Il populismo secondo Saïed: tra estremismo state-led e ‘cospirazionismo’

La spirale discendente della Tunisia, verso approdi al momento ignoti, è oggetto di dibattiti e analisi, ormai da quasi un biennio.
Di certo, come è stato segnalato, la netta virata verso una gestione autoritaria del potere, attraverso una degenerazione (iper)presidenzialista, ha consegnato la Nazione nelle mani di un solo uomo, centro e fine della dialettica costituzionale tunisina.
Simile deriva, in verità, si inserisce in uno schema tipico di ‘degradazione’ per tappe, in cui, progressivamente, sono state neutralizzate le garanzie a presidio del sistema, silenziate le forme di dissenso (e dissidenza), al contempo alterando e – letteralmente – rimuovendo tutti i contrappesi in favore di un (unico) esecutivo con poteri pieni.
E, ancora tipicamente, alla degradazione si è associata una regressione: in tema di diritti, del quadro costituzionale nel suo complesso e, non da ultimo, del discorso istituzionale.
Il Presidente Saïed, protagonista della discussa fase sperimentata dalla Tunisia in questo frangente, ha di fatto impostato una sorta di narrazione di stato, non solo populista (e paternalista) nella forma (cadenzata dallo slogan “il popolo vuole” già in campagna elettorale e tematizzata nelle sue specificità come un populismo “à la Kais Saïed”), ma conflittuale, divisiva, polarizzante e soprattutto, identitaria ed escludente nella sostanza. In una dialettica, per così dire, schmittiana dell’Amico/Nemico, nella Tunisia di Saïed non vi è spazio per l’opposizione, là dove siano date due sole opzioni: a favore o contro il suo operato, “dentro” o “fuori” lo spazio esclusivo via via costruito. Questa logica ha riguardato, a titolo esemplificativo, tanto i rapporti con il potere giudiziario, destituendo giudici e procedendo con nomine di dubbia terzietà, quanto lo “scambio” politico con gli oppositori, allontanati, censurati, o imprigionati, nonché le interazioni con la società civile e le minoranze in seno a essa. Del 17 aprile è la notizia di un altro illustre arresto: quello di Rachid Ghannouchi, leader di an-Nahḍa, noto primo “antagonista” del Presidente Saïed, successivo, in ordine di tempo, all’incarcerazione di Ali Laarayedh, ex primo ministro ed esponente del medesimo partito.
È in questo contesto che si è custodita e poi ‘materializzata’ lo scorso febbraio in occasione del Consiglio di sicurezza, l’affermazione del Presidente Saïed riguardo a una identità tunisina più ‘araba’(e islamica) che africana: cioè, di una Tunisia “bianca” e diversa dalle “orde” di africani subsahariani, che la “invadono” illegalmente, per deturparla con crimini e violenza. Ma vi è di più: il larvato obiettivo delle migrazioni (di “massa”) sarebbe anche quello di sostituire proprio quella identità, per deformare e trasformare la fisionomia demografica del paese nella sua interezza. L’espressione non è casuale, giacché Saïed, con il proprio discorso, ha mirato al centro del ‘pluralismo’ e delle plurime identità, restringendo ulteriormente i confini dell’“appartenenza”, dove l’una non può contenere – né accettare sovrapposizioni con – l’altra. D’altro canto, non appare fortuito, di nuovo, che a essere stigmatizzate (e marginalizzate) siano comunità minoritarie, secondo uno paradigma, sovente ripetuto, per cui minacce alla Nazione, alla ‘sicurezza’ e all’ordine siano addebitabili a un ben definito – e a seconda dei momenti sempre diversogruppo o “categoria”. In ciò, le narrazioni di Saïed non sarebbero del tutto inedite, né dovrebbero suonare tali. Da una parte, infatti, egli ha intercettato il malcontento e l’insoddisfazione generalizzati per convogliarli verso un target “altro”, che definire ‘capro espiatorio’ risulterebbe forse semplicistico, risvegliando piuttosto il vecchio demone del razzismo. Dall’altra, pare che Saïed abbia agganciato i discorsi oltremare – importando “la visione del suprematismo bianco europeo” – che vedono dilagare teorie cospirazioniste, la più nota delle quali è, appunto, quella della ‘sostituzione etnica’ cui i flussi migratori sarebbero realmente votati (cavallo di battaglia delle c.dd. teorie globali del complotto, non solo recentemente sotto scrutinio anche nello scenario italiano e altrove). Nel sostenere che il Presidente “borrowed yet another page from the global neo-fascist playbook and engaged in anti-Black racism to unleash a reign of terror”, magari si proverebbe troppo, giacché il ‘cospirazionismo’ (al pari del populismo) presenta sfumature molteplici, trasversali e di diversificata vocazione. Puntuale e aperta, chiaramente, è giunta la condanna dell’Unione Africana che ha definito le dichiarazioni del Presidente Saïed “scioccanti”, oltreché dagli effetti dirompenti (e denigratori) altresì per lo spirito e i principi che la informano. Il favore, verso queste esternazioni, è pervenuto, invece (paradossalmente?), da Éric Zemmour, (fondatore ed) esponente della far-right francese, con il suo partito Reconquête.
