Emanuela Pistoia
Sul periodo intercorrente tra la notifica del recesso e la cessazione della partecipazione del Regno unito all’Unione europea
Lo scorso 29 marzo, la Primo ministro del Regno unito ha notificato al Consiglio europeo l’intenzione del suo Paese di recedere dall’Unione ai sensi dell’art. 50, par. 2, del Trattato sull’Unione europea (TUE). Ciò è avvenuto, come noto, all’esito del referendum dello scorso 23 giugno, di una sentenza (del 3 novembre 2016) con cui l’Alta corte ha statuito che il governo difettava della prerogativa costituzionale di esercitare il recesso dall’Unione europea, e infine della legge (lo European Union (Notification of Withdrawal) Bill, entrato in vigore il 16 marzo 2017) con cui, a seguito di tale sentenza, il Parlamento ha deliberato l’esercizio del recesso. Come chiarito dalla lettera, ex art. 106a del Trattato sulla Comunità europea dell’energia atomica, la notifica suddetta ha effetto anche nei riguardi di questa Comunità.
Dal 29 marzo ha preso così l’avvio il periodo di due anni in cui dovrà essere negoziato e concluso “un accordo volto a definire le modalità del recesso” (art. 50, par. 2). Quest’ultimo avrà effetto, se l’accordo sarà effettivamente stipulato, a decorrere dalla sua data di entrata in vigore; in mancanza di raggiungimento di un accordo, il recesso produrrà effetti allo scadere dei due anni, salva la proroga di tale termine dall’unanimità del Consiglio europeo d’intesa con il Regno unito.
Vi è grande abbondanza di sintesi e di commenti resi in argomento da soggetti istituzionali e da qualificati commentatori; le brevi osservazioni che seguono sono dedicate ai seguenti profili di interesse: lo status del Regno unito nell’Unione europea nel biennio che ha preso l’avvio dalla lettera di notifica; l’oggetto dei negoziati che nel biennio avranno luogo e dell’accordo che ne dovrebbe scaturire; la relativa procedura; la questione della revoca del recesso prima che questo si perfezioni, cioè a dire nel biennio suddetto.
In mancanza di disposizioni che stabiliscano un periodo transitorio e, anzi, in forza del fatto che, secondo l’art. 50, par. 3, “i trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dall’entrata in vigore dell’accordo di recesso” ovvero dopo 2 anni dalla notifica, dal 29 marzo al giorno in cui il recesso avrà effetto, la partecipazione del Regno unito all’Unione resta del tutto inalterata rispetto agli anni precedenti, cioè a dire è piena. Pieni i diritti di libera circolazione dei cittadini e delle imprese britanniche negli altri Stati dell’Unione, pieni i diritti di libera circolazione dei cittadini e delle imprese degli altri Stati nel Regno unito, pieni gli effetti delle norme dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali, della legislazione derivata, delle sentenze della Corte di giustizia, tra le quali particolarmente rilevano quelle adottate nei procedimenti pregiudiziali (perché rivolte ai giudici dello Stato recedente) e quelle di infrazione (perché rivolte allo Stato stesso, nella sua interezza). I giudici del Regno unito potranno continuare a rivolgere questioni pregiudiziali alla Corte, la Commissione (e ogni altro Stato membro) potrà continuare ad aprire procedure di infrazione nei riguardi del Regno unito, la Corte dovrà decidere sui relativi ricorsi pendenti, il Regno unito potrà continuare a proporre domande di annullamento (nonché ricorsi in carenza, per quanto più rari). I Ministri di Sua Maestà britannica continueranno a partecipare alle riunioni di Consiglio e Consiglio europeo e a esprimere il loro voto nelle deliberazioni, così come diplomatici e funzionari continueranno a partecipare ai lavori del COREPER e dei tavoli tecnici del Consiglio. Sul punto non lascia dubbi l’art. 50, par. 4 del TUE, che stabilisce la regola della mancata partecipazione del membro che rappresenta lo Stato recedente per le sole deliberazioni di Consiglio europeo e Consiglio sull’accordo di recesso. Infine, i parlamentari eletti nel Regno unito continueranno a partecipare ai lavori del Parlamento europeo. Si noti come le “modalità del recesso”, che dovranno essere oggetto dell’accordo previsto nell’art. 50, par. 2, non dovranno né potranno includere un regime transitorio al riguardo, essendo stabilito che la partecipazione all’Unione dello Stato recedente cessa all’entrata in vigore dell’accordo suddetto (ovvero, come detto, dopo 2 anni se questo non possa essere stipulato). D’altro canto, la sommaria elencazione dei perduranti pieni effetti della partecipazione del Regno unito all’Unione evidenzia quanto appropriato un regime transitorio sarebbe, in particolar modo riguardo ai rapporti istituzionali: la sua mancata previsione costituisce una lacuna dello stringato art. 50.
