The judicial use of human dignity in social rights issues. A European perspective

Starting from the assumption that the notion of 'social dignity' is a distinct feature of the European constitutional tradition due to the link between individual autonomy and solidarity, this essay intends to illustrate the extent to which the notion of human dignity is a suitable instrument for the promotion of social rights and welfare policies. The paper analyses the jurisprudence on human dignity in the field of social rights in France, Italy, Germany, and the United Kingdom, and concludes with some remarks about the legal epistemology of human dignity in social rights issues and the opportunity to use it as a moral and legal basis for promoting individual rights and social integration via judicial decisions.


Intorno al common law constitutionalism. Recensione a “L’argomentazione costituzionale di common law” di Graziella Romeo

1.È ancora frequente che, studiando le caratteristiche dei sistemi di common law, ci si imbatta in ricostruzioni forzatamente unitarie, quando non stereotipate, di quella tradizione giuridica. Ricostruzioni che prescindono dal diverso modo in cui un patrimonio di tecniche e saperi giuridici ha attecchito in contesti geografici e culturali differenti e, soprattutto, è stato influenzato da variabili costituzionali e istituzionali assai eterogenee.
È quindi particolarmente importante segnalare la recente monografia di Graziella Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law (Giappichelli, 2020), perché rappresenta non solo un significativo antidoto contro tali semplificazioni, ma offre (ben al di là di questo) un utile e approfondito percorso di analisi dei caratteri del common law constitutionalism.
La scelta di muovere da questa prospettiva, lasciandosi alle spalle ricostruzioni più in voga negli ultimi anni come quella del new Commonwealth model of constitutionalism sviluppata da Gardbaum, è sorretta da una giustificazione che rappresenta e riassume l’obiettivo centrale del volume: comprendere, nei vari contesti esaminati, come il common law, che è “oggetto di continua creazione  e rielaborazione secondo la regola del precedente e il metodo dello sviluppo progressivo”, si concili col principio di costituzionalità e con il ragionamento di diritto costituzionale, che “è solitamente guidato dalla gerarchizzazione delle finalità di tutela dei diritti fondamentali su ogni altro obiettivo di politica del diritto” (p. 6).
A partire da qui, Romeo sviluppa un’analisi che, nei cinque capitoli di cui si compone il volume, intreccia profili teorici e di metodo comparativo con l’analisi delle ricadute dei vari aspetti presi in esame nel sistema istituzionale e nelle prassi argomentative dei giudici degli ordinamenti qualificati dall’appartenenza alla common law tradition, vale a dire, oltre al Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e l’Irlanda.
Pur trattandosi di ordinamenti molto diversi, convince la tesi del libro secondo cui in tutti e in ciascuno di essi, più che la generica appartenenza a una tradizione giuridica derivante dall’esperienza inglese, a risultare qualificante è la presenza di un dato contraddittorio rilevante prima di tutto sul terreno dell’esperienza costituzionale, vale a dire la non coincidenza (quando non l’aperta scissione) tra forma e materia costituzionale. Questo dato, che rappresenta il primo elemento di distinzione rispetto al costituzionalismo europeo-continentale (sia esso declinato in senso kelseniano o meno), si presenta infatti come una costante nelle esperienze prese in esame, pur se si atteggia lungo uno spettro che va dalla massima dissociazione, come nel Regno Unito e nel suo parente prossimo rappresentato dalla Nuova Zelanda, a una solo parziale non coincidenza, come con tutta evidenza avviene nell’esperienza degli Stati Uniti o, secondo tutt’altre caratteristiche, in Irlanda.
È bene intendersi sui caratteri di questa separazione tra forma e sostanza costituzionale, riferendosi alla “separazione concettuale” che Romeo individua “tra la normatività, nel senso dell’immediata prescrittività della costituzione, e la sua supremacy” (p. 34). L’identità del modello costituzionale di common law, infatti, andrebbe rinvenuto in ciò, che sia nel paradigma teorico che lo sorregge, sia nella prassi degli ordinamenti costituzionali presi in esame, la supremacy della costituzione non si identifica mai del tutto con il dato del suo valore prescrittivo formale, richiedendo costantemente un supporto in termini di legittimazione che deriva dal modo concreto di funzionamento dell’ordinamento. È precisamente in questo punto che si innesta la proposta di metodo del volume, che consiste nell’individuare in questo carattere aperto della constitutional supremacy l’esito di un dualismo mai completamente risolto tra metodo e valori del principio di costituzionalità e il portato, appunto, metodologico e valoriale del common law. Quest’ultimo offre infatti al giudice “una fucina di materiali giuridici eventualmente alternativi rispetto a quelli ricavabili dall’insieme dei principi costituzionali” (p. 47), che offrono “supporto sostantivo nella definizione dei contenuti sostantivi del testo costituzionale” (p. 69), ponendosi così come polo alternativo al testo e ai principi della costituzione nella definizione dei contenuti ricavabili da quest’ultima, soprattutto sul terreno dei contenuti di garanzia associati ai diritti fondamentali. Dalla interazione tra common law e constitutional rights si possono quindi ricavare, secondo Romeo, alcune prospettive di analisi sui tratti identificativi del modello costituzionale preso in esame, che consistono, in tutti gli ordinamenti considerati, nel “permanere del sostrato teorico della costituzione normativa consuetudinaria” (p. 71), nella “centralità del dibattito sulla dimensione politica del costituzionalismo” e nella “diffusa sensibilità per il testualismo” come caratteristica che connota in particolar modo l’interpretazione costituzionale” (p. 72).

2.Gli ambiti che costituiscono il principale banco di prova della tesi di Romeo sono rappresentati dal rapporto tra sovereignty of Parliament e teoria delle fonti (cap. II) e dalle teorie dell’interpretazione costituzionale come profilo inerente alla legittimazione degli organi investiti della funzione di judicial review (cap. III).
Sul primo aspetto convergono i problemi legati tanto al rapporto con la tradizione consuetudinaria, che integra la legittimità di una constitutional supremacy di per sé incapace di autofondarsi, quanto alla capacità di opporre limiti materialmente costituzionali alla sovranità del parlamento. Come il lettore non faticherà a comprendere, si tratta evidentemente di problemi che interessano in modo diverso sistemi dove la prevalenza della traditional constitution sulla costituzione scritta è più evidente (come nel Regno Unito e nella Nuova Zelanda), ma che non manca di far sentire il suo peso anche negli Stati Uniti, dove le tracce di questa apertura – pur nel quadro di una costituzione intesa sin dall’inizio come paramount law – si fanno sentire nell’uso talvolta antagonista del common law nella giurisprudenza della Corte Suprema, oltre che nel protrarsi del dibattito sulla legittimazione di quest’ultima, riaccesa col fiorire negli ultimi due decenni del political constitutionalism.
Non è dubbio, tuttavia, che sia l’esperienza inglese quella in cui è più acceso il dibattito, non solo teorico, sulla identificazione della materia costituzionale come elemento di teoria delle fonti e nel quale, nonostante gli sforzi della Supreme Court in Miller e i tentativi della giurisprudenza di identificare i caratteri dei constitutional statutes, permane l’idea che constitution e constitutional law siano “termini impiegati per descrivere un contenuto e non una forma” (p. 97). Questa prevalenza del dato contenutistico non ha tuttavia matrici univoche, nel senso che essa risulta compatibile tanto con la necessità di preservare la sovranità del parlamento, quanto con l’esigenza di salvaguardare quella unwritten constitution in cui sono depositati i valori del common law. Ed è proprio la sintesi operata nel nuovo common law constitutionalism che ha rappresentato, in sistemi come quello canadese, australiano e neozelandese, la guida per supplire alla originaria debolezza o all’assenza di un bill of rights e all’introduzione di sistemi di judicial review: esiti, entrambi, che non scaturiscono come conseguenza necessaria dalla supremacy della costituzione, ma che si affermano riallacciandosi tanto alla tradizione che (soprattutto nel caso canadese) ad una decisione di autolimitazione della sovranità parlamentare.