E le scuse successivamente offerte da Saïed, il quale ha accusato la stampa di aver falsificato e scientemente mistificato il contenuto del suo discorso, non sono risultate sufficienti per ignorare il clima conflittuale che questi ha (progressivamente) contribuito a creare e irrobustire. Qui, non sembrerebbe eccessivo parlare, invece, di discorsi estremisti e polarizzanti palesemente state-led, in grado, dunque, per la loro “qualità” anche di ‘radicalizzare’ l’opinione (pubblica). A prescindere dalle reali intenzioni, cioè, l’esito si è sostanziato in un crescendo di violenza nei confronti di minoranze, attacchi razzisti e abusi ai danni dei migranti subsahariani, perquisizioni e arresti ingiustificati, nonché brutali violazioni di diritti ‘fondamentali’.
Si tratta, quindi, dell’ennesimo colpo sferrato alla rule of law – in piena crisi, invero non solo in Tunisia – le cui fondamenta apparivano già fragili e vacillanti da tempo.

A complicare il quadro, nella medesima congiuntura, si sono aggiunte le ipotesi (o illazioni?) formulate circa il rifiuto espresso da parte della Tunisia del ‘sistema’ dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale, quale ingerenza ingiustificata negli affari domestici. A cui si accompagnerebbe, peraltro, la volontà di unirsi ai paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) quale “asse” alternativo di riferimento. Tuttavia, quest’ultima notizia trova la propria fonte nel portavoce del movimento “25 Luglio”, quindi esplicitamente pro-Saïed (e a questi vicinissimo), ma non in dichiarazioni ufficiali da parte del Presidente; le voci, seppur non confermate, si rincorrono con insistenza, considerando anche la recente richiesta di adesione avanzata dall’Algeria e le speranze riposte dalla Turchia, come scelta, quindi, dichiaratamente contraria all’imperialismo (economico) occidentale.
La difficoltà di centrare l’attendibilità delle dichiarazioni, i tratti sfumati del discorso pubblico e istituzionale, talvolta volutamente reticente sull’agenda presidenziale, talaltra segnato da smentite, ‘fraintendimenti’ e interpretazioni divergenti, consegnano efficacemente l’idea dell’incertezza in cui naviga la Tunisia.
Gli approdi, appunto, restano forse prevedibili, ma, ancora e di nuovo, sconosciuti.


L'État, c'est Saïed: la transizione (verso un iperpresidenzialismo) è compiuta?

La Tunisia è sempre stata considerata una sorta di oasi tra gli stati arabi; la Tunisia come “eccezione”, come “anomalia”.
La Tunisia era considerata “diversa” anche nei tempi più bui delle autocrazie guidate da Bourguiba e Ben Ali e anche al momento delle cosiddette “primavere arabe”. Le ragioni risiedono nell’idea di “Tunisianité” inventata da Bourguiba, caratterizzata dalla pacifica decolonizzazione, dalla diplomazia orientata verso l’Occidente, dal modello di ‘laicità’. Questo tipo di narrativa, a conti fatti estremamente apologetica, non è solo profondamente radicata nel passato, ma anche negli eventi del 2011, ossia la “rivoluzione del gelsomino”. La situazione tunisina, infatti, non si è avvitata né in una involuzione militare, come in Egitto, né in un conflitto civile, come nel caos libico o siriano. La Tunisia è quindi stata ritenuta come l'unica “storia di successo” del mondo arabo post-2011: adozione della Costituzione 2014; politiche libere e trasparenti elezioni; elezione democratica di quattro diversi Presidenti della repubblica e otto Primi ministri. Tutti eventi che hanno confermato la possibilità di un cambio pacifico del potere politico in un paese arabo. Nel 2014 “The Economist” ha addirittura etichettato la Tunisia come il “paese dell'anno”.
Eppure, la storia post-coloniale della Tunisia avrebbe dovuto insegnare che essa è stata sempre anche caratterizzata da ‘Big men’ che si sono avvalsi delle Costituzioni per proteggere le élites e la loro leadership al potere. Ciò che è accaduto con la presidenza Kaïs Saïed è da inquadrarsi in questo contesto. La sua controversa figura ha sempre poggiato su una agenda conservatrice e anti-sistema che mirava a ristrutturare la conformazione del potere in Tunisia. Una agenda che nascondeva la demagogia come chiave di volta per vincere le elezioni, anche se egli ha sempre rifiutato le accuse di populismo shuʿūbiyat (شعوبية). Saïed si è rivolto all’elettorato giovane, privato della possibilità di una mobilità sociale, dei marginalizzati, mettendo in evidenza il divario tra le promesse della rivoluzione del 2011 e la precaria realtà socio-economica della nazione: la contrapposizione tra potere e popolo, vittima, quest’ultimo, del sistema politico fallimentare. Decenni di corruzione e clientelismo, mancanza di un piano economico efficace, altissima disoccupazione, distribuzione di beni di consumo controllata da una pletora di intermediari corrotti e il fallimento al governo del partito islamico moderato an-Nahḍa hanno facilitato l’emergere della nuova figura presidenziale. Tuttavia, non è stata solo la difficile situazione economica a favorire una decretazione ipertrofica, idonea a smantellare il sistema così come tratteggiato a livello costituzionale. La figura forte di un leader con pieni poteri non è mai stata percepita, in realtà, come un vero e proprio vulnus per i processi di riforma, come se la concezione dell’autorità legata a un modello patriarcale su scala nazionale – nel quale l’insieme della società tunisina è immaginata come una grande famiglia guidata dal Presidente – non fosse necessariamente incompatibile con stagioni riformiste.
