di quest’ultimo in tempo di crisi. Il quinto capitolo di Curtin e Fasone (“Differentiated Representation: Is a Flexible European Parliament Desirable?”) è uno dei contributi più interessanti e originali. In questo contributo le Autrici si soffermano sull’impatto dell’integrazione differenziata sul Parlamento europeo, facendo uso della comparazione in certi casi e immaginando possibili scenari volti a “razionalizzare” le conseguenze istituzionali della scelta asimmetrica. Il sesto capitolo di Ott (“Differentiation through Accession Law: Free Movement Rights in an Enlarged European Union”) analizza in maniera dettagliata le varie tipologie di differenziazione giuridica introdotta dalle ultime generazioni dei trattati di adesione, con particolare riguardo al mercato interno. Il settimo capitolo (“Flexibility and Differentiation: A Plea for Allowing National Differentiation in the Fundamental Rights Domain”) chiude la prima parte del volume ed è stato realizzato da de Visser e van der Mei. Oggetto del contributo sono alcune riflessioni sul rapporto fra Carte costituzionali e Trattati all’indomani della sentenza Melloni. Gli Autori si interrogano su quale spazio possa essere stato lasciato da questa importante decisione alla differenziazione nella protezione dei diritti fondamentali.
La seconda parte del volume si apre con un interessantissimo saggio di Van den Bogaert e Borger dedicato all’asimmetria che caratterizza l’Unione monetaria (“Differentiated Integration in EMU”). Il capitolo analizza tre forme di differenziazione “in participation, in objectives and instruments and in law” (p. 209). Nel nono capitolo (“Differentiated Integration in the Field of Economic and Monetary Policy and the Use of “(Semi-)Extra” Union Legal Instruments – The Case for “Inter Se Treaty Amendments””) Herrmann affronta il tema del ricorso a strumenti formalmente esterni allo strumentario del diritto dell’UE in senso stretto. Si tratta della nota questione della scelta di misure formalmente appartenenti all’ambito del diritto internazionale pubblico (come, ad esempio, i trattati internazionali), ma in realtà in qualche modo collegate al diritto dell’Unione (per esempio, attraverso clausole come quella dell’art. 2 del Trattato di stabilità, coordinamento e governance, c.d. Fiscal Compact). Nelle pagine finali del contributo l’Autore propone anche l’introduzione di un nuovo art. 48a che permetterebbe “amendments to be made to the provisions listed in Article 139(2) TFEU (which do not apply to the non euro area Member States) by agreement and ratification by the euro area Member States only (inter se Treaty amendment)” (p. 249). Il capitolo dieci, di Ferran, è dedicato all’Unione bancaria europea (“European Banking Union and the EU Single Financial market: More Differentiated Integration, or Disintegration?”) e ne analizza l’impatto sul mercato unico dal punto di vista giuridico, esplorando anche i rischi di disintegrazione e le garanzie previste dal quadro giuridico rilevante. L’undicesimo capitolo (“The Financial Transaction Tax Project”) è stato realizzato da Van Cleyenbreugel e Devroe e si sofferma su una delle opzioni avanzate durante la crisi, ovvero una tassa sulle transazioni finanziarie. Nel capitolo vengono analizzati i pro e i contra di una possibile cooperazione rafforzata. Weimar e Vos nel dodicesimo capitolo (“Differentiated Integration or Uniform Regime? National Derogations from EU Internal Market Measures”) affrontano la questione delle deroghe nazionali al mercato interno europeo, inquadrando la questione alla luce della tensione esistente fra armonizzazione e rispetto della diversità giuridica. Nel capitolo vengono analizzati sia i casi di deroga attraverso clausole opt out sia i casi di differenziazione attraverso clausole di salvaguardia. Nel tredicesimo capitolo (“Flexibility in EU Environmental Law and Policy: A Response to Complexity, or Fig Leaf for Expediency?”) Kingston ricorda l’importanza che gli strumenti flessibili hanno avuto nella politica ambientale europea, ricostruendone origini e tipologie, ma anche interrogandosi sulla desiderabilità di alcuni limiti volti a preservare le politiche europee in questo ambito. Un approccio molto diverso, improntato all’esclusione di forme di integrazione differenziata – sia sotto forma di quella che l’Autrice chiama flessibilità informale, relativamente ai fenomeni di attuazione discrezionale e impropri delle politiche europee, sia in forma di accordi ufficiali – caratterizza il capitolo di El Enany sulle politiche di asilo (“The Perils of Differentiated Integration in the Field of Asylum “). L’Autrice ricorda come tali strumenti flessibili abbiano permesso negli anni al Regno Unito di adottare un approccio “cherry picking” (p. 382) che ha indubbiamente danneggiato il processo integrativo in questo campo. Nel penultimo capitolo Herlin- Karnell (“Between Flexibility and Disintegration in EU Criminal Law”) ricostruisce il significato del concetto di integrazione flessibile in ambito penale europeo, cercando di mostrare come in tale area emergano in maniera chiara i limiti di un’integrazione differenziata (p. 384). L’ultimo capitolo, a firma di Koutrakos (“Foreign Policy between Opt-outs and Closer Cooperation”), analizza le forme di integrazione diversificata nell’ambito della politica estera. Nel suo contributo l’Autore presenta la flessibilità come una caratteristica inerente nel settore della politica estera e di sicurezza comune, analizzando i casi di opt out generali (il caso danese) e quelli di opt out specifici o “ad hoc”, come l’Autore li definisce. L’ultima parte del contributo guarda allo scenario post-Lisbona.
