Giulia Aravantinou Leonidi
L’impeachment di Donald Trump e i possibili riflessi sulle elezioni presidenziali del 2020
L’inchiesta
Donald Trump è il quarto Presidente ad essere sottoposto a procedimento di impeachment. Le decisioni assunte sin dai primi mesi di vita della sua amministrazione hanno stimolato presso la comunità accademica statunitense e l’opinione pubblica il dibattito circa la possibilità di ricorrere all’istituto dell’impeachment per la sua destituzione dalla carica presidenziale.
Diversi gruppi e singoli hanno tentato di avviare procedimenti di impeachment a carico di Donald Trump sin dal suo insediamento alla Casa Bianca. I primi passi formali per l’impeachment del Presidente sono stati avviati nel 2017 dai rappresentanti Al Green e Brad Sherman, entrambi democratici. Nel dicembre del 2017 la Camera dei rappresentanti, controllata dai repubblicani, aveva respinto con un voto di 58 favorevoli e 364 contrari la risoluzione, H.RES. 646 “Impeaching Donald John Trump, President of the United States, of high misdemeanors..”, presentata da Al Green.
In seguito alle elezioni del 6 novembre 2018 i democratici hanno ripreso il controllo della Camera dei rappresentanti e inaugurato, grazie al controllo delle commissioni, una stagione di inchieste sulle azioni e le finanze del Presidente. Nel gennaio 2019 sono emerse nuove accuse che coinvolgono Trump, sospettato di aver convinto il suo avvocato di lunga data, Michael Cohen, a mentire sotto giuramento sul coinvolgimento del Presidente con il governo russo per erigere una Torre Trump a Mosca.
Il rapporto Mueller, pubblicato il 18 aprile 2019, a conclusione delle indagini del procuratore speciale sul sospetto coinvolgimento della Russia nelle elezioni presidenziali del 2016 (il cd. Russiagate), ha di fatto scagionato il Presidente Trump, non essendo stato possibile rinvenire prove che accusassero in modo incontrovertibile il Capo dell’Esecutivo di aver ostruito la giustizia. Facendo seguito all’invito, contenuto nel rapporto, che fosse il Congresso ad intraprendere delle indagini sui comportamenti del Presidente, nel maggio 2019 la Speaker della House of Representatives, Nancy Pelosi, ha dichiarato che le continue azioni del Presidente, caratterizzantisi come tentativi di ostruzione della giustizia e rifiuto di dar seguito alle citazioni del Congresso, avrebbero avuto come conseguenza l’avvio di un’indagine congressuale per impeachment a carico di Donald Trump. Il 24 settembre sei commissioni della Camera dei Rappresentanti hanno avviato formalmente le proprie indagini sui comportamenti del Presidente. Si tratta delle commissioni: Financial Services, the Judiciary, Intelligence, Foreign Affairs, Oversight and Reform, e Ways and Means. La commissione di intelligence si concentrerà sui contenuti della denuncia degli informatori e se la denuncia potrebbe essere stata erroneamente nascosta al Congresso, mentre la commissione per gli affari esteri si concentrerà sulle interazioni che il Dipartimento di Stato potrebbe aver avuto con l'avvocato personale del Presidente, Rudolph Giuliani, mentre la Oversight and Reform Committee valuterà se i sistemi di classificazione della Casa Bianca sono stati utilizzati per occultare registrazioni di telefonate potenzialmente dannose tra il Presidente e i leader di vari paesi del mondo.
