Gianpiero Gioia
Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Much Ado About (Almost) Nothing?
1. Lo scorso 29 aprile il processo di riforma del Patto di stabilità e crescita ha trovato il suo epilogo con l’adozione, da parte del Consiglio dell’Unione europea, dei seguenti atti:
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- Direttiva (UE) 2024/1265 recante modifica della direttiva 2011/85/UE relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri;
- Regolamento (UE) 2024/1263 relativo al coordinamento efficace delle politiche economiche e alla sorveglianza di bilancio multilaterale e che abroga il regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio (cd. “braccio preventivo”);
- Regolamento (UE) 2024/1264 recante modifica del regolamento (CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (c.d. “braccio correttivo”).
Come noto, tale approdo giunge al termine di un dibattito prolungato, il quale ha avuto origine proprio da una diffusa insoddisfazione verso la filosofia di fondo che ispirava il precedente Patto. Il riferimento è, chiaramente, a quell’approccio che da più parti è stato accusato di aver concesso eccessivo credito rispetto alla funzionalità delle regole numeriche nell’ambito della governance economica (cfr. A. J. Menéndez; sul punto sia consentito anche il rinvio a quanto osservato precedentemente su questo Blog); approccio tuttavia non condiviso da coloro che – su posizioni antitetiche – rinvenivano in un’eccessiva politicità e discrezionalità nell’applicazione dello stesso, soprattutto con riguardo all’apparato sanzionatorio, il motivo del suo inefficace funzionamento (posizione, quest’ultima, fatta politicamente propria da Germania e Olanda).
In tale quadro di opposte critiche va inserita la sospensione dell’operatività delle regole del Patto dal 2020 al 2023, in virtù dell’attivazione della c.d. “clausola di salvaguardia generale”: nel contesto di un’economia europea fortemente condizionata dall’impatto della pandemia, le istituzioni dell’Unione hanno ritenuto opportuno sospendere il Patto in quanto il rispetto delle relative regole avrebbe provocato un irrigidimento nella gestione delle politiche economiche e fiscali dei singoli Paesi membri incompatibile con istanze di intervento – economiche e sociali – non eludibili.
È su questo sfondo che, nell’aprile 2023, la Commissione europea ha formalizzato la propria proposta di riforma nella quale – facendo seguito agli intendimenti di cui alla Comunicazione n. 9 del novembre 2022 (cfr. sul punto il nostro commento su questo Blog) – avanzava un complessivo aggiornamento del Patto.
È su questa proposta, che pure è stata qui commentata dettagliatamente (cfr. i contributi di A. Francescangeli e L. Bartolucci), che si è svolta la fase più propriamente politica di un dibattito che ha trovato la propria conclusione con l’adozione nell’aprile scorso degli atti indicati poco sopra.
2. Il risultato di tale dibattito, e dunque la riforma del Patto in commento in questa sede, consiste in quello che parrebbe un sostanziale irrigidimento del disegno originario della Commissione, in ragione di un compromesso con le istanze rigoriste di alcuni Paesi, fra cui la Germania.
Le diverse posizioni sostenute da altri paesi – in particolare dall’Italia – sembrano aver perso vigore con il procedere dei negoziati. Infatti, per quanto la riforma del braccio preventivo non necessitasse il voto unanime del Consiglio, sulla riforma dal braccio correttivo ogni stato ha disposto di un proprio potere di veto, che ha potuto utilizzare in modo complessivo nei negoziati. Le posizioni italiane, forse anche indebolite nella loro coerenza dall’alternanza di tre diversi esecutivi di diverso colore (Conte II, Draghi e Meloni), sembrano infine essersi concentrate su una posticipazione al 2027, cioè alla fine dell’attuale legislatura – tra l’altro al prezzo di specifiche condizionalità – dell’effettiva entrata in vigore della nuova traiettoria per la sostenibilità del debito e dei parametri sul debito relativi alla procedura di infrazione (considerando n. 23 del regolamento sul braccio correttivo, art. 36 di quello sul braccio preventivo, sul punto Corte dei Conti, p. 7). In tal senso, pare riscontrarsi una certa miopia politica nel barattare un irrigidimento del Patto sul lungo periodo rispetto a una sua attenuazione sul breve.
I segni di tale irrigidimento appaiono riconducibili sostanzialmente a un singolo aspetto, il quale assume, tuttavia, un peso non indifferente nel giudizio sul nuovo Patto. Si tratta delle nuove regole previste per il c.d. braccio preventivo in relazione alla traiettoria di riferimento di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del regolamento (UE) 2024/1263.
Al fine di far valere la distanza dalle virtualità lasciate aperte dalla originaria proposta della Commissione, giova un confronto testuale fra il testo della proposta stessa e quello del regolamento adottato.
Per il primo, infatti,
«[l]a traiettoria tecnica garantisce che: a) il rapporto debito pubblico/PIL sia avviato o mantenuto su un percorso di riduzione plausibile o rimanga a livelli prudenti; b) il disavanzo pubblico sia portato e mantenuto al di sotto del valore di riferimento del 3% del PIL; c) lo sforzo di aggiustamento di bilancio durante il periodo del piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine sia almeno proporzionale allo sforzo complessivo compiuto nell’arco dell’intero periodo di aggiustamento; d) il rapporto debito pubblico/PIL al termine dell’orizzonte di programmazione sia inferiore a quello registrato nell’anno precedente l’inizio della traiettoria tecnica; e e) nel periodo coperto dal piano, la crescita della spesa netta nazionale resti, di norma, mediamente inferiore alla crescita del prodotto a medio termine» (art. 5).
Il testo in vigore, invece, impone che «[l]a traiettoria di riferimento è basata sul rischio e specifica per ciascuno Stato membro e garantisce che: a) entro la fine del periodo di aggiustamento, ipotizzando l’assenza di ulteriori misure di bilancio, il rapporto debito pubblico/PIL previsto si collochi o si mantenga su un percorso di riduzione plausibile o rimanga a livelli prudenti al di sotto del 60% del PIL nel medio termine; b) il disavanzo pubblico previsto sia portato al di sotto del 3% del PIL nel corso del periodo di aggiustamento e sia mantenuto al di sotto di tale valore di riferimento nel medio termine, ipotizzando l’assenza di ulteriori misure di bilancio; c) lo sforzo di aggiustamento di bilancio durante il periodo del piano nazionale strutturale di bilancio di medio termine sia di norma lineare e almeno proporzionale allo sforzo complessivo compiuto nell’arco dell’intero periodo di aggiustamento; e d) vi sia coerenza con il percorso correttivo di cui all’articolo 3, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 1467/97, ove applicabile» (art. 6).
Se il confronto testuale non fosse sufficientemente esplicativo, sarebbe utile poi richiamare il contenuto degli artt. 7 e 8 del regolamento (UE) 2024/1263, i quali impongono che la traiettoria di riferimento assicuri una riduzione dei rapporti debito/PIL e deficit/PIL secondo misure numericamente definite (ad esempio, di un punto percentuale del PIL, per i Paesi il cui rapporto debito/PIL sia superiore al 90%, e di 0,4 punti percentuali del PIL ai fini del miglioramento annuo del saldo primario strutturale).
Ora, se è vero che anche nella proposta della Commissione non poteva dirsi assente l’utilizzo di regole numeriche (cfr. il riferimento dell’Allegato 1, lett. c), al valore di riferimento di cui all’articolo 3 del regolamento (CE) n. 1467/97), il dato testuale che emerge dalla lettura del nuovo regolamento è certamente quello di una rinnovata fiducia nell’utilizzo di regole numeriche come strumento di governo dei processi economici nell’ambito dell’Unione, e infine in una attenzione ancora tutta rivolta a parametri quantitativi e non qualitativi. Ciò è peraltro dimostrato dalla scelta di non comprendere nella spesa netta la spesa per investimenti, giacché l’art. 2 del regolamento in commento qualifica quest’ultima come «la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, delle misure discrezionali sul lato delle entrate, della spesa per i programmi dell’Unione interamente finanziata dai fondi dell’Unione, della spesa nazionale per il cofinanziamento di programmi finanziati dall’Unione, della componente ciclica della spesa per i sussidi di disoccupazione, delle misure una tantum e di altre misure temporanee».
Sempre nel senso di un irrigidimento rispetto alla proposta della Commissione sembrano porsi le disposizioni relative ai piani nazionali strutturali di bilancio di medio termine, i quali devono contenere un percorso di riduzione della spesa netta compatibile con il percorso di aggiustamento di quattro o cinque anni prorogabile di altri tre soltanto quando lo Stato membro si impegni «a realizzare una serie pertinente di riforme e di investimenti», le quali abbiano, fra gli altri, ad oggetto «i) una transizione equa, verde e digitale, compresi gli obiettivi climatici di cui al regolamento (UE) 2021/1119; ii) la resilienza sociale ed economica, compreso il pilastro europeo dei diritti sociali; iii) la sicurezza energetica; e iv) se necessario, lo sviluppo di capacità di difesa» (cfr. il rinvio dell’art. 14, par. 2 all’art. 13, lett. c). Come evidente, ciò ripropone un meccanismo, quello della condizionalità, le cui virtualità sono già ben note alle dinamiche istituzionali dell’Unione; in questo senso, l’art. 11, par. 5, sembra provare ad evitare una probabile opacizzazione del rapporto di responsabilità che lega il governo nazionale al giudizio del proprio corpo elettorale, prevedendo che «[c]iascuno Stato membro rende pubblico il proprio piano nazionale strutturale di bilancio di medio termine al momento della presentazione dello stesso al Consiglio e alla Commissione».
Tuttavia, con riferimento a tale previsione, possono sorgere dubbi sull’effettiva portata della partecipazione democratica nell’elaborazione piani garantita dalle regole europee: il procedimento descritto risulta infatti simile a quello dei PNRR, ed è del tutto evidente che, come nel caso di questi ultimi, la pubblicazione degli stessi nel momento della presentazione alle istituzioni europee (cioè con un testo già definito) non comporta una effettiva partecipazione dell’organo rappresentativo che sarà poi obbligato a darne seguito (sul caso del PNRR si consentito il rinvio allo scritto in tema in questo volume). Non è chiaro se la disposizione in oggetto debba essere intesa nel senso letterale ovvero come termine minimo (“almeno al momento della presentazione”); non si può non osservare, in ogni caso, che un eventuale dibattito pubblico in Parlamento sarebbe da ultimo demandato alla capacità autonoma, sul piano interno, delle diverse assemblee elettive di “catturare” e orientare l’azione del rispettivo Governo.