Ecco che si è facilmente passati da ‘modello’ di democrazia del Maghreb, a un regime autoritario che si è avvalso di un sistema già in sofferenza. Come si ricorderà, infatti, a partire dalla mancata istituzione di una Corte costituzionale (per i recenti sviluppi, si rimanda qui), fino al congelamento dei lavori del Parlamento, l’ultimo biennio della storia istituzionale tunisina ha visto un accrescimento progressivo e inarrestabile dei poteri presidenziali, all’interno di uno stato di emergenza mai cessato (se non per brevi periodi) dal 2011. Sempre, peraltro, in una sorta di rispetto ‘formale’ della procedura costituzionale.
Sarebbe senz’altro azzardato parlare di colpo di stato – sebbene questa sia stata l’espressione maggiormente utilizzata dai contestatori di Kaïs Saïed – ma come fu per la destituzione silente (e “medicale”) di Bourguiba, la Tunisia registra un cortocircuito istituzionale che ha rovesciato – e alterato – gli equilibri tra poteri, già fragili e poco consolidati nella fase post-transizione. Silentemente, cioè, l’attuale Presidente ha aggiunto tasselli decisivi, idonei ad alterare l’ordine costituito, ora depotenziando gli altri poteri, ora ricalibrando la propria posizione, a scapito dell’esecutivo bicefalo, cui era votata la forma di governo dopo la rivoluzione. In effetti, se appariva alquanto probabile che, alla fine, la figura presidenziale si sarebbe imposta così nettamente da decretare un presidenzialismo di fatto (come già segnalato qui), snaturando la lettera del testo costituzionale, un accentramento così vistoso e incontrollato sembrava uno scenario scongiurabile. Certamente, siamo (ancora) lontani dal neopatrimonalismo alla Ben Ali, ma, al contempo, lo spettro di un iperpresidenzialismo ‘alla turca’ rischia di minacciare il (relativamente) giovane sistema tunisino. D’altro canto, gli steps, le tappe e le fasi succedutisi in Tunisia, a partire dal 2021, sembrano ricalcare l’excursus di Erdoğan, soprattutto per ciò che concerne una svolta autoritaria sostanziale, vidimata soltanto successivamente anche a livello costituzionale. E attraverso plebisciti. In effetti, anche Kaïs Saïed ha ‘firmato’ la sua Costituzione, che ha ufficialmente consacrato il ruolo presidenziale come il vero e unico timone istituzionale. Se non, addirittura, come identificazione e immedesimazione nello Stato stesso. Eppure, il Presidente ben conosce la ‘giustizia’ costituzionale e, come si saprà, proprio sull’interpretazione del testo ha basato, e giustificato, la propria ascesa. Kaïs Saïed, piuttosto, si è mosso con consapevolezza e competenza tra le maglie costituzionali stesse, nell’alveo di ciò che la Costituzione non diceva o non disponeva chiaramente e univocamente.
Anche in questo caso, la Tunisia non appare un’eccezione, presentando delle analogie con altri sistemi africani (come il Madagascar di Rajaonarimampianina o il Gambia di Jammeh, tra gli altri) in cui si possono notare dinamiche riferibili a forme di ‘dittatura costituzionale’, che, infatti, è definibile “costituzionale, perché si presenta con vari limiti prescritti dalla legge e imposti dalle strutture istituzionali, ma il ‘dittatore’ esercita il potere secondo procedure costituzionali che portano la dittatura a esistere, a imporsi e a strutturarne portata e fini” (cfr. qui, p. 1807). E l’ultimo tassello dell’ambizioso progetto (costituzionale) di Saïed si è concretizzato nella delegittimazione dei partiti politici come forma di rappresentanza mediata e condivisa con il popolo. Il sogno di processo di democrazia diretta ‘anti-sistema’, che accarezzava sin dal 2013 e che era stato ideato originariamente dal suo consigliere, Ridha Chiheb, intellettuale di sinistra, soprannominato ‘Lenin’, si è avverato. Il sistema di Saïed/Chiheb si basava idealmente su un modello di elezione decentralizzata, costruita come una piramide rovesciata, chiamata “nuova costruzione”, al-bināʾ al-ǧadīd (الجديد البناء), o “nuova istituzione”, al-tasīs al-ǧadīd (الجديد التأسيس), nel quale il Parlamento è posto al vertice rovesciato e assume quindi scarsa rilevanza, a vantaggio di consigli locali che costituivano l’ossatura della democrazia diretta. Il sistema, che trae ispirazione dalla “massocrazia” (Ǧamāhīrīa) di Gheddafi e dal pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, tende a eliminare il divario creatosi tra cittadini e politica. Per il Presidente tunisino il ruolo dei partiti ha raggiunto il suo apice nel Ventesimo secolo e il partito come tale è condannato a scomparire (si veda, ad esempio, qui). Tale scuola di pensiero, del resto, è perfettamente in linea con quanto affermato nel 2021 da Saïed, ossia “al-barlamān ḵatir ʾalā dawla” (البرلمان خطر على الدولة), il “Parlamento è un pericolo per lo Stato”. La nuova legge elettorale (Decreto presidenziale n. 55 del 15 settembre 2022) si sviluppa, in parte, da questa cornice ideologica e ha così previsto che i candidati siano eletti individualmente e non tramite un voto di lista presentato dai partiti, che pertanto vengono svuotati di senso e di “peso”. Si crea, così, una sorta di democrazia ‘direttissima’ che, peraltro, è già stata sperimentata e ‘testata’ con il 94% dei voti favorevoli in occasione della riforma costituzionale presidenziale. Ma con un sottile malinteso di fondo. Il Presidente vince, ma non grazie a tutti e, di certo, non rappresenta tutti. Ad esempio, solo il 30% degli aventi diritto ha votato per il referendum e la volontà di neutralizzare il ruolo dei partiti politici si è rivelato un boomerang, poiché, alla già flebile partecipazione registrata, si è ora aggiunta un’ondata di inviti all’astensione, in termini però di vero e proprio ‘boicottaggio’ del progetto presidenziale. Il Presidente che i tunisini “amano”, evidentemente, non riscuote sufficienti consensi tali da poter modellare così pervasivamente e massicciamente la struttura e il funzionamento della Tunisia come sistema, ovvero come insieme di organi, di poteri separati ma collaborativi, di istituzioni e di mediazioni. La Tunisia, matura, che proponeva un suo modello democratico, lasciandosi alle spalle decenni di competizioni elettorali dubbie e non scevre da brogli e denunce, ripiomba nella ‘regressione’.