3.Il legame tra teorie dell’interpretazione costituzionale e ruolo e legittimazione degli organi investiti della funzione di judicial review (preso in esame nel III capitolo) è la parte della ricerca monografica di Romeo in cui meglio emerge lo sforzo ricostruttivo dell’autrice e la validazione delle sue tesi di fondo.
Del resto, sul punto sono molte le affinità tra i sistemi presi in esame, se solo si pensa al fatto che in tutti il judicial review è un’acquisizione successiva all’entrata in vigore della costituzione (talvolta anche di poco successiva, come nell’esperienza statunitense) e, soprattutto, che tutte le corti supreme degli ordinamenti presi in esame non svolgono esclusivamente funzioni di controllo di costituzionalità, con la conseguenza che (ed è il punto più rilevante) i criteri di interpretazione della costituzione non si differenziano mai completamente dai criteri dell’interpretazione tout court, sebbene oggi “si sta progressivamente facendo strada, anche in questi ordinamenti e nella pratica delle corti, l’idea che le norme costituzionali necessitino di alcune tecniche interpretative peculiari, non meramente mutuabili dall’ermeneutica dei testi normativi” (p. 129).
Sul punto, un aspetto meritevole di attenzione è legato al fatto che l’eredità e il peso del common law operano nei vari ordinamenti presi in considerazione secondo itinerari molto diversi, che giungono talvolta a produrre esiti opposti. Così, nell’esperienza statunitense le attitudini maggiormente conservatrici e tradizionaliste del common law sono state valorizzate da alcune correnti dell’originalismo (soprattutto quello metodologico di Ginnis e Rappaport) e di esse vi è più di un’eco nella giurisprudenza della Corte Suprema a firma Scalia, ma l’appello ad essa ritorna in funzione di relativizzazione del testo in alcune declinazioni del constructivism come quella di Richard Fallon, perché rivolta a garantire un più ampio spazio di manovra al giudice.
In funzione ancora diversa, poi, e decisamente più lontana dalla realtà statunitense, è l’influenza del modello di common law nell’esperienza canadese, dove all’inevitabile assenza di argomenti originalisti si contrappone una forte attitudine evolutiva dell’appello alla tradizione, che ha consentito il rafforzamento dei diritti della Charter e l’approdo a una teoria dell’interpretazione che si raffigura come una living tree doctrine. Volendo ulteriormente insistere sulle diversità di struttura, si potrebbero richiamare le pagine sulla specificità dell’ordinamento australiano, in cui l’interazione tra common law e approccio legalistico proprio di questo sistema producono il proliferare di un approccio strutturale all’interpretazione, in cui finiscono per prevalere tecniche sistematizzanti come l’interpretazione conforme (harmonizing arguments).

4.Gli ultimi due capitoli esaminano un tema più tradizionale come quello della regola del precedente e delle sue variabili (cap. 4) e concludono andando alla ricerca di una “koiné del discorso costituzionale di common law nel costituzionalismo globale” (cap. 5).
Con riguardo al primo, tornano alcuni aspetti di fondo della ricerca, come quello relativo all’influenza del quadro ricavabile dal materiale costituzionale sui diritti e le garanzie verso un uso più tecnico (thin) del precedente “nella sua dimensione di authority persuasiva, puntualmente richiamata” ovvero nei confronti di un uso invece più thick, “in funzione di supplenza rispetto agli altri percorsi interpretativi che le corti apicali possono intraprendere, sia come decisione che occorre correggere nell’interesse dello sviluppo  dell’ordinamento costituzionale” (p. 203). Ma anche con riguardo al precedente si ripropone l’idea che il common law esprima una valenza potenzialmente antagonista rispetto all’autosufficienza dell’argomentazione costituzionale, sia perché “il parametro costituzionale rappresenta sempre una sorta di logica rivale che chiede la deduzione di regole dai principi imposti dal testo” (p. 223), sia perché esso si aggancia a (e si nutre di) doctrines (dall’incorporation statunitense alla pith and substance canadese) che svolgono una funzione integrativa del testo costituzionale (di “supplenza delle carenze del testo”, p. 214) non  diversa da quella che le conventions of the constitution esprimono nei confronti delle regole costituzionali scritte nell’esperienza inglese.
Nel quinto e ultimo capitolo, il volume identifica nel rapporto col passato e nella centralità del testo i due elementi identificativi della koiné del common law constitutionalism. Ma opportunamente si chiarisce che il primo assume rilievo tanto come dato cui attingere elementi esperienziali quanto come dimensione gnoseologica, laddove il peculiare testualismo che è all’opera in questi sistemi ha caratteri molto diversi da quello europeo-continentale, atteggiandosi non come referente di un costrutto concettuale ma come terreno su cui misurare la capacità di tenuta dei vari esiti di volta in volta raggiunti.

