Francesco Pennesi
Nel nome della stabilità dei prezzi? La Corte di Giustizia approva il Quantitative Easing della Banca Centrale Europea (Nota a sentenza C-493/17, Weiss e a.)
Il Public sector asset purchase programme (PSPP), comunemente chiamato Quantitative Easing (QE), rappresenta sicuramente il più conosciuto e controverso strumento non convenzionale adottato dalla Banca Centrale Europea (BCE) durante la crisi finanziaria. Attraverso il QE, la BCE ha acquistato i titoli di stato dei paesi della zona euro, con l’obiettivo di combattere la deflazione ed aiutare gli stati membri più colpiti dalla crisi economica a finanziarsi sui mercati. Il caso Weiss, vertente sulla legalità di questo programma, rappresenta l’ennesimo tentativo di dialogo tra la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale tedesca sul mandato monetario della Banca Centrale Europea (BCE). Esattamente come in Gauweiler, il rinvio pregiudiziale da Karlshue è avvenuto dietro la “velata minaccia” dei giudici tedeschi di dichiarare, a prescindere dall’esito del rinvio, le misure della BCE ultra vires, impedendo alla Bundesbank di eseguire il Quantitative Easing. Una tale decisione avrebbe effetti dirompenti sull’efficacia del programma, dato che gli acquisti previsti dal QE vengono implementati dalle banche centrali nazionali. In risposta, la Corte di Giustizia ha rifiutato la richiesta dei giudici tedeschi di decidere il rinvio attraverso la procedura accelerata, impiegando più di un anno per rilasciare la sentenza. La decisione dei giudici europei arriva pertanto a poco meno di un mese dalla conclusione del programma di acquisti, impedendo di fatto alla Corte tedesca di influenzarne l’efficacia. Se in Weightman la Corte di Giustizia ha accelerato oltre ogni previsione i propri tempi processuali per influenzare la decisione del Parlamento inglese in materia di Brexit, in Weiss lo ha dilatato allo scopo di stemperare il proprio conflitto con la Corte federale tedesca.
In questa sentenza, la Corte di Giustizia ha ratificato la conformità del QE ai trattati europei, ripetendo in larga parte quanto già decretato in Gauweiler. La Corte doveva rispondere a due diversi quesiti di rilevanza costituzionale. Prima di tutto, i giudici dovevano decidere se il programma potesse essere considerato una misura di politica monetaria. Com’è noto, la BCE ha competenza esclusiva in materia monetaria (articoli 127 e 282 TFUE), mentre gli Stati Membri conservano il diritto di esercitare, previo coordinamento con le istituzioni europee, le politiche nazionali di bilancio. Il problema è che le due competenze sono strettamente correlate, con la conseguenza che decisioni di carattere monetario della BCE hanno grande influenza sulle politiche di bilancio degli Stati membri (e viceversa). Per esempio, l’acquisto di titoli di stato previsto dal QE ha avuto l’effetto di calmierare il tasso di interesse che gli Stati Membri devono pagare per finanziare il proprio debito pubblico sui mercati, esercitando un’influenza importante sulle loro decisioni di bilancio. Come distinguere le due competenze?
Ribadendo in larga parte quanto decretato in Gauweiler, i giudici europei hanno confermato che al fine di stabilire se una misura rientri nella politica monetaria della Banca, non occorre fare riferimento agli effetti della stessa, ma agli obiettivi perseguiti e gli strumenti utilizzati (par.53). Le politiche monetarie, siano esse convenzionali (quali l’adozione dei tassi di interesse), quanto non convenzionali (quali il massiccio acquisto di titoli di stato dei paesi dell’eurozona), hanno sempre l’effetto di incidere sulle politiche di bilancio degli Stati Membri. Il fatto che le politiche della BCE abbiano degli effetti di ricaduta sulle decisioni fiscali degli Stati Membri non ne inficia la validità, né tantomeno il loro carattere “monetario”.