In tal senso, una possibile maggiore localizzazione delle decisioni relative ai piani al livello nazionale – in realtà da dimostrare, visto l’accresciuto livello di condizionalità – sembra coincidere con un significativo rafforzamento dell’esecutivo sul piano interno; rafforzamento del quale il testo in commento esprime una certa consapevolezza, come è dimostrato appunto dell’attenzione – almeno formale – rispetto alla predisposizione di meccanismi che rendano meno agevole per i governi nazionali l’abusivo utilizzo delle Istituzioni dell’Unione come scudo rispetto alla propria responsabilità politica.
3. Se nei commenti precedenti (qui, qui, nonché qui) avevamo tracciato nel dettaglio le novità introdotte può ora farsi un bilancio più generale sull’effetto delle riforme.
Nonostante l’esperienza della pandemia – e della crisi economica precedente – l’approccio di fondo al coordinamento delle politiche economiche nazionali non sembra cambiato: l’obiettivo della governance economica in Europa è quello di rendere asseritamente sostenibile il debito attraverso la riduzione della spesa, lasciando sullo sfondo il primario obiettivo della crescita che pure nel periodo pandemico aveva trovato spazio nel contesto europeo. Pur con la consapevolezza del contrasto tra gli obiettivi ambiziosi di Next Generation EU e il nuovo patto – che non si applica subito “al fine di non compromettere gli effetti positivi del dispositivo per la ripresa e la resilienza” (considerando n. 23 del regolamento sul braccio correttivo) – la scelta dei paesi europei appare quella di portare l’economia dei paesi ad alto debito verso ulteriori forme di rigore fiscale solo di qualche punto percentuale minori rispetto a quelle che si sarebbero generate sotto la vigenza del precedente OMT (si veda l’analisi dell’Ufficio Parlamentare di bilancio, p. 22, in cui si evidenziano le differenze in proiezione con il “vecchio” OMT e la nuova traiettoria basata sulla spesa: entrambe prevedono un saldo primario in crescita che arriva al 3% già all’inizio dei prossimi anni ‘30), dimenticando così gli insegnamenti della crisi sul (determinante) ruolo della BCE nella sostenibilità del debito, sugli squilibri della bilancia dei pagamenti (che non vengono innovati), nonché della pandemia sul ruolo degli investimenti pubblici.
A cambiare, invece, sono aspetti secondari, ma non per questo meno rilevanti.
In primis, a mutare è il parametro per determinare il percorso di aggiustamento, questione che pare creare diverse problematiche - sul piano interno rispetto ai criteri di calcolo dell’«equilibrio di bilancio» fissati dal legislatore nel 2012. Ciò non tanto nel novellato testo dell’art. 81 Cost., quanto, piuttosto, nella legge n. 243 del 2012 che disciplina – pur nel rinvio mobile al diritto dell’Unione – i parametri di bilancio rispetto a indicatori calcolati al lordo e non al netto della spesa per interessi. In tal senso la Corte dei conti, per quanto riscontri una generale compatibilità tra il novellato quadro europeo e le fonti interne, suggerisce di apportare specifiche modifiche tanto alla citata legge del 2012 (da approvare ai sensi della procedura ex art. 81 Cost. u.c.), quanto alla legge di contabilità n. 196 del 2009 (in tal senso si vedano i documenti prodotti dalla Corte dei conti nell’ottobre 2023, pp. 21-24, e nel maggio 2024, pp. 8-11).
Ulteriori cambiamenti riguardano poi la maggiore e più penetrante condizionalità dovuta ai programmi a lungo termine, nonché il rafforzamento delle sanzioni e dei parametri automatici, che rendono senz’altro il nuovo patto più “efficace”, “applicabile” e “sanzionabile”.
La riforma, in tal senso, può senz’altro apparire un «passo in avanti» rispetto allo status quo ante. Ma se è vero che, come riconosciuto dallo stesso legislatore europeo, un effetto della vigente governance economica è stato quello di una «crescente eterogeneità delle posizioni di bilancio, del debito pubblico e delle sfide economiche nonché delle altre vulnerabilità tra gli Stati membri» (regolamento n. 2024/1264, considerando n. 5), verrebbe ulteriormente da chiedersi se la destinazione impostata nel “pilota automatico” delle regole – tanto del “vecchio” quanto del “nuovo” patto – sia quella effettivamente auspicabile ovvero se fosse stato ancora una volta necessario fare un passo indietro o verso un’altra direzione.
Molto – o forse troppo poco – rumore per (quasi) nulla?
27 Maggio 2024
Riforma del Patto di Stabilità e nuova governance economica. Sulla recente proposta della Commissione europea
1. Il 9 novembre 2022 la Commissione europea ha pubblicato una proposta di riforma della governance economica europea (Comunicazione sugli orientamenti per una riforma del quadro di governance economica dell’UE, COM(2022) 583), a seguito di un percorso pluriennale di consultazioni di soggetti istituzionali, privati e accademici iniziato prima della crisi pandemica e proseguito a partire dal 2021, la cui continuazione è prevista almeno per l’anno in corso (sul tema recentemente Liscai).
Si tratta di un ulteriore tassello nella storia della governance economica europea, caratterizzata dall’alternarsi di crisi e riforme, accordi sulla necessità delle modifiche, disaccordi profondi sul quomodo delle stesse. Come è noto, la disciplina di bilancio attualmente vigente risale al Patto di stabilità e crescita (PSC) firmato nel 1997 e ai suoi regolamenti attuativi, nell’ambito dell’implementazione dell’unione economica e monetaria avviata a Maastricht nel 1992. Il percorso verso l’unione monetaria si basò sul generale compromesso politico per cui la stessa, accelerata sostanzialmente da posizioni italiane e francesi a seguito della riunificazione tedesca, fosse accettata dall’altra sponda del Reno a condizione di prevedere come elementi fondamentali quelli della dottrina economica dominante in Germania (in particolare di matrice ordoliberale, sul punto cfr. Kaupa e Guazzarotti) e sul necessario rispetto di una serie di parametri volti a ridurre le problematiche della “non ottimalità” dell’area valutaria comune (in particolare sugli squilibri macroeconomici commerciali verso l’esterno, su cui Cesaratto).
L’assetto che ne è derivato ha visto la creazione di una Banca centrale europea dotata di un tasso di CBI (Central Bank Independence) addirittura più marcato del modello originario della Bundesbank, predisposta all’obiettivo primario della stabilità dei prezzi (basso e stabile inflation target) e indipendente rispetto al decisore politico, tanto nazionale quanto europeo, rispetto alla determinazione dei tassi di interesse tanto delle operazioni finanziari quanto dei titoli di stato.
Le politiche fiscali, di competenza degli stati, sono state quindi sottoposte a una serie di regole fiscali (Balanced Budget Rules) volte mantenere il bilancio in sostanziale pareggio così da mantenere il debito pubblico al di sotto di una soglia “sostenibile” (priva di rischi di insolvenza, anche parziale, per capitale prestato e interessi). Il rispetto di tali regole è stato primariamente demandato alla “disciplina di mercato”, cioè al “giudizio” della finanza privata nella regolazione dei tassi di interesse dei titoli di stato e, quindi, della sostenibilità delle politiche pubbliche di spesa.
L’applicazione delle sanzioni sul piano istituzionale, invece, è stata fin da subito problematica: nei primi anni del Duemila si generò un rilevante conflitto – sfociato poi davanti alla Corte di giustizia – tra la Commissione, che aveva raccomandato di attivare la procedura per deficit eccessivi nei confronti di Francia e Germania, e il Consiglio, dove non si raggiunse la maggioranza richiesta per l’attivazione.
La disciplina è stata quindi dapprima modificata – in senso meno rigoroso – nel 2005 (regolamento n. 1056/2005) e poi rivista con una tendenza opposta (meno flessibilità) sia col Trattato di Lisbona (artt. 3, 119-144, 136, 219 e 282-284 TFUE, assieme ai Protocolli n. 12 e 13, rispettivamente in merito alla procedura per i disavanzi eccessivi e ai criteri di convergenza), sia soprattutto, in concomitanza con la crisi economico-finanziaria globale, con le riforme di diritto derivato del 2011 (c.d. “six pack”) e del 2013 (c.d. “two pack”).
La crisi dovuta alla pandemia da Covid-19 ha reso evidente l’inapplicabilità economica e sociale dei parametri quantitativi previsti dalle regole di bilancio, tanto che il Consiglio nel marzo del 2020 ha attivato, per la prima volta nella storia, su proposta della Commissione, la c.d. “clausola di salvaguardia generale”, sospendendone l’applicabilità.
Tanto il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (OMT), finalità della sorveglianza delle politiche di bilancio degli stati membri (c.d. “braccio preventivo”), quanto la correzione dei disavanzi eccessivi rispetto ai parametri del 3 e 60 per cento di deficit e indebitamento del settore pubblico sulla base del PIL (c.d. “braccio correttivo”) sono stati quindi sospesi almeno fino al 2024. Con ciò si sono aperte fondamentali questioni – politiche e dottrinali – tanto sull’opportunità quanto sulla stessa possibilità di un ritorno al passato, essendosi gli stati fortemente allontanati dai suddetti parametri (avendo finanziato la ripresa economica principalmente attraverso l’indebitamento).
A ciò si aggiungono le numerose critiche – come si è detto abbastanza unanimi nell’an, molto meno nel quomodo, anche escludendo le ipotesi di riforma più radicali – apportate nei confronti dell’attuale assetto: le regole sono infatti viste da più parti come «troppo oscure ed eccessivamente complesse» (in tal senso anche Draghi e Macron), errate nella stima dei parametri essenziali (Cottarelli et al.) e quindi sostanzialmente procicliche (ex multis Chessa), nonché di difficile sanzionabilità, soprattutto nei confronti di alcuni stati.
2. Ad ogni modo, per venire al merito della proposta di riforma avanzata dalla Commissione europea, appare utile apprezzare anzitutto i presupposti dai quali quest’ultima prende le mosse. Infatti, subito dopo aver rilevato la centralità del quadro di governance nell’ambito dei processi nazionali di formazione delle decisioni di finanza pubblica e affermato la sua importanza in quanto presupposto delle «condizioni per la stabilità economica, la crescita economica sostenibile e l'aumento dell'occupazione per i cittadini dell’UE» (par. 2.1), la Commissione ha pure dovuto ammettere che l’insieme di interventi normativi succedutisi nel tempo (v. in particolare quanto introdotto dai cc.dd. “six-pack” e “two-pack”) ha contribuito a determinare una complessità generale del quadro tale da rendere inservibili – o quanto meno superati – i meccanismi giuridici e istituzionali preposti a garantire l’effettiva applicazione delle regole di bilancio. Su questa base, la proposta procede nell’individuazione di alcuni obiettivi ritenuti fondamentali nell’ottica di un processo di riforma, vale a dire l’esigenza di assicurare l’agibilità di risposte anticicliche, in un’ottica di lungo periodo nella quale «[l]e transizioni verde e digitale e la necessità di garantire la sicurezza energetica e la resilienza economica e sociale e di costruire le capacità di difesa richiederanno livelli di investimento elevati e duraturi negli anni a venire», richiedendo pure un alto grado di coordinamento sia sul piano del rapporto fra politica economica e politica monetaria dell’Unione che su quello del rapporto fra queste ultime e le politiche di bilancio dei singoli Stati membri (par. 2.2).