5.Tra i molti aspetti di interesse del volume, vorrei in conclusione soffermarmi su quelli che proiettano il discorso del common law constitutionalism al di fuori dei suoi confini.
Il primo è legato al permanere della distanza tra il costituzionalismo di common law e quello (ammettendone per un attimo l’esistenza come categoria unitaria) di civil law. Il quadro che esce dalla riflessione di Romeo è quello di una distanza, se non incommensurabile, quanto meno assai evidente dai sistemi europeo-continentali, e sicuramente lontana da ogni ricomposizione o convergenza. Ciò non stupisce considerato che l’autrice si è soffermata sulle specificità e sui tratti comuni dei sistemi presi in esame, ma emerge come dato difficilmente contestabile se solo si pensa proprio al rapporto che altrove sussiste con i due elementi della koiné prima considerati, vale a dire il rapporto con la tradizione e il testo. Nel costituzionalismo di civil law, il rapporto con la tradizione è privo di quella funzione di validazione sostantiva di cui si è parlato, perché il più delle volte la tradizione è proprio il terreno su cui è maturato il potenziale di critica del passato insito nelle costituzioni programmatiche del novecento (e non solo). E anche la centralità del testo costituzionale, che pure potrebbe accomunare le due esperienze, esprime nei sistemi di civil law tutt’altro significato, riflettendo non tanto l’ancoraggio del giudice a un dato di prudenza istituzionale, quanto la commisurazione del suo agire alle premesse oggettive di valore del patto costituzionale, su un terreno peraltro assai più conteso che nei sistemi di common law con il legislatore. Mi limito a ricordare, sul punto, le pagine schmittiane in cui, rimandando a Gneist, già ci si riferiva polemicamente alla legittimazione “trascendente” della Corte Suprema degli Stati Uniti rispetto al circuito politico, perché ricavata direttamente dal common law (Der Hüter der Verfassung, Berlin, 1996, p. 14).
Il secondo aspetto è invece più strettamente metodologico e potrebbe, forse, andare in una direzione opposta a quanto si è appena detto. In fondo, nella dialettica tra constitutional rights e common law indagata da Romeo si assiste alla riproduzione, sia pur trasfigurata, della dialettica tra sistema e problema che contrassegna i sistemi europeo-continentali. Nelle due esperienze, ciò che ritorna comune è infatti l’impossibilità di sciogliere la tensione tra i vincoli che il sistema pone ai suoi attori istituzionali sul terreno dell’interpretazione costituzionale, e in primis ai giudici, e la necessità di fare i conti con la pressione dei fatti nel senso di un costante sforzo di adeguamento ad essi di quelle regole. Su questo aspetto, non si può fare a meno di individuare un elemento comune ai due sistemi, e ricerche come quella di Romeo, attente a cogliere le interazioni tra gli itinerari dell’argomentazione e il dato istituzionale, sono un valido contributo contro il “pregiudizio anti-comparatistico” e a favore di “argomentazioni fondate” (p. 257).


Incroci (davvero) pericolosi. Il conflitto giurisdizionale sull’indipendenza dei giudici tra Lussemburgo e Varsavia

1.Benché siano stati fatti alcuni passi in avanti nell’affrontare da un punto di vista politico i problemi sollevati in Ungheria e in Polonia dai provvedimenti che mettono a rischio l’indipendenza dei giudici, prevale oggi l’idea che le misure adottate a livello europeo nel quadro dell’art. 7 TEU siano insufficienti o, in ogni caso, siano destinate al prossimo fallimento. La procedura avviata ormai da tempo nei confronti della Polonia e il recente voto del Parlamento europeo sulla crisi dello stato di diritto in Ungheria testimoniano sicuramente un mutato atteggiamento delle istituzioni politiche dell’Unione verso il problema della rule of law crisis, ma al momento non è dato vedere se queste iniziative andranno in porto, né gli scenari che si profilano all’orizzonte sembrano confortare il coraggio degli ottimisti.
Non è quindi un caso che, negli ultimi tempi, a prendersi la scena europea siano state le risposte giurisdizionali alle misure nazionali limitative dell’indipendenza dei giudici, con particolare riferimento al contesto polacco. Ad attirare l’attenzione è stata da ultimo l’ordinanza adottata il 19 ottobre dalla Vice Presidente della Corte di Giustizia, Rosario Silva de Lapuerta, con cui essa si è pronunciata in merito alla necessità di sospendere provvisoriamente l’esecuzione di due leggi di riforma sui poteri e la composizione della Corte suprema (Sąd Najwyższy). In particolare, la Commissione europea, presentando il ricorso per infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE, ha sollecitato la Corte a pronunciarsi in via d’urgenza al fine di impedire l’applicazione della legge di riforma entrata in vigore nell’aprile del 2018, che sancisce una diminuzione immediata e con effetti retroattivi dell’età di pensionamento dei giudici della Corte suprema (portandola a 65 anni), istituendo al contempo una procedura di proroga nel servizio incentrata sulla richiesta del singolo giudice al Presidente della Repubblica. La Corte di Giustizia, pur senza voler far trapelare quale sarà l’orientamento definitivo nel merito, chiarisce che i motivi di ricorso della Commissione hanno un’indubbia parvenza di fondatezza e, soprattutto, che l’urgenza di provvedere è particolarmente giustificata in ragione del fatto che, in attesa della decisione definitiva, il mutamento della composizione dell’organo potrebbe vanificare gli sforzi intrapresi con la presentazione del ricorso. La sostanziale destituzione di un vasto numero di componenti della Corte suprema, infine, unita al contemporaneo aumento dei ranghi della stessa (da 93 a 120 membri) sollevano il concreto timore che in questo modo essa possa perdere i necessari connotati di indipendenza; una garanzia che, secondo le parole dell’ordinanza, “revêt une importance cardinale en tant que garant de la protection de l’ensemble des droits que les justiciables tirent du droit de l’Union et de la préservation des valeurs communes aux États membres énoncées à l’article 2 TUE, notamment, de la valeur de l’État de droit” (par. 20). Sulla base di queste premesse, di conseguenza, la Corte invita la Polonia a sospendere l’applicazione delle misure legislative in questione e a riferire alla Commissione entro trenta giorni sulle misure intraprese a tal fine.
A destare interesse è, innanzi tutto, la circostanza che tale ordinanza è stata adottata dalla Corte secondo una procedura di référé svoltasi inaudita altera parte, ai sensi dell’art. 160 del Regolamento di procedura, e non in applicazione della misura ordinaria d’urgenza di cui all’art. 279 TFUE. Questo testimonia sia la gravità della situazione, sia, ancora prima, la determinazione della Corte di Giustizia (e della Commissione) nel “forzare la mano” al governo polacco, ma al tempo stesso mette anche in luce la possibilità (abbastanza recondita, ma pur sempre sussistente) che tali misure vengano rimesse in discussione nel momento in cui la Corte sarà chiamata a prenderle in esame collegialmente al fine di decidere con ordinanza, e in contraddittorio, sulle sorti della procedura temporanea (si sofferma su questo aspetto Daniel Sarmiento). La questione, al di là del dato processuale, non è priva di rilievo perché probabilmente proprio la discussione intorno alla convalida dell’ordinanza sarà il momento in cui il governo polacco potrà far valere uno dei punti più delicati della vicenda, vale a dire il fondamento e i limiti della competenza della Commissione (e della stessa Corte) a dire la propria in un settore (quello dell’organizzazione della giustizia) che a prima vista esula dalle competenze attribuite in senso stretto dell’Unione.

