La Corte prima della tempesta: come premunire le corti costituzionali da futuri assalti? La situazione in Germania e in Italia

Verso una legge costituzionale sul Tribunale costituzionale federale
In un lungo articolo pubblicato sul quotidiano Die Zeit il 16 novembre scorso il presidente emerito del Tribunale costituzionale tedesco Andreas Voßkuhle ha espresso tutta la sua preoccupazione per la tendenza internazionale che vede le corti costituzionali e supreme sempre più esautorate e sotto attacco. Il processo è iniziato, secondo Voßkuhle, circa 15 anni fa quando fu l’Ungheria il primo paese a “smantellare” la propria corte con una serie di revisioni costituzionali che ne hanno ridotto drasticamente il ruolo e l’indipendenza. È stata poi la volta della Polonia, con le ben note vicende che hanno portato l’Unione Europea a occuparsi dello Stato di diritto in quel paese. Negli ultimi anni situazioni difficili si sono avute anche in Israele (su cui l’A. si sofferma a lungo), Bulgaria, Romania, Spagna e Turchia. Persino la Corte Suprema degli Stati Uniti ha mostrato segnali di crisi: divenuta ormai baluardo del conservatorismo, ha perso secondo i sondaggi la fiducia della maggioranza dei cittadini americani.
La causa profonda di questi inquietanti sviluppi sta, secondo Voßkuhle, nel ritorno dell’autoritarismo politico sospinto dal successo del populismo di destra. Le corti costituzionali (e le corti supreme che effettuano il controllo di costituzionalità delle leggi) rappresentano “opposizione strutturale”, anzi una “una spina nel fianco” per il potere politico e non vi è quindi da meravigliarsi se entrano nel mirino dei vari governi con tendenze autoritarie. Il discorso di Voßkuhle si conclude con l’esortazione a costituzionalizzare due fondamentali regole poste in Germania dalla semplice legge ordinaria (la legge sul Tribunale costituzionale, il Bundesverfassungsgerichtsgesetz) a garanzia dell’indipendenza del Tribunale costituzionale: la maggioranza dei due terzi del Bundestag o del Bundesrat per l’elezione dei giudici costituzionali e la durata di 12 anni del mandato (a commento si veda il contributo pubblicato sul Verfassungsblog da Julien Berger).
Meno di due mesi più tardi, altri due autorevoli ex giudici costituzionali, Gabriele Britz e Michael Eichberger, hanno pubblicato un altro articolo, stavolta sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui il tema della costituzionalizzazione delle garanzie di indipendenza dei giudici di Kalrsruhe è preso di petto e affrontato nel dettaglio. Come Voßkuhle, anche Britz ed Eichberger ritengono imprescindibile che le regole sulla maggioranza dei 2/3, sulla durata del mandato e sulla non rieleggibilità assurgano al rango di norme costituzionali: “dopo quasi tre quarti di secolo i tempi sono maturi per rendere il Tribunale più forte, anche in virtù del suo status di organo costituzionale, e sottrarlo da eventuali ingerenze del legislatore ordinario”. Le convenzioni costituzionali, proseguono gli Autori, non sono più sufficienti in un nuovo contesto politico segnato dalla fine di un assetto bipolare, in cui le due forze politiche principali (SPD e CDU/CSU) alternandosi al governo si astenevano dall’ingerirsi nella giustizia costituzionale nella logica di un reciproco “vivi e lascia vivere”. Vengono quindi illustrate nel dettaglio le possibili opzioni di riforma: in alternativa alla costituzionalizzazione del quorum dei 2/3 potrebbe anche essere introdotto – sempre in via di revisione costituzionale – un quorum minore, ad es. del 60%, ovvero la necessità di un’intesa con il Tribunale costituzionale stesso; viene in ogni caso auspicato un procedimento aggravato per la modifica delle disposizioni di legge sul funzionamento del Tribunale. Gli Autori propongono infine alcuni possibili meccanismi per risolvere un eventuale stallo nell’elezione dei giudici, che pure potrebbe pregiudicare notevolmente il funzionamento del Tribunale.