Il 31 ottobre 2019 la Camera dei Rappresentanti ha approvato con 232 voti favorevoli e 196 contrari una risoluzione che formalizza le procedure per l'inchiesta sull'impeachment contro il Presidente. L’approvazione della risoluzione si è resa necessaria per obbligare il Presidente e l’amministrazione, finora trinceratisi dietro l’executive privilege a collaborare con le commissioni di inchiesta, offrendo le testimonianze e i documenti richiesti dalla Camera. Si tratta del primo atto ufficiale in relazione al cd. Ucrainagate, lo scandalo che vede Trump accusato di aver esercitato pressioni sul Presidente ucraino Volodymyr Zelensky affinché aprisse un’inchiesta sulle attività in Ucraina del figlio del candidato democratico alle presidenziali del 2020, Joe Biden. Il Presidente è, inoltre, accusato di aver condizionato l’invio di 400 milioni di dollari di aiuti militari all’alleato europeo in cambio dell’apertura di un accertamento giudiziario sul suo avversario democratico Joe Biden e su suo figlio. Ad innescare l’avvio delle indagini sono state le rivelazioni di un funzionario dell’Intelligence statunitense, il cd. whistleblower, ritenute attendibili e immediatamente sottoposte alle commissioni congressuali competenti. Le reazioni della Casa Bianca sono state caratterizzate sin dall’inizio dell’indagine da un irriverente rigetto delle accuse attraverso il canale dei new media e dal tentativo di gettare discredito sulle talpe dalle cui dichiarazioni è partita l’inchiesta.
Le prime audizioni pubbliche dinanzi alla House Intelligence Committee, presieduta da Adam Schiff, si sono svolte il 13 novembre scorso con le testimonianze di due diplomatici di carriera, William Taylor e George Kent, e dell’ex ambasciatrice americana a Kiev Marie Yovanovitch.
Le commissioni dell'intelligence, della sorveglianza e degli affari esteri della Camera hanno ascoltato più di una dozzina di testimoni a porte chiuse da quando Nancy Pelosi, la Speaker della Camera dei rappresentanti a controllo democratico, ha aperto l'inchiesta sull'impeachment contro Trump alla fine di settembre. Mentre le audizioni proseguono, l’attenzione dei giudici si concentra su Rudolph Giuliani, l'avvocato personale di Donald Trump, figura centrale nella vicenda dell'Ucrainagate, che si trova ad essere indagato dalla giustizia federale nell'ambito di un'inchiesta su alcune sue operazioni finanziarie in Ucraina. Qualora le accuse contro Giuliani dovessero avere un seguito, questo risulterebbe avere un impatto rilevante sul corso del procedimento a carico del Presidente.
Impatto del procedimento di impeachment e conseguenze sulle future elezioni presidenziali
Con riferimento alla situazione politica e istituzionale attuale, Allan Lichtman, dell'American University, aveva ipotizzato nel suo ultimo libro, (A. Litchman, The Case for Impeachment, Dey Street Books, 2017), che il Presidente Trump sarebbe stato sottoposto al procedimento di impeachment prescritto dalla Costituzione per le minacce nei confronti delle istituzioni e delle tradizioni che hanno consentito agli Stati Uniti di prosperare per oltre due secoli.
L’ impeachment è considerato da Lichtman l’istituto che più di ogni altro svolge la vitale funzione di mantenere in equilibrio l’assetto istituzionale statunitense. Un rimedio pacifico e costituzionale contro la prevaricazione e la tirannia. Lo studioso americano nel suo volume ha identificato tre ordini di motivazioni che avrebbero condotto all’ impeachment di Trump: i legami finanziari della Trump Organization con gli oligarchi russi, le relazioni con la Russia di Putin e il complicato rapporto del Presidente con la verità. Lo storico americano al momento della redazione del suo fortunato volume aveva in mente il Russiagate, ma alcuni suoi contributi apparsi di recente sulla stampa americana in riferimento alle pressioni esercitate da Trump sul Presidente ucraino e all’avvio del procedimento di impeachment, confermano le sue capacità predittive sull’attualità politico-costituzionale degli Stati Uniti.
L’ impeachment è soprattutto un’arma politica ed è per questa ragione che lo stato in cui versano i partiti americani al momento riveste un ruolo fondamentale rispetto alle prospettive offerte dagli esiti del procedimento di impeachment.
A questo proposito, l’impeachment potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per i democratici e consentire al Presidente di replicare la campagna elettorale negativa a discredito dei propri avversari, che lo ha portato alla Casa Bianca nel 2016. Il procedimento di impeachment, infatti, difficilmente si concluderà prima del novembre 2020, ed è pertanto destinato a dominare il dibattito politico dei prossimi mesi.
