Giovanna Pistorio
Conferme e precisazioni nel «cammino comunitario» della Corte costituzionale. Commento a prima lettura della sentenza n. 269 del 2017
Sommario: 1. I profili delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Roma. – 2. L’ennesima lezione al giudice a quo: repetita iuvant. – 3. Una «precisazione», molti interrogativi.
1. Dense, significative, decisamente efficaci nella ricostruzione dei rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, le parole spese dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 269 del 2017. La “confusione” cui incorre la Commissione tributaria provinciale di Roma, nel caso di specie, spinge la Corte a spiegare, ancora una volta, il ruolo e le funzioni del giudice a quo nella risoluzione delle antinomie tra norme nazionali ed europee, effettuando, peraltro, una «precisazione [che] si impone alla luce delle trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona».
Due le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Roma, dinanzi alla Corte, a distanza di breve tempo. La prima, risale al 2 maggio 2016. La seconda, al 25 ottobre dello stesso anno. Oggetto delle questioni, la stessa norma: l’articolo 10, commi 7-ter e 7-quater, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), aggiunti dall’art. 5-bis, comma 1, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Quanto ai presunti vizi di costituzionalità, nella prima ordinanza si indicano, quali parametri, solo gli art. 3 e 53 Cost., nella seconda si aggiunge anche l’art. 23 Cost. In entrambi i casi, l’autorità remittente dubita della conformità a Costituzione della disciplina impugnata, in riferimento ai principi di eguaglianza e capacità contributiva – e nel secondo giudizio anche con riguardo alla riserva di legge prescritta dall’art. 23 Cost. – ritenendo che siffatta normativa «escluderebbe dall’obbligo di contribuzione i consumatori, le pubbliche amministrazioni e gli operatori economici diversi dagli imprenditori; assoggetterebbe all’obbligo di contribuzione solo gli imprenditori con volume d’affari superiore a 50 milioni di euro; individuerebbe quale base imponibile una grandezza come il fatturato, da considerarsi inespressiva di capacità contributiva. Inoltre, prevedendo un limite massimo alla misura del contributo, introdurrebbe una imposizione regressiva a beneficio delle imprese di maggiori dimensioni, in spregio al principio di progressività dell’imposizione».
Fin qui, nulla quaestio.
I profili di maggiore criticità attengono invece, sul piano processuale, al controllo sulla rilevanza della questione; sul piano sostanziale, alla eventuale risoluzione di un’antinomia normativa tale da pregiudicare la tutela dei diritti della persona.
2.Quanto al primo aspetto, il giudice costituzionale censura l’iniziale (in)capacità del giudice di destreggiarsi nel controllo sulla rilevanza della questione, a fronte del presunto contrasto, lamentato dalle parti, in entrambi i giudizi, della disciplina nazionale in esame con la normativa europea dotata di efficacia diretta, di cui all’art. 49 TFUE, sul diritto di stabilimento, e di cui all’art. 56 TFUE, sul diritto alla libera prestazione dei servizi.
In particolare, è nel primo giudizio che la Commissione tributaria commette l’errore che ha indotto la Corte a un intervento chiarificatore. Ritenendo «più aderente al sistema giuridico complessivo» scrutinare prioritariamente la conformità a Costituzione della disposizione oggetto - piuttosto che verificare il presunto contrasto con la normativa dell’UE direttamente efficace - il giudice a quo, dichiara di «dover intervertire l’ordine di esame delle questioni eccepite dal ricorrente» che, in via principale, aveva chiesto la disapplicazione delle norme impositive del tributo, a fronte del contrasto con il diritto dell’Unione europea.
Disatteso il “suggerimento” della parte, il giudice decide di sollevare questione di costituzionalità, con riguardo a principi costituzionali interni.
Peccato, però, che al giudice non sia consentita, nel caso di specie, siffatta possibilità di scelta.
Sono in gioco norme europee dotate di efficacia diretta.
È, dunque, necessariamente imposta una delibazione preventiva sui profili di incompatibilità con il diritto europeo, per verificare l’applicabilità della norma nazionale nel giudizio in esame.