Di seguito anche Hans-Jürgen Papier, presidente emerito del Tribunale costituzionale, si è unito all’appello per la costituzionalizzazione delle regole sull’elezione e la durata del mandato dei giudici costituzionali.
Le reazioni dal mondo politico non si sono fatte attendere. Sono state dapprima le dichiarazioni rilasciate dei capigruppo al Bundestag dei partiti di maggioranza SPD e FDP al Bundestag a lasciar presagire un’iniziativa legislativa. Sono poi seguite le dichiarazioni di esponenti della CDU/CSU all’opposizione, che hanno fatto intendere l'apertura del partito al progetto. Da ultimo un vero e proprio ddl di revisione costituzionale è stato licenziato dalla Conferenza dei ministri di giustizia dei Länder (Jumiko). La strada della revisione costituzionale sembra ormai spianata. Unico possibile intralcio: l’ostilità mostrata del segretario della CDU, Friedrich Merz, per ogni intesa con la maggioranza di governo.

La minaccia AfD
Certamente in tale vicenda un peso non indifferente deve averlo giocato il notevole successo del partito Alternative für Deutschland (AfD): tutti i sondaggi più recenti lo danno ben oltre il 20%, saldamente secondo partito dietro solo la CDU/CSU.
La “minaccia AfD” assorbe ormai gran parte del dibattito tra i costituzionalisti tedeschi: se Voßkuhle si domanda implicitamente quanto il Tribunale costituzionale sia al riparo da una sua ascesa al governo, lo scenario evocato (sempre in modo implicito) da Britz ed Eichberger è quello di una AfD con più di un terzo dei seggi al Bundestag e che rifiuti ogni accordo sull’elezione dei giudici. Altri iniziano invece a discutere esplicitamente della possibilità di una messa al bando del partito, o almeno della sua decadenza dal beneficio del finanziamento pubblico, sull’esempio di quanto avvenuto di recente alla ex NPD (ora Die Heimat). Addirittura, è stata lanciata una petizione volta a privare Björn Höcke, leader dell’ala più estremista del partito, dei diritti politici, applicando l’art. 18 della Legge fondamentale per la prima volta dal 1948 (la petizione ha superato il milione e mezzo di firme e anche l’ex giudice costituzionale Getrude Lübbe-Wolff si è schierata pubblicamente a favore). Se queste misure più drastiche sono per ora solo state proposte, altre sono state prese concretamente. Nei fatti il cordone sanitario posto intorno al partito va sempre più allargandosi: dapprima gli è stato negato il finanziamento della sua fondazione politica, la Desiderius-Erasmus-Stiftung, poi è la sua giovanile, la Junge Alternative, è stata classificata come organizzazione estremista da parte dell’Ufficio federale per la difesa della Costituzione, e infine la stessa sorte è toccata a diverse sue articolazioni locali (da ultimo è stata dichiarata “organizzazione sicuramente estremista” la AfD sassone).
E però la crescente forza elettorale della AfD rende sempre più difficile, specie nei Länder orientali, sia la formazione dei governi che il raggiungimento di accordi sulla nomina dei giudici. La conventio ad excludendum nei confronti della AfD inizia a incrinarsi e la prima breccia riguarda proprio la nomina dei giudici costituzionali. Due casi recenti lo rivelano con molta chiarezza. Se ha destato scalpore che il parlamento bavarese abbia eletto tra i 15 giudici costituzionali di sua spettanza anche due candidati espressi dalla AfD, a Berlino il veto su di un possibile giudice costituzionale AfD ha portato a una insostenibile situazione in cui 5 degli attuali 8 giudici costituzionali sono in prorogatio ormai da quasi 3 anni e il nono seggio è rimasto vacante da quando un’altra giudice in prorogatio si è dimessa l’anno scorso per protesta.