Tuttavia, c’è da chiedersi se qualora fosse condannato Trump possa ancora essere candidato alle presidenziali del 2020. La possibilità è remota, ma potrebbe verificarsi qualora il Senato non adotti nel frattempo provvedimenti per impedirlo. La questione richiede certamente un ulteriore esame poiché un caso simile non si è mai posto nella storia degli Stati Uniti. Nessun presidente, infatti, è mai stato condannato per un impeachable offense dal Senato. Andrew Johnson e Bill Clinton sono stati entrambi accusati dalla Camera e assolti dal Senato. Richard Nixon si è dimesso prima che la Camera potesse votare per metterlo sotto stato di accusa. Nell'impeachment dei funzionari federali, il Senato ha adottato la prassi di tenere un voto separato sulla questione della disqualification dal futuro incarico federale, dopo aver votato per la condanna. A partire dall'impeachment del giudice Robert Archbald del 1912, il Senato ha richiesto solo un voto a maggioranza semplice per la disqualification.
Se non si tiene alcun voto, anche un funzionario condannato può rientrare nel servizio federale. Un esempio ci consente di chiarire meglio questo punto. Il giudice distrettuale degli Stati Uniti Alcee L. Hastings è stato rimosso dal suo incarico nel 1989 dopo essere stato rinviato a giudizio dalla Camera, per essere stato coinvolto in un caso di corruzione, e condannato in seguito dal Senato. Ma il Senato non ha votato per la disqualification e nel 1992, Hastings partecipò e vinse le elezioni in Florida divenendo membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, dove siede tutt’oggi.
Pertanto, qualora Trump fosse condannato dal Senato, ma il Senato decidesse di non votare la disqualification, in teoria potrebbe legittimamente partecipare alle elezioni, vincere e tornare alla Casa Bianca. La strada per la rielezione sarebbe aperta anche qualora un voto del Senato a favore della disqualification fallisse.
Naturalmente, anche laddove il Presidente Trump fosse condannato e colpito da un voto di disqualification del Senato, questi potrebbe ugualmente candidarsi alla rielezione, sia come repubblicano o come candidato di terze parti, sebbene questa si rivelerebbe politicamente una scelta poco saggia. Al fine di verificare queste ipotesi occorrerà attendere gli esiti del procedimento.
Al termine di circa due settimane di audizioni pubbliche in cui testimoni chiave hanno reso le proprie dichiarazioni dinanzi alla Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti, le prove presentate, a favore dell’incriminazione del Presidente, sono molto convincenti. Nonostante ciò, sembra di assistere alla rappresentazione di un copione già scritto. Il Congresso diviso, in cui alla Camera dei rappresentanti dominano i democratici, restituirà quasi sicuramente una decisione “divisa”. Trump sarà incriminato dal voto a maggioranza del partito democratico all’interno della Camera dei Rappresentanti, per poi essere prosciolto dal Senato, a maggioranza repubblicana. A differenza però di chi prima di lui ha affrontato il procedimento di impeachment, Trump incontrerà l’autunno prossimo una giuria forse più severa e meno prevedibile, quella dell’elettorato. In questa prospettiva, le audizioni pubbliche rappresentano un’imperdibile occasione per influenzare l’elettorato in vista dell’appuntamento alle urne del novembre 2020. Così, alle più raffinate disquisizioni sulle conseguenze costituzionali dell’applicazione dell’istituto dell’impeachment nell’attuale contesto politico statunitense, si accompagnano i calcoli degli analisti politici sulle rilevazioni degli umori dell’elettorato e sulle donazioni alle campagne elettorali, incassate dopo ogni singola audizione della Commissione Intelligence della Camera.
Le prossime settimane e i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti di Trump e sebbene sia possibile rintracciare degli indizi importanti circa gli esiti del procedimento di impeachment che lo vede protagonista, si potranno tirare le somme di questa vicenda solo dopo le elezioni di novembre 2020. Al momento attuale, quello che emerge senza dubbio è ancora una volta l’immagine di un Paese in bilico, ostaggio di una politica sempre più polarizzata che ne esaspera e ne espone le fragilità e gli abissi, a cui l’impeachment infligge l’inevitabile ennesima ferita.