Ciò considerato, la Commissione propone una riforma del quadro la quale – pur senza intervenire sul diritto primario dell’Unione, e perciò senza modificare i noti valori del 3 e 60 per cento, rispettivamente del deficit e del debito pubblico sul PIL – vedrebbe anzitutto superato l’obbligo di riduzione del debito di un ventesimo all’anno per i Paesi membri che eccedano il limite citato. Al posto di tale parametro, verrebbe in sostituzione un valore definito invece caso per caso e sulla base del rischio di esposizione di ciascun Paese, anche grazie all’utilizzo dei piani strutturali di bilancio a medio termine (combinazione degli attuali programmi di stabilità e convergenza con i programmi nazionali di riforma) nei quali andranno definite «le traiettorie di bilancio specifiche per paese, gli investimenti pubblici prioritari e gli impegni di riforma che, insieme, garantiscano una riduzione duratura e graduale del debito e una crescita sostenibile e inclusiva» (par. 3.2). Quale indicatore della sostenibilità del debito, poi, la Commissione individua questo nella spesa primaria netta finanziata a livello nazionale – «ossia la spesa al netto delle misure discrezionali sul lato delle entrate ed escludendo la spesa per interessi e la spesa ciclica derivante dalla disoccupazione» (par. 3.2) – ritenendolo strumento utile a semplificare il quadro di bilancio e la trasparenza dei processi decisionali. Questi ultimi, dal canto loro, sarebbero affidati ad un modello nel quale i piani strutturali di bilancio dovrebbero essere valutati dalla Commissione e approvati dal Consiglio; sempre Commissione e Consiglio sarebbero poi coinvolti nel controllo circa l’attuazione dei piani, con l’attivazione automatica della procedura per i disavanzi eccessivi «quando uno Stato membro con un debito superiore al 60 % del PIL si discosta dal percorso pluriennale di spesa primaria netta concordato» (par. 4.2).
Sul piano delle sanzioni, infine, la proposta intende valorizzare la dimensione reputazionale, giacché potrebbe esservi la possibilità che «i ministeri degli Stati membri oggetto di una PDE [siano] chiamati a presentare al Parlamento europeo le misure adottate al fine di ottemperare alle raccomandazioni della PDE» (par. 4.2), in addizione alle più classiche sanzioni finanziarie (che siano queste dirette oppure legate a meccanismi di condizionalità, come nel caso delle risorse del RRF), queste ridotte sul piano quantitativo in ordine all’esigenza di renderne più agevole l’applicazione.
3. Oltre ad una presa di coscienza di un necessario superamento del quadro attuale, quel che emerge da una prima analisi della proposta è il tentativo della Commissione di tenere insieme almeno due interessi differenti. Infatti, se da una parte si può osservare uno sforzo nel rimodellare le fiscal rules al fine di renderle ragionevoli ed efficaci rispetto alle esigenze di riduzione del debito e promozione degli investimenti, dall’altra emerge con particolare chiarezza la volontà di rendere trasparente la titolarità delle scelte in tema di allocazione delle risorse pubbliche. Quest’ultimo profilo appare di particolare importanza poiché aiuta a individuare una delle sfide centrali che la nuova governance economica europea dovrà affrontare, vale a dire la questione democratica. Difatti, focalizzando l’attenzione sulla trasparenza delle procedure in una dimensione che non è più quella di un eterno presentismo bensì più a lungo e medio termine, la proposta della Commissione sembra voler responsabilizzare le istituzioni nazionali nel loro ruolo di attori delle decisioni fondamentali di allocazione delle risorse. In altri termini, traspare una certa volontà di voler superare l’abuso della retorica del vincolo esterno, valorizzando ancora di più il ruolo del decisore politico nazionale; quest’ultimo, co-partecipe nella definizione del piano strutturale di bilancio, si troverebbe così nella posizione di dover avviare o proseguire un processo di riforma e risanamento non più subìto, ma sostanzialmente concordato.
Ad ogni modo, se il punto toccato dalla proposta in tema di democrazia e responsabilità politica a livello nazionale appare certamente una questione essenziale, riteniamo che tutto ciò non possa trovare una sua piena realizzazione se non in un’evoluzione del processo di integrazione che conservi quanto di buono si è potuto apprendere dalla risposta alla crisi pandemica (i.e. emissione del debito comune) e superi l’utilizzo del metodo intergovernativo rispetto alle scelte di bilancio dell’Unione, nella direzione di una ulteriore democratizzazione dei processi decisionali, almeno in materia fiscale ed economica (sul punto v. pure la posizione del Parlamento europeo).
Del fatto che la proposta della Commissione possa configurarsi come un passo determinante verso una effettiva unione fiscale ed economica – e non si mostri invece come un tentativo di aggiornamento più che superamento dei fondamenti economici e teorici di Maastricht – è tuttavia lecito dubitare. Non appaiono infatti messi in discussione – né sembra esserci la volontà politica di farlo – i nodi problematici di fondo del sistema di governance dell’economia europea. Il previsto rafforzamento del sistema sanzionatorio continua a basarsi anche sul ruolo “disciplinare” del mercato nei confronti degli stati (con l’introduzione delle sanzioni «reputazionali») e il tentativo di “ri-statalizzazione” della responsabilità politica delle scelte di bilancio tende a riconfermare – nonostante l’osservazione del fondamentale ruolo politico svolto dalle misure non convenzionali della Banca centrale europea – l’impalpabile separazione tra politica economica e politica monetaria, nonché ad rendere meno evidenti il ruolo delle istituzioni dell’Unione e dei vincoli del Patto nella determinazione della politica economica da parte degli stati.
Piuttosto che a una ri-politicizzazione democratica della decisione economica in Europa (sul punto cfr. Grimm) – eventualità possibile solamente con una riforma dei Trattati – la proposta della Commissione appare riprodurre quella dinamica di governance che ha caratterizzato il Recovery Fund e che vede nella relazione Commissione-Governo nazionale il suo fulcro.
Come è stato correttamente evidenziato (Bini Smaghi), la proposta oltre a presentare problemi dal punto di vista della parità di trattamento tra stati (a causa della loro divisione in virtù dei parametri macroeconomici del debito) appare parimenti problematica per quanto riguarda i poteri della Commissione nella determinazione delle politiche dei paesi ad “alto debito”. Difatti, rispetto al sistema attuale, in cui si rinviene un certo margine di flessibilità per quanto riguarda il percorso di riduzione del debito – e quindi di contrattazione politica –, nella proposta della Commissione sarebbe essa stessa a proporre «agli Stati membri con un problema di debito pubblico sostanziale o moderato un percorso di aggiustamento pluriennale di riferimento in termini di spesa primaria netta della durata di almeno quattro anni […] ancorato alla sostenibilità del debito [… garantendo che esso] rimanga su un percorso di riduzione plausibile dopo il periodo di aggiustamento di bilancio e che il disavanzo sia mantenuto al di sotto della soglia del 3 % del PIL» (par. 4.1). Per compiere il percorso indicato dalla Commissione, gli stati sono tenuti a presentare un piano strutturale di bilancio a medio termine contenente «gli impegni in materia di riforme e investimenti» (par. 4.1) sottoposto alla valutazione della Commissione e all’approvazione del Consiglio (secondo lo stesso schema già utilizzato per i PNRR). In tal modo sembra determinarsi un incremento dei poteri della Commissione rispetto all’attuale quadro del Semestre europeo nonché un ulteriore rafforzamento della vincolatività delle raccomandazioni specifiche per paese (il piano deve rispondere «a tutte le raccomandazioni specifiche per paese o a un loro sottoinsieme significativo», par. 4.1), al pari di quanto successo con il Recovery Fund, nonché a un ulteriore potenziamento di quest’ultimo, stante il previsto legame tra piano di rientro e PNRR (par. 4.1).
Effetti potenziali i quali rischiano di dimostrarsi non pienamente coerenti con quel «miglioramento della titolarità nazionale delle politiche» e quella «parità di trattamento» che la Commissione si è posta - tra gli altri - come obiettivi della proposta di riforma.
1 Febbraio 2023
Transmission Protection Instrument: politica monetaria e sviluppo del fiscal framework europeo
È ormai noto a tutti che l’emergenza bellica in Ucraina, le sanzioni alla Russia e la crisi energetica sono il contesto di fondo entro cui è possibile osservare, a partire dalla primavera 2022, l’affermarsi di un notevole fenomeno inflazionistico.
Sul piano europeo tale emergenza ha trovato un suo esito naturale nell’intervento della Banca centrale europea, la quale il 21 luglio scorso - al fine di «assicurare un ritorno dell’inflazione verso il nostro obiettivo del 2% a medio termine» - ha deciso di intervenire innalzando di 50 punti base i tassi di interesse (un secondo innalzamento di 75 punti base ha avuto luogo con effetto dal 14 settembre) e approvando il c.d. “scudo anti-spread”, ovvero il TPI, Transmission Protection Instrument, (qui la conferenza stampa della Presidente Lagarde e del Vicepresidente de Guindos).
Come appare evidente dal nome, con tale meccanismo la BCE intende dotarsi di uno strumento idoneo a ridurre i differenziali dei tassi di rendimento fra i titoli di stato dei Paesi dell’Eurozona, finalizzato ad assicurare «che [l’]orientamento di politica monetaria sia trasmesso in modo ordinato in tutti i paesi dell’area dell’euro» e capace di un impatto superiore a quello garantito dal PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program), il quale rimarrà comunque il principale strumento di tutela della trasmissione monetaria per ciò che attiene alla pandemia.