A fronte di un’antinomia tra norma nazionale e norma europea dotata di efficacia diretta, che il contrasto con il diritto dell’Unione «condiziona l’applicabilità della norma censurata nel giudizio a quo e di conseguenza la rilevanza delle questioni», è indubbio, indiscutibile, conforme alla ormai più che consolidata giurisprudenza europea e costituzionale. In tale circostanza, l’eventuale disapplicazione ad opera del giudice nazionale risponde, sul piano sovranazionale all’esigenza di uniforme, immediata e diretta efficacia delle norme europee, quale baluardo strenuamente difeso, sin dalle origini, dalla sentenza resa nel caso Simmenthal dalla Corte di giustizia e, sia pur a fatica, recepito, con l’ormai più che datata sentenza n. 170 del 1984, dalla Corte costituzionale, nel corso del proprio «cammino comunitario». A livello nazionale, l’eventuale disapplicazione relega la norma in una sorta di “limbo” che preclude ad essa la produzione di qualsiasi effetto, limitatamente al caso di specie (A. Celotto, Fonti del diritto e antinomie, Napoli, 2014, 133 ss.). Ecco allora che il contrasto con il diritto dell’Unione europea, «attenendo alla operatività della norma oggetto degli incidenti di costituzionalità, investe la rilevanza delle questioni, onde di esso ogni giudice, nel sollevarle, deve farsi carico ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, pena l’inammissibilità delle questioni medesime». Si tratta di un principio enucleabile, implicitamente, per la priva volta, dalla sentenza n. 170 del 1984 e successivamente, in molte occasioni, ribadito (cfr., ex plurimis, Corte cost., ordd. nn. 152 del 1987, 78, 389 e 450 del 1990, 8, 79 e 269 del 1991, 244 del 1994, 38 del 1995, 249 del 2001, 284 del 2007, 125 del 2009, 227 e 288 del 2010).
Ben diverso il caso in cui l’antinomia sorga con una norma europea priva di efficacia diretta, posto che, a fronte della effettiva impossibilità sia di applicare la normativa europea, in mancanza dei requisiti a tal fine indefettibili, sia di applicare la normativa nazionale, a fronte del contrasto con quella europea, il giudice - accertata l’antinomia anche tramite l’eventuale ausilio interpretativo della Corte di giustizia - non può che sollevare questione di legittimità costituzionale, esperito ogni tentativo di conciliazione sul piano ermeneutico (cfr. sentt. nn. 284 del 2007, 28 e 227 del 2010, 75 del 2012, 207 del 2013. In dottrina, cfr. R. Mastroianni, Conflitti tra norme interne e norme comunitarie non dotate di efficacia diretta: il ruolo della Corte costituzionale, in Diritto dell’Unione europea, 2007, 585 ss. Più di recente, cfr. S. Lattanzi, Il conflitto tra norma interna e norma dell'Unione priva di effetti diretti nella vicenda dei precari della scuola italiana, ivi, 2015, 897 ss.)
Non è questo il caso, però.
Che forse il giudice si sia “confuso”, leggendo quelle, sempre più numerose, sentenze della Corte ove si precisa che «la verifica della conformità della norma impugnata alle regole di competenza interna è preliminare al controllo del rispetto dei principi comunitari» (sent. n. 197 del 2014)?
Per la prima volta, a quanto consta e con un deciso, significativo e forse anche discutibile cambio di rotta, rispetto a precedenti sentenze (tra le quali, cfr. la sent. n. 406 del 2005), a partire dal 2008, con sentenza n. 368, il giudice costituzionale ha affermato, con una certa perentorietà, la priorità della questione relativa all’ordine interno delle competenze, rispetto a quella di “comunitarietà” (per un commento alla decisione, si veda M.P. Iadicicco, Violazione del riparto costituzionale delle competenze e rispetto degli obblighi comunitari: questioni processuali e possibile contrasto tra parametri del giudizio di legittimità costituzionale in via principale, in Giurisprudenza costituzionale, 2008, 4397). In altre parole, a fronte della eventuale prospettazione di questioni «complesse», ovvero, volte a censurare contestualmente, sia vizi attinenti al riparto interno di competenza legislativa, sia presunte violazioni del diritto dell’Unione europea (A. Ruggeri, A proposito dell’ordine giusto col quale vanno esaminate le questioni di costituzionalità e le questioni di “comunitarietà” congiuntamente proposte in via d’azione (a prima lettura di Corte cost. n. 245 del 2013, in questa Rivista, 5 novembre 2013), il giudice costituzionale ha accordato una netta precedenza alle questioni relative alla compatibilità delle norme nazionali impugnate rispetto ai parametri interni sul riparto di competenze legislative (cfr., Corte cost., ex plurimis, sentt. nn. 120 e 127 del 2010, 245 del 2013, 197 del 2014).