Il successo della AfD è tanto più perturbante quanto è in realtà fragile l’equilibrio su cui in Germania riposa l’indipendenza non solo dei tribunali costituzionali, ma anche dell’ordine giudiziario in generale. Le due camere del parlamento federale, il Bundestag e il Bundesrat, e cioè i partiti politici che le compongono, nominano la totalità non solo dei giudici costituzionali, ma anche di quelli delle supreme magistrature federali. Infatti, l’art. 95, comma 2, della Legge fondamentale prevede che i giudici delle cinque supreme magistrature federali siano nominati da una apposita commissione formata per metà da membri del Bundestag e per metà dai competenti ministri dei Länder (32 membri in totale). Per non parlare della posizione dei pubblici ministeri, che sono addirittura sopposti alle istruzioni ministeriali (come è bene emerso anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia relativa al mandato d’arresto europeo).
Finora in Germania lo Stato di diritto è stato garantito più dalla presenza di forze politiche mature e responsabili e dalla solidissima formazione dei giuristi che non da norme di rango costituzionale. Dovrebbe dare da pensare che le costituzioni di Ungheria e Polonia, paesi in cui le corti sono state notoriamente “catturate” dalla maggioranza di governo, non hanno in realtà fatto altro che riprendere (pur con qualche licenza) il modello tedesco di una corte costituzionale composta esclusivamente da giudici di nomina parlamentare.

La situazione italiana
Le difficoltà tedesche devono fare riflettere il lettore italiano. Certamente in Italia possiamo contare su fonti di rango costituzionale che garantiscono meglio l’indipendenza della nostra Corte: l’art. 135 Cost. stabilisce la durata del mandato e la non rieleggibilità dei giudici; la maggioranza dei 3/5 del parlamento in seduta comune è imposta dalla legge costituzionale n. 2 del 1967; solo 5 dei 15 membri sono diretta espressione di accordi tra partiti in parlamento. La Consulta è sicuramente una preda più difficile per una possibile maggioranza incline a tentazioni autoritarie. Eppure anche la nostra Corte ha il suo tallone d’Achille. È ormai consueto che il parlamento in seduta comune provveda con grande ritardo all’elezione dei giudici, sia per la difficoltà intrinseca di raggiungere un accordo con le opposizioni, sia, soprattutto, per la poco lodevole prassi di procedere con “infornate” (di tre o addirittura quattro giudici), ritardando le nomine in modo da formare “pacchetti” su cui è più facile trovare intese. Tale prassi, come noto, costringe la Corte a lavorare a ranghi ridotti per periodi di tempo anche prolungati ed è potenzialmente in grado di provocare addirittura la paralisi dell’organo costituzionale, nel caso in cui si andasse al di sotto del quorum di undici giudici che l’art. 16 della legge n. 87 del 1953 richiede per il funzionamento della Corte. Si tratta di un rischio inaccettabile in una democrazia costituzionale. Dovremmo quindi porci anche noi in Italia il problema di introdurre meccanismi, preferibilmente al livello costituzionale, che evitino l’insorgere di situazioni del genere. A tal proposito le riflessioni di Britz ed Eichberger risultano utili, e anzi sono forse ancora più pregnanti nel contesto italiano in cui la prorogatio, a differenza che in Germania, è espressamente esclusa. Egualmente interessante la proposta elaborata dalla Jumiko, per cui, trascorso un anno dalla scadenza del mandato, l’organo costituzionale cui spetta la nomina decade dal suo diritto e ad esso si surroga l’altro organo cui spetta designare una quota dei giudici costituzionali. In Germania si avrebbe quindi una delle due camere (ad es. il Bundesrat) che si surroga all’altra (ad es. il Bundestag); in Italia si potrebbe immaginare un meccanismo analogo in cui, in caso di prolungata inerzia del parlamento (o abbassamento del numero dei giudici costituzionali al di sotto del quorum di funzionamento), il diritto di designare i giudici mancanti passi al Presidente o alle supreme magistrature.