Da un punto di vista istituzionale uno degli aspetti più interessanti del TPI è rappresentato dai criteri che verranno considerati dal Consiglio direttivo della BCE al fine di decidere se poter adoperare lo strumento nei confronti dei titoli di stato del Paese membro che dovesse averne interesse. Infatti, per quanto è dato apprendere dal Comunicato stampa del 21 luglio 2022, il Consiglio direttivo terrà in considerazione:
- il rispetto del complesso delle regole europee in tema di finanza pubblica; nello specifico il Paese membro non dovrà essere sottoposto alla procedura per deficit eccessivo o, nel caso in cui sia già stato sottoposto alla suddetta procedura, non dovrà essere inadempiente rispetto alle raccomandazioni del Consiglio ex 126, par. 7 del TFUE;
- assenza di squilibri macroeconomici; il Paese membro non dovrà essere sottoposto alla procedura per squilibri macroeconomici o, nel caso in cui sia già stato sottoposto alla suddetta procedura, non dovrà essere inadempiente rispetto alle raccomandazioni del Consiglio ex art. 121, par. 4 del TFUE;
- la sostenibilità finanziaria del debito pubblico per come rilevata dalle analisi della Commissione europea, del Meccanismo di stabilità, del Fondo monetario e di altre istituzioni, oltre a quelle prodotte internamente dalla Banca centrale stessa;
- la presenza di politiche macroeconomiche sane e sostenibili, con particolare riferimento al raggiungimento degli obiettivi individuati dai singoli Piani nazionali finanziati dal c.d. Recovery fund e alle raccomandazioni della Commissione trasmesse in occasione del Semestre europeo.
Ora, avendo a mente un processo evolutivo che inizia da Maastricht e passa dall’istituzione del Patto di stabilità e crescita e dalla risposta alla crisi dell’Eurozona, appare ragionevole immaginare che qualsiasi osservatore - forse anche il meno attento - non potrà che guardare a questi criteri come ad un elemento di ordinarietà: l’Unione assicura il proprio sostegno - in questo caso attraverso l’intervento monetario - e in cambio richiede il rispetto di quelli che vengono ritenuti canoni di responsabilità finanziaria. Da qui, dunque, la legittimità di una domanda che volesse interrogarsi sull’opportunità delle brevi osservazioni che si vanno svolgendo.
Ebbene, al di là della contestabilità dello schema appena riportato (che ha, appunto, come unica valenza quella di schematizzare il possibile funzionamento di una relazione fra Stato membro e Unione), ci sembra di dover individuare l’importanza delle condizionalità poste al TPI nel particolare contesto istituzionale e politico nel quale queste dovranno avverarsi.
Come noto, infatti, a partire dalla primavera del 2020 l’Unione ha dovuto fronteggiare la crisi legata al Covid-19 e lo ha fatto con un cambio di rotta rispetto alle precedenti politiche di austerity. Su tutte, l’emissione del debito comune e la sospensione del Patto di stabilità hanno posto le basi per cambio di passo evidente ed innegabile rispetto alla risposta offerta in occasione della crisi dell’Eurozona.
Infatti, se da una parte è certamente possibile immaginare l’allontanamento da un approccio particolarmente rigido non solo nei termini di una pura offerta di solidarietà - in considerazione di una crisi che, a differenza di quella del 2008/2009, è stata del tutto simmetrica - sarebbe quantomeno ingeneroso non riconoscere le virtualità aperte al processo di integrazione dalle decisioni che hanno autorizzato l’emissione di debito comune e sospeso il PSC, a partire dal dibattito relativo proprio alle possibili riforme del Patto in occasione della sua riattivazione nel 2024 (sul punto sia consentivo il rinvio a quanto già illustrato su questo Blog)
Ciò detto, l’istituzione del TPI e le relative condizionalità pongono un nuovo tassello utile ad analizzare la direzione assunta dall’Unione, nei termini di una possibile regressione rispetto agli approdi raggiunti fra il 2020 e la fine del 2021. Infatti, se da una parte il TPI non può non essere uno strumento condizionato - a pena di renderlo promozionale rispetto a fenomeni di moral hazard -, dall’altra alcuni criteri di azionabilità sembrano definiti da contorni così fumosi da poter diventare inconsistenti. Il riferimento è chiaramente a quanto affermato dal Consiglio direttivo della BCE allorquando dichiara che uno degli elementi da tenere in considerazione saranno le valutazioni circa la sostenibilità delle politiche macroeconomiche di un Paese membro emesse dalla Commissione, dal MES e dal Fondo monetario.
Ora, al di là di un richiamo dell’immaginario alle istituzioni che hanno composto a loro tempo la c.d. Troika, ciò che appare evidente è l’indeterminatezza dei contorni di tale criterio, il quale - per come descritto - amplia in maniera consistente il ruolo del dato reputazionale, nei termini per cui la protezione assicurata dal TPI verrebbe a dipendere ancora più pesantemente dal grado di accreditamento internazionale del Paese membro interessato.
Sotto una luce diversa, invece, appare il quarto dei criteri enunciati dal Consiglio direttivo, ovvero il raggiungimento degli obiettivi del PNRR. Infatti, se di per sé l’utilizzo del PNRR come condizionalità all’attivazione del TPI è comunque riconducibile ad un fenomeno di leverage, l’ancoraggio ai Piani nazionali dota tale condizionalità di un livello di determinatezza prima facie sufficiente, oltre che a fondarsi su programmi il cui contenuto è stato in quale modo frutto di co-determinazione fra Paese membro e Commissione europea.
Da ultimo, ma solo perché tale profilo sembra assumere una portata ancora più generale, il riferimento alle procedure per disavanzo eccessivo e a quelle per squilibri macroeconomici appare problematico già soltanto per il fatto che tale ancoraggio ha luogo in un momento storico nel quale l’Unione stessa si sta interrogando sul futuro della propria governance economica. Se probabilmente questo autunno vedrà la luce un nuovo Patto di stabilità e crescita, e se devono tenersi in considerazione tutte le osservazioni già svolte in merito alla necessità invocata da più parti di abbandonare il sistema delle regole in favore di standards più flessibili (basti pensare alla istituzione di una golden rule per gli investimenti green), appare allora lecito interrogarsi circa il significato che assumeranno a breve i concetti stessi di disavanzo e squilibrio macroeconomico.
A voler guardare al TPI come segnale del forse nuovo indirizzo che assumerà la politica fiscale e monetaria europea, appare dunque l’immagine di uno strumento che riflette in maniera fedele punti di forza e criticità dell’impianto economico dell’Unione. Da una parte l’esistenza di una politica monetaria indipendente e indirizzata alla stabilità della moneta e dei prezzi provoca un potenziale arretramento delle istanze di solidarietà: lo stesso TPI è uno strumento rivolto a proteggere la trasmissione della politica monetaria a beneficio del sistema complessivo, e perciò l’intervento sui tassi di rendimento e l’assicurazione della sostenibilità del debito pubblico nazionale divengono banalmente elementi secondari. Dall’altra, sul piano fiscale, il TPI si inserisce in un contesto caratterizzato dal combinato risultante dall’emissione del debito comune e dall’esecuzione dei diversi Piani nazionali, ovvero in una condizione storica nella quale appare poco compatibile la virtuale rigidità espressa dai criteri indicati dal Consiglio direttivo (seppure non manchino, sul piano politico, pressioni verso un irrigidimento delle regole fiscali; v. sul punto la posizione del Ministro delle finanze tedesco Lindner).
In conclusione - e nel tentativo di ricostruire tassonomicamente l’evoluzione della costituzione economica europea - il TPI si offre come oggetto di studio potenzialmente fruttuoso, a maggior ragione se contestualizzato nel quadro normativo futuro, per come risulterà dalla riforma prossima del Patto di stabilità.
5 Ottobre 2022
Il senso dello Stato di diritto per l’Unione: l’approvazione del PNRR polacco nelle urgenze della guerra
Il 1° giugno 2022 la Commissione europea ha presentato una proposta di decisione di esecuzione del Consiglio relativa all'approvazione della valutazione del Piano per la ripresa e la resilienza della Polonia (COM(2022) 0268).
Dalla lettura della Proposta - approvata dal Consiglio Ecofin il 17 giugno 2022 - emerge che il Piano presentato dalla Polonia rappresenterebbe una risposta equilibrata ai sei pilastri del Next Generation EU (1. Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo.- 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica. - 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile. - 4. Istruzione e Ricerca. - 5. Inclusione e Coesione. - 6. Salute).
Dietro tutto ciò, tuttavia, la questione rilevante per l’osservatore esterno è ben più ampia degli obiettivi specifici del PNRR; si tratta, come ovvio, della condizione dello Stato di diritto in Polonia e delle preoccupazioni che da anni rinfuocano un profondo conflitto fra il Paese e le istituzioni dell’Unione europea, conflitto il quale ha avuto (ed ha) come oggetto principale l’indipendenza della magistratura polacca.
Sul punto, dopo aver rilevato che la necessità di individuare traguardi relativi alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione e di conseguenza un sistema di controllo interno adeguato, la Proposta evidenzia l’indissolubilità che lega il suddetto controllo ad una precondizione essenziale quale l’indipendenza della magistratura. Esigenza quest’ultima, soddisfatta dalla circostanza per cui nel Piano polacco «sono disposti traguardi per una riforma che rafforzi l'indipendenza e l'imparzialità degli organi giurisdizionali, una riforma che ponga rimedio alla situazione dei giudici oggetto di decisioni della Camera disciplinare della Corte suprema […] e per una riforma che garantisca un audit e un controllo effettivi» (par. 44).
Nello specifico, nell’ottica di «rafforzare l'indipendenza e l'imparzialità degli organi giurisdizionali e dei giudici istituiti per legge conformemente all'articolo 19 TUE», la Proposta invita il governo polacco a riforme tali per cui «tutte le cause disciplinari relative ai giudici dovrebbero essere trasferite dall'attuale Camera disciplinare della Corte suprema polacca a un'altra camera della stessa Corte che soddisfi i requisiti di indipendenza e imparzialità e sia istituita per legge» (par. 45), garantendo inoltre che «qualsiasi giudice, su richiesta di una parte o di propria iniziativa, dovrebbe poter accertare che un organo giurisdizionale soddisfa i requisiti di indipendenza, imparzialità e legalità, e la verifica non dovrà essere qualificata come illecito disciplinare» (par. 46).
Da ultimo, la Commissione specifica che la Polonia dovrebbe (il modo condizionale è usato dalla Commissione stessa, cfr. par. 44) raggiungere i traguardi previsti dal piano addirittura prima dell’invio della richiesta di pagamento della prima tranche di pagamenti, e che nessun pagamento potrà essere effettuato prima del conseguimento dei traguardi stessi.
Come prevedibile, l’approvazione della Commissione al Piano polacco ha suscitato non poche reazioni da parte degli osservatori e delle altre istituzioni dell’Unione. Con specifico riferimento a queste ultime, occorre infatti rilevare che il 9 giugno 2022 il Parlamento europeo ha approvato con oltre 441 voti favorevoli una Proposta di risoluzione comune che esprime una posizione fortemente contraria all’approvazione del Piano.