Certo, solo un atteggiamento decisamente giustificazionista, nei confronti del giudice a quo, potrebbe esimere dal biasimare una confusione di sì ingente portata.
Forse, proprio per tale ragione, con elegante e indiscutibile garbo, la Corte ha tenuto a precisare che siffatto orientamento «solo apparentemente» sembra «smentire l’assunto di cui sopra» e riguarda invece situazioni profondamente diverse (§ 5 del Considerato in Diritto).
Il relativamente recente indirizzo giurisprudenziale sulla priorità delle questioni di costituzionalità rispetto a quelle di comunitarietà nasce, si sviluppa e si consolida nei giudizi in via d’azione. Tutto cambia. Non v’è un giudice a quo, ma solo Stato e Regioni che sollevano questioni «complesse», a fronte della quali la Corte sceglie, con criteri più o meno condivisibili, l’ordine di esame tra le plurime questioni ad essa prospettate.
La Corte, appunto. Non certo il giudice, in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Sul giudice, grava, inesorabilmente, l’onere di delibare preventivamente l’eventuale contrasto con una normativa europea dotata di efficacia diretta, per constatare l’applicabilità, nel giudizio, della norma interna.
A fronte della scelta effettuata dalla Commissione tributaria di posticipare il giudizio sull’antinomia con il diritto europeo, all’esito della decisione della Corte sulle questioni relative a parametri interni, inevitabile, dunque, la pronuncia di inammissibilità, per difetto di rilevanza.
Si redime però e sfugge, poi, alla “sanzione” di inammissibilità, lo stesso giudice che, nella successiva ordinanza, sembra aver fatto chiarezza sulla ricostruzione dei rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, nei giudizi in via incidentale.
Ecco allora che, interpellata sulla disapplicazione della norma interna asseritamente lesiva della normativa europea di cui agli artt. 49 e 56 TFUE, avanzata dalla parte ricorrente, poco più di cinque mesi dopo, la Commissione tributaria provinciale si orienta diversamente.
Innanzitutto, entra nel merito del presunto conflitto.
Ne esclude, poi, la plausibilità, per un duplice ordine di ragioni.
Non v’è contrasto con la libertà di stabilimento, in assenza di elementi di trasnazionalità, che mettono in collegamento la fattispecie nazionale alla disciplina europea. In altre parole, quest’ultima non può essere invocata da una società italiana, con sede in Italia, avverso una normativa italiana (cfr., ex plurimis, CGCE, 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, in Racc. 2005, I-9981; CGUE, 19 gennaio 2010, C-555/07, Kücükdeveci, ivi, 2010, I-365. In dottrina, cfr. K. Lenaerts, J. A. Gutierrez-Fons, The Role of General Principles of EU Law, in A. Arnull, C. Barnard, M. Dougan And E. Spaventa (a cura di), A Constitutional Order of States? Essays in EU Law in Honour of Alan Dashwood, Oxford, 2011, 179).
Né, in ossequio alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la libera prestazione dei servizi appare compromessa «dall’imposizione di contributi volti al finanziamento di enti controllori, essendo «tali contributi destinati esclusivamente alla copertura dei costi dell’autorità», proporzionati, obiettivi e trasparenti (si cita la sentenza CGUE 18 luglio 2013, nelle cause da C-228/12 a C-232/12 e da C-254/12 a C-258/12)».
Escluso ogni motivo di contrasto con il diritto dell’Unione europea e accertata così la rilevanza, oltre che la non manifesta infondatezza, la Commissione tributaria provinciale solleva dinanzi alla Corte questione di costituzionalità con riguardo ai parametri interni. Il giudice costituzionale, a sua volta, acclarata la «non implausibilità» della motivazione, addotta a sostegno dell’applicabilità delle norme nazionali, è entrata nel merito, rilevando, poi, l’infondatezza delle censure.
3.Acceso e particolarmente vivace il dibattito sorto attorno al secondo profilo.