In particolar modo, le procedure pregiudiziali aperte in questi due anni, a meno che non abbiano carattere di urgenza, vanno incontro a sentenze inutiliter datae, perché pronunciate dopo che il diritto europeo cesserà di applicarsi al Regno unito. Ci si può dunque aspettare anzitutto l’esercizio di un certo self-restraint da parte dei giudici britannici. Ove questo non accadesse, cessando per l’appunto il diritto europeo di applicarsi al Regno unito, ci si può attendere che i procedimenti pendenti decadano ipso iure al momento del recesso. Mancando in verità una esplicita disposizione in tal senso, in alternativa la Corte di giustizia potrebbe pronunciarsi nel senso dell’inammissibilità delle domande: depone a favore di questa soluzione la posizione consueta della Corte secondo la quale, dovendo la sua sentenza pregiudiziale risultare necessaria al giudice nazionale per emanare una decisione su un certo punto, sono inammissibili le questioni mancanti del requisito della necessità. Le questioni su cui la Corte venisse a pronunciarsi dopo il recesso verserebbero infatti in una situazione analoga, in ragione del fatto che le disposizioni su cui vertono non saranno più applicabili dai giudici remittenti. Questo è uno dei punti che potrebbero essere affrontati nell’accordo di recesso.
La conclusione potrebbe essere diversa riguardo alle procedure di infrazione. Al momento ne risultano pendenti due, di cui una – è interessante sottolinearlo – iniziata dalla Commissione il 23 dicembre scorso, cioè a dire ben dopo il referendum sulla Brexit. Quest’ultima (causa C-669/16, ricorso pubblicato in GU C 63 del 27.02.2017, p. 18) riguarda l’asserita violazione della direttiva “Habitat”, n. 92/43/CEE (in GU 1992, L 206, p. 7); l’altra (causa C-502/15, ricorso pubblicato in GU C 16 del 18.01.2016, p. 14) il supposto inadempimento della direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane, n. 91/271/CEE (in GU 1991, L 135, p. 40). La cessazione della partecipazione del Regno unito all’Unione non dovrebbe essere di impedimento all’eventuale prosecuzione di queste procedure e alla pronuncia di eventuali sentenze dichiarative dell’inadempimento, dal momento che queste attengono a comportamenti passati. La Corte suole pronunciare sentenze di inadempimento anche quando i relativi comportamenti statali siano cessati, al fine di stabilire il fondamento dell’eventuale responsabilità dello Stato inadempiente nei confronti degli altri Stati membri dell’UE nonché dei singoli. Questa responsabilità non può venire meno con la perdita della qualità di membro, a meno che non sia diversamente disposto dall’accordo di recesso. Quanto alle procedure precontenziose, non sembra che la discrezionalità della Commissione possa estendersi alla decisione di accantonare quelle già iniziate contro il Regno unito. La discrezionalità attiene infatti alle valutazioni necessarie al fine di assicurare l’adempimento degli Stati membri, in ottemperanza al ruolo di vigilare sull’applicazione dei Trattati (art. 17, par. 1 del TUE) che appartiene a quest’istituzione.