Il Parlamento europeo rileva anzitutto il dato di fatto per cui in Polonia sarebbe sussistente un processo di erosione della democrazia e dello Stato di diritto (questo dato di fatto era posto peraltro alla base dei tre criteri definiti nell’ottobre 2021 dalla stessa Commissione europea al fine di decidere circa l’approvazione del Piano polacco: a) smantellamento della sezione disciplinare della Corte suprema; b) riforma dei procedimenti disciplinari a carico dei giudici; c) reintegrazione dei giudici sospesi dalla sezione disciplinare).
Tale processo di erosione, ritiene il Parlamento, sarebbe allo stato attuale tutt’ora in fieri, poiché «le riforme in Polonia nel settore della giustizia sono ancora in corso e che i recenti progetti di legge in votazione e le proposte in discussione non hanno dato una risposta efficace a tutte le preoccupazioni relative all'indipendenza degli organi giudiziari e alle procedure disciplinari in causa; che il Senato polacco sta cercando di modificare tali proposte per allinearle al principio dell'indipendenza della magistratura; che diversi giudici sono ancora oggetto di procedure disciplinari e/o non sono stati reintegrati» (par. G). Di più, il Parlamento europeo non solo ritiene che le riforme in corso siano allo stato insufficienti, ma valuta la situazione polacca come apertamente contraddittoria rispetto agli obiettivi posti, in quanto - già solo con riferimento al 2022 - sarebbe possibile osservare «la sospensione di un giudice a febbraio 2022 per aver applicato il diritto dell'UE e le sentenze degli organi giurisdizionali dell'UE; che, inoltre, il presidente della Polonia […] ha nominato in modo irregolare oltre 200 nuovi giudici, definiti "neo giudici" […]; che il 10 marzo 2022, su richiesta del ministro della Giustizia, il "Tribunale costituzionale", politicizzato e totalmente controllato ha altresì compromesso […] la validità dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in Polonia, mettendo in discussione la facoltà della Corte europea dei diritti dell'uomo e dei tribunali polacchi di esaminare la correttezza della nomina dei giudici e l'indipendenza del nuovo CNM» (par. H).
In contrasto con la Commissione, il Parlamento ritiene deplorevole, insomma, che la condizioni del Piano polacco non prevedano la reintegrazione di tutti i giudici illegittimamente sospesi nel corso di questi anni ed esorta perciò il Consiglio ad approvare il Piano stesso soltanto quando «il paese avrà pienamente soddisfatto i requisiti del regolamento che istituisce il dispositivo e in particolare i requisiti di cui all'articolo 22, segnatamente nell'ottica di tutelare gli interessi finanziari dell'Unione da conflitti d'interessi e frodi, nonché tutte le raccomandazioni specifiche per paese del semestre europeo nel settore dello Stato di diritto, e avrà attuato tutte le pertinenti sentenze della CGUE e della Corte europea dei diritti dell'uomo» (par. 3).
Ora, esplicitate in questo modo le posizioni della Commissione e del Parlamento, è chiaro che l’intera questione non possa essere letta soltanto alla luce delle note discussioni circa la capacità dell’Unione di rispondere alla crisi dello Stato di diritto che da anni interessa la Polonia (e l’Ungheria).
A chi scrive parrebbe necessario - o comunque opportuno - interrogarsi circa l’esistenza di un innominato elefante nella stanza. Il riferimento è alla guerra in Ucraina e alle condizioni fattuali che inevitabilmente finiscono per porsi quali vincoli politici all’azione della Commissione, a partire dalla circostanza per cui la Polonia - limitando la pressione della corrente migratoria rispetto agli altri Stati membri – è attualmente il Paese europeo che accoglie il maggior numero di migranti ucraini. Questa condotta, come giustamente rilevato, non può e non deve essere letta come un gesto di spassionata generosità del governo polacco, in virtù del fatto che buona parte dell’accoglienza è comunque garantita da sforzi autonomi della società civile e risulta in ogni caso un’arma politica in mano al governo di Morawiecki al fine di far valere il peso specifico della Polonia nelle decisioni strategiche che l’Unione sta prendendo in questi mesi riguardo le sanzioni nei confronti della Russia. Tale ricostruzione, per quanto legata a considerazioni di natura prettamente politica, trova una sua conferma nella circostanza per cui - a seguito di un percorso certo complesso (sul punto sia concesso il rinvio a quanto precedentemente scritto su questo Blog) - il meccanismo di condizionalità relativo alla protezione del bilancio dell’Unione (e indirettamente, allo Stato di diritto) è stato attivato esclusivamente nei confronti dell’Ungheria, a fronte di violazioni dello Stato di diritto rilevate allo stesso modo (seppur sotto profili evidentemente differenti) nei riguardi della Polonia.
Tale differenza di trattamento appare trovare una sua giustificazione nel diverso ruolo strategico giocato dalla Polonia nella gestione della guerra in Ucraina, sia in virtù della richiamata attività di accoglienza che alla luce dei rapporti con l’Ucraina e con la Russia, segnati da un’esperienza storica certamente rilevante.
In parziale analogia con l’iter di approvazione del Regolamento (UE) 2092/2020, le dinamiche politiche e la dimensione intergovernativa finiscono talvolta per rivelarsi come un limite al processo di integrazione, con particolare riferimento alla protezione dei valori fondativi. In quella occasione, la proposta di Regolamento che la Commissione aveva presentato nel 2018 (con la quale si tentava di tutelare lo Stato di diritto tramite lo strumento del bilancio) venne modificata - oltre che per risolvere in parte i rilievi sollevati dal parere n. 13593 del 25 ottobre 2018 del servizio giuridico del Consiglio - anche a seguito della circostanza per cui Polonia e Ungheria minacciarono di porre il proprio il veto sull’approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale, mettendo a rischio la possibilità per l’Unione di adottare le necessarie misure di contrasto alla pandemia. Come noto, il Regolamento infine approvato portò addosso i segni del compromesso raggiunto, prevedendo una certa funzionalizzazione della protezione della rule of law agli interessi finanziari dell’Unione. Ciò anche a seguito del Consiglio Europeo del 10 e 11 dicembre 2020, le cui conclusioni subordinarono - almeno di fatto - l’applicabilità del meccanismo di condizionalità alle seguenti condizioni: da un lato alla previa decisione della Corte di Giustizia su eventuali ricorsi per annullamento (prontamente presentati da Polonia e Ungheria, e poi ritenuti infondati dalla Corte stessa, sul punto cfr. V. Sachetti su questo Blog), dall’altro alla predisposizione da parte della Commissione di linee guida relative al meccanismo di condizionalità stesso.
Ancora una volta, dunque, la realtà dei rapporti politici e la conseguente necessità del compromesso emergono come condizioni e presupposti non trascurabili dell’azione dell’Unione; ciò nella misura in cui, ad esempio, è possibile apprezzare nella condotta della Commissione europea una manifestazione della radicalità del problema: se da una parte sono stati moltissimi gli sforzi di quest’ultima nel tentare di arginare la deriva illiberale ungherese e polacca (da ultimo, con l’apprezzabile prova di sintesi rappresentata dalle Linee guida sul meccanismo di condizionalità), dall’altra è in buona misura comprensibile la difficoltà di mantenere un percorso di coerenza nel contesto tragico di questi mesi.
Lungi dal risolversi esclusivamente in una dimensione politica, le considerazioni precedenti suscitano per lo studioso alcune riflessioni obbligate. In un momento in cui l’Unione - prima con la gestione della pandemia e l’emissione di debito comune, poi con le posizioni sulla guerra in Ucraina (rectius, con le sanzioni alla Russia) - segna in qualche modo il proprio destino, rilanciando un progetto che vede nella solidarietà la propria direzione di senso complessiva, permane inesorabile il nodo della dimensione intergovernativa. Risulta meno immediata, dunque la risposta ad una domanda che sorge spontanea e che porta ad interrogarci - adesso e alla luce di quanto riportato supra - sull’ampiezza del significato da attribuire al carattere fondativo dello Stato di diritto nell’esperienza attuale dell’Unione.
29 Giugno 2022
Le Linee guida della Commissione europea sul meccanismo di condizionalità a protezione del bilancio UE: effettività della tutela dello Stato di diritto e valorizzazione dello spazio pubblico europeo
Il 2 marzo 2022 la Commissione ha adottato i suoi “Orientamenti sull'applicazione del regolamento (UE, Euratom) 2020/2092 relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell'Unione”, con ciò attuando l’ultimo passaggio necessario ad assicurare operatività al regolamento UE 2020/2092 (sul quale v. B. Nascimbene, V. Sachetti e, se si vuole, G. Gioia).
Come noto, infatti, il Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2020 aveva richiesto l’elaborazione di tali linee guida da parte delle Commissione in seguito ad una eventuale sentenza della Corte di giustizia, nel caso in cui - contro il Regolamento richiamato supra - fosse stato presentato un ricorso per annullamento ex art. 263 TFUE. L’eventualità, come prevedibile, si è realizzata con i ricorsi presentati da Polonia e Ungheria, sui quali la Corte si è pronunciata il 16 febbraio 2022 (sul punto, v. il commento di V. Sachetti su questo Blog). Nel prendere posizione rispetto alle doglianze espresse dai due Stati, e nel riconoscere la legittimità dell’intervento legislativo di cui al Regolamento citato, la Corte ha fornito un apparato argomentativo circa il regime applicativo del meccanismo di condizionalità che la Commissione, al momento di predisporre le Linee guida in commento, ha sostanzialmente fatto proprio.
Non potendo riprodurre in questa sede, in maniera problematica, il composito di criticità e potenzialità che caratterizzano il meccanismo di condizionalità di cui al Regolamento 2020/2092, pare comunque opportuno provare ad individuare il contributo di specificazione che le presenti Linee guida possono apportare al Regolamento stesso, e con esso alla protezione del bilancio dell’Unione e dello Stato di diritto.
A tal fine è utile, per quanto inevitabilmente parziale, un’analisi preliminare del contenuto delle Linee guida. Queste ultime, a seguito di una introduzione nella quale la Commissione richiama l’attenzione sul rispetto del valore dello Stato di diritto - e in generale sui valori di cui all’art. 2 TUE - quale condizione essenziale ai fini dell’espressione del principio di solidarietà, e quindi ai fini del godimento delle risorse provenienti dal bilancio dell’Unione, chiariscono quali siano le condizioni per l’adozione delle misure sanzionatorie. Anzitutto, la Commissione afferma - concordando con la Corte di Giustizia - che le violazioni dello Stato di diritto possiedono in sé una connessione potenziale con le violazioni del principio di sana gestione finanziaria, ciò poiché « [la] sana gestione finanziaria e tali interessi finanziari possono […] essere gravemente compromessi da violazioni dei principi dello Stato di diritto commesse in uno Stato membro, giacché tali violazioni possono comportare, in particolare, l'assenza di garanzia che spese coperte dal bilancio dell'Unione soddisfino tutte le condizioni di finanziamento previste dal diritto dell'Unione» (par. 15). A tale fattore di espansione si deve poi aggiungere la circostanza per cui - fra i soggetti statali le cui attività possono realizzare violazioni del principio dello Stato di diritto - non debbono rientrare soltanto quelli deputati all’esecuzione del bilancio dell’Unione, bensì anche «autorità nazionali che svolgono attività generali»; ciò, tuttavia, «solo nella misura in cui siano rilevanti per la sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione e per la tutela dei suoi interessi finanziari» (par. 20). La Commissione, inoltre, rilevando la non tassatività dell’elenco di cui all’art. 4, par. 2, lett h), del Regolamento 2020/2092, si riserva di poter giudicare caso per caso la rilevanza della violazione dello Stato di diritto (parr. 23 e 24).