Si tratta della «precisazione» di cui al § 5.2. del Considerato in diritto, resasi necessaria, secondo la Corte, a seguito delle «trasformazioni» derivanti dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e immediatamente interpretata quale «monito», volutamente mosso dalla Corte, in mancanza di qualsiasi «connessione reale con le vicende processuali» (A. Guazzarotti, Un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale? In margine alla sentenza n. 269/2017, in www.forumcostituzionale.it). Un obiter dicum, dunque, con una “forza” tale da convertire «una ordinaria decisione di inammissibilità in un potenziale “constitutional canon”» ((C. Caruso, La Corte costituzionale riprende il «cammino comunitario»: invito alla discussione sulla sentenza n. 269 del 2017, in www.forumcostituzionale.it).
La questione riguarda il caso in cui «una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria».
Due, le premesse.
«Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, (…) la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale».
Come noto, infatti, la Carta di Nizza, in quanto testo scritto, solenne ed ufficiale, un vero e proprio Bill of rights dell’Unione europea (A. Pace, A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Appunti preliminari, in Giurisprudenza costituzionale, 2001, 193), ha introdotto un catalogo di diritti di indubbio rilievo. Essa ha prodotto nel tempo effetti significativi, recando un indispensabile contributo al processo di valorizzazione e tutela dei diritti fondamentali, realizzando quel bisogno di certezza del diritto e dei diritti cui anelava l’ordinamento sovranazionale, concorrendo a creare nei cittadini dell’Unione la consapevolezza della loro comune identità, al fine di renderli i veri protagonisti della costruzione europea (L.S. Rossi, La Carta dei diritti come strumento di costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, in Quaderni Costituzionali, 2002, 566).
Se questo è il contenuto, è indubbio che: «i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana».
Ecco allora la «precisazione»: al verificarsi dell’ipotesi di cui sopra, vale a dire, qualora una norma nazionale contrasti tanto con una norma della Carta, quanto con una norma della Costituzione – a fronte della possibile o, forse, inevitabile interferenza – il giudice deve sollevare «questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
A livello europeo, la soluzione potrebbe rivelarsi compatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia.
D’altra parte, la stessa Corte ha ammesso che, a fronte di casi di doppia pregiudizialità, «il diritto dell’Unione “non osta” al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, “in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria”; di “adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione (tra le altre, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quinta sezione, sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e altri; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, grande sezione, sentenza 22 giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli)».
Non è, poi, da escludere che la Corte di giustizia apprezzi che la risoluzione dei conflitti «tra norme tipicamente costituzionali» spetti alla Corte, piuttosto che al giudice comune, tenuto conto delle conseguenze derivanti da eventuali declaratorie di incostituzionalità (A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in questa Rivista, 2017, anche se secondo l’A. non è nemmeno da sottovalutare il rischio che, dopo tale affermazione, «esploda un nuovo conflitto tra le due Corti (…) essendo qui in gioco la delimitazione dei confini dei campi sui quali si impiantano e svolgono i criteri di risoluzione delle antinomie»).
Maggiori le perplessità e decisamente più aspre le polemiche sulle possibili ricadute a livello nazionale, scaturite da tale «precisazione».
Come noto, la Carta dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza nel 2000, ri-proclamata a Strasburgo nel dicembre 2007, a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, avvenuta il 1 dicembre 2009, ha «lo stesso valore giuridico dei Trattati». Ben potrebbero, dunque, le norme in essa sancite produrre effetti diretti. Eppure, la Corte costituzionale precisa che se e nella misura in cui una norma nazionale dovesse entrare in rotta di collisione con una norma della Carta, pur dotata di efficacia diretta, oltre che con una norma costituzionale, il giudice non potrebbe disapplicare (o non applicare) la norma interna, bensì dovrebbe rivolgersi al giudice costituzionale. In tal caso, infatti, la non applicazione trasmoderebbe «in una sorta di inammissibile sindacato diffuso di costituzionalità della legge».
Se sono in gioco i diritti della persona umana, dunque, viene meno il potere/dovere dei giudici comuni alla disapplicazione (o non applicazione), finanche a fronte di norme dotate di efficacia diretta.
Ecco allora le perplessità.