Forse, data l’incredibile varietà di esperienze e fenomeni analizzati sarebbe stato preferibile insistere sulla costruzione iniziale di una categoria analiticamente unica di integrazione differenziata, che rendesse i casi analizzati più omogenei dal punto di vista del lettore. Allo stesso tempo, sembra mancare una conclusione che faccia “sistema” richiamando la struttura unitaria dell’opera. Comunque, il volume offre una miniera di spunti per lo studioso del diritto dell’Unione, che non solo vi troverà una solida ricostruzione delle diverse sfaccettature in cui la flessibilità si presenta a livello sovranazionale, ma che apprezzerà anche lo sforzo fatto per ricondurre al concetto di differenziazione anche esempi o esperienze di integrazione normalmente non analizzati sotto questa categoria. Tuttavia, il libro recensito è di sicuro interesse anche per il comparatista. Analogamente a quanto sostenuto da de Witte nel primo capitolo, anche nel diritto comparato l’asimmetria è stata sempre relegata ad eccezione nella vita dei sistemi federali e quasi federali e quest’approccio può essere visto come una delle conseguenze dei “residui contrattualistici” delle concezioni del federalismo (per cui, se il foedus è un contratto, allora alle sue parti deve essere garantito un eguale trattamento e dignità).
Come ha puntualizzato meglio di altri Palermo in Italia, questa visione dell’asimmetria ha tuttavia il torto di ridurla alla questione della distribuzione delle competenze, dimenticando altre due importanti questioni che hanno dato, spesso, ospitalità costituzionale all’istituto: il finanziamento e la rappresentanza istituzionale degli enti sub-statali (questione che, peraltro, permette di qualificare come «asimmetrico» anche un ordinamento tradizionalmente – o almeno fino alla riforma costituzionale del 2006 – ritenuto simmetrico: la Germania). Se infatti si include nel concetto di asimmetria anche la dimensione della rappresentanza, allora in virtù della composizione del Bundesrat, l’espediente della rappresentanza “geometrica” (proporzionale alla popolazione) invece che “aritmetica” (un eguale numero di rappresentanti indipendentemente dalla popolazione delle unità del sistema federale di riferimento) rende l’ordinamento tedesco “asimmetrico”. Questo approccio alternativo all’asimmetria permette di “ripensarla” in termini di “regola” – e non di “eccezione” – nella vita dei sistemi federali.
Come nel diritto comparato, anche nel diritto sovranazionale si è molto riflettuto sulla necessità di rendere sostenibile tale flessibilità (molto interessanti le considerazioni di Thym e Kingston in proposito, nel Volume qui recensito). Di particolare interesse è poi il capitolo di Curtin e Fasone relativo all’impatto della differenziazione sulle Istituzioni sovranazionali, pensando a configurazioni anche de iure condendo.