Riguardo alle istituzioni politiche, mentre è nota la decisione del Commissario britannico di rassegnare le dimissioni dalla Commissione all’indomani del referendum in quanto “he did not think it was right he carried on as British commissioner as if nothing had happened” (The Guardian, 25 giugno 2016), l’attività delle altre tre istituzioni (Consiglio europeo, Consiglio e Parlamento europeo) è effettivamente proseguita senza novità derivanti dal referendum. In tal modo si continuerà fino all’effettivo recesso. L’unica modifica ha riguardato la ridefinizione delle trojke che costituiscono la Presidenza del Consiglio a rotazione. Infatti, la decisione del Consiglio 2009/908/UE prevedeva una presidenza del Regno unito nell’anno in corso (2017); con decisione del Consiglio 2016/1316 del 26 luglio 2016 (in GU L 208/42 del 2.8.2016) si è provveduto alla sua eliminazione.
Va sottolineato che, nell’ordinamento nell’Unione, la partecipazione al voto del membro del Consiglio il cui Paese non sarà investito dagli effetti di un certo atto legislativo ovvero di una certa decisione non è consueta. Così non è, invece, per il Parlamento europeo, riguardo al quale è bene puntualizzare che i “cambiamenti nella propria organizzazione interna” a seguito del referendum, annunciati nella risoluzione del 28 giugno 2016 (2016/2800(RSP), punto 12), non riguardano la partecipazione ai lavori dei 73 parlamentari eletti nel Regno unito. Questi hanno seguitato e seguiteranno a prendere parte alle sedute e al voto sia in plenaria che in commissione, senza riguardo al fatto che gli atti alla cui adozione contribuiscono o si oppongono presto non avranno più effetto nel loro Paese e riguardo ai loro elettori. Ebbene, diversamente che per Consiglio e Consiglio europeo, questo orientamento è coerente con le disposizioni dei Trattati riguardo alle procedure di adozione di atti privi di effetti nei confronti e/o nell’ambito di certi Stati membri, in particolar modo riguardo all’adozione di misure scaturite da cooperazioni rafforzate. Così, nella procedura di adozione di atti oggetto di cooperazione rafforzata (che si applica anche allo sviluppo dell’acquis di Schengen, grazie all’art. 5, par. 1, del Protocollo n. 19), il Parlamento europeo opera sempre nella pienezza della sua composizione Invece, in merito al Consiglio l’art. 20, par. 3 del TUE stabilisce che al voto prendano parte i soli rappresentanti degli Stati coinvolti e l’art. 330 del TFUE che nel computo dell’unanimità non si tenga conto dei rappresentanti degli Stati non partecipanti. Gli stessi principi si applicano in merito alle posizioni del Regno unito, dell’Irlanda e della Danimarca riguardo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nonché circa la posizione della Danimarca riguardo alla politica di difesa: giacché questi Stati non sono investiti degli effetti degli atti pertinenti a questi settori, essi non partecipano alla loro adozione, cosicché i loro ministri non concorrono alla formazione dell’unanimità (cfr. il Protocollo 21 sulla posizione del Regno unito e dell’Irlanda, art. 1; il Protocollo n. 22 sulla posizione della Danimarca, artt. 1 e 5, nonché art. 1 dell’Allegato); nessuna eccezione riguarda invece le votazioni nel Parlamento europeo. Infine, per quanto quest’ultimo abbia un ruolo molto limitato, al massimo consultivo, nell’adozione delle misure di cui all’art. 136, par. 1, del TFUE, rivolte ai soli Stati membri la cui moneta è l’Euro, alle sue deliberazioni non si applicano regole particolari. Al contrario, anche in questo caso il Consiglio vota senza la partecipazione degli Stati non aderenti all’Euro (art. 136, par. 2).