Quanto al legame fra la violazione del principio dello Stato di diritto e la tutela della sana gestione finanziaria, le Linee guida offrono un prezioso spunto di riflessione poiché, oltre all’accertamento di un pregiudizio già realizzato (parr. da 27 a 30), si afferma – sempre facendo proprie le parole dalla Corte di giustizia – che «sarebbe incompatibile con le esigenze di sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione e con la tutela degli interessi finanziari dell'Unione limitare l'adozione di opportune misure nei casi in cui si accertino pregiudizi per la suddetta sana gestione finanziaria o per i suddetti interessi finanziari […] Occorre pertanto dimostrare che esiste una probabilità elevata che il rischio si verifichi, in relazione alle situazioni o alle condotte delle autorità di cui all'articolo 4, paragrafo 2, del regolamento sulla condizionalità. Ad esempio, può sussistere un rischio serio per quanto riguarda i fondi dell'Unione e gli interessi finanziari dell'Unione se determinate azioni delle autorità nazionali che danno esecuzione ai fondi dell'Unione mediante appalti pubblici, riscuotono risorse proprie dell'Unione o sono preposte al controllo, alla sorveglianza e all'audit finanziari dei fondi dell'Unione o indagano su presunti casi di frode, corruzione o altre violazioni del diritto dell'Unione che riguardano l'esecuzione dei fondi o delle entrate dell'Unione, non possono essere oggetto di un controllo effettivo da parte di tribunali pienamente indipendenti» (par. 31). Il legame fra la violazione del principio dello Stato di diritto e la tutela della sana gestione finanziaria non deve essere, infine, «meramente ipotetico, troppo incerto o troppo vago» (par. 33).
In relazione alla proporzionalità delle misure adottabili, la Commissione - rilevata ancora una volta la connessione fra gravità della violazione del principio dello Stato di diritto e gravità del pregiudizio al bilancio dell’Unione – afferma che «una violazione sistemica dei principi dello Stato di diritto che incide in modo cumulativo e/o per un periodo di tempo significativo sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o sui suoi interessi finanziari può giustificare la proposta di misure che comportino un'incidenza finanziaria significativa per lo Stato membro interessato» (par. 50) e che saranno ritenute proporzionate anche le misure che avranno un impatto su fondi relativi ad azioni «diverse da quelle interessate dalla violazione dei principi dello Stato di diritto», laddove ciò sia giustificato dall’esigenza di garantire affettività al meccanismo di condizionalità (è il caso di fondi già erogati, ed esempio; sul punto v. par. 53) . Ulteriore elemento di valutazione ai fini della determinazione delle misure è rappresentato poi dall’approccio collaborativo o meno dello Stato membro interessato (par. 50).
A parere di chi scrive, quelli appena riportati rappresentano elementi utili a produrre un giudizio di massima sul contributo che il meccanismo di condizionalità di cui al Regolamento 2020/2092 può apportare alla tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea.
Le Linee guida in commento, infatti, rappresentano il parziale epilogo di una vicenda avviata nel 2018 con una proposta di Regolamento avanzata dalla Commissione, con la quale si intendeva istituire un meccanismo di condizionalità per l’accesso ai fondi dell’Unione collegato al rispetto del principio dello Stato di diritto, in risposta al c.d. rule of law backsliding in atto in Polonia e Ungheria. Tale esigenza emergeva con chiarezza dall’impianto normativo della proposta, nella misura in cui le sanzioni di tipo economico e finanziario risultavano dirette a tutelare lo Stato di diritto.
Nel 2020, tuttavia, l’esigenza di un pronto controllo sui fondi di cui al NextGenerationEU e l’incapacità di superare l’influenza esercitata dai Polonia e Ungheria, ha portato all’adozione di un meccanismo di condizionalità indebolito e funzionalizzato non più alla protezione del principio dello Stato di diritto bensì alla tutela della sana gestione finanziaria. Questa circostanza ha prodotto negli osservatori una certa preoccupazione circa la capacità dell’Unione di tutelare uno dei propri valori fondanti quale lo Stato di diritto. Nella versione di cui al Regolamento 2020/2092, infatti, tale valore diviene - potenzialmente - un mero strumento per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione, quasi che la tutela dello Stato di diritto potesse essere rilevante soltanto quando abbia un impatto sul bilancio dell’Unione. Queste osservazioni, poi, appaiono ancora più convincenti se considerate alla luce delle Conclusioni del Consiglio europeo del dicembre 2020, con le quali si subordinava l’operatività del Regolamento all’adozione di Linee guida da parte della Commissione in seguito alla pronuncia della Corte di giustizia sull’eventuale ricorso per annullamento presentato, oltre ad intervenire sull’interpretazione del Regolamento stesso rilevando la esaustività delle condizioni di cui all’art. 4.
Questi profili critici, per quanto non risolti - la funzionalizzazione del principio dello Stato di diritto sussiste ancora - appaiono però sicuramente ridimensionati alla luce delle Linee guida in commento (e delle sentenze del febbraio 2022). Infatti, al di là dei limiti strutturali che appartengono al Regolamento, una questione fondamentale era certamente quella relativa all’approccio che avrebbero adottato le Istituzioni europee con riguardo al suo funzionamento. Il rischio, in sostanza, era quello per cui la tutela già mediata dello Stato di diritto finisse per essere paralizzata da interpretazioni eccessivamente restrittive del testo. Le Linee guida della Commissione, al contrario, lasciano pensare all’intenzione dell’Unione di rispondere alle violazioni di cui al Regolamento con misure capaci di rendere effettivo il regime sanzionatorio, e per mezzo di questo anche la tutela dello Stato di diritto. Se, come abbiamo visto, la Commissione ha stabilito un programma operativo nel quale la connessione fra violazione dello Stato di diritto è sistemica e non meramente occasionale; se la tutela non dovrà limitarsi ad un intervento ex post ma potrà consistere anche nel prevenire le violazioni in questione; se, infine, le sanzioni potranno intervenire al di là dei fondi relativi alle risorse danneggiate dalla condotta dello Stato membro, si ritiene di poter affermare che il pericolo di rendere ineffettiva la tutela dello Stato di diritto appare in qualche misura ridimensionato.
Chi scrive non può omettere di riconoscere le criticità legate alla circostanza per cui l’effettività della tutela appaia garantita da un atto normativo come quello delle Linee guida, con tutte le conseguenze del caso, in primis sul piano della certezza del diritto; tuttavia, deve pure rilevarsi che, nell’ambito di un meccanismo di condizionalità frutto di compromessi al ribasso, le istituzioni dell’Unione - in questo caso specifico la Commissione europea, e prima ancora la Corte di giustizia con le sentenze già citate - hanno adottato un approccio il quale non riduce i valori dell’Unione a mero strumento, bensì tende a riconoscerli correttamente come elementi fondanti del processo di integrazione.
Questa conclusione, poi, appare a maggior ragione sostenibile, se si rivolge l’attenzione ad un aspetto specifico rappresentato dalla circostanza per cui la Commissione ha provveduto ad individuare come fonte di informazione ai fini del Regolamento anche le denunce presentate dai cittadini o dalle imprese dell’Unione, o da altri portatori di interessi («[u]n'altra preziosa fonte di informazione è costituita dalla presentazione di denunce motivate da parte di terzi che potrebbero essere a conoscenza di informazioni ed elementi di prova pertinenti in merito a violazioni dei principi dello Stato di diritto», par. 66). Le relative modalità operative appaiono particolarmente agevoli, essendo sufficiente segnalare - nei modi indicati dall’Allegato II delle Linee guida - la pretesa violazione ad uno specifico indirizzo di posta elettronica istituito ad hoc.
Tale possibilità, seppure inserita in un meccanismo di condizionalità inidoneo a soddisfare eventuali posizioni giuridiche del singolo, appare comunque rilevante perché rappresenta una importante occasione di contatto fra il cittadino e Istituzioni europee; occasione che, contestualizzata nell’ambito di possibili violazioni dello Stato di diritto, offre forse al cittadino europeo medio la possibilità di guardare all’Unione come progetto e realtà costituzionale, come spazio di condivisione di valori comuni, come Öffentlichkeit realizzabile e in parte realizzata.
24 Marzo 2022
La condizionalità nell’esperienza dell’Unione europea. Protezione del bilancio e valori costituzionali
The paper analyzes the various uses of conditionality in the experience of the European Union - from that relating to the access of third countries to the macroeconomic version that followed the crisis of 2008 - to focus on the mechanism of conditionality contained in EU Regulation no. 2092/2020, originally intended to protect the rule of law and used instead to protect the financial interests of the Union.
2 Dicembre 2021
Se la forma è sostanza: la Corte di Giustizia definisce il regime giurisdizionale degli atti adottati ex art. 7 TUE (causa C-650/18)
Il 3 giugno 2021 la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea si è pronunciata, respingendolo, sul ricorso per annullamento proposto dall’Ungheria (causa C-650/18) nei confronti di una risoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2018 con la quale quest’ultimo – nell’ambito della procedura di cui all’art. 7, par. 1 TUE - ha adottato una proposta motivata rivolta al Consiglio, affinché questo constatasse l’esistenza di un evidente rischio di violazione dei valori di cui all’art. 2 TUE.