Se resa “sostenibile”, ovvero se esercitata nel rispetto di alcune garanzie (procedurali e sostanziali) volte a salvaguardare il nucleo costituzionale del sistema di riferimento, l’asimmetria e la flessibilità si presentano quindi come strumenti di integrazione (seppur differenziata) e non come fattore di disintegrazione. Per esempio, guardando alla cooperazione rafforzata, si possono ricordare le seguenti garanzie: 1) il numero minimo di Paesi necessario per attivarla; 2) il necessario coinvolgimento delle Istituzioni sovranazionali; 3) la clausola di apertura, che permette anche agli Stati che hanno deciso di non partecipare immediatamente di aggregarsi in un secondo momento; 4) l’esistenza di ambiti/settori che non possono essere messi a repentaglio dalla cooperazione rafforzata: il mercato interno, la coesione economica, sociale e territoriale ai sensi dell’art. 326 TFUE; 5) infine, il fatto che non possa costituire un ostacolo o giustificare una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri, né possa provocare distorsioni di concorrenza tra quest’ultimi, (si vedano gli Art. 20 TUE e da 326 a 334 TFUE).
In conclusione, si tratta di un libro molto interessante da vari punti di vista, basato su una solida struttura e frutto di un dialogo riuscito fra prospettive diverse.
2 Novembre 2017
Carlos Closa e Dimitry Kochenov (eds.), Reinforcing Rule of Law Oversight in the European Union (Cambridge University Press, Cambridge, 2016)
Quanto avvenuto in Ungheria e Polonia (e Romania) negli ultimi anni ha riacceso la discussione sul destino del rule of law nel territorio dell’Unione europea. Il volume qui recensito offre un’esaustiva rassegna delle principali questioni e soluzioni analizzate nel dibattito e ha il pregio di proporre alternative, non limitandosi a una trattazione compilativa. Tutti gli autori sono voci autorevoli in questo ambito, ma l’ottimo coordinamento dei curatori ha scongiurato il rischio di una mera riproposizione di tesi già esposte altrove. In questo senso i contributi sono parte di un progetto comune in quanto arricchiti reciprocamente in un sapiente quadro (emblematici, in questo senso, sono i capitoli di Müller e Tuori).
Il punto di partenza è quello rappresentato dallo sconfortante scenario che ci consegna oggi l’Unione. È stato giustamente scritto in questo senso che l’UE sta affrontando, da ormai molti anni, una crisi dal “multiforme” aspetto (economica, istituzionale, finanziaria, valoriale), ma caratterizzata da alcuni elementi ricorrenti. Fra questi sicuramente spicca una generale fuga dai Trattati, che sembra caratterizzare (seppur parzialmente) anche la strategia intrapresa dagli Stati per fronteggiare la crisi economico-finanziaria, ma si pensi anche ai tentennamenti sull’art. 50 TUE o, appunto, a quel gigante dormiente che è l’art. 7 TUE. In questo senso le iniziative della Commissione e del Consiglio, a proposito dei vari meccanismi alternativi a quella che l’ex Presidente della Commissione Barroso definì la “opzione nucleare” dell’art. 7 TUE, sono particolarmente emblematiche di questa tendenza.
Basto qui ricordare come specialmente l’iniziativa della Commissione sia nata come “complementare” a quella prevista dall’art. 7 TUE, anche se forse sarebbe più utile scorgere in essa un tentativo di razionalizzare quanto previsto dalla prima parte di questa disposizione. Le critiche mosse sia dalla dottrina sia dalle ONG all’operato della Commissione in questi anni sembrano confermare un pericoloso approccio che sembra eludere i Trattati. Anche le recenti dichiarazioni di Juncker non sembrano lasciare molto spazio all’ottimismo, e fanno riflettere sulla problematicità di questo approccio. Le parole di Besselink descrivono bene questa elusione del meccanismo previsto dai Trattati:
“Even though the preventive procedure was devised as a more feasible mechanism, in practice it was still felt that the main use of Article 7 was its impossibility to use it – hence Barroso called it ‘the nuclear option’. This state of affairs has received continuous criticism by NGOs and others who felt this resulted in misplaced complacency, notably exhibited by the Commission concluding in its 2003 Communication […] By merely saying we cherish certain constitutional values, we do not automatically observe them in practice. It is in this line of thought that the Commission launched its ‘Rule of Law Initiative’ in a communication of March 2014, setting out ‘A new EU Framework to strengthen the Rule of Law’”
Pur potendosi riscontrare una tendenza in questa parziale fuga dai Trattati vanno sottolineati alcuni “passi falsi” compiuti delle istituzioni sovranazionali in questi anni. In particolare la Commissione, uno dei guardiani dei Trattati, sia sotto la presidenza Barroso sia sotto quella Juncker, ha contribuito non poco alla confusione che caratterizza l’attuale fase del processo integrativo. L’art. 7 TUE non è sicuramente privo di ambiguità, ma almeno ha il vantaggio di offrire un percorso procedurale che gli Stati membri hanno sottoscritto e che le istituzioni europee dovrebbero garantire, memori del ruolo che il diritto ha. Troppo spesso, infatti, l’impressione che questo quadro sconfortante suggerisce è quella di attori politici che sembrano concepire le norme giuridiche come la mera cristallizzazione di rapporti di forza, quando invece esse – specie se dotate di rango “costituzionale” – dovrebbero rappresentare la cornice che delimita e razionalizza il potere.