28 Novembre 2019
La dichiarazione di emergenza del Presidente Trump. Una nuova minaccia alla democrazia americana? Prime riflessioni sugli aspetti problematici e i profili costituzionali di una vicenda complessa
Le sfide che si trova oggi ad affrontare la democrazia americana non sono certamente attribuibili in via esclusiva alla seppur controversa figura del Presidente Donald Trump. Le sue iniziative, tuttavia, minacciano di scardinare i principi fondamentali dell’ordinamento, mettendo alla prova la stabilità del sistema costituzionale statunitense con un’eco che travalica i confini nazionali. Lo scontro tra Esecutivo e Legislativo affonda le proprie radici in un processo di polarizzazione della vita politica americana e di radicalizzazione del confronto che può ormai considerarsi risalente e che, secondo alcuni, si è andato via via approfondendo a causa della sostanziale inerzia del Congresso e di una interpretazione espansiva dei poteri presidenziali.
La presidential proclamation con la quale il Presidente Trump ha dichiarato il 15 febbraio scorso l’emergenza nazionale ha suscitato le preoccupate reazioni del mondo politico e accademico, in ragione dei numerosi aspetti problematici coinvolti e delle possibili ripercussioni dell’iniziativa sull’assetto istituzionale del Paese. La decisione di invocare i poteri emergenziali, per distrarre fondi federali destinati ad altri progetti e procedere con la costruzione del Muro al confine con il Messico, è maturata in seguito al faticoso braccio di ferro tra Presidente e Congresso che si è consumato negli ultimi mesi e che ha visto Trump costretto a firmare una legge di bilancio, frutto di un difficoltoso accordo tra democratici e repubblicani, che non soddisfa le richieste di stanziamento di fondi avanzate dall’amministrazione.
La dichiarazione dell’emergenza nazionale, sulla base delle disposizioni contenute nel National Emergencies Act del 1976, rappresenta l’intento da parte del Presidente Trump, la cui popolarità nell’ultimo anno registra un forte calo, di rilanciare la sua presidenza dopo essere uscito sconfitto dalla battaglia durata due mesi con il Congresso sul finanziamento del muro con il Messico. Il Congresso, infatti, in un inedito clima bipartisan, ha approvato, il 14 febbraio, un accordo di compromesso sulla sicurezza dei confini meridionali per scongiurare il rischio di un altro shutdown, dopo quello parziale di dicembre, che dovrebbe garantire il funzionamento delle agenzie del governo federale almeno fino al prossimo autunno. Il provvedimento, il cd. Border Security Act , di ben 1169 pagine, è stato approvato dal Senato con 83 voti favorevoli e 16 contrari, mentre alla Camera dei Rappresentanti il voto è stato di 300 contro 128. Vengono stanziati $1.375 miliardi per circa 55 miglia di nuove barriere nel settore della Rio Grande Valley, una cifra ben al di sotto dei $ 5.7 miliardi richiesti dal Presidente. Sono, inoltre, previste delle restrizioni riguardo alla localizzazione delle strutture e ai materiali da utilizzare.
Seppur il pacchetto di spesa non soddisfi pienamente le richieste dell’amministrazione, esso prevede diverse novità che meritano di essere menzionate, come lo stanziamento di fondi per l’assunzione di 75 nuovi giudici dell'immigrazione. Esso favorisce, dunque, in parte il rafforzamento della sicurezza alle frontiere. Sono previste delle limitazioni all’azione del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale (DHS) contro potenziali sponsor di minori non accompagnati. L’agenzia per la sicurezza doganale e frontaliera (CBP) aveva già in passato ricevuto finanziamenti dal Congresso per iniziare la costruzione di nuove barriere nella regione della Rio Grande Valley, dove gli arresti per immigrazione clandestina sono più numerosi. I lavori per la costruzione delle 14 miglia del nuovo muro di confine dovevano inizialmente cominciare a febbraio, ma sono stati rinviati a marzo. Il provvedimento approvato dal Congresso prevede molte restrizioni. Innanzitutto, l'amministrazione non può erigere un muro di cemento o altri prototipi che non siano già in uso per recinzioni e barriere. I divieti relativi ai materiali, delineati nella legge, probabilmente non ostacoleranno le operazioni della Customs and Border Protection Agency, dato che l'agenzia ha affermato che preferisce al cemento le barriere attraverso le quali si può vedere. Le restrizioni non riguardano solo i materiali consentiti ma anche la localizzazione delle barriere. La legge elenca, infatti, le aree per le quali vige un divieto di costruzione del muro. Si tratta di aree di importanza storica e ambientale quali la riserva naturale di Santa Ana, il parco storico di La Lomita, il parco statale Bentsen-Rio e il Ranch Vista del Mar. Un particolare divieto riguarda, infine, il National Butterfly Center, che si trova a nord del Rio Grande in Texas. La North American Butterfly Association, che gestisce il centro, ha già promosso un ricorso contro il governo presso una corte federale per bloccare la costruzione del muro. Per poter procedere il governo dovrà probabilmente espropriare terreni privati. Non si tratta di una prassi sconosciuta all’ordinamento statunitense. Il governo federale, infatti, ha già in passato fatto ricorso ad un espediente di questo tipo per l’implementazione del Secure Fence Act, ma in ogni caso il processo potrebbe preannunciarsi oltremodo lungo e non privo di ostacoli.