Risvegli costituzionali: la collettivizzazione dei mezzi di locazione a Berlino

Due anni e mezzo fa, nel corso della celebrazione dei 70 anni del Grundgesetz (abbr. GG), il Congresso federale della FDP, il partito liberale tedesco, deliberava una proposta di revisione costituzionale che fu accolta allora quasi come una curiosa provocazione (cfr. Beschluss des 70. Ord. Bundesparteitags der FDP, Berlin, 26. bis 28. April 2019, Entschieden gegen Enteignung durch Vergesellschaftung –„Bauen statt klauen“). Si proponeva la totale abrogazione dell’art. 15 del Grundgesetz, a mente del quale: “Il suolo, le risorse naturali e i mezzi di produzione possono essere assoggettati, ai fini della socializzazione, ad un regime di proprietà collettiva o ad altre forme di gestione collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell'indennizzo”. Il parlamentare Marco Buschmann spiegava in una intervista che il partito mirava ad eliminare un “fossile costituzionale” risalente a un’epoca in cui non era ancora chiara quale strada avrebbe dovuto prendere l’economia tedesca.
In effetti, l’art. 15 GG non aveva mai trovato applicazione in oltre 70 anni di storia e parte della dottrina costituzionalistica lo aveva ritenuto eccentrico fin dai primi anni della Bundesrepublik. Ciò emergeva chiaramente già nel convegno dei giuspubblicisti tedeschi di Gottinga del 1951 (cfr. Enteignung und Sozialisierung, VVDStRL 10, 1952, 74 ss.). Questo convegno, dedicato per metà a “Esproprio e socializzazione”, ha rappresentato probabilmente l’occasione in cui la dottrina tedesca si è confrontata in modo più approfondito sull’art. 15 GG, almeno fino agli ultimi anni. Chiamati a relazionare sul tema furono Helmut Ridder e Hans-Peter Ipsen. Secondo Ridder l’art. 15 GG, data la sua natura quasi-rivoluzionaria, sarebbe stato destinato all’obsolescenza ove non attuato in tempi brevi, quasi fosse diritto costituzionale transitorio (cfr. ivi, 146 s.). Ridder addirittura immaginava l’illegittimità costituzionale che una legge di socializzazione approvata “fuori tempo”. Il motivo di questo atteggiamento è che l’art. 15 GG ricalca il vecchio art. 156 della Costituzione di Weimar (“Il Reich può, con riserva di indennizzo e per via legislativa, trasferire in proprietà collettiva, con applicazione analogica delle norme vigenti per l’espropriazione, le imprese economiche private suscettibili di socializzazione”) senza tuttavia collocarsi all’interno di una analoga cornice di “costituzione economica” (in generale sulla costituzione economica tedesca: F. Saitto, Economia e Stato costituzionale: contributo allo studio della Costituzione economica in Germania, 2015). Le nazionalizzazioni delle industrie del carbone e delle compagnie elettriche degli anni rivoluzionari 1918-1919 parevano eventi di un passato lontano e irripetibile già agli occhi di un giovane costituzionalista come Helmut Ridder nel 1951.
Tornando al 2019, le preoccupazioni dei liberali erano in realtà più concrete di quanto potesse a prima vista sembrare: proprio nei giorni del congresso federale del partito (fine aprile) a Berlino cominciava la raccolta di firme per promuovere un referendum consultivo volto a sollecitare un deciso intervento della autorità pubblica sul problema del “caro affitti” nella capitale tedesca. L’iniziativa referendaria prendeva il battagliero titolo di “Deutsche Wohnen & co. enteignen!” (“espropriamo Deutsche Wohnen & co.!”) e proponeva la nazionalizzazione (o, come si dice in tedesco, la “socializzazione”, Sozialisierung, o anche collettivizzazione, Vergesellschaftung) delle maggiori società immobiliari presenti sul mercato berlinese (la Deutsche Wohnen è la maggiore, e di qui il nome della iniziativa). In particolare, i promotori richiedevano (e richiedono tuttora) l’esproprio collettivo di oltre 200mila alloggi appartenenti alle 12 maggiori società immobiliari; a tal fine si propone di “colpire” ogni società immobiliare che sia proprietaria di almeno 3000 immobili ad uso abitativo a Berlino. Secondo le stime del governo berlinese si tratta di immobili dal valore di mercato complessivo di circa 36 miliardi