Non è un caso, allora, che proprio il riferimento alla prima sentenza in cui la Corte di giustizia ha definito i Trattati come la propria “carta costituzionale”- la famosa Les Verts- rappresenti un punto costante dei contributi inclusi in questo importante volume.
Il libro qui recensito si divide in tre parti e consta di quattordici saggi (inclusa l’introduzione congiunta dei due curatori). La prima parte (“Establishing Normative Foundations”) richiama gli argomenti normativi a supporto del coinvolgimento dell’UE nel monitoraggio sul rispetto, da parte dei suoi Stati membri, dei valori dell’art. 2 TUE (Closa):
“The EU is a community of law which depends on mutual recognition and mutual trust. Secondly, the breach of the principle of the Rule of Law affects all the members of this community. This principle can be labelled the all affected principle. The third argument refers to the consistency between the EU's own proclaimed values and policies. Consistency demands that the same requirements apply through time and across policies” (p. 15-16).
Successivamente vengono ricostruite le caratteristiche di quel particolare modello istituzionale che è il rule of law (Palombella) e il quadro giuridico che, a Trattati inalterati, permetterebbe già adesso all’UE di intervenire per assicurare il rispetto dei valori enumerati all’art. 2 TUE (Hillion e Bugarič). Nella seconda parte del libro (“Proposing New Approaches”) si sviluppa a pieno il potenziale “propositivo” del volume (in realtà già presente in alcuni contributi della prima parte) con i contributi di Scheppele (che punta sull’introduzione di una procedura di infrazione sistemica che superi i limiti della procedura ordinaria ex art. 258 TFUE), Ballin (che offre un’interessante riflessione sui nuovi meccanismi proposti o introdotti dalle istituzioni europee, con particolare attenzione alle soluzioni avanzate dalla Commissione e dal Consiglio), Toggenburg e Grimheden (che invece suggeriscono di superare il focus sanzionatorio-punitivo del dibattito per puntare su un nuovo sistema che prevenga la violazione della clausola di omogeneità). Chiudono questa parte i contributi di Scheinin e Jakab (che insistono, con argomenti diversi, sul potenziale della Carta dei diritti fondamentali dell’UE), Müller (che già altrove aveva proposto di istituire una Commissione di Copenaghen) e Tuori (il quale, piuttosto che suggerire l’istituzione di una nuova Commissione di Copenaghen, propone di “fare perno” sulla Commissione di Venezia, che potrebbe, in questo senso, assistere l’UE in questa funzione di monitoraggio sul rispetto dei diritti fondamentali). L’ultima parte del volume si intitola “Identifying Deeper Problems” e ha come obiettivo quello di andare oltre il problema dei meccanismi possibili – esistenti, da riadattare o da inventare - per monitorare e sanzionare la violazione dei valori di cui all’art. 2 TUE. In questa sezione del volume sono inclusi contributi che tendono a legare i temi trattati nelle pagine precedenti a questioni più ampie, leggendole, appunto, come pezzi di un mosaico. Ad esempio, Blokker offre alcune considerazioni critiche sul problema della natura democratica non solo dell’UE, ma anche e soprattutto dei suoi stati membri, andando oltre una prospettiva meramente “legalistic” (p. 249). Vachudova, invece, punta su un altro aspetto, spesso trascurato dai costituzionalisti, quello della lotta alla corruzione, vista come elemento essenziale per una nuova strategia europea per la difesa della democrazia liberale.
Kochenov prende le mosse dalla considerazione per cui “values are not EU’s founding ideas” (p. 295), a dispetto dei proclami e dei documenti adottati negli anni dall’Unione, per poi fornire una generale riflessione su quello che lui chiama il “design problem” (p. 295). A questo si aggiunge un “functionality problem” dato dalla “unforceability” (p. 305) del rule of law a livello sovranazionale, a causa dei noti limiti al meccanismo delineato dall’art. 7 TUE.