All’indomani dell’approvazione del provvedimento da parte del Congresso Trump ha proclamato la dichiarazione di emergenza nazionale, affermando che il flusso di droghe, criminali e immigrati clandestini dal Messico costituisce una grave minaccia per la sicurezza nazionale, tale da giustificare un'azione unilaterale del governo federale. Come alcuni commentatori hanno sottolineato, si tratta della prima volta nella storia politico-istituzionale degli Stati Uniti che un Presidente ricorre ai poteri emergenziali per attuare la propria agenda politica. Sin dall’entrata in vigore del National Emergencies Act del 1976 l’emergenza nazionale è stata dichiarata diverse volte. In alcuni casi essa è stata revocata, in altri è stata riconfermata. A questo proposito, un valido ausilio per ricostruire il ricorso da parte dei Presidenti alla dichiarazione di emergenza nazionale nel corso degli anni proviene dal rapporto recentemente pubblicato dal Congressional Research Center (National Emergency Powers, CRS: 2019). Dal 1976 ad oggi sono state 58 le dichiarazioni di emergenza nazionale, di queste 31 sono ancora in vigore. Come si evince dal rapporto pubblicato dal CRS, Bill Clinton nel corso della sua presidenza ha fatto ricorso a questa prerogativa per ben 17 volte, George W. Bush per 12 e Barack Obama per 13. Nella maggior parte dei casi i provvedimenti erano volti a giustificare sanzioni economiche nei confronti di coloro che potevano rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale (per esempio i funzionari iraniani e nordcoreani). In altri, avevano l’obiettivo di fronteggiare una minaccia reale, come dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 o come nel caso dello scoppio dell’influenza aviaria nel 2009. A differenza dei suoi predecessori, Trump ricorre ai poteri emergenziali per rilanciare un proprio progetto politico con possibili implicazioni di lungo periodo che minacciano la separazione dei poteri e la tenuta del principio democratico. I maggiori timori risiedono nella possibilità che l’iniziativa del Presidente possa dare luogo ad un pericoloso precedente che potrà essere invocato in futuro per bypassare il potere del Congresso, trasformando radicalmente la natura e gli equilibri della forma di governo statunitense. A condividere tali preoccupazioni non sono solo i democratici ma anche i membri repubblicani del Congresso, protagonista in queste settimane di un tentativo di bloccare la presidential proclamation attraverso l’approvazione di una risoluzione congiunta, sulla quale si è già espressa la Camera dei Rappresentanti e si attende ora il voto del Senato che per il momento non è stato ancora calendarizzato. Alcuni senatori repubblicani, tra cui il leader Mitch Mc Connell, hanno annunciato l’intenzione di contrastare l’iniziativa del Presidente, considerandola una grave minaccia per l’ordinamento. Qualora la risoluzione venga approvata da entrambi i rami del Congresso e Trump apponga il veto, 50 dei senatori repubblicani dovranno votare compatti con i democratici per cercare, attraverso uno sforzo bipartisan, di raggiungere quella maggioranza qualificata dei 2/3 richiesta dalla Costituzione per il superamento del veto presidenziale.