di euro. Il modello ideale sarebbe quello di Vienna, dove una società in house del comune (la Wiener Wohnen) possiede e amministra circa 220mila appartamenti, corrispondenti a circa il 30% degli immobili dati in locazione. Questa iniziativa “estrema” sulle prime non fu presa seriamente in considerazione dal pur non moderato governo berlinese (sostenuto da una coalizione “rosso-rosso-verde”, e cioè composta da socialdemocratici, sinistra e verdi) che preferì far approvare, nel gennaio 2020, una legge “sull’equo canone”, il cd. Mietendeckel (ufficialmente nota come Gesetz zur Mietenbegrenzung im Wohnungswesen in Berlin, abbr. MietenWoG Bln). L’equo canone “alla berlinese” è stato tuttavia dichiarato incostituzionale, per motivi legati al riparto di competenze tra federazione e Länder, dal Tribunale costituzionale federale nella sua pronuncia del 25 marzo 2021. Questa decisione, quasi per eterogenesi dei fini, ha spianato la strada all’iniziativa referendaria e al ritorno dello spettro delle collettivizzazioni. La decisione di Karlsruhe ha infatti avuto l’effetto di dare nuovo vigore alla raccolta delle firme che era ripresa un mese prima (secondo la costituzione berlinese le firme vengono raccolte in due fasi, cfr. art. 63, co. 1) e si è conclusa a giugno 2021 con oltre 350mila sottoscrizioni raccolte (ne bastava la metà). Il referendum si è infine tenuto insieme alle elezioni per il Bundestag il 26 settembre 2021 e ha visto una larga maggioranza (il 59,1% dei voti validi, oltre un milione di elettori) esprimersi in favore dell’esproprio collettivo.
Il referendum non comportava l’approvazione di una concreta proposta di legge. Il nuovo governo (ancora rosso-rosso-verde) non potrà però ignorare un risultato così significativo, sia per un motivo politico che per uno giuridico. Il motivo politico è evidente, anche data la mancanza di alternative concrete per il problema del caro affitti. Quello giuridico è che il risultato del referendum, pur non spiegando effetti giuridici diretti sulla legislazione, obbliga comunque il governo berlinese ad affrontare la questione prendendo delle misure. Dal canto suo il comitato promotore del referendum ha pubblicato a maggio una propria proposta di legge per il “trasferimento alla proprietà collettiva di immobili ad uso abitativo”.
La vicenda fin qui sinteticamente esposta si presta a numerosissime riflessioni in punto di diritto costituzionale e solleva non pochi problemi, molti dei quali del tutto inediti. Cerchiamo di seguito di esporne alcuni almeno per sommi capi.
Il primo problema è quello della legittimità costituzionale di una eventuale legge che dia seguito al referendum e imponga la “socializzazione” delle grandi società immobiliari. I promotori si sono richiamati proprio all’art. 15 GG. Tuttavia non si può fare a meno di notare che questi si riferisce a “mezzi di produzione” (Produktionsmittel). Una interpretazione restrittiva richiederebbe che esso si applichi solo al caso di industrie e di attività produttive di beni in senso proprio. In passato la dottrina maggioritaria aveva ritenuto l’art. 15 GG non applicabile a banche e società assicurative (per ogni riferimento, cfr. J. Wieland, Art. 15, in GG-Kommentar, a cura di H. Dreier, vol. I, §§ 22 s.). Si trattava di letture che risentivano del clima da guerra fredda e che guardavano con grande sospetto ad ogni elemento che potesse ricordare le politiche della DDR. Oggi la dottrina è più aperta ad una interpretazione estensiva che valorizzi la ratio complessiva della disposizione costituzionale. Come ha notato Joachim Wieland (ivi, § 23), l’art. 15 GG fu fortemente voluto dai socialdemocratici con l’intenzione di lasciare aperta la possibilità di un ampio intervento pubblico nell’economia (si veda a tal proposito anche la relazione di Ipsen al convegno del 1951 in cit., 101 s.) : questo disegno non era certamente limitato alle attività industriali, ma riguardava, ad esempio, anche il credito e le assicurazioni, come dimostrato anche dalle previsioni contenute in altre costituzioni di Länder dello stesso periodo (ad es. quella bavarese del 1946 all’art. 160).