Il quadro che ne risulta è quello di contesto in cui “the Rule of Law is perversely interpreted as a tool to deactivate potential contestation” (p. 311).
Weiler, nell’Epilogo al libro, sottolinea le ambiguità e le contraddizioni delle iniziative della Commissione e del Consiglio e, soprattutto, la necessità di riaffermare il nesso fra democrazia e rule of law, nella convinzione che “[t]he moral is not for the Union to shy away from taking robust action, within its competences and jurisdictional limits, to quell gross violations of the Rule of Law in and by some of its Member States. But it should simultaneously hurry up and put its own democratic house in order lest it be reminded that those living in glass houses should be careful when throwing stones” (p.326).
Si tratta di un volume importante, che sicuramente contribuirà in maniera fondamentale al dibattito, anche per la proiezione “normativa” (in termini di proposte e di commenti a soluzioni avanzate negli ultimi anni) che lo caratterizza: una lettura necessaria per costituzionalisti, comparatisti e studiosi del diritto internazionale ed europeo.
24 Aprile 2017
La confusione regna “sovrana”: riflessioni sul Brexit a pochi giorni dal voto del 23 giugno
A poche ore dal voto del 23 giugno su tutti i giornali si scrive già di una sicura uscita del Regno Unito dall’Unione europea (UE). Come noto, tuttavia, la faccenda è molto più complicata e il famoso termine dei due anni a cui si riferisce l’art. 50 del Trattato sull’UE (TUE) scatterà solo dall’avvenuta notifica, da parte del governo interessato, dell’intenzione di uscire al Consiglio europeo, “salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine” (art. 50 TUE). Non si sa molto della “forma” che dovrebbe avere (avrà, per alcuni) tale notifica; di sicuro, come appare del resto chiaro dal Trattato, le istituzioni sovranazionali non possono assolutamente obbligare il Regno Unito a notificare e lo stesso Boris Johnson, uno dei principali protagonisti nelle settimane della campagna, ha da poco dichiarato “no need for haste over Brexit’”. Del resto si tratta di un passo cruciale, sulla cui ritrattabilità la dottrina è divisa[1], ma che ha delle importanti conseguenze per lo Stato notificante perché, come si chiarisce al par. 4 dell’art. 50: “Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”. Sicuramente la ratio dell’art. 50 TUE esclude la possibilità di usare la notifica come arma per negoziare condizioni di membership più vantaggiose, dal momento che “the Treaty drafters clearly did not want Article 50 itself to be used for the purpose of renegotiating EU membership or amending the Treaties in any way”[2] (S. Peers, “Article 50 TEU: The uses and abuses of the process of withdrawing from the EU”, EU Law Analysis, 2014).
27 Giugno 2016
Diane Fromage, Les parlements dans l'Union Européenne après le Traité de Lisbonne: la participation des parlements allemands, britanniques, espagnols, français et italiens, Paris, L'Harmattan, 2015
L’autrice è assistant professor presso l’Università di Utrecht, vera giurista “europea”, che ha lavorato in cinque Paesi diversi e pubblicato in tre lingue. Il lavoro rappresenta una rielaborazione della tesi di dottorato in co-tutela fra l’Università di Pavia e la Pompeu Fabra di Barcellona.
Il lavoro si compone – secondo la tradizione francese – di due parti più una Introduzione e un capitolo conclusivo. Nell’introduzione vengono ricordati sia la struttura del lavoro, sia gli importanti passi avanti fatti, grazie al Trattato di Lisbona, nel rafforzamento di quello che alcuni Autori chiamano il “sistema parlamentare euro-nazionale” (A. Manzella - N. Lupo (a cura di), Il sistema parlamentare euro-nazionale. Lezioni, Giappichelli, 2014).
La prima parte del lavoro è dedicata all’adattamento delle strutture e delle procedure parlamentari relative alla partecipazione degli Stati membri all’integrazione europea e si caratterizza per il forte respiro comparatistico. Vengono infatti analizzati cinque casi di studio (Spagna, Italia, Francia, Regno Unito e Germania), la cui scelta viene motivata già nell’Introduzione alla luce di due fattori: 1) l’organizzazione territoriale dell’ordinamento (federale, centralizzato, regionale); 2) la capacità, da parte dei parlamenti, di influenzare il processo europeo (da qui la distinzione fra parlamenti forti e deboli). Sia la prima che la seconda parte, a loro volta, si compongono di due capitoli.
14 Marzo 2016