2.Proprio la questione della competenza della Corte di Giustizia a pronunciarsi sugli aspetti più intimamente legati alla rule of law crisis, e all’indipendenza dei giudici in particolare, si pone però oggi in termini sensibilmente mutati rispetto a qualche anno fa.
Come si ricorderà, all’indomani del provvedimento preso dal governo e dal parlamento ungheresi nel 2011, con cui si cercava di ridurre in termini assai simili l’età pensionabile dei magistrati, la Commissione avviò una procedura di infrazione che risultava però imperniata sull’assai labile presupposto che la misura nazionale in questione violasse le direttive in tema di divieto di discriminazione, e in particolare quella che vietava la discriminazione per ragioni di età (dir. 2000/78/CE). La Corte di Giustizia, in quell’occasione (C-286/12, sent. 6 novembre 2012) ravvisò sì la violazione in parola, ma senza che nella sua pronuncia trasparisse in alcun modo la gravità “sistemica” del problema, e soprattutto che alla sua successiva soluzione la Corte di Giustizia potesse effettivamente contribuire. Non è anzi irragionevole ritenere che proprio un simile approccio al problema, tanto da parte della Commissione che della stessa Corte, rivelasse un certo disagio a qualificare i problemi della judicial independence in termini di violazione dello stato di diritto (ritenuti evidentemente di competenza del circuito politico e da incanalarsi nella procedura dell’art. 7 TUE), per affrontarli di conseguenza come se fosse una “ordinaria” questione discriminatoria.
È servito sicuramente altro tempo, e con esso anche un aggravamento ulteriore del problema sia in Ungheria che in Polonia, ma appare oggi indubitabile che nella giurisprudenza della Corte di Giustizia una simile sterilizzazione del conflitto che ruota intorno alla crisi dello stato di diritto appartenga ormai al passato. L’ordinanza sommaria che oggi si discute, infatti, non è altro che l’esito di un processo di progressiva costruzione giurisprudenziale dell’indipendenza dei giudici come principio intimamente connesso all’insieme dei valori consacrati nell’art. 2 TUE, la cui salvaguardia è affidata anche alla Corte di Giustizia, nell’ambito dei suoi poteri di garante istituzionale del rispetto oggettivo dei diritti fondamentali e dell’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.
Il primo passo in questa direzione è stato compiuto nella sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses (ASJP) (C-64/16, sent. 27 febbraio 2018) in cui la Corte, chiamata a pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunal de Contas portoghese che lamentava la riduzione degli stipendi dei magistrati disposte nel quadro dei programmi di austerity, ha impostato in termini del tutto inediti il problema in questione. In particolare, valorizzando l’approccio e la strategia impiegati dal giudice rimettente, la Corte ha ritenuto che il valore dello stato di diritto di cui all’art. 2 TUE non fosse da ritenersi inaccessibile al proprio scrutinio, perché esso trovava una peculiare concretizzazione proprio nell’art. 19, par. 1, TUE, laddove si legge che “[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. Effettività della tutela vuol dire, nella sostanza, che laddove i giudici nazionali siano coinvolti nell’attività di interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione, questa debba avvenire nel rispetto di alcuni presupposti necessari affinché ne venga salvaguardata la continuità, l’integrità, e con essa la sua funzionalizzazione al perseguimento degli obiettivi dei trattati. Tra questi presupposti vanno annoverati, secondo la sentenza ASJP, “il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente” (par. 38). L’indipendenza dei giudici, del resto, vale sia come diritto individuale ai sensi dell’art. 47 della Carta, ma anche come principio di struttura dell’ordinamento europeo, il quale fa riferimento alla necessaria presenza di giudici indipendenti a livello nazionale, ad esempio, quando presuppone la funzionalità dello strumento del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, ovvero, in una prospettiva più generale, quando incentra sul controllo giurisdizionale effettivo l’operatività di quegli strumenti che danno corpo al principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE (parr. 34 e 43).

3.Il sasso lanciato dal sindacato dei giudici portoghesi nello stagno della crisi dello stato di diritto era destinato a produrre effetti probabilmente non previsti e non prevedibili.
Pochi mesi dopo la sentenza resa nel caso ASJP, infatti, la Corte di Giustizia è tornata a occuparsi del problema delle garanzie di indipendenza dei giudici polacchi, in una prospettiva diversa ma che costituisce il lineare sviluppo della giurisprudenza precedente. La High Court irlandese, infatti, chiedeva se fosse possibile negare l’esecuzione di una richiesta di mandato d’arresto europeo nel caso in cui il sistema giudiziario del paese di destinazione, anche al di là della condizione specifica dell’autore del reato, mostrasse nel suo complesso dei deficit sistemici di garanzia del requisito di indipendenza dei giudici. Il paese che aveva presentato alle autorità irlandesi la richiesta di trasferimento era, neanche a dirlo, la Polonia.
La risposta della Corte di Giustizia nel caso LM (C-216/18 PPU, sent. 25.7.2018) continua lungo il binario tracciato da ASJP, aggiungendo un’intonazione che conferma una volta per tutte la sua definitiva intenzione di entrare a pieno titolo nella partita, rivestendo il ruolo di chi è consapevole della portata epocale della posta in gioco e, di conseguenza, è disposto ad andare anche al di là dei caratteri del caso di specie, tanto da adottare una sentenza “trattato” sull’argomento.
Senza entrare nel merito della vicenda, basta innanzi tutto ricordare come la Corte abbia inteso in quell’occasione riprendere la connessione tra art. 2 e art. 19 TUE (nonché il collegamento con l’art. 47 della Carta) per stabilire in via generale:
a) che l’indipendenza dei giudici attiene al contenuto essenziale del diritto di cui all’art. 47 della Carta, che essa è intrinseca alla funzione giurisdizionale e che implica due diverse dimensioni: la prima, “di carattere esterno, presuppone che l’organo interessato eserciti le sue funzioni in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo gerarchico o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, con la conseguenza di essere quindi tutelato dagli interventi o dalle pressioni esterne idonei a compromettere l’indipendenza del giudizio dei suoi membri e a influenzare le loro decisioni” (par. 63). È a questa dimensione dell’indipendenza, in particolare, che attiene l’inamovibilità intesa come libertà da condizionamenti esterni (par. 64);
b) che accanto a questa dimensione ve ne sia una seconda, di carattere interno, che “si ricollega alla nozione di imparzialità e riguarda l’equidistanza dalle parti della controversia e dai loro rispettivi interessi riguardo all’oggetto di quest’ultima. Tale aspetto richiede il rispetto dell’oggettività e l’assenza di qualsiasi interesse nella soluzione della controversia all’infuori della stretta applicazione della norma giuridica” (par. 65).
Accanto a ciò, nella sentenza LM traspare anche la chiara volontà della Corte di Giustizia di esercitare una precisa funzione di stimolo rispetto alle autorità politiche europee, ad esempio nel momento in cui ha ritenuto che il giudice nazionale possa ricavare dalla proposta della Commissione, presentata nei confronti di un determinato Stato membro ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE, gli elementi per poter giustificare il rifiuto di esecuzione del mandato d’arresto (par. 69); ovvero nel momento in cui ha introdotto una vera e propria regola, secondo la quale il giudice di uno qualsiasi degli Stati membri è tenuto a rifiutare automaticamente detta esecuzione allorché essa provenga da uno Stato rispetto al quale sono state irrogate le sanzioni di cui all’art. 7, par. 2, TUE per una violazione grave e persistente dei principi di cui all’art. 2 cit (par. 72).
Dietro l’autorizzazione alla High Court irlandese di negare l’esecuzione del mandato d’arresto, quindi, si intravede chiaramente il doppio livello della sfida intrapresa dalla Corte di Giustizia: da un lato, l’esplicito avvertimento arrivato alla Polonia sui rischi che discendono dalle riforme della giustizia quanto alla tenuta del principio di leale collaborazione tra Stati e, dall’altro lato, il segnale mandato a tutti gli altri Stati membri e alle istituzioni europee che sul terreno della rule of law crisis la massima istanza giurisdizionale è della partita ed è pronta ad offrire una sponda all’attivazione dei meccanismi sanzionatori di cui all’art. 7 TUE e alle possibili sanzioni che da esso potrebbero discendere.