Anche nella procedura di conclusione dell’accordo di recesso il Parlamento europeo vota nella pienezza della sua composizione. Analogamente ai casi appena illustrati, riguardo al Consiglio europeo e al Consiglio si prevede invece che il rappresentante dello Stato recedente non partecipi né alle deliberazioni né alle decisioni (art. 50, par. 4).
La partecipazione piena dei ministri del Regno unito ai lavori (in particolare alle deliberazioni) di Consiglio e Consiglio europeo nel periodo intercorrente tra la notifica del recesso e la decorrenza dei suoi effetti appare insomma un’incongruenza rilevante. Al momento, si può solo confidare nella fedeltà del Regno unito all’obbligo di leale cooperazione, cui è pienamente vincolato fino al recesso. Rileva in particolar modo l’ultimo comma dell’art. 4, par. 3 del TUE: “Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione”.
Quanto alla partecipazione piena dei parlamentari britannici ai lavori e al voto del Parlamento europeo, nonostante non evidenzi un’incongruenza altrettanto marcata a causa delle osservazioni suddette, appare comunque insoddisfacente. Infatti, le forme di cooperazione differenziata cui si è fatto riferimento, nel cui quadro il Parlamento europeo delibera a composizione piena, hanno un carattere intrinsecamente dinamico e sono destinate a essere riassorbite con una certa fluidità, potendosi riferire a un’evoluzione naturale del processo di integrazione. I Trattati prevedono cioè che gli Stati esclusi dall’applicazione di certi atti normativi, i cui parlamentari abbiano purtuttavia partecipato alla loro adozione, possano rinunciare all’esclusione. Il recesso costituisce invece una dinamica di segno opposto: è anche possibile che, per un periodo breve, allo Stato recedente si applichino gli atti alla cui approvazione i parlamentari eletti nel contingente nazionale abbiano partecipato. Nel medio-lungo periodo, però, questa situazione cesserà e il suo ripristino, pur possibile, non fa parte di un processo prevedibile.
Quanto sopra attiene alla vita ordinaria dell’Unione. Circa l’assetto pro futuro, nel periodo in considerazione va negoziato un accordo di recesso che ne costituisce la ragion d’essere: come chiaramente emerge dalle osservazioni precedenti, sul piano giuridico il periodo in questione non può in alcun modo essere considerato un tempo transitorio. La procedura di conclusione, definita dall’art. 50 anche tramite un rinvio all’art. 218, par. 3 del TFUE, prevede la definizione di linee guida ad opera del Consiglio europeo, la raccomandazione della Commissione al Consiglio sull’avvio dei negoziati, la decisione del Consiglio sul punto e sulla designazione di una squadra di negoziato dell’Unione, l’approvazione del Parlamento europeo e la conclusione del Consiglio. La maggioranza qualificata in seno a quest’ultimo dovrebbe essere quella aggravata del 72% dei membri, rappresentanti degli Stati membri corrispondenti ad almeno il 65% della popolazione degli Stati membri partecipanti (poiché manca la proposta della Commissione); il Parlamento europeo dovrebbe votare a maggioranza semplice (così M. Vellano in “Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea”, a cura di F. Pocar e M.C. Baruffi, CEDAM, 2014, p. 151; “UK Withdrawal from the European Union. Legal and Procedural Issues”, European Parliamentary Research Service, March 2017, p. 6; così sembra orientato anche il Parlamento europeo, secondo la Factsheet sull’art. 50 pubblicata su www.europarl.europa.eu). Sarà possibile domandare alla Corte di giustizia il parere sulla compatibilità dell’accordo di recesso con i Trattati, ai sensi dell’art 218, par. 11 del TFUE? Tra gli argomenti a sfavore vi è che l’accordo di recesso non è compreso tra quelli previsti nell’art. 218 e, soprattutto, che questi ultimi sono “gli accordi tra l’Unione e i paesi terzi o le organizzazioni internazionali” (par. 1), mentre lo Stato recedente non è un paese terzo. La circostanza che l’art. 50 del TUE non attribuisce un ruolo alla Corte, e che anzi fa rinvio al solo par. 3 dell’art. 218, non costituisce un argomento convincente, vista la frammentarietà di questa disposizione. Una risposta positiva sembra invece potersi fondare sull’analogia tra gli accordi di cui all’art. 218, par. 1 e l’accordo di recesso, dovuta alla ratio del parere della Corte (a favore della possibilità di parere M. Vellano, ibidem; A. Duff, Brexit: What Next?, Statement to the EP’s Constitutional Affairs Committee, 8 November 2016).