L’art. 23 della African Chart on Democracy, Elections and Governance del 2007 ha affermato che un colpo di stato può essere anche descritto come “Any amendment or revision of the
constitutional or legal instruments, which is an infringement on the principles of democratic change
of government”. Il caso tunisino sembra aderire perfettamente a questa definizione. Nonostante Saïed sia riuscito (in parte) a erigere una “nuova istituzione”, questa è nata come un frutto avvelenato, scontando il ‘peccato originale’ di aver tratto linfa da silenzi e lacune procedurali, da situazioni di vuoti di potere creati ad arte e persino da azioni ai limiti della costituzionalità.


“Le Président qu’on aime!”: brevi riflessioni sulla congiuntura tunisina, tra acclamazioni popolari e implicazioni costituzionali

Trascorsi appena tre mesi dal controverso rifiuto della firma presidenziale sugli emendamenti alla legge organica del 2015 istitutiva di una Corte costituzionale in Tunisia (oggetto di un commento su questo blog), il dibattito torna ad animarsi. L’avis rara nell’ambito dei sistemi maghrebini (Tamburini, 2016), promessa di transizione da una stagione autoritaria a procedure legittimate democraticamente, attraverso lo spirito del popolo tunisino, vede un’altra ala spezzarsi. Se, infatti, la fallita previsione di un controllo di costituzionalità delle leggi era stata letta come un’occasione mancata per il completamento dell’assetto democratico scelto dopo la rivoluzione, l’operato del Presidente Kaïs Saïed inserisce un altro tassello nel già poco chiaro scenario politico.
Di qualche giorno addietro, infatti, è la notizia di un nuovo decreto, il n. 117 del 2021, relativo a misure eccezionali, il quale apporta sostanziali modifiche alla Costituzione del 2014, incidendo sull’assetto costituzionale tunisino nel suo complesso. Ventidue articoli, suddivisi in quattro capitoli, che segnano un punto di svolta – o di non ritorno? – della presidenza di Saïed, già particolarmente pronunciata e “interventista”. Tale decreto, però, non appare provvedimento avulso e inaspettato nel contesto tunisino (ri)disegnato dalle scelte presidenziali, ma si presenta come step finale – e probabilmente, non ultimo – di una escalation di misure urgenti, eccezionali, straordinarie. Vale la pena, quindi, ripercorrere il susseguirsi degli eventi di questa estate tunisina, che riscrive le sorti della (ormai lontana) “primavera”.
In particolare, attraverso un decreto di fine luglio basato sull’art. 80 della Costituzione, che consente di fronteggiare, con l’adozione di misure straordinarie, situazioni di “pericolo imminente”, il Presidente ha disposto il congelamento delle attività parlamentari e il venir meno delle immunità per i membri dell’Assemblea. Tecnicamente, una sospensione, non lo scioglimento dell’organo legislativo, dunque. Dapprima valida per un periodo di trenta giorni, allo scadere del termine, l’impossibilità per l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo di operare è stata ribadita “fino a nuovo ordine”, senza ulteriori specificazioni. Chiaramente, sebbene sospensione e scioglimento non possano essere assimilati nella forma – il secondo, del resto, non è neppure consentito ex art. 80, ma si presenterebbe, in linea generale, almeno come scelta con valenza definitoria – un blocco dei lavori che dovesse protrarsi sine die li renderebbe situazioni equivalenti nella sostanza, qualora le sorti del Legislatore restassero vaghe e subordinate a presupposti “emergenziali”. Richiamando gli ultimi sviluppi del contesto tunisino, nonostante la travagliata storia della Corte costituzionale si presenti senz’altro come la sommatoria di dinamiche (politiche e partitiche) diverse, anche nel caso qui in commento il bersaglio è rappresentato, nondimeno, da un organo irrinunciabile nella simmetria dei pesi e dei contrappesi del modello semipresidenziale tunisino. E, dato parimenti (macroscopico e) determinante, il Capo del Governo Hichem Mechichi è stato destituito dal proprio incarico, dichiarandosi poi “volontariamente” dimissionario, nell’attesa della nomina presidenziale di un nuovo premier e di un rinnovato Esecutivo. D’altro canto, è già stato segnalato quanto questi (sottilissimi) equilibri fossero essenziali per la tenuta complessiva del sistema, giacché una leggerissima torsione della forma di governo a favore del Presidente ben avrebbe potuto provocare, con il consolidarsi di dubbie prassi, una distorsione rilevante della dialettica tra i poteri nel suo insieme. Richiamando alla memoria, inoltre, il rifiuto presidenziale – verificatosi a fine gennaio di questo anno – di nominare nuovi ministri a seguito di rimpasto. Un ulteriore presupposto, fil rouge che accomuna le diverse vicende richiamate, però, può ravvisarsi, anche qui, nel ruolo determinante (e dirimente) dell’interpretazione della Costituzione: ancora giuridica e politica. L’avvitamento della posizione presidenziale attorno a una dottrina rigorista della Carta, accompagnato dal monopolio dell’interpretazione costituzionale per se, ha creato il cortocircuito per cui in caso di accentramento del potere (da parte di una delle “teste”) dell’Esecutivo, la destituzione dalla carica rientrerebbe nei poteri di una Corte mai istituita. E ora, il cortocircuito si ripropone, poiché, ex art. 80 della Costituzione, lo stato di eccezione e la sua permanenza dovrebbero essere disposti, entrambi, sì per decreto presidenziale, ma previa consultazione del Capo del Governo, del Presidente dell’Assemblea e dopo aver informato il Presidente della Corte costituzionale. Il primo, attualmente non in carica, il secondo, organo “fantasma”, l’ultimo, ancora oggi, “bozza” in fase di definizione e finalizzazione.