4.Un finale di partita con un risultato già scritto? Ad oggi pare difficile da dire.
Se l’antefatto rappresentato da ASJP e LM spiega chiaramente i progressi fatti dalla Corte di Giustizia sull’argomento rispetto a quanto il problema si pose per la prima volta nel 2012 in Ungheria, è anche vero che il tempo passato da allora ha reso sempre più complicata la soluzione, come è dimostrato proprio dalle ulteriori resistenze che sono venute negli ultimi tempi dalla Polonia.
Non è possibile infatti comprendere a pieno la portata della decisione che chiuderà la procedura di infrazione sollevata dalla Commissione e oggi definita in via sommaria con il référé del 19 ottobre, senza considerare che essa è solo il tassello di una vicenda giurisprudenziale ancora più ampia e intricata. Un ulteriore tassello è infatti costituito dalla domanda pregiudiziale sollevata nell’agosto 2018 da una sezione della Corte suprema polacca e ancora pendente (C-522/18), in cui il collegio – composto da taluni giudici che hanno compiuto i sessantacinque anni e hanno fatto richiesta di proroga al Presidente della Repubblica – ha chiesto alla Corte di valutare se le incertezze quanto al loro status e i rischi di violazione del principio di inamovibilità non mettano a rischio l’effettività del diritto dell’Unione che essi sono chiamati ad applicare e, oltre a questo, non inficino l’operatività dello strumento del rinvio pregiudiziale.
A questo estremo tentativo dei giudici polacchi di far sentire anche la loro voce alla Corte di Giustizia, ha fatto seguito la dura reazione del Governo, che per il tramite del Procuratore generale, ha presentato il 4 ottobre scorso un ricorso alla Corte costituzionale polacca, mirante a far dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 267 TFUE “so far as it permits the national court to submit preliminary references on the interpretation of the Treaties or on the validity and interpretation of acts of the institutions, bodies, offices or agencies of the Union in matters relating to the system, form and organization of the judiciary as well as proceedings before judicial authorities of the EU Member State” (ne scrivono nel dettaglio Stanisław Biernat e Monika Kawczyńska in Verfassungsblog.de).
Si tratta, con tutta evidenza, di una reazione estremamente dura, che aggrava ancora di più la situazione, rendendola più intricata e obbligando le parti in gioco ad un continuo rialzo della posta, senza che oggi sia possibile dire dove ci si fermerà nell’opera di minacciata disgregazione di quella leale cooperazione di cui si parlava prima e dei raccordi istituzionali che hanno finora guidato l’integrazione giurisdizionale e costituzionale europea. Ma questo, con altrettanta evidenza, non può più essere fatto dipendere unicamente dalla volontà degli stessi attori giurisdizionali.


La Grande Camera della Corte EDU si pronuncia sulla confisca a seguito di lottizzazione abusiva e si riduce il divario con la Corte costituzionale

Attesa da molto tempo, il 28 giugno 2018 la Grande Camera della Corte EDU si è pronunciata nel caso GIEM and others v. Italy (n. appl. 1828/06), che ripropone all’attenzione degli operatori giuridici italiani e degli studiosi, cinque anni dopo la decisione resa nel caso Varvara (n. appl. 17475/09, 29 ottobre 2013), la questione della compatibilità con gli artt. 6, 7 e 1, Prot. 1, CEDU delle disposizioni interne che disciplinano la misura della confisca a seguito di accertamento di responsabilità penale per il reato di lottizzazione abusiva (punito dall’art. 44 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Come si ricorderà, dopo la pronuncia del 2013, della questione era stata investita anche la Corte costituzionale, che con sent. n. 49 del 2015 dichiarò non fondata la questione di costituzionalità rispetto, tra l’altro, all’art. 117, co. 1, Cost., operando però un significativo riallineamento interpretativo della normativa interna rispetto a quanto richiesto dalla sentenza Varvara e, a fianco di ciò, stabilendo più in generale che le sentenze della Corte EDU vincolassero il giudice italiano solamente quando queste fossero espressive di un “diritto vivente consolidato”.
Oggi la Corte di Strasburgo torna su entrambe le questioni, con una decisione sicuramente destinata a riaccendere i termini del dibattito. Senza entrare nel merito delle singole fattispecie portate all’attenzione della Corte, si può innanzi tutto constatare come essa tenga fermi gli orientamenti interpretativi in merito alla incompatibilità di principio tra lo strumento della confisca e, in particolare, il principio nulla poena sine lege, provvedendo però in concreto a delimitare sensibilmente la portata e gli effetti di quella incompatibilità alla luce delle caratteristiche dell’istituto e delle modalità applicative di esso fatte proprie dai giudici italiani negli ultimi anni.
La Corte EDU, ad esempio, ribadisce che la nozione di “pena” contenuta nell’art. 7 CEDU deve essere interpretata in modo autonomo senza concedere agli ordinamenti nazionali lo spazio per proprie etichette qualificatorie: “Without an autonomous concept of penalty, States would be free to impose penalties without classifying them as such, and the individuals concerned would then be deprived of the safeguards under Article 7 § 1. That provision would thus be devoid of any practical effect. It is of crucial importance that the Convention be interpreted and applied in a manner which renders its rights practical and effective, not theoretical and illusory, and this principle thus applies to Article 7” (par. 216).
Allo stesso modo, la decisione conferma ancora una volta la necessità che sussista un nesso psicologico (“mental link”) tra il fatto di reato e l’autore dello stesso, il che porterebbe ad escludere la legittimità di uno strumento sanzionatorio come la confisca, che interviene come noto anche in assenza di un accertamento di responsabilità penale tradottosi in un apposito provvedimento di condanna, come del resto già stigmatizzato nella decisione di sezione nel caso Varvara (par. 242).
Su entrambi questi fronti, sui quali si era celebrato lo scontro negli anni passati, la Grande Camera non fa tuttavia seguire alle affermazioni di principio ora riassunte una decisione di condanna nei confronti dell’Italia. Prendendo infatti atto degli assestamenti interpretativi favoriti anche dalla sentenza n. 49 del 2015, la decisione GIEM conclude ad esempio che, pur essendo qualificabile come “pena” ai sensi dell’art. 7 CEDU, la confisca può essere irrogata anche al di fuori delle condizioni stabilite dall’art. 6 CEDU e, quindi, anche se essa non accede a un provvedimento giurisdizionale di condanna vero e proprio (par. 233). Allo stesso modo, la necessità di una verifica del nesso psicologico è comunque salvaguardata se i giudici interni (come quelli italiani negli ultimi anni), pur senza addivenire a sentenze di condanna, hanno comunque applicato standard probatori particolarmente elevati per verificare la sussistenza della responsabilità e hanno escluso l’applicabilità della confisca ai terzi in buona fede (par. 245).
Questo non vuol dire, tuttavia, che i contrasti siano oggi del tutto appianati. Nel caso di specie, infatti, l’Italia è stata condannata sia sotto il profilo della sproporzione della sanzione della confisca rispetto agli interessi di natura ambientale e paesaggistica perseguiti dalla legge (con riguardo all’art. 1, Prot. 1), sia per quanto riguarda il rispetto delle garanzie del giusto processo (art. 6, par. 2, CEDU) per i ricorrenti che sono stati destinatari della confisca a seguito di una sentenza di annullamento senza rinvio disposta dalla Cassazione a seguito della maturazione dei termini di prescrizione (e senza la conseguente possibilità di addurre prove a discarico). Su questo specifico aspetto e sulla contraddizione che esso ingenera rispetto alle motivazioni della Corte rispetto all’art. 7 cit. si sofferma la meditata opinione dissenziente dei Giudici Sajó ed altri.
Ma il punto di attrito più significativo tra le due Corti, su cui si concentrerà probabilmente lo sguardo dei commentatori nel prossimo futuro, riguarda la questione “sistemica” concernente lo statuto, nel diritto italiano, delle decisioni della Corte EDU che la Corte costituzionale non ritiene espressive di un “well-established case law”. Su questo punto, il tono della decisione GIEM è particolarmente perentorio, quando essa precisa che le sue decisioni “all have the same legal value. Their binding nature and interpretative authority cannot therefore depend on the formation by which they were rendered” (par. 252, in fine).
Un tono perentorio, certo, ma che avrebbe forse meritato una collocazione più adeguata e qualche parola in più, se è vero che la Corte costituzionale, con la sent. n. 49 del 2015, ha inteso incidere non tanto sul valore formale o sul rilievo interpretativo delle decisioni di condanna della Corte EDU, quanto piuttosto sulla loro idoneità ad essere recepite nell’ordinamento interno (sia dal giudice comune in sede di interpretazione conforme, sia dalla stessa Corte costituzionale) anche al di là della specifica controversia da cui esse promanano. Nulla in quella sentenza esclude, in altre parole, che l’applicazione dell’art. 46 CEDU possa essere fatta valere dal soggetto ricorrente vittorioso a Strasburgo davanti al giudice nazionale (sussistendone i presupposti), mentre essa pone una condizione preliminare (appunto la necessaria sussistenza di un “diritto convenzionale consolidato”) rispetto all’eventualità che alla medesima decisione di condanna venga data piena e incondizionata applicazione anche in tutti gli altri casi. In gioco, in definitiva, pare essere ora come allora l’attribuzione alle decisioni della Corte EDU di un valore di res interpretata, contenente quindi un vincolo che trascenda la natura inter partes dei pronunciamenti della Corte e che sia in grado di imporsi erga omnes a livello nazionale.
La diversità di prospettive impiegate dalle due corti, in altre parole, parrebbe su questo aspetto ancora lontana da una ricomposizione, anche se la decisione di oggi potrebbe assumere il valore di un rafforzamento (soprattutto) della interpretative authority della Corte EDU, oltre che dell’efficacia vincolante delle sue decisioni, diventando così (come scrive nel suo dissent il Giudice Pinto de Albuquerque) una “direct response to Constitutional Court judgment no. 49/2015 and a message sent to all supreme and constitutional courts in Europe” (p. 106, nt. 96).