L’accordo di recesso non deve essere confuso con quello che dovrà definire il futuro assetto dei rapporti tra Unione e Regno unito (nello stesso senso, tra gli altri, H. Flavier, S. Platon, Brexit: A tale of two agreements, in European Law Blog, 30 August 2016). Circa, ad esempio, i diritti dei cittadini, il primo dovrà occuparsi del destino di chi sta esercitando quei diritti al momento del recesso, mentre il secondo riguarderà il trattamento dei cittadini britannici che intendano spostarsi o stabilirsi in uno Stato membro dell’UE per lavoro o per altre finalità, nonché dei cittadini degli Stati membri dell’UE che intendano fare altrettanto con destinazione Regno unito, a partire dal giorno del recesso in poi. L’art. 50 del TUE fa appena un cenno a questo secondo accordo, o meglio al “quadro delle future relazioni” tra Stato recedente e Unione, per stabilire che del suo contenuto si dovrà tenere conto nella predisposizione dell’accordo di recesso. È dunque solo parzialmente fondata la posizione del Parlamento europeo, espressa nella risoluzione del 28 giugno 2016 (posizione sposata, sembra, dai negoziatori dell’Unione: D. Roberts, Eight key points you need to know about the Brexit negotiations, The Guardian, 29 marzo 2017) secondo cui “non si potrà decidere in merito alle eventuali nuove relazioni tra il Regno Unito e l’UE prima della conclusione dell’accordo di recesso” (punto 7). Ciò che in quest’affermazione si ritiene veritiero è non solo, com’è ovvio, che la conclusione dell’accordo sul futuro assetto non potrà avvenire prima della conclusione dell’accordo di recesso, ma anche che la procedura preordinata a siffatta conclusione non potrà essere formalmente avviata prima di allora. È infatti giocoforza che solo l’Unione privata del Regno unito potrà negoziare e stipulare l’accordo. In particolare, se nella procedura di conclusione (v. infra) fosse coinvolto il Parlamento europeo, non appare conciliabile con la natura di accordo con uno Stato terzo, propria di quello sul futuro assetto, il fatto che alla composizione di questa istituzione concorrano rappresentanti dell’elettorato britannico. Tuttavia, i contenuti del futuro assetto (che potranno comprendere un regime transitorio: cfr. il punto 5 della bozza di linee guida sottoposta dal Presidente Tusk al Consiglio europeo) dovranno necessariamente essere discussi e chiariti parallelamente ai contenuti dell’accordo di recesso: lo stabilisce per l’appunto l’art. 50 del TUE.
Quanto alla procedura da seguire per la conclusione del secondo accordo, si dovrà fare riferimento all’art. 218 del TFUE e individuare tanto il ruolo del Parlamento europeo (nullo, consultivo o di approvazione) quanto il metodo di votazione del Consiglio (unanimità o maggioranza qualificata) a seconda della tipologia in cui tale accordo rientri. Potrà infatti trattarsi, a seconda dei suoi contenuti, di un accordo di associazione, ovvero di un accordo che crei “un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione”, ovvero di un accordo commerciale o ancora di un accordo pertinente alla politica estera e di sicurezza comune (cfr. l’art. 37 del TUE). Se sarà un accordo misto, richiederà anche la ratifica degli Stati membri. Dal momento che il futuro assetto ragionevolmente interesserà temi numerosi ed eterogenei (basti pensare alla materia commerciale, su cui la lettera del 29 marzo propone “a bold and ambitious Free Trade Agreement”, e alla sicurezza), non è escluso che si opti per più di un accordo, sul modello dei rapporti con la Svizzera, e dunque per diverse procedure. Non sembra pertanto condivisibile la posizione espressa dal Parlamento europeo nella risoluzione dello scorso 5 aprile, (2017/2593(RSP)), secondo la quale l’accordo sul futuro assetto richiede senz’altro l’approvazione del Parlamento medesimo (punto 4).