A complicare ulteriormente la situazione, e qui il secondo problema, è che la costituzione del Land Berlino del 1995 non prevede, a differenza di altre costituzioni subfederali, la “socializzazione”, ma si limita a consentire il solo esproprio di pubblica utilità (art. 23). Gli oppositori dell’iniziativa referendaria si sono quindi richiamati al classico argomento ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit: la costituzione berlinese avrebbe implicitamente vietato l’esproprio collettivo, e non troverebbe applicazione diretta l’art. 15 GG. L’opinione contraria invece argomenta proprio per l’applicazione diretta dell’art. 15 GG sul presupposto che non si sia in presenza di un divieto implicito, ma di una lacuna. Anzi, si argomenta, il costituente del 1995 tacendo sul punto ha voluto recepire tout court l’art. 15 GG nell’ordinamento costituzionale del Land. Questa tesi può poggiarsi anche su di un’altra disposizione del Grundgesetz, l’art. 142, che recita: “(…) le disposizioni delle Costituzioni dei Länder restano in vigore purché garantiscano i diritti fondamentali previsti negli articoli della presente Legge fondamentale che vanno dall'1 al 18”. Se ne potrebbe trarre che l’art. 15, compreso nei primi 18 articoli, costituisca uno standard minimo cui neppure le costituzioni dei Länder possono derogare. Senonché molti dubitano che l’art. 15 GG possa essere qualificato alla stregua di un diritto fondamentale. Tale questione dipende in massima parte dalla concezione dei diritti fondamentali che si voglia fare propria. Una concezione individualistico-liberale certamente è contraria all’idea della collettivizzazione come diritto fondamentale; al contrario, una concezione di stampo genuinamente personalistico e socialmente orientato, e cioè attenta ai doveri di solidarietà sociale, può ben arrivare a conclusioni differenti, ove “evidenti esigenze della collettività e dell'economia non si possano altrimenti salvaguardare” (così il Codice di Camaldoli a proposito della proprietà collettiva). Non a caso Ridder (in cit., 134) vedeva nell’art. 15 GG la stessa ratio dell’art. 3, co. 2 della Costituzione italiana. Ipsen (in cit., 103) invece parlava dell’art. 15 come di una disposizione con una “funzione progressiva” e fondante uno status socialis positivus in favore dei gruppi che si avvantaggerebbero della collettivizzazione. In ogni caso, la “socializzazione” può ben essere funzionale alla garanzia di determinati diritti fondamentali: si pensi, per rimanere sulle vicende berlinesi, al diritto ad una abitazione (riconosciuto in Italia come fondamentale dalla giurisprudenza costituzionale; cfr. da ultimo la sent. n. 44 del 2020).
Vi è poi il problema degli eventuali indennizzi. Il comitato promotore ha proposto un indennizzo calcolato sulla base di un “equo canone di locazione” (leistbare Miete) di 40 annualità. Si tratterebbe di un importo corrispondente all’incirca al 25% del valore di mercato (8 miliardi di euro). Sul punto l’art. 15 GG rinvia all’art. 14, co. 3 GG che impone per gli espropri di pubblica utilità un indennizzo calcolato in base a un “equo bilanciamento tra gli interessi della generalità e degli interessati”. Ciò richiede, come è evidente, un giudizio di proporzionalità del legislatore che ben potrebbe essere poi scrutinato non solo dai giudici costituzionali nazionali, ma anche dalla Corte EDU.
Infine, si deve notare che le vicende berlinesi non riguardano soltanto un articolo “dormiente” della Legge Fondamentale e il particolare tema del governo dell’economia. Esse vanno pure al cuore del delicato rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Non sarebbe fuori luogo affermare che il referendum berlinese del 26 settembre è stato il referendum più importante e significativo che si sia tenuto in Germania dal dopoguerra. Questo in un contesto, quello dell’ordinamento costituzionale tedesco, tradizionalmente diffidente della democrazia diretta (se non apertamente ostile ad essa). Il rapporto tra governo berlinese e comitato promotore si preannuncia tutt’altro che sereno.
Non è difficile indovinare chi sarà chiamato a sbrogliare questa intricata matassa: in Germania tutte le strade portano a Karlsruhe.