L’ingloriosa fine della direttiva Data retention, la ritrovata vocazione costituzionale della Corte di giustizia e il destino dell’art. 132 del Codice della privacy*

Sommario: 1. Premessa 2. La decisione della Corte di giustizia e l’accertamento della violazione della Carta dei diritti fondamentali 3. Conclusioni. La ritrovata vocazione costituzionale della Corte di giustizia e il destino dell’art. 132 del Codice della privacy

 

1. Premessa

Con le decisioni riunite C-293/12 e C-594/12 dell’8 aprile 2014, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha superato un suo precedente (e criticabile) orientamento giurisprudenziale e, facendo proprie le perplessità espresse da molte giurisdizioni costituzionali nazionali, ha finalmente annullato la famigerata direttiva 2006/24/CE che obbligava i gestori di servizi di telecomunicazione a conservare tutti i dati connessi alle comunicazioni elettroniche e su richiesta a fornirli alle autorità investigative e alla magistratura. Come è facile immaginare, si tratta di un provvedimento giudiziario di grandissima importanza che, pur non risolvendo tutte le questioni connesse alla tutela della riservatezza della vita privata e alla protezione dei dati personali in Europa, apre importantissimi spiragli per interventi di tutela in ambito nazionale e che però solleva alcune questioni applicative di non poco momento. Con l’intento di prospettare un quadro delle ricadute che la decisione può avere sugli ordinamenti interni degli stati membri (con particolare riferimento al sistema normativo italiano), di seguito si richiameranno brevemente i passaggi salienti della sentenza e, dopo aver prospettato alcune questioni applicative relative al destino della normativa interna di attuazione, si cercherà di proporre alcune soluzioni costituzionalmente praticabili per evitare che la discutibile pratica della conservazione dei dati personali continui a produrre i suoi effetti nefasti.

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La pagliuzza nell’occhio della Banca centrale europea e la trave nell’occhio del Bundesverfassungsgericht

Con una decisione adottata a maggioranza di sei giudici a due (BverfG, 2BvR 2728/13 dello scorso 14 gennaio), il Bundesverfassungsgericht ha finalmente rotto la sua tradizionale ritrosia alla collaborazione con la Corte di giustizia e si è deciso a ricorrere allo strumento processuale previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Nonostante il comprensibile clamore suscitato da questo storico passo, occorre sottolineare da subito che, contrariamente a quanto sarebbe lecito attendersi, la decisione non si contraddistingue per un’apertura nei confronti dell’ordine giuridico sovranazionale, ma piuttosto sembra animata da una provocatoria volontà di mettere in difficoltà i giudici del Lussemburgo.

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