Quid iuris se le norme della Carta riproducono norme dei Trattati? (C. Caruso, La Corte costituzionale riprende il «cammino comunitario»: invito alla discussione sulla sentenza n. 269 del 2017, cit., 3). Per quale ragione e fino a che punto, «al fine di ponderare al meglio i beni della vita costituzionalmente protetti, occorre mettere da parte le tecniche decisorie con le quali vanno risolte i conflitti tra le norme?» (A. Ruggeri, op. ult. cit., 6). Ci si trova di fronte ad un nuovo, forse eccessivo, limite al potere del giudice comune di non applicare il diritto nazionale antinomico con quello europeo (L. Salvato, Quattro interrogativi preliminari al dibattito aperto dalla sentenza n. 269 del 2017, in www.forumcostituzionale.it)? Si potrebbe poi giungere a estendere quanto affermato dalla Corte anche con riguardo ad altre disposizioni del diritto primario europeo? O il controllo sull’efficacia diretta delle norme, ai fini della disapplicazione, va circoscritto al solo diritto europeo secondario (C. Caruso, op. ult. cit., 3)?
Questi sono solo alcuni degli interrogativi suscitati dalla pronuncia in esame.
Indubbio che il sindacato accentrato risponda, in modo decisamente più significativo rispetto alla disapplicazione operata dal giudice comune, all’esigenza di certezza del diritto, anche a fronte delle molteplici perplessità da sempre avanzate sul c.d. doppio binario (M. Cartabia-M. Gennusa, Le fonti europee e il diritto italiano, Torino, 2009; A. Pertici, Giudizio in via d’azione, in Digesto Discipline pubblicistiche, Aggiornamento, Torino, 2012, 424).
Non è questa, però (o, almeno non solo), la ratio sottesa alla precisazione citata.
Sono invece i principi sanciti negli artt. 134, 11 e 117 Cost., a indurre la Corte a siffatto chiarimento, necessitato dal nuovo assetto delle fonti, dopo il Trattato di Lisbona.
Come se fosse una soluzione «a rime obbligate», dunque. Il frutto naturale dell’evoluzione dei rapporti tra ordinamenti, realizzatosi alla luce della Costituzione, in ragione della stessa e fino al limite da essa consentito.
La Corte ricava dalle trasformazioni verificatesi nei rapporti tra ordinamento interno ed europeo una regola “costituzionalmente obbligata”, implicita nella potenzialità interpretativa del contesto normativo e giurisprudenziale in cui si è inserita la Carta dei diritti.
D’altra parte, non va dimenticato che la Carta dei diritti, pur caratterizzata da una “vita” travagliata, nasce e si sviluppa, con uno scopo ben preciso: suggellare definitivamente che anche l’ordinamento europeo tutela i diritti fondamentali. Il fine cui mira la Carta non è dunque quello di creare «standard uniformi di tutela dei diritti fondamentali in tutti gli Stati membri». (A. Guazzarotti, Un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale? In margine alla sentenza n. 269/2017, cit., 3). L’efficacia diretta delle norme dei Trattati e del diritto secondario risponde all’esigenza di realizzare, in un mercato unico, un’immediata e uniforme applicazione di tali norme a livello nazionale. La Carta dei diritti, invece, è uno strumento di cui è possibile avvalersi in un «quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia (da ultimo, ordinanza n. 24 del 2017), affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE)».
Che «le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes» della Corte si ricava poi, espressamente, dall’art. 134 Cost., nella misura in cui «situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale».
A sostegno di siffatta «precisazione» ci sono poi anche gli artt. 11 e 117 Cost., posto che, secondo giurisprudenza consolidata, le limitazioni di sovranità non possono in alcun modo giustificare «un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana». In tale ipotesi «sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale (…) sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali» (Corte cost., sent. n. 183 del 1973).
Il c.d. nucleo duro, inderogabile, immodificabile, intangibile da qualsiasi fonte interna o sovranazionale, gerarchicamente sovraordinato anche rispetto alle norme europee, va strenuamente difeso e rivitalizzato. L’unico organo a tal fine competente, quale «tribunale costituzionale delle libertà» (M. Cappelletti, La giurisdizione costituzionale delle libertà, Milano, 1955) è la Corte che, analogamente alle altre Corti costituzionali nazionali, «giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito».
11 Gennaio 2018