Eppure, all’indomani della decisione presidenziale di congelare i lavori parlamentari, i tunisini si sono riversati nelle piazze, acclamando la scelta (“C’est ça le Président qu’on aime!”), denunciando l’inefficienza di an-Nahḍa, partito islamista e di maggioranza (relativa), vandalizzandone le sedi e sollevando il malcontento verso politiche sociali scarsamente incisive, il tutto acuito dall’esasperazione verso mesi di misure restrittive, richieste per il contenimento dell’emergenza sanitaria in corso (per una ricostruzione, si veda qui). Dunque, il popolo tunisino sembra dalla parte del Presidente, sparigliando le certezze sulle alternative desiderabili, tra governi forti, l’assecondamento di afflati populisti e, il rispetto rigoroso delle procedure democratiche. In relazione a quest’ultimo punto ha preso parola, di nuovo, an-Nahḍa, i cui membri hanno apertamente parlato di colpo di Stato e di involuzione costituzionale, come spregio al principio di rappresentanza, attentato alla (neonata) democrazia e inaccettabile abuso di potere. Il leader del partito islamista e Presidente dell’Assemblea, Rashid Ghannouchi, ha visto negarsi, insieme con altri membri, l’accesso fisico all’aula da parte delle forze armate, per cui che si tratti di sospensione meramente nominale appare circostanza sempre più remota. Come già notato in passato, in aggiunta, il partito di maggioranza ha sempre avuto, per suo conto, un approccio altrettanto rigorista della procedura, che, nel caso qui in esame, pare non solo soprasseduta, ma addirittura dimenticata. E che ciò sia giustificato da una situazione emergenziale, che necessiti di coordinamento compatto e “centralizzato”, non appare sufficiente per sfocare, fino a relegarla sullo sfondo, la fisiologia della dialettica tra i poteri.
Coup d’état ou espoir démocratique?recita un titolo di giornale sulla congiuntura tunisina e la domanda sembra più che urgente; le risposte, invece, non ancora definitive. Peraltro, la convinta avocazione del potere da parte del Presidente Saïed, con l’intenzione di anticipare “sul tempo” disordini, guerriglie urbane o, peggio, il ribaltamento dell’ordine costituito, attraverso decisioni “preventive” calate dall’alto, ricorda, da un lato, il modello adottato del Makhzen marocchino, con la differenza che lì, serpeggiando il sentore di rivoluzioni e conflitti sociali (e in assenza di Assemblea costituente), lo strumento di risposta della Monarchia è stato, adattandone il contenuto ai diversi periodi storici, quello di concedere Costituzioni ottriate, sedando gli animi e le rivendicazione, a difesa dell’Istituzione (Tamburini, 2016). Dall’altro, non è la prima volta che un partito islamista venga estromesso dal governo tramite colpi di teatro improvvisi: si pensi al caso egiziano del 2013 e all’allora presidente Mohamed Morsi, del partito Libertà e Giustizia, costola della Fratellanza Musulmana, che ha visto dapprima la propria rimozione e successivamente la propria incarcerazione, a favore della scalata militare e politica del Generale Abdel Fattah al -Sisi.