Quello che Lussemburgo (non) dice. Note minime su Taricco II

1.Non sono pochi i piani di lettura della sentenza emessa dalla Corte di giustizia il 5 dicembre scorso (C-42/17, M.A.S.) in replica all’ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2017 relativa al caso Taricco. Il primo e più evidente di questi, quello su cui si è sollevata subito l’attenzione della maggior parte dei commentatori, era quello legato all’invocata violazione dei controlimiti e su questo la Corte di giustizia ha mostrato una condivisibile e non del tutto prevedibile apertura nei confronti degli argomenti sapientemente impiegati dalla Corte costituzionale (v. su questo il commento di Antonio Ruggeri nella nostra Rivista). Valorizzando alcuni passaggi rimasti sullo sfondo della prima sentenza Taricco (parr. 53 e 55), la Corte di giustizia precisa oggi che il principio di legalità osta a che l’obbligo di disapplicazione della normativa nazionale sulla prescrizione che impedisce l’inflizione di sanzioni penali effettive in un numero considerevole di casi di frode grave che lede gli interessi finanziari dell’Unione sia pieno e incondizionato. Il giudice italiano, infatti, prima di disapplicare le regole interne sulla prescrizione nei casi in questione, è chiamato ad accertare se una tale disapplicazione comporti una “violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.

Accanto a questo dei controlimiti, vi è tuttavia un secondo piano di lettura della sentenza, dal quale si ricavano indicazioni in apparenza contrastanti e che vanno nella direzione di una sostanziale conferma dell’impianto della sentenza Taricco I, quanto meno nel senso di ritenere che i principi in essa contenuti – una volta appianato in linea generale il dissidio con la Corte costituzionale – devono comunque trovare applicazione nella maggior parte dei casi, riducendo così a eventualità in fondo residuali l’evocato contrasto col principio di legalità. Basti pensare al fatto che la Corte di giustizia rimanda in più punti al “giudice nazionale” il compito di verificare l’esistenza di un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione e il rispetto del principio di legalità, senza che però si possa evincere se in questo caso ci si riferisca alla Corte costituzionale come giudice del rinvio oppure (come sembra invece necessario ritenere) a tutti i giudici.

La difficoltà di riannodare questi due piani di lettura sembra in primo luogo legata alle difficoltà di lettura della sentenza, che certo non brilla per chiarezza e linearità anche perché la Corte di giustizia si è trovata a porre in qualche modo rimedio a una pronuncia davvero poco condivisibile come era Taricco I. E in questo senso è un indubbio merito della Corte costituzionale quello di aver obbligato il giudice europeo a un simile ripensamento, invitandolo ad un approfondimento delle ragioni di ordine propriamente costituzionale che impedivano il consolidamento di quella giurisprudenza, senza con questo evocare conflittualità inutili o esibire identità costituzionali in chiave contrappositiva, ma piuttosto riportando il rispetto dei principi costituzionali su un terreno che continua a mostrare un rapporto di separazione e di coordinamento col diritto dell’UE.