Il sindacato dei giudici non si estende pertanto agli effetti economici delle misure della BCE, ma si limita a valutare se l’obiettivo dichiarato dalla BCE rientri o meno tra quelli stabiliti dai Trattati, se il mezzo scelto dall’Istituto di Francoforte sia legale, e se vi sia proporzionalità tra l’obiettivo perseguito ed il mezzo scelto per realizzarlo (par.53). Il QE aveva come obiettivo quello di combattere la spinta deflazionistica che attanagliava la zona euro durante la crisi economica. Per la Corte, il QE persegue quindi un obiettivo chiaramente in linea con la lettera dei Trattati (stabilità dei prezzi), utilizzando dei mezzi, cioè l’acquisto nel mercato secondario di attività finanziarie, espressamente previsti dall’art. 18 dello Statuto. La Corte ritiene inoltre che l’Istituto di Francoforte abbia adottato le necessarie precauzioni al fine di assicurare che gli acquisti siano proporzionati all’obiettivo di combattere la deflazione. Prima di tutto, il QE ha carattere temporaneo, dato che la BCE si è impegnata nell’acquisto di titoli di stato fintanto che essi siano necessari per raggiungere l’obiettivo perseguito. Inoltre, il volume e la qualità dei titoli oggetto del QE sono decisi preventivamente a livello mensile, proprio per assicurare un intervento sui mercati proporzionale al mandato della BCE. Tanto la temporaneità quando la flessibilità del QE vengono ritenuti sufficienti dalla Corte per soddisfare il test di proporzionalità, dato che l’istituto può tanto dismettere, quanto modulare le acquisizioni in base alla loro capacità di raggiungere l’obiettivo della stabilità dei prezzi.
Il secondo quesito a cui la Corte era chiamata a rispondere consisteva nel valutare la compatibilità del QE con il divieto di finanziamento monetario previsto dall’art. 123 TFUE. I Trattati proibiscono infatti alla Banca di acquistare titoli sovrani nel mercato primario, direttamente dagli Stati al momento dell’emissione. Sebbene tali operazioni nel mercato secondario siano invece permesse dall’art. 18 dello Statuto della BCE, il divieto sarebbe di fatto aggirato se i soggetti privati, confidando nel sicuro riacquisto da parte della Bce, comprassero i titoli a prescindere dal loro valore di mercato, agendo de facto come “intermediari” dell’Istituto di Francoforte. Il QE, diminuendo il costo di finanziamento per istituti di credito e Stati Membri, potrebbe sembrare in antitesi con il fine ultimo dietro tale divieto, ovvero quello di assicurare che i governi nazionali seguano una politica di bilancio virtuosa.
La Corte sottolinea che, nonostante il massiccio volume di titoli acquistati dalla BCE, i soggetti privati non possono “prevedere con certezza se determinati titoli verranno effettivamente riacquistati, sui mercati secondari, nell’ambito del PSPP” (par. 117). Secondo i giudici, sebbene la BCE renda pubbliche le proprie intenzioni di acquisto, fa sempre intercorrere un certo periodo tra l’emissione dei titoli e la loro effettiva acquisizione (“periodo di black-out”), proprio per permettere al mercato di “prezzare” tali prodotti finanziari. Inoltre, il fatto che il volume e la qualità di tali acquisti sia predeterminata dalla BCE, nonché soggetta a specifiche soglie massimali, espone i soggetti privati al rischio di “non poterli rivendere al sistema di Banche Centrali nazionali sui mercato nazionali, essendo in ogni caso escluso un acquisto della totalità dei titoli emessi” (par.125).
I giudici ritengono inoltre che il QE non faccia venire meno la disciplina di mercato nei confronti delle politiche fiscali nazionali. L’incertezza relativa all’acquisto dei titoli non riguarderebbe soltanto i prenditori privati, ma anche gli Stati Membri emittenti. Questo assicura che il QE sia in linea con lo scopo ultimo del divieto di finanziamento monetario, ovverosia assicurare che gli Stati Membri attuino una politica fiscale responsabile. Prima di tutto, i governi nazionali non possono contare sul supporto incondizionato della BCE, dato che quest’ultima effettua gli acquisti solo finché il programma è ritenuto necessario per la stabilità dei prezzi. Inoltre, il tetto massimo previsto al volume di acquisti assicura che ciascuno Stato Membro, nonostante il supporto del QE, debba comunque collocare la maggior parte dei propri titoli presso investitori privati. Il fatto che poi che gli acquisti nel contesto del QE siano condizionati al possesso, da parte degli Stati Membri, di un certo livello di rating creditizio, impone ai governi nazionali politiche di bilancio virtuose per continuare a beneficiare del programma Infine, è bene ricordare che nel QE le acquisizioni vengono implementate direttamente dalle Banche centrali nazionali e sono proporzionate alla percentuale del capitale della Bce posseduto da queste ultime. Questo significa che gli acquisti non avvengono in base al bisogno di spesa dei singoli paesi, ma sono invece proporzionati alla grandezza delle economie nazionali. Per la Corte, questi elementi sono sufficienti per assicurare la compatibilità tra il QE e la disciplina fiscale degli Stati Membri.