L’immagine proiettata dal Presidente Saïed, però, sembra volta a rassicurare gli spettatori interni e quelli internazionali, con toni non scevri da paternalismo: un uso consapevole dei media, attraverso i quali intima che nessuna goccia di sangue debba mai scorrere tra le strade tunisine, una diretta social per annunciare il contenuto del decreto e i provvedimenti in corso di confezionamento, il richiamo al bene pubblico, al necessario ripristino dell’ordine, alla perfetta compatibilità delle decisioni prese con il quadro e il dettato costituzionale, all’azione per “salvare” il popolo tunisino. Il Presidente, dunque, “lo fa per il suo popolo” e in virtù di quanto il popolo stesso gli chiede. Già in questa occasione, il Presidente aveva anticipato la notizia di un’imminente riforma della Costituzione, effettivamente venuta alla luce il 22 settembre scorso. Proprio nell’incipit del nuovo decreto n. 117 Saïed rispolvera l’immagine del “popolo bambino”, che, sebbene titolare esclusivo, in Tunisia, della sovranità, necessita di una guida sicura, posto che “il popolo tunisino ha espresso a più riprese il suo rigetto dei meccanismi relativi all’esercizio della sovranità”. E, prosegue il Presidente, in casi come questi, è essenziale che “il principio prevalga sulla forma e sulle procedure”. Pur essendo questa la sede per una ricostruzione generale della congiuntura politica tunisina e dei suoi risvolti, poi, sul versante costituzionale, meritano approfondimento alcuni punti della riforma presidenziale. Dall’impulso praticamente unilaterale e attuata tramite decreto ex art. 80, essa conferma le previsioni già esposte circa la sospensione dell’Assemblea e la neutralizzazione delle immunità. A proposito del potere legislativo, l’articolo 4 del Capitolo II dispone che esso venga esercitato attraverso lo strumento del decreto legge, promulgato, poi, dallo stesso Presidente della Repubblica che ne ordina la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (Journal officiel de la Republique tunisienne), dopo la deliberazione in Consiglio dei ministri. Molto estese e variegate le materie interessate dalla decretazione presidenziale, elencate dallo stesso art. 4 che fa salvo, comunque, un non ben precisato “controlimite”, una clausola di salvaguardia del rispetto dei diritti e libertà fondamentali, garantiti dal sistema nazionale e dal diritto internazionale. Peraltro, ex art. 7 del medesimo Capitolo, i decreti presidenziali non sono suscettibili di ricorso, né a fortiori, annullabili, previsione, questa, dai profili controversi se letta in combinato disposto con l’art. 20 del Capitolo 4 (Disposizioni finali) che prevede, invece, la soppressione esplicita dell’istanza provvisoria di costituzionalità. Il capitolo III del nuovo decreto, a proposito delle misure relative all’esercizio del potere esecutivo, cita solo incidentalmente il ruolo del Capo del Governo, che “assiste” il Presidente (art. 8), essendo le previsioni successive (Sez. I, artt. 9-15) interamente dedicate all’altra “testa” dell’aquila. Il Governo, infine, trova la sua sistematizzazione nella Sezione II del Capitolo III, rendendo ancor più evidente come la fisionomia del semipresidenziale tunisino sia appannaggio presidenziale, che ne plasma equilibri, competenze e poteri. Il decreto si chiude, come accennato, con delle disposizioni finali, le quali, lungi dal rappresentare una semplice chiosa alla riforma voluta da Saïed, sferza un ultimo colpo all’attuale assetto costituzionale: il preambolo della Costituzione, i suoi capitoli e tutte le sue disposizioni continuano ad essere vigenti se conformi al decreto.
In qualità di professore di diritto costituzionale, il Presidente Saïed conforta la propria audience, giacché la sua azione si muoverebbe indefettibilmente nel solco del costituzionalmente legittimo e, di più, sarebbe finanche necessario proprio per assicurare la tenuta dell’ordine costituzionale (e costituito) da derive di eterna transizione e rischi di sovvertimento. Infatti, prima della firma, si legge chiaramente come lo scopo del decreto sia “l'instaurazione di un vero regime democratico in cui le persone sono effettivamente titolari di sovranità e la fonte dei poteri […] un regime che si basa sulla separazione di poteri e il reale equilibrio tra di essi, sancisce lo Stato di diritto e garantisce i diritti e le libertà e il raggiungimento degli obiettivi del rivoluzione del 17 dicembre 2010 in materia di lavoro, libertà e dignità nazionale”. Per questo, l’ultima parola spetta ai cittadini tunisini che si pronunceranno con referendum. Al momento, il decreto appare come una sorta di super-o iper-costituzione, al di sopra e al di là del popolo e dei poteri, che si sovrappone, ma (ancora) non si sostituisce alla Carta attualmente vigente.
Quali saranno le evoluzioni è previsione difficile, se non avventata, soprattutto in assenza di una Corte in grado di destituire il Presidente e con la paralisi istituzionale e politica di un’Assemblea congelata. Appena nominata, invece, dopo qualche periodo di attesa, la prima donna premier della storia istituzionale tunisina, Nejla Bouden Romdhane. Un segnale di rilievo, certamente, da valutare, però, in prospettiva di medio e lungo termine. Il ventaglio di ipotesi non pare avere le tinte più ottimiste. Il popolo sembra dalla parte del Presidente: se “sospensione” e scioglimento non sono termini equivalenti a livello formale, ma possono convergere negli effetti, la stessa differenza intercorre, al contempo, tra legittimazione democratica e dinamiche “plebiscitarie”.