 

2.Indubbiamente, come detto, il motivo di maggiore interesse della sentenza è dato dalle modalità e dagli argomenti con cui la Corte di giustizia disinnesca il rischio dell’attivazione dei controlimiti preannunciato dalla Corte costituzionale. Su questo fronte, l’impressione è che la strategia seguita in Taricco II sia quella di un addomesticamento del conflitto, che ha come esito quello di un sostanziale accoglimento delle ragioni di fondo fatte valere dall’ordinanza di rimessione, senza per questo mettere radicalmente in discussione l’esigenza dell’uniforme applicazione del diritto UE. La Corte di giustizia, in altre parole, cerca di riportare il conflitto sul terreno proprio della sua giurisdizione e dei suoi stilemi argomentativi, in primo luogo evitando accuratamente di riferire, nella parte motiva della sua pronuncia, la violazione invocata dalla Corte costituzionale a principi supremi e diritti inviolabili della Costituzione, ma richiamando il principio di legalità come un diritto (senza ulteriori specificazioni) di cui anch’essa garantisce l’osservanza. Oltre a ciò, salta immediatamente agli occhi l’uscita di scena del rispetto dell’identità costituzionale nazionale di cui all’art. 4(2) TUE, pur timidamente invocata dalla Corte costituzionale, e l’impiego della formula delle tradizioni costituzionali comuni come chiave di riconoscimento dei diritti fondamentali della Carta per come essi si desumono dall’operare congiunto della CEDU e degli ordinamenti nazionali. Ed è in primo luogo richiamando la CEDU, infatti, che oggi la Corte di giustizia arricchisce il contenuto del principio di legalità riferendolo alla triplice dimensione della prevedibilità, della determinatezza della sanzione e della sua non retroattività.

Da questo punto di vista, il ricorso alle tradizioni costituzionali comuni illustra anche il percorso seguito dalla Corte di giustizia per immettere tali nuovi contenuti nel principio di legalità rispetto all’accezione molto più povera contenutisticamente di Taricco I. Piuttosto che impiegare l’art. 53 della Carta come auspicato dalla Corte costituzionale – che avrebbe portato a riconoscere al diritto nazionale un livello maggiore di tutela del principio di legalità –, la Corte di giustizia in un primo momento (par. 47) ribadisce che l’applicazione degli standard nazionali non deve compromettere “il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione”, per aggiungere subito dopo (par. 51) che il principio di legalità nella sua triplice dimensione appena richiamata assume un rilievo centrale “tanto nell’ordinamento giuridico dell’Unione quanto negli ordinamenti giuridici nazionali”. Senonché, è proprio questa il punto su cui la Corte di giustizia aveva maggiormente insistito in Taricco I in relazione all’inapplicabilità alle norme sulla prescrizione del divieto di retroattività, adducendo precedenti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dai quali veniva ricavata una supposta estraneità del regime della prescrizione – in quanto attinente ex se alla sfera processuale – alle garanzie del diritto penale sostanziale così come consacrate nell’art. 49 della Carta e nell’art. 7 CEDU. Oggi, in Taricco II, di questa giurisprudenza non c’è più alcuna traccia, e i precedenti citati vanno tutti nella direzione di articolare la tessitura del principio di legalità conferendo ad esso una dimensione che ricomprende i vari aspetti prima elencati e quindi si mostra capace di riguardare anche il regime della prescrizione.

In questo modo, l’efficacia dell’art. 49 della Carta non viene limitata dall’introduzione di uno standard derogatorio a livello nazionale, ma al tempo stesso il suo contenuto (e dietro di esso la supremazia e l’uniforme applicazione del diritto dell’UE) viene arricchito dall’interno, in conseguenze della scelta di richiamare CEDU e tradizioni nazionali come vettori di nuovi contenuti e dimensioni di esso, in precedenza ritenuti estranei. È, quest’ultima, una modalità di interpretazione dei contenuti dei diritti della Carta non nuova (da ultimo penso al caso Aranyosi in tema di limiti al mandato d’arresto europeo), ma che sicuramente in questa occasione era chiamata a confrontarsi con uno scenario inedito e dalle implicazioni molto più dirompenti rispetto al passato.

Un’altra conseguenza del parziale revirement di Taricco II è poi la comparsa sulla scena del legislatore nazionale, invocato a più riprese (parr. 41 e 61) quale destinatario principale dell’obbligo che scaturisce dall’art. 325 TFUE e soggetto chiamato “in prima battuta” a garantire che nel diritto nazionale vengano stabilite norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare a quegli obblighi di repressione effettiva delle frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione.

Si tratta, tuttavia, di un coinvolgimento che, se da un lato rimedia a uno dei principali interrogativi sollevati da Taricco I (l’attribuzione all’art. 325 TFUE di effetti diretti rivolti unicamente al giudice, investito di un obbligo di disapplicazione pressoché incondizionato), dall’altro lato non è ancora del tutto chiaramente definito nei suoi contorni e nelle sue conseguenze. In particolare, i parr. 39 e 40 della sentenza Taricco II continuano a predicare (in linea generale) un obbligo del giudice di disapplicare le disposizioni interne in materia di prescrizione, quando lesive degli obblighi derivanti dall’art. 325 cit., mentre sembrerebbe afferire al legislatore il compito di introdurre norme a ciò rispondenti (par. 38) per evitare che il giudice sia costretto a disapplicarle. Ma se fosse solo questo, si tratterebbe in fondo di un’ovvietà. Meno ovvio è invece attribuire al legislatore, come fa l’ultimo periodo del par. 61, il compito di adeguare ai contenuti della sentenza le norme nazionali in tema di prescrizione, garantendo al tempo stesso che esse assolvano agli obblighi discendenti dall’art. 325 TFUE e che rispettino il principio di legalità in materia penale nelle sue diverse accezioni. Dal combinato disposto dei parr. 42, 60 e 61 della sentenza, quindi, sembra doversi ricavare un mandato rivolto al legislatore nazionale a prorogare il termine di prescrizione “anche con riferimento a fatti addebitati che non sono ancora prescritti” (par. 42), fermo restando che – in assenza di tale intervento (par. 61) – il giudice nazionale non può disapplicare il regime vigente in quei “procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco” (par. 60).

 

3.Senonchè, questo complesso quadro delineato da Taricco II (che lascia non pochi spiragli di incertezza) sembra rivolto, più che non alla sola Corte costituzionale come giudice del rinvio, alla generalità dei giudici e, in particolare, alla Corte di cassazione che però, anche dopo l’ordinanza n. 24 del 2017, ha provveduto a precisare ulteriormente i contorni applicativi di Taricco I, giungendo nella sostanza ad esiti che convergono con quelli fatti propri oggi dalla Corte di Giustizia.

Basti pensare, tra le altre, a una recente sentenza della Cassazione, III sez. pen. (n. 45751, 12 luglio/5 ottobre 2017) che ha ritenuto di continuare ad applicare il regime della prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p. in una fattispecie relativa a frodi IVA, senza però con questo disconoscere il contenuto della sentenza Taricco I, ma delimitandone piuttosto gli effetti temporali e i presupposti applicativi. In sostanza, la Cassazione riconosce che la disapplicazione in parola non può essere effettuata nel caso in cui i fatti siano già prescritti al momento della pubblicazione di Taricco I, mentre il requisito della “gravità” e del “numero considerevole di casi” è specificato alla luce dei contorni del caso di specie, se cioè la condotta lesiva superi una determinata soglia di imposte evase e sia stata posta in essere mediante determinate modalità realizzative tali da soddisfare il requisito di gravità di cui all’art. 133 c.p. (“quali in particolare l'organizzazione posta in essere, la partecipazione di più soggetti al fatto, l'utilizzazione di ‘cartiere’ o società-schermo, l'interposizione di una pluralità di soggetti, l'esistenza di un contesto associativo criminale”. Nello stesso senso vanno altre sentenze della Cassazione, III sez. pen.: 12 luglio/6 ottobre 2017, n. 45964 e 24 gennaio/14 luglio 2017, n. 34514).