Dall’analisi effettuata dalla Corte di Giustizia sul mandato monetario della BCE e sull’interpretazione dell’art. 123, appare evidente come i giudici tedeschi e quelli europei siano portatori di due visioni antitetiche sul controllo da adottare nei confronti della BCE. I giudici tedeschi vorrebbero un controllo sostanziale, che entri nel merito delle scelte di carattere tecnocratico adottate dall’istituto di Francoforte, e limiti fortemente la possibilità della BCE di adottare misure non convenzionali, non espressamente previste dai Trattati. Il modello tedesco non appare adatto al contesto in cui opera la BCE. Un controllo giudiziale forte porterebbe a sostituire il giudizio tecnico della BCE, fortemente specializzato, con quello dei giudici, i quali non posseggono le competenze tecniche necessarie. Inoltre, i tempi che scandiscono le decisioni di carattere monetario della BCE sono estremamente brevi, dovendo rispondere alla volatilità dei mercati, e risultano assolutamente incompatibili con le lunghezze tipiche del controllo giudiziale. Nonostante tali limiti, la Corte costituzionale tedesca intende continuare a monitorare strettamente l’operato della BCE. L’operazione può dirsi in parte riuscita, dato che l’Istituto di Francoforte opera comunque sotto la continua minaccia di una sentenza dei giudici tedeschi che giudichi ultra vires un atto della BCE. La maniera bizantina in cui il QE è stato implementato, con gli acquisti eseguiti dalle Banche centrali in base alle quote di capitale posseduto nel bilancio della BCE, invece che dove vi fosse più bisogno in accordo con gli obiettivi monetari dell’Istituto, sono una chiara dimostrazione delle ripercussioni pratiche dell’attivismo giudiziale dei giudici di Karlsruhe.
D’altra parte, il controllo “debole” proposto dalla Corte di Giustizia appare molto più in linea con la natura tecnocratica ed indipendente propria della BCE. Già in Gauweiler, i giudici europei avevano specificato che “quando la BCE procede a scelte di natura tecnica ed effettua previsioni e valutazioni complesse, occorre riconoscergli, in tale contesto, un ampio potere discrezionale”. In Weiss, la Corte conferma in larga parte il potere della BCE di decidere autonomamente i limiti del proprio mandato monetario, promettendo soltanto un sindacato molto formale sulle scelte effettuate dall’Istituto di Francoforte. Gli autori dei Trattati non hanno inteso né “determinare con precisione il modo in cui tale obiettivo doveva essere concretizzato sul piano quantitativo” (par.55), né tantomeno “operare una separazione assoluta tra la politica economica e quella monetaria” (par. 60). Pertanto, la scelta su dove finisca la politica monetaria (della BCE) e dove inizi quella fiscale (degli Stati Membri) non viene effettuata con chiarezza dalla Corte di Giustizia, ma sembra piuttosto essere lasciata al rapporto politico tra i governi nazionali e l’Istituto di Francoforte, da svilupparsi nell’alveo “dell’equilibrio istituzionale stabilito dalle disposizioni contenute nel titolo VIII del TFEU”.
20 Dicembre 2018
N.W and others v. Sanofi Pasteur (Caso C-621/2015): La Corte di Giustizia, i vaccini ed il valore del dato scientifico nel processo in Europa.
Qual è il rapporto tra la scienza ed il diritto in Europa? Non buono, almeno a giudicare dalla recente sentenza N.W and others v. Sanofi Pasteur (Caso C-621/2015). Il caso riguarda un’azione extracontrattuale intrapresa in Francia dai familiari di N.W., il quale aveva contratto la sclerosi multipla due mesi dopo la somministrazione di un vaccino contro l’epatite b. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione francese, il breve lasso di tempo intercorso tra la somministrazione del vaccino e l’insorgere della malattia, unito all’assenza di precedenti casi familiari di sclerosi multipla, costituirebbero indizi sufficientemente “gravi, precisi e concordanti” al fine di presumere un nesso causale tra il medicinale e la morte di N.W. Si tratta di un orientamento chiaramente anti-scientifico, dato che l’insieme delle autorità sanitarie nazionali ed internazionali ha da tempo escluso qualsiasi associazione tra la sclerosi multipla e la vaccinazione per l’epatite b. In dubbio sulla compatibilità tra tale giurisprudenza e la direttiva in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, i giudici francesi hanno chiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sul valore del dato scientifico nel libero convincimento del giudice riguardante i casi di vaccini.