Pas encore: la Corte costituzionale tunisina in attesa di giudizio

Lo scorso 3 aprile, il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed ha rifiutato di “firmare” gli emendamenti alla legge organica n. 2018-39, finalizzati alla modifica e all’integrazione della legge organica n. 2015-50 relativa all’istituzione della Corte costituzionale. Si è parlato di imminente crisi interna, di requiem per la giustizia costituzionale, di stallo politico non arginabile. E, difatti, pare il nocciolo della questione riposi su presupposti di natura squisitamente politica, sebbene il Presidente, nel motivare il rifiuto, abbia addotto giustificazioni giuridiche e costituzionali. Con una certa tensione verso una inedita dottrina “pura” della Costituzione. Stando alle cause di questa occasione mancata, una Corte costituzionale non potrebbe neanche “esserci”, in virtù del dettato costituzionale, che, ex paragrafo 5 dell’art. 148 avrebbe disposto – e secondo Saïed imposto – il suo insediamento entro (i.e. non oltre) il 2015. Una lettura stringente e “letterale” della Carta non è nuova, da parte del Presidente, il quale, di recente, ha respinto il giuramento di nuovi ministri – in seguito a rimpasto – sulla base dell’assenza del suo previo assenso, considerato un parere vincolante e non soltanto consultivo, stando a una interpretazione rigorista della Carta. Alla luce di simili premesse, si proporranno alcune riflessioni intermedie – posto che la querelle è ben lontana dalla ricomposizione – delle valutazioni prospettiche che tengano conto dei trascorsi (non troppo lontani) e di possibili esiti futuri, ancora – pare – “transitori”.
In primo luogo, il dibattito attorno al rifiuto presidenziale è stato polifonico, con sottili bilanciamenti, mediazioni e “transazioni” che ricordano da vicino il processo costituente del 2011-2014 (sul complesso iter) e i suoi costanti trasversali compromessi. Se importanti accadimenti costituzionali richiedono il medesimo amplissimo consenso di quello verificatosi affinché una Costituzione venga ad esistenza, il caso tunisino non fa affatto eccezione. Anche in questo frangente, il partito an-Nahḍa ha mostrato un peso politico decisivo, a fronte di simile gesto “esemplare”, ribadendo l’imperativo di formare un fronte compatto e facendosi promotore della necessità di una Corte costituzionale. In modo non dissimile da quanto avvenuto in seguito alla paralisi dei lavori dell’Assemblea nazionale costituente sulla quarta bozza dell’attuale Carta. L’opposizione laicista, allora decisa a calare la scure della richiesta di scioglimento dell’Assemblea, vide il partito islamista strenuo “garante” della “procedura”: in quel momento, difendendo i risultati elettorali, come espressione incontestabile dei legittimi circuiti democratici di rappresentanza, come in questo, in cui reclama un controllo di costituzionalità delle leggi come step doveroso e chiusura del cerchio. Ulteriori partiti sembrano decisi a procedere, a dispetto del dissenso (per taluni ingiustificato, per talaltri illegittimo) del Presidente: all’unisono hanno parlato il leader di Qalb Tounès e il segretario di Attayar; mentre il partito popolare lo ha avallato come pienamente rientrante tra le prerogative presidenziali, nonché come auspicabile presa di posizione in funzione anti-maggioritaria. Il Presidente, insieme con la già citata assunzione del ruolo di censore privilegiato del rispetto del Testo, in qualità di bilancia(tore) di pesi e contrappesi, ha ulteriormente espresso la preoccupazione che la Corte possa rivelarsi una scatola vuota, ostaggio di interessi particolaristici e pressioni politiche, a vantaggio di sole nomine eterodirette, che ne diluirebbero non poco l’imparzialità. Il qual discorso non appare scevro da un larvato fine affinché la Corte, effettivamente, veda la luce in data da destinarsi, se è vero che le denunce dei sostenitori si fondano su identiche ma diametralmente opposte accuse, secondo cui l’ostruzionismo presidenziale – al netto del termine (perentorio?) fissato in Costituzione – si basa, anch’esso, su presupposti “accentratori” (dell’interpretazione). Come Ben Achour ha efficacemente notato, invero, riconoscere questo potere presidenziale, significherebbe “spalancare le porte all’eccesso di potere” (per un commento, si rimanda qui). Anche servendosi dell’interpretazione costituzionale, appunto, che farebbe della Corte un “orientamento” alternativo, rispetto a quello eventualmente elaborato per via presidenziale. L’interpretazione, se facoltà in capo al Presidente, quale rappresentante dello Stato e della sua unità, in assenza della Corte, non può tradursi in esclusivo potere di decidere cosa la Costituzione disponga caso per caso. Non resta solo sullo sfondo che un Presidente della Repubblica pronunciato, in un regime semipresidenziale “sbilanciato” a favore di una sola testa dell’“aquila”, possano fare da sprone, nel lungo periodo, per distorsioni sostanziali della forma di governo. La scelta verso un esecutivo bicefalo, infatti, è stata pensata per evitare di replicare le precedenti esperienze di presidenzialismi forti, con uno spiccato culto della personalità, come accadde per il bourguibismo o con il “sultanismo” di linziana dottrina, come quello di ben ʿAlī. Nel ruolo di “guardiano” pro tempore della Costituzione, Saïed rischierebbe di non apparire, altrimenti, troppo distante da Bourguiba, che, nel contesto della Tunisia indipendente si erse ad al-Mutjahid al-Akbar, supremo (e ultimo) interprete – non semplicemente “combattente” (Mujāhid) – non solo delle prescrizioni sciaraitiche, ma di ciò che la sharī’a e l’Islām stesso fossero. Cambiano i tempi, rectius le fonti, ma il timore che l’assenza di (auto)controllo renda la leva interpretativa – instaurate determinate “prassi” – un’anticamera dello strapotere, attraverso richiami identitari e sentimenti di appartenenza, permane anche nella Tunisia post-rivoluzione.