In un quadro del genere, l’impressione è che l’impatto della sentenza Taricco II a livello interno non sposti poi di molto gli equilibri che si sono affermati nella giurisprudenza ordinaria e di legittimità, convalidando nella sostanza un divieto di applicazione retroattiva dell’obbligo di disapplicazione posto in Taricco I che si è già affermato in giurisprudenza e senza che pongano particolari problemi applicativi i profili relativi al requisito della determinatezza della sanzione, con riferimento ai parametri già evocati della gravità e del numero considerevole di casi.

La questione, giunti a questo punto, diventa quindi capire come si atteggeranno i rapporti tra la Cassazione (che non dovrebbe avere, per le ragioni già dette, particolari difficoltà a recepire Taricco II) e la Corte costituzionale, chiamata a recepire la pronuncia europea e a combinare i contenuti di questa con i presupposti della sua ordinanza.

 


Una ragionevole apologia della supremacy. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale sul caso Taricco

1. L’ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017, con cui la Corte costituzionale ha rinviato alla Corte di giustizia dell’UE la questione pregiudiziale in merito all’interpretazione da accordare alla sentenza Taricco della stessa Corte (resa l’8 settembre 2015, in causa C-105/14), è una di quelle pronunce destinate a segnare la storia dell’integrazione giurisdizionale (e non solo) europea.

I fatti sono noti ma si possono brevemente riassumere nel modo che segue. Con la pronuncia appena citata, la Grande Sezione della Corte, adita dal Tribunale di Cuneo, ha dichiarato l’incompatibilità del limite massimo di durata del termine prescrizionale di cui agli artt. 160 u.c. e 161, co. 2, c.p., relativamente alle frodi in materia di IVA, con l’art. 325 TFUE, mirante a reprimere tale tipo di frodi in quanto lesive degli interessi finanziari dell’Unione. In particolare, il giudice europeo ha ritenuto contrario a detto articolo il meccanismo secondo il quale, per effetto delle norme del codice penale italiano, l’interruzione del termine prescrizionale per tale tipo di reati comporta il prolungamento del termine stesso limitatamente a un quarto della sua durata iniziale. Da un primo punto di vista, perché da ciò discende l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave che, se riferibili ad un numero considerevole di casi, minano l’effettività e la dissuasività degli obblighi repressivi gravanti sugli Stati ai sensi del par. 1 del suddetto articolo. Da un secondo punto di vista, perché l’attenuazione della risposta punitiva è in contrasto col regime previsto per la repressione di reati simili, ma lesivi degli interessi finanziari dello Stato, come nel caso dei delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco (sottratti al regime privilegiato di prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p.). Di conseguenza, la Corte di Giustizia addossa al giudice nazionale, una volta che questi abbia appurato che dall’applicazione degli articoli in questione derivi un’impunità di fatto per casi di frode grave e un trattamento più favorevole rispetto ai reati che colpiscono gli interessi finanziari dello Stato, l’obbligo di disapplicare le norme che limitano gli effetti temporali dell’interruzione della prescrizione nei termini anzidetti.

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Ancora su mandato d’arresto e diritti fondamentali di fronte alla Corte di Giustizia: il caso Aranyosi

È sempre più caldo il fronte dei rapporti tra Corte di Giustizia UE e stati membri in merito all’applicazione delle misure di mandato d’arresto europeo. Dopo il celebre caso Melloni, che ha segnato per molti una delle pagine meno felici della giurisprudenza di Lussemburgo in materia di diritti fondamentali nel post-Lisbona, e dopo la decisione del 15 dicembre scorso del Bundesverfassungsgericht, che ha attivato l’Identitätskontrolle rispetto a una richiesta di MAE avanzata da giudici italiani (2 BvR 2735/14), giunge un nuovo (certo non l’ultimo) capitolo della vicenda con la sentenza resa il 5 aprile 2016 dalla Grande Camera nel caso Aranyosi  e Căldăraru (C-404/15 e C‑659/15 PPU: la sentenza è disponibile qui.

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Riflessioni a margine di “Ai confini della Costituzione” di Pietro Faraguna (Franco Angeli, 2015)

Negli ultimi anni il tema dei principi supremi è tornato al centro della riflessione dei costituzionalisti e dei comparatisti. Da tema classico, assestato su coordinate ormai ritenute in fondo acquisite, ha visto in certa misura mutare la sua fisionomia e il suo rilievo per effetto di una serie di circostanze, alcune più note ed evidenti, altre ricollegabili a trasformazioni di più lunga durata dello Stato costituzionale. Tra le prime, è ovvio richiamare la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale e le implicazioni che questa ha avuto nella costruzione, da molti criticata, di un modello di integrazione del diritto internazionale, in particolare consuetudinario, nel diritto interno incentrato sul tendenziale assoggettamento del primo al rispetto dei principi supremi garantiti dal secondo. Ma nella stessa direzione di una rinnovata attenzione nei confronti dei principi in questione ha spinto, in una prospettiva più ampia, l’enfasi sui caratteri fondamentali dei singoli ordinamenti dei paesi membri dell’UE quali elementi principali della loro identità nazionale “insita nella loro struttura ... costituzionale”, secondo quanto recita oggi l’art. 4(2) del Trattato sull’Unione europea. È una prospettiva, quella che emerge dall’evoluzione più recente, che ha quindi richiesto e richiede un notevole ampliamento dello sguardo dello studioso del diritto pubblico, per cui i principi supremi non rappresentano più solamente una categoria che acquista senso in un orizzonte tutto interno al proprio sistema di riferimento, perché si apre ad una molteplicità di relazioni, in cui assume un peso rilevante il dinamismo della loro individuazione e caratterizzazione.

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La linea più breve tra due punti. La diagnosi preimpianto per le coppie fertili tra divieti irragionevoli e diritto alla salute

(a prima lettura della sentenza n. 96 del 2015 della Corte costituzionale)

Ha una lunga storia alle spalle la sent. n. 96 del 2015, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 40 del 2004 “nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili”. Una storia intricata, che ha visto intervenire diversi attori giurisdizionali, nazionali ed europei, e che alla fine di un percorso non sempre lineare ha portato all’annullamento di uno degli aspetti più contestati della legge 40/2004. La sentenza, pertanto, segna un doppio epilogo: il primo, e più importante, concernente il superamento di questa preclusione; il secondo relativo alla conferma dei rapporti ormai assestati tra giudici interni e sovranazionali.

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