Mentre le sorti congressuali del tentativo di contrastare la presidential proclamation sono ancora incerte e legate ad aspetti prevalentemente di opportunità politica, più interessante e complessa sotto il profilo costituzionale appare la battaglia appena iniziata nelle corti.
Un gruppo di 16 Stati guidato dal Procuratore della California, Xavier Becerra, ha già presentato ricorso contro l'amministrazione Trump. Nella citazione, depositata presso la US District Court for the Northern District Court of California, si sostiene che il Presidente è colpevole di aver violato in modo evidente la separazione dei poteri e usato come pretesto una crisi inesistente per dichiarare l'emergenza nazionale il 15 febbraio. Nello scontro tra Esecutivo e Congresso, l’azione legale intrapresa dagli Stati costituisce una delle opzioni per contrastare la decisione del Presidente di dichiarare lo stato di emergenza nazionale, l’altra riguarda la possibilità di un congressional override, ossia del superamento di un possibile veto presidenziale ad una risoluzione approvata dal Congresso per bloccare la presidential proclamation.
A questo proposito è bene ricordare che la sezione 202 del National Emergencies Act del 1976 (50 U.S.C. §§1601-1651), sulla base del quale è stata dichiarata da Trump l’emergenza nazionale, conferisce al Congresso la possibilità di intervenire nell’esercizio dei poteri emergenziali attribuiti al Presidente. Originariamente la disposizione contemplava la possibilità per il Congresso di ribaltare la decisione del Presidente approvando una concurrent resolution. In seguito alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso INS (Immigration and Naturalization Service) v. Chadha deciso il 23 febbraio del 1983 con la quale gli Old Nine hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale del legislative veto, che avrebbe consentito al Congresso di superare un veto presidenziale con la sola maggioranza semplice, si è provveduto ad una ridefinizione delle regole procedurali nel rispetto della Presentment Clause (art. I, sez. 7, Cost.), a favore dell’esercizio del potere di veto presidenziale sulla risoluzione adottata dal legislativo (joint resolution), riducendo di fatto la possibilità di un suo superamento da parte del Congresso. Sulla base della formulazione originale del National Emergencies Act, il cui intento originario era di limitare la portata dei poteri emergenziali del Presidente, la cessazione della dichiarazione di emergenza dipendeva esclusivamente dal Congresso e le Corti non svolgevano alcun ruolo nel determinarne la legittimità o la durata. In seguito alla decisione della Corte Suprema nel caso INS v. Chadha l’approvazione da parte del Congresso di una risoluzione contraria alla proclamation presidenziale si riduce ad avere un ruolo meramente simbolico, depotenziandone la portata di riequilibrio dei poteri nell’ambito della complessa architettura istituzionale statunitense. Pertanto, è possibile affermare che la centralità guadagnata dalle corti nel decidere dell’operato dell’amministrazione costituisce la diretta conseguenza della giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, spogliando il Congresso di un potere effettivo di contrasto all’azione del Presidente in determinati ambiti, ha rafforzato il ruolo del potere giudiziario. Alla luce di questi rilievi non stupisce, pertanto, la decisione degli Stati di impugnare la dichiarazione di emergenza dinanzi alle corti federali. Il ricorso muove da argomentazioni di carattere costituzionale che coinvolgono il rispetto del principio della separazione dei poteri, rigidamente accolto nella Costituzione redatta dai Padri Fondatori nel 1787, l’esclusività dell’esercizio del cd. power of the purse da parte del Congresso (Art. I, sez. 8-9, Cost.), la legittimità dell’azione del Capo dell’Esecutivo e delle agenzie governative nel perseguire la costruzione del muro con il Messico. Gli Stati della California e del New Mexico, gli unici a confinare direttamente con il territorio messicano, contestano, sulla base di leggi federali, la violazione della normativa posta a tutela dell’ambiente e la mancata valutazione da parte del governo federale dell’impatto che l’erezione del muro avrebbe sull’ecosistema. L’azione promossa dai sedici Stati guidati dalla California non sembra destinata a rimanere isolata. Altri Stati e associazioni a difesa dei diritti civili si preparano ad impugnare il provvedimento. Il caso molto probabilmente giungerà sino alla Corte Suprema, che in seguito alle recenti nomine si presenta nella sua composizione a maggioranza conservatrice.