Da altro punto di vista – del crinale interpretativo – la spinta di an-Nahḍa sembra (molto più che) interessata, nonché colorata di decise venature di opportunismo. Se, durante la fase costituente, il partito islamista si è inserito nel gioco democratico di interessi in conflitto, con un do ut des, tra rinuncia a uno Stato “del tutto” laico, la permanenza dell’Islām, ma senza i crismi di una confessional clause e l’esclusione della sharī’a, tanto come la fonte, quanto come una fonte, il candidato promosso da an-Nahḍa alla presidenza della Corte, sarebbe un membro dell’Unione mondiale degli Ulema. Il che nulla aggiunge, se non fosse che la definizione della Tunisia come “stato civile” sia categoria, anch’essa, interpretabile. Il timore dei detrattori del partito an-Nahḍa si inquadra, cioè, nella lettera della Costituzione che, come è stato da più parti sottolineato, si esprime solo in negativo, ovvero su ciò che la forma di Stato sicuramente non è: militare (Dawla al-‘askariyya), “teocentrico” (Dawla al-‘ilāhiyya), laico e non semplicemente secolare (Dawla ‘almaniyya). La Tunisia, quindi, è sì uno Stato in cui la sovranità appartiene alla “società civile” (Dawla al-madaniyya), ma secondo gli orientamenti laicisti, questa dizione a maglie larghe, insieme con la lettera “adattata” dell’articolo 2 sul ruolo dell’Islām, potrebbe fungere da clausola di apertura per una applicazione sostanziale, rectius giurisprudenziale, della sharī’a (nel dettaglio, si legga qui). Un esito possibile, qualora, ad esempio, alla Presidenza della Corte vi fosse un membro vicino al partito islamista e la composizione interna della stessa rispecchiasse precisi orientamenti maggioritari. Simile considerazione, altresì, ne impone a cascata delle ulteriori, scaturenti da due generali ordini di ragioni. Anzitutto, appare evidente come, sovente, la presenza della sharī’a tra le fonti appaia un dato eccessivamente sovraccaricato ed enfatizzato, come forma di eccezionalismo, in assenza di valutazioni inerenti ad altri formanti – tra tutti quello giurisprudenziale e politico, come Rule of Politics – o, ancora, alle interazioni tra la forma di governo e le dinamiche partitiche, come la Turchia di Erdoĝan insegna. Indagine, forse, essenziale per comprendere se una sharī’a supremacy clause possa fare la differenza nell’architrave costituzionale complessiva di un sistema. In secondo luogo, può notarsi come l’islamizzazione del contenuto costituzionale e processi di retrogression non procedano necessariamente in parallelo. Elemento dimostrato, a titolo esemplificativo, dall’interpretazione “accentrata” dell’art. 2 della Costituzione egiziana, di una sharī’a statalizzata” nella figura della Corte, la quale, utilizzando strumenti inerenti al modello (come il neo-ijtihad o il neo-taqlid,), ha inteso neutralizzare le chances di “islamizzazione del basso”. E, se sia possibile aggiungerne una terza, la sharī’a se considerata, genericamente, Rule of Law islamica in senso krygieriano, non anatomico ma teleologico, cioè “principio ordinatore” che fissa i limiti del “potere” costituito e valorizza gli elementi trasformativi interni, potrebbe rivelarsi maggiore garanzia di stabilità, a fronte di una Rule of law (liberale) di mera “facciata”. Anche per queste ragioni, l‘istituzione di una Corte potrebbe dire molto di più su come si atteggino poteri, fonti e forma di governo a livello di “Costituzione-risultato”, restituendo un’immagine senz’altro meno sfocata.
Un’ultima riflessione legata all’attualità. Durante la gestione della pandemia da Covid-19, l’art. 80 della Costituzione, insieme con la legge n. 78 del 1950, è stato invocato (e impiegato) con estrema disinvoltura, stante l’état d’exception (sanitaire), misto a tratti 10.
Lockdown, restrizioni e pericolo imminente hanno favorito un uso massiccio dei poteri normativi dell’esecutivo. A “rigore”, l’articolo 80 richiederebbe che le misure atte a fronteggiare la situazione eccezionale siano predisposte previa consultazione con il Capo del Governo e con il Presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e solo dopo averne informato il Presidente della Corte costituzionale. Il ruolo di quest’ultima, se appare qui marginale, si “riempie” al comma 3 e al 4, i quali dispongono – in modo non troppo dissimile dall’attuale art. 16 della Costituzione francese – che, trascorsi trenta giorni dalla dichiarazione dello Stato di eccezione, in qualsiasi momento e su richiesta del Presidente dell’ARP o di trenta membri dell’Assemblea, la Corte sia adita per verificarne i presupposti di persistenza. Una clausola di salvaguardia non indifferente, quindi: evitare un abuso della decretazione, qualora dovesse cadere in mani incontrollate. Una Corte costituzionale tunisina – in simile contingenza di instabilità internazionale e di incertezze istituzionali su larga scala – risulta, di nuovo, la grande assente.
D’altronde, se operativa, sarebbe un organo legittimato alla destituzione del Presidente della Repubblica, in virtù dell’art.88 della Costituzione. E questo dice molto sul ruolo indispensabile che essa è chiamata a svolgere, soprattutto in casi di asimmetria tra poteri. O, forse, spiega di più quel “non ancora”.