L’Ungheria ha ritenuto illegittima la risoluzione impugnata in quanto adottata dal Parlamento europeo in violazione dell’art. 354, par. 4 TFUE e dell’art. 178, par. 3 del regolamento interno del Parlamento stesso. La ricorrente ha sostenuto, cioè, che la formula di cui all’art. 354, par. 4 TFUE <<[a]i fini dell'articolo 7 del trattato sull'Unione europea, il Parlamento europeo delibera alla maggioranza dei due terzi dei voti espressi>> doveva essere interpretata nel senso di considerare come voti espressi anche le astensioni, al contrario di quanto avvenuto in sede di approvazione della risoluzione impugnata. In quella sede, infatti, il Parlamento aveva proceduto escludendo le astensioni dal computo dei voti espressi – comunicando, peraltro, preventivamente tale scelta ai parlamentari– con il risultato di consentire l’approvazione della risoluzione (448 favorevoli, 197 contrari, 48 astenuti). A tale motivo principale andava poi ad aggiungersi in stretta connessione la denuncia della violazione dei principi di democrazia e parità di trattamento, e gradatamente quella relativa alla violazione del principio di certezza del giudizio (per via della mancata richiesta, da parte del Presidente del Parlamento europeo, di un parere della commissione affari costituzionali in merito alle modalità di votazione) e dei principi di leale cooperazione, buona fede, certezza del diritto e legittimo affidamento (secondo l’Ungheria il Parlamento non avrebbe potuto porre a fondamento della propria risoluzione anche i procedimenti d’infrazione promossi contro di essa da parte della Commissione, in quanto questi si porrebbero come una sorta di alternativa al procedimento di cui all’art. 7 TUE).
La Corte di Giustizia ha respinto tutti e quattro i motivi, partendo dalla considerazione per cui la locuzione <<voti espressi>> sia da interpretare come esclusivamente riferibile ai voti effettivamente espressi, e non alle astensioni. Prima di poterlo fare, tuttavia, ha dovuto risolvere una questione fondamentale circa la ricevibilità del ricorso, e cioè circa la possibilità stessa di poter impugnare la risoluzione con cui il Parlamento adotta una proposta motivata ex art. 7, par. 1 TUE, alla luce degli artt. 269 e 263 TFUE.
Per rispondere al quesito la Corte ha probabilmente speso il percorso argomentativo più interessante dell’intera decisione, superando da una parte le conclusioni avanzate dal Parlamento europeo, e dall’altra quelle presentate dell’Avvocato generale Michal Bobek.
Il primo, infatti, ha argomentato nel senso di escludere la competenza della Corte di Giustizia sulla risoluzione impugnata sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 269 TFUE quale lex specialis – rispetto all’art. 263 TFUE – diretta ad escludere un controllo giurisdizionale, seppur riguardo a profili procedurali, sugli atti adottabili ex art. 7 TUE che non siano constatazioni del Consiglio europeo o del Consiglio.
Tale interpretazione dell’art. 269 TFUE sarebbe – a detta del Parlamento – l’unica capace di tutelare l’elevato tasso di politicità della procedura di cui all’art. 7 TUE: ogni altra interpretazione finirebbe, insomma, per spostare sul piano giurisdizionale una discussione che invece è e dovrebbe rimanere prettamente politica.
D’altra parte, sostiene sempre il Parlamento, neppure sarebbe ammissibile immaginare un controllo giurisdizionale pieno ex art. 263 TFUE poiché mancherebbe la produzione di effetti giuridici nei confronti di terzi, in quanto: a) la risoluzione non vincola il Consiglio al darvi o meno seguito; b) anche quando si prendesse in considerazione la risoluzione nel contesto dell’articolo unico del protocollo (n. 24) sull'asilo per i cittadini degli Stati membri dell'Unione europea - per il quale l’avvio della procedura di cui all’art. 7, par. 1 TUE nei confronti di un Paese membro rende questo privo dello status di paese sicuro, con la conseguenza per gli altri Paesi membri di poter prendere in esame e dichiarare ammissibile una richiesta d’asilo proveniente da un cittadino dello Stato membro interessato – ciò non modificherebbe la qualità di detta risoluzione come misura intermedia e non definitiva.
L’Avvocato generale, da parte sua, ha proposto un approccio interpretativo del tutto opposto. Partendo, infatti, dal presupposto per cui <<l’Unione europea è un’Unione di diritto, nel senso che le sue istituzioni sono soggette al controllo della conformità di tutti i loro atti, segnatamente, ai Trattati, ai principi generali del diritto nonché ai diritti fondamentali>>, e dalla circostanza per la quale dopo il Trattato di Lisbona la Corte di Giustizia ha competenza – eccetto esclusioni espresse - su tutti gli atti dell’Unione che producano effetti giuridici, egli ha considerato l’art. 269 TFUE come norma sistematicamente preposta a specificare una competenza della Corte (quella sugli aspetti procedurali relativi alle constatazioni del Consiglio europeo e del Consiglio ex art. 7 TUE), lasciando impregiudicata però la competenza ex art. 263 su tutti gli altri atti adottati nell’appena menzionata procedura.
Da qui, dunque, l’impugnabilità ex art. 263 TFUE della risoluzione con cui il Parlamento ha adottato la proposta motivata di cui all’art. 7, par. 1.
Dovendo ora passare al percorso argomentativo adottato dalla Corte, occorre segnalare come quest’ultima – seppur concludendo per la ricevibilità del ricorso – sembra far proprio, oltre all’approccio sistematico proposto dall’Avvocato generale, anche quello funzionale avanzato dal Parlamento.
La Corte parte dal presupposto per cui a) le risoluzioni del Parlamento non sono menzionate nell’art. 269 TFUE, e b) lo stesso articolo deve essere interpretato in maniera restrittiva in quanto limitazione della competenza della Corte sugli atti delle Istituzioni dell’Unione; da qui il primo approdo intermedio per cui la risoluzione impugnata non rientra tra gli atti esclusi dal controllo giurisdizionale. Ciò premesso, la Corte si appresta a valutare l’ammissibilità di un controllo giurisdizionale ex art. 263 TFUE, con specifico riferimento agli effetti giuridici prodotti: <<Nel caso di specie, occorre rilevare che l’adozione della risoluzione impugnata avvia la procedura prevista all’articolo 7, paragrafo 1, TUE. […] l’adozione della risoluzione impugnata produce l’effetto immediato di revocare il divieto che incombe, in linea di principio, sugli Stati membri di prendere in esame o di dichiarare ammissibile all’esame una domanda d’asilo presentata da un cittadino ungherese. Tale risoluzione modifica quindi, nei rapporti tra Stati membri, la situazione dell’Ungheria nel settore del diritto di asilo. La risoluzione impugnata produce pertanto effetti giuridici vincolanti sin dalla sua adozione e fino a quando il Consiglio non si sia pronunciato sul seguito da darvi>>.
Arrivata, dunque, al punto di poter affermare la possibilità di un controllo giurisdizionale ex art. 263 TFUE sulla risoluzione impugnata – e dopo aver adoperato, seppur in modo parzialmente differente, il criterio interpretativo sistematico proposto dall’Avvocato generale – la Corte decide di valorizzare l’approccio funzionale avanzato dal Parlamento europeo, nella misura in cui questo si pone come opzione obbligata al fine di tutelare il tasso di politicità insito nella procedura di cui all’art. 7 TUE. Difatti, la Corte ammette la possibilità di impugnare la risoluzione con cui il Parlamento europeo adotta una proposta motivata affinché il Consiglio constati l’evidente rischio di una violazione grave dei valori fondanti l’Unione, ma collega tale tutela giurisdizionale a due limitazioni specifiche (una soggettiva e l’altra oggettiva) presenti proprio in quell’art. 269 TFUE preposto a valorizzare l’elemento di politicità presente nella procedura di cui all’art. 7 TUE: <<un ricorso di annullamento introdotto, ai sensi dell’articolo 263 TFUE, avverso una proposta motivata adottata dal Parlamento a norma dell’articolo 7 TUE può essere proposto unicamente dallo Stato membro oggetto di tale proposta entro il termine di due mesi a decorrere dalla sua adozione. Inoltre, i motivi di annullamento dedotti a sostegno di un siffatto ricorso possono vertere unicamente sulla violazione delle norme di carattere procedurale di cui all’articolo 7 TUE>>.
La Corte, sostanzialmente, dà vita ad un nuovo ricorso per annullamento i cui caratteri derivano dall’incontro di due disposizioni, gli artt. 263 e 269 TFUE, plasmando così un ircocervo giuridico che tenta di porsi da un lato a difesa del concetto di Unione europea come unione di diritto – tutelando perciò uno degli elementi essenziali della rule of law, e cioè la tutela giurisdizionale – e dall’altro valorizza la funzione della procedura di cui all’art. 7 TUE quale strumento di extrema ratio (sul punto, v. sempre su questa Rivista), connotato da una marcata politicità.
Ad ogni modo, alla luce dell’attivazione della procedura di cui all’art. 7 TUE nei confronti dell’Ungheria e della Polonia (sul punto v. proposta della Commissione del 20 dicembre 2017) e del loro stallo, e alla luce pure dell’appena descritto approccio della Corte, la quale finisce comunque per preferire un approccio formale-procedurale sul piano della tutela giurisdizionale, astenendosi dal valutare nel merito la risoluzione oggetto di ricorso, l’impressione che sembra riconfermarsi è quella per cui l’Unione e le sue Istituzioni rischino di cadere nella trappola del formalismo e/o dell’effetto annuncio.
Infatti, questa decisione – pur difendendo la necessità di un controllo giurisdizionale esteso a tutti gli atti adottati dalle Istituzioni dell’Unione – non arriva ad abbracciare l’opzione avanzata dall’Avvocato generale, la quale avrebbe permesso dal canto suo un sindacato anche nel merito rispetto alla risoluzione impugnata.
Tale approccio, che potremmo forse definire autolimitante, non è d’altronde totalmente nuovo per gli osservatori e gli studiosi delle vicende europee. Da ultimo, infatti, sempre nel contesto della protezione dei valori di cui all’art. 2 – e precisamente dello Stato di diritto -, l’Unione ha dimostrato un’attitudine al formalismo che finisce per fallire, o comunque ridimensionare gli obiettivi che si propone; uno degli esempi più recenti che viene all’attenzione è il Regolamento UE n. 2092 del 2020 con il quale si è istituito un meccanismo di condizionalità economica il quale sanziona le violazioni dello Stato di diritto soltanto quando queste siano occasione di pericolo per il bilancio dell’Unione; al momento della sua proposta, tale regolamento aveva ambizioni ben superiori, intento a porsi quale strumento di tutela generale dello Stato di diritto, e non invece del solo bilancio. Una posizione di compromesso che certamente provoca alcune perplessità.
In entrambi i casi - in quello oggetto di queste brevi considerazioni e in quello relativo al Reg. Ue 2092/2020 - appare affermarsi un approccio che, se certamente è comprensibile dal punto di vista politico, non lo è altrettanto nella prospettiva di uno spazio giuridico tendente ai caratteri di un ordinamento costituzionale. La decisione in commento è certamente un approdo rilevante e un’opzione preferibile alla generale esclusione del controllo giurisdizionale sugli atti menzionati; e tuttavia, rende l’idea di un passo del processo di integrazione che potrebbe procedere con maggiore decisione.