Sorprendentemente, tanto l’Avvocato Generale quanto la Corte hanno negato la necessità di provare attraverso dati e studi scientifici la relazione tra la somministrazione di vaccini e malattie genetiche, sostenendo che il mancato consenso della comunità scientifica su tale legame può essere superato attraverso presunzioni semplici. In particolare, la direttiva prevede che spetta al danneggiato l’onere di provare il danno ed il difetto del prodotto difettoso, nonché il nesso causale tra difetto e danno (art. 4). Secondo la Corte, costringere il danneggiato a fondare la sua domanda risarcitoria su dati scientifici renderebbe troppo gravoso l’onere della prova, risultando leso il principio di effettività, secondo cui la normativa europea deve essere applicata in maniera efficace e dispiegare interamente i suoi effetti a livello nazionale. Inoltre, la Corte non ha deciso di fermarsi ad un’analisi generale dell’onere probatorio ai fini della direttiva, ma ha anche sottolineato che, nel caso di specie, gli indizi allegati dai famigliari di N.W. “sembrano a prima vista costituire indizi la cui compresenza potrebbe, eventualmente, indurre un giudice nazionale a ritenere che un danneggiato abbia assolto l’onere della prova su di lui gravanti ai sensi dell’art. 4 della direttiva 85/374”.
Si tratta di una decisione che, pur trattando questioni di carattere procedurale attinenti all’onere probatorio, ha fortissime ripercussioni sul piano sostanziale. Prima di tutto, la teoria causale proposta dall’Avvocato generale e dalla Corte non appare in linea con i più avanzati studi in materia, secondo i quali per avere un nesso di causalità tra due elementi di fatto occorre che tale correlazione sia provata in maniera scientifica. Mettere sullo stesso piano delle evidenze basate sul metodo scientifico e delle presunzioni semplici fondate su fatti circostanziali vuol dire riportare al centro del processo la “intuizione giudiziale”, un evento che dovrebbe preoccupare chi vede nel diritto una scienza sociale. Emblematica risulta essere una nota dell’Avvocato generale, in cui lo stesso propone un’analogia tra i vaccini ed il caso di varie persone che si ammalano dopo una cena al ristorante. Secondo l’Avvocato generale, in mancanza di altra spiegazione plausibile, la responsabilità della malattia dovrebbe essere ricondotta al ristoratore. Ad avviso di chi scrive, l’assenza di altre cause non basta per potersi avere un nesso causale: se accettiamo l’equiparazione del vaccino ad un pasto consumato al ristorante, allora deve essere dimostrata la responsabilità di quel ristoratore e di quel determinato pasto attraverso i più rigorosi criteri scientifici. Pertanto, permettere al danneggiato di invertire l’onore della prova nei confronti del produttore di vaccini semplicemente allegando il breve lasso di tempo trascorso tra somministrazione e l’insorgere della malattia vuol dire condannare il convenuto ad una probatio diabolica: se la comunità scientifica ha escluso l’esistenza di una relazione tra il vaccino contro l’epatite b e la sclerosi multipla, cosa deve fare di più il produttore per evitare la responsabilità? Dato che tutti i soggetti (dovrebbero) effettuare (almeno) le vaccinazioni obbligatorie per legge, dopo questa sentenza i vaccini rischiano di diventare la “causa di ultima istanza” di ogni malattia di cui non si conoscono ancora perfettamente le cause, quali per esempio la sclerosi multipla.
In secondo luogo, lo scopo della direttiva oggetto della sentenza risiede nella protezione dei consumatori. Questi si proteggono allineando la propria giurisprudenza alle ultime risultanze della comunità scientifica, in modo da evitare che movimenti dichiaramente anti-vaccinisti possano utilizzare i tribunali europei come strumento di lotta politica per affermare la loro “verità”, come già successo in Italia con la c.d. “cura Stamina”, rivelatosi poi una gigantesca frode ai danni dei più deboli, i malati terminali ed i loro familiari. I consumatori hanno bisogno e diritto a vaccinarsi al fine di preservare la propria salute, mentre questa sentenza rappresenta de facto un regalo a coloro che remano nella direzione opposta, per ignoranza o opportunità.
In un momento storico delicato, ove il sapere scientifico si trova sotto attacco ed i governi nazionali sono costretti ad imporre le vaccinazioni per legge al fine di evitare il ritorno di malattie un tempo debellate, il giudice dovrebbe essere chiamato ad un certo livello di judicial self-restraint. La scienza ed il diritto non sono due pilastri mutualmente escludenti, ma possono integrarsi e rinforzarsi vicendevolmente. Purché, beninteso, il giudice non decida di sostituirsi allo scienziato.
3 Luglio 2017