Infine, vista la difficoltà dei negoziati, non è superfluo interrogarsi sull’ammissibilità di una revoca del recesso prima che la notifica produca i suoi effetti (sul tema v. “UK Withdrawal from the European Union. Legal and Procedural Issues”, cit., p. 9). È certo, infatti, che una revoca successiva non sarebbe efficace, in quanto si applicherebbe l’art. 50, par. 5: il Regno unito dovrebbe presentare domanda di ammissione all’UE ex novo e sottoporsi alla procedura di adesione prevista nel TUE. Ebbene, non si vede motivo per escludere l’applicabilità della regola generale stabilita dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, secondo cui il recesso può essere revocato in ogni momento prima che abbia effetto (art. 68). In particolare, vista la già sottolineata frammentarietà dell’art. 50 del TUE, l’argomento per cui questa disposizione non prevede la revoca della notifica appare poco convincente (così la Factsheet “Article 50 of the Treaty on European Union – Q&A”, https://ec.europa.eu/commission). L’accordo fra gli Stati (compreso il Regno unito in quanto ancora parte del TUE e del TFUE) sul carattere non esaustivo dell’art. 50 e, dunque, sull’applicabilità dell’art. 68 della Convenzione di Vienna, avrebbe valore di strumento di interpretazione o di applicazione del TUE (strumento decisivo, in questo caso) a norma dell’art. 31, par. 3, lett. a) della medesima Convenzione. È questo un criterio rientrante nella regola generale di interpretazione dei trattati internazionali: la specialità dell’ordinamento dell’Unione non vale a individuare regole interpretative particolari nel caso in discussione, che riguarda la partecipazione degli Stati al Trattato istitutivo. Quid juris se questo accordo non si formasse, poiché almeno uno Stato volesse invece sostenere l’esaustività dell’art. 50 e, dunque, l’impossibilità di applicare l’art. 68 della Convenzione di Vienna? Dal momento che l’accordo di recesso non potrebbe essere stipulato, se non altro per l’opposizione del Regno unito, opererebbe l’art. 50, par. 3, che in assenza dell’accordo suddetto dispone la cessazione degli effetti della partecipazione. Ma può un atto unilaterale revocato dallo Stato che ne è autore produrre effetti? Probabilmente solo se la revoca sia esplicitamente esclusa dal Trattato, essendo la regola generale di diritto internazionale nel senso della revocabilità del recesso. Insomma, concludendo, tra gli Stati insorgerebbe una controversia sull’interpretazione dell’art. 50 e la natura irrevocabile del recesso dall’Unione, di cui dovrebbe essere investita la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 273 del TFUE. Quanto alle istituzioni politiche, sembrerebbero escluse da questo dibattito. Da un lato, esse hanno un ruolo solo nella stipulazione dell’accordo di recesso per cui, ai sensi dell’art. 13, par. 2 del TUE, sarebbero prive di ogni potere in tema di revoca del recesso medesimo. Dall’altra, qualora maturasse un accordo tra gli Stati ai sensi dell’art. 31, par. 3, lett. a) della Convenzione di Vienna, non lo potrebbero impugnare ai sensi dell’art. 263 del TFUE neppure se detto accordo fosse adottato con la veste di conclusioni del Consiglio europeo (cfr. cause T-192/16, T-193/16 e T-257/16 NF, NG e NM / Consiglio europeo). Al di là della forma, nella sostanza si tratterebbe infatti di un accordo fra i governi degli Stati membri.
27 Aprile 2017