22 Luglio 2021
Il Patto di stabilità e crescita tra sospensione e proposte di riforma. Un’occasione per ripensare le fiscal rules?
Con una Comunicazione al Consiglio del 3 marzo 2021, la Commissione europea ha confermato le proprie posizioni dell’anno precedente riguardo l’attivazione della c.d. “clausola di salvaguardia generale” del Patto di stabilità e crescita (PSC): la grave recessione causata dalla pandemia autorizza gli Stati membri ad allontanarsi temporaneamente dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di bilancio a medio termine.
Presa da sé, la notizia non sconvolge gli osservatori. I dati epidemiologici ed economici, insieme agli sforzi finanziari di ciascuno Stato membro per contrastare gli effetti della crisi, lasciavano prevedere che – almeno per l’anno corrente – non si sarebbe tornati ad applicare il regime di fiscal rules preesistente alla pandemia. La Comunicazione, tuttavia, sembra offrire al lettore più di quanto appaia ad una prima lettura.
Infatti, oltre a ribadire la necessità di sospendere il PSC, la Commissione abbozza i criteri che dovranno guidare la scelta riguardo la disattivazione della clausola di salvaguardia: «la decisione sulla disattivazione o sul mantenimento della clausola di salvaguardia generale dovrebbe essere presa nel quadro di una valutazione globale dello stato dell'economia sulla base di criteri quantitativi. […] La disattivazione della clausola dovrebbe essere subordinata allo stato dell'economia nell'UE e nella zona euro, riconoscendo che ci vorrà del tempo prima che l'economia torni a condizioni più vicine alla normalità […] Il livello dell'attività economica nell'UE o nella zona euro rispetto ai livelli precedenti la crisi (fine 2019) costituirebbe pertanto, a parere della Commissione, il principale criterio quantitativo per valutare nel complesso l'opportunità di disattivare o di mantenere la clausola di salvaguardia generale. […] Le attuali indicazioni preliminari suggeriscono pertanto di continuare ad applicare la clausola di salvaguardia generale nel 2022 e di disattivarla a partire dal 2023».
La Commissione, dunque, chiarisce che il PSC – e con sé tutto il complesso delle regole che governano a livello europeo la formazione dei bilanci nazionali – sarà riattivato solo quando le condizioni economiche dell’Unione e dell’Eurozona lo permetteranno, e cioè quando si sarà raggiunto il livello di attività economica precedente alla crisi. Allo stato, e tenendo in considerazione le previsioni economiche invernali 2021 della Commissione, è previsto che una simile condizione si possa verificare entro il 2022, rendendo plausibile una riattivazione del PSC entro il 2023.
Il che, tuttavia, sembra voler significare anche qualcosa di più. Nel 2022, infatti, le stesse previsioni riportano il dato per cui i valori di Austria, Spagna, Grecia e Italia saranno al di sotto della media dell’Eurozona (percentuale di PIL del 2022 su quello del 2019, rispettivamente del: 99,3%, 99,0%, 97,8%, 97,6%); alla riattivazione del PSC questi Paesi, insomma, non saranno ancora usciti dalla crisi. Sul punto, la Commissione tranquillizza, sostenendo che: «[s]e in uno Stato membro l'attività economica non sarà tornata ai livelli precedenti la crisi, saranno sfruttate appieno tutte flessibilità nell'ambito del patto di stabilità e crescita, in particolare nel proporre orientamenti in materia di politica di bilancio». Flessibilità, quindi, ma anche proposte di orientamenti in materia di politica di bilancio: un conforto sibillino, potrebbe dire qualcuno.
Ad ogni modo, quello che appare utile evidenziare in questa sede è che, attorno all’affidamento della Commissione nella riattivazione del PSC, gravita una ricca compagine di proposte le quali – ciascuna secondo la propria peculiarità – lasciano emergere la sostanziale inadeguatezza dell’attuale Patto a fronteggiare le sfide che attendono l’Unione e gli Stati membri per gli anni che verranno. Proprio al fine di avere contezza di cosa sarà del principale strumento di coordinamento dei bilanci nazionali, si rende utile effettuare una breve rassegna delle ipotesi di modifica del Patto di stabilità e crescita avanzate fino ad ora, comprendendo sia quelle già emerse prima dell’emergenza pandemia e sia quelle presentate dopo l’irrompere della crisi.
Quanto alle prime, la maggioranza di queste parte dal presupposto che le attuali regole europee siano caratterizzate da un tasso di complessità politica e giuridica tale da rendere le regole stesse incapaci di proteggere gli obiettivi cui sono preposte (sul punto Z. Darvas, P. Martin, X. Ragot, C. Kamps; N. Leiner-Killinger; O. Blanchard). La proposta di Olivier Blanchard (capo economista del Fondo monetario internazionale dal 2008 al 2015) del 2019, in particolare, reputa auspicabile l’abbandono delle vigenti regole in quanto queste – mosse dall’intento di vincolare le condotte fiscali dei Paesi membri – finiscono per regolare micro-manifestazioni di deviazione dagli obiettivi di bilancio, senza però essere utili a guidare lo sviluppo macroeconomico della singola economia nazionale.
Alla critica alle regole in quanto tali si aggiunge poi un rilievo più propriamente sistemico (R. Fargnoli), con il quale si richiama l’attenzione sul classico tema della mancanza di una vera e propria politica fiscale europea. Quest’ultima, infatti, insieme agli effetti di una politica monetaria di sostegno, è vista come l’unico elemento capace di contribuire al superamento delle note difficoltà di applicazione delle fiscal rules. In sostanza, l’evenienza di un debito comune permetterebbe di risolvere diffidenze reciproche e la necessità di politiche fiscali nazionali “arrischiate”. Tutto questo, insieme al superamento dei criteri prevalentemente quantitativi del PSC («[a] quantitative evaluation of fiscal variables would not dominate the qualitative assessment of the overall strategy. The plan would be refused in case of gross-policy errors not addressed in the negotiation phase. […] In all the other cases, where gross-policy errors are not clearly identified, but the EU and national authorities cannot agree on the content of the plan, a critical opinion would be issued. The critical opinion is aimed at giving some credits to national authorities in pursuing their policy strategy»), aprirebbe il campo ad un dialogo politico più sano e produttivo di quanto sperimentato fino ad ora.
Nel filone della modifica dei criteri di valutazione delle condizioni finanziare dello Stato membro si inserisce, infine, la proposta di valutare debito e deficit non più rispetto al prodotto interno lordo, bensì rapportandoli all’insieme delle entrate statali (Enrico D’Elia). Tale cambiamento avrebbe il pregio di sfuggire dalle incertezze di un dato statistico (il PIL), recuperando così in termini di qualità, trasparenza e concretezza delle valutazioni sulle politiche nazionali di bilancio.
Quanto alle proposte di modifica del PSC successive all’affermarsi della crisi pandemica, sembra che i principali profili innovativi rispetto alle precedenti siano due: l’attenzione per gli investimenti (in particolare quelli rivolti alla sostenibilità ambientale) e il rafforzamento della critica contro il sistema giuridico di gestione delle politiche di coordinamento dei bilanci, nella misura in cui risulta caratterizzato da regole eccessivamente rigide.
Il primo profilo è stato affrontato direttamente dallo European Fiscal Board con il Report 2020. In quella sede, infatti, si è espressa la necessità di passare da un sistema di valutazione essenzialmente basato sul debito ad uno più attento alla spesa pubblica, con particolare riguardo alla sua qualità. La proposta è quella di una c.d. expenditure rule tesa da una parte a limitare la spesa corrente e dall’altra a promuovere gli investimenti; questi, oltre ad essere promossi dalla modifica dei criteri di valutazione, dovrebbero essere sostenuti tramite il loro scomputo dal bilancio (c.d. golden rule). Su quest’ultimo tema, poi, le posizioni non sono univoche dacché, se da una parte c’è chi invoca una golden rule generale per gli investimenti (D. Gros, M. Jahn), dall’altra c’è chi pone l’attenzione sulla necessità che molti degli sforzi degli Stati membri vadano verso il raggiungimento della sostenibilità ambientale (A. Pekanov, M. Schratzenstaller) e che perciò il PSC (o meglio, il relativo Codice di condotta) preveda una specifica ipotesi di flessibilità per gli investimenti green, consentendo così brevi deviazioni dal percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine; in alternativa, si propone che le spese sostenute per la medesima categoria di investimenti siano oggetto di una green golden rule.
Il secondo profilo è stato oggetto di un lavoro a cura di O.Blanchard, A. Leandro, J. Zettelmeyer con il quale – oltre ad approfondire lo studio del 2019 citato supra, e partendo dal presupposto per cui ciascuna regola, in quanto tale, è esposta al rischio dell’obsolescenza e dell’inadeguatezza – gli autori propongono di affidare il coordinamento delle politiche fiscali (e i criteri di valutazione della sostenibilità del debito) a standards elastici. In sostanza, il passaggio sarebbe quello che porterebbe dalla valutazione attraverso limiti alla valutazione per obiettivi, ed il punto di partenza dovrebbe essere individuato nell’art. 126, par. 1 del TFUE (“Gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi”). Da qui seguirebbe la definizione di criteri di valutazione a mezzo della legislazione secondaria dell’Unione, riservando alla Commissione la sorveglianza e finanche il potere di sospensione delle decisioni di bilancio ritenute incoerenti con la sostenibilità del debito. In caso di contrasto tra Paese membro e Commissione, questo dovrebbe essere risolto dalla Corte di giustizia, con il pregio di dar vita ad una fiscal standard case law e di evitare che la soluzione della controversia sia affidata ad un organo politico come il Consiglio.
Questo, in breve, il tenore delle proposte che gravitano attorno al futuro del Patto di stabilità. A chi scrive sembra di poter affermare che il dibattito chiarisca il motivo per cui, se i dubbi sul come e sul quando sono più che legittimi, altrettanto non valga per le ipotesi di ritorno ad una sorta di pre-PSC: la sospensione è momentanea, e prima o poi la clausola di salvaguardia generale verrà disattivata.
Quello che è certo è che la pandemia, insieme alla necessità di una risposta efficace dell’Unione e degli Stati, ha dimostrato come le regole vigenti siano esposte al rischio dell’inutilizzabilità. Partendo da qui – e ricordando che ciascuna crisi può essere ritenuta superabile solo quando il sistema che la vive si dimostri capace di darsi un’identità (J. Habermas, Legitimation crisis, 1976), a rischio di disintegrarsi – l’auspicio è allora quello per cui l’emergenza attuale diventi l’occasione di riscoprire un’identità europea che, in tema di fiscal rules, sia emancipata dal mito (a volte falso) della austerità, e più vicina alle logiche della collaborazione e della solidarietà.10
10 Maggio 2021