Uno dei nodi centrali che le corti si troveranno a dover dirimere riguarda la definizione di “emergenza”. La legge del 1976 non offre, infatti, alcuna indicazione in tal senso limitandosi ad affermare che “[w]ith respect to Acts of Congress authorizing the exercise, during the period of a national emergency, of any special or extraordinary power, the President is authorized to declare such national emergency”, lasciando pertanto alla discrezionalità dell’Esecutivo la determinazione degli eventi che configurano una “emergenza nazionale”. Come scrive Robert Sloane, della Boston University, pur in presenza di una sentenza pronunciata da una corte federale che definisca le fattispecie che possano essere considerate emergenze ai fini della presidential proclamation, resterebbe da chiarire quale grado di rispetto dovrebbero in seguito mostrare le corti nei confronti della discrezionalità presidenziale nello stabilire quali circostanze possano essere qualificate come emergenziali. Un altro profilo giuridico che merita attenzione e che potrebbe essere sollevato dinanzi alle corti concerne la qualificazione del progetto di erezione del muro con il Messico come progetto di costruzione "militare" a sostegno delle forze armate. Il muro, in realtà, non viene costruito per respingere l'esercito messicano, ma per rafforzare la politica anti-immigrazione perseguita dall’amministrazione. Il Congresso ha affidato la gestione dell'immigrazione ad un'agenzia civile e se costituisce un fatto l’invio da parte del Ppresidente Trump di truppe alla frontiera per assistere le autorità impegnate nel contrasto all’immigrazione clandestina, occorre anche ricordare che ad esse è concesso solo di svolgere azioni di supporto. Il Posse Comitatus Act del 1878 proibisce, infatti, l'impiego di truppe regolari per la semplice applicazione della legge all'interno del territorio degli Stati Uniti. Sulla base di queste considerazioni una corte potrebbe, dunque, ritenere che il muro con il Messico non sia al servizio dei bisogni militari in quanto tali.
È bene ricordare in questa sede che nessuna corte è mai intervenuta ad annullare la dichiarazione di emergenza di un Presidente ai sensi del National Emergencies Act o di qualsiasi altra legge federale che autorizzi il Presidente a dichiarare lo stato di emergenza. Vi è un unico precedente nella giurisprudenza statunitense che può essere richiamato in relazione all’iniziativa di Donald Trump e alla sicurezza nazionale. Si tratta della decisione adottata dalla Corte Suprema nel caso Youngstown Sheet&Tube Co. V. Sawyer 343 U.S. 579 (1952). La Corte Suprema nel 1952 annullò il sequestro delle acciaierie da parte del Presidente Truman durante la guerra di Corea, ma in quel caso il Presidente aveva esercitato esclusivamente i poteri costituzionalmente conferitigli e non, come invece in questo caso, i poteri emergenziali attribuitigli da una legge del Congresso.
Come si è tentato sinteticamente di evidenziare in questo contributo i profili costituzionali coinvolti dalla decisione del Presidente di dichiarare l’emergenza nazionale sono particolarmente complessi. La battaglia legale si preannuncia lunga e di non facile soluzione. Il Presidente Trump si trova a dover affrontare una fase particolarmente delicata del suo mandato, inaugurata in novembre dalla perdita del controllo della Camera dei Rappresentanti e segnata anche dalla costante opposizione di alcuni Stati, già protagonisti delle vicende giudiziarie relative alle cd. Sanctuary Cities e alla mancata implementazione delle leggi federali in materia di immigrazione, oggi riuniti nel ricorso promosso contro la proclamation.
I tempi non appaiono maturi per avanzare ipotesi che abbiano la presunzione della completezza in relazione all’esito conclusivo di questa complicata vicenda, nella quale in gioco vi è chiaramente molto più che la sopravvivenza politica dell’amministrazione Trump bensì le future sorti dell’ordinamento e della democrazia statunitensi.
14 Marzo 2019