Davide Paris
Dialogare (minacciare?) serve. Osservazioni a margine della decisione della Corte EDU Humpert v. Germany sul divieto di sciopero per i Beamte
1. Con la sentenza della Grande Camera Humpert v. Germany, la Corte EDU chiude un confronto a distanza con il giudice costituzionale tedesco in sospeso da almeno cinque anni. Oggetto del contendere è il divieto di sciopero per una particolare categoria di funzionari pubblici tedeschi – i Beamte, o civil servants nel linguaggio della Corte EDU – la cui disciplina è segnata da un legame di fedeltà nei confronti dello Stato estremamente forte. A fronte di un trattamento particolarmente favorevole in termini di retribuzione e di sicurezza del posto di lavoro, ai Beamte è, per quanto qui rileva, assolutamente proibito scioperare; la loro retribuzione, del resto, è regolata dalla legge e non dai contratti collettivi.
Dei circa 5.200.000 impiegati pubblici tedeschi, oltre 1.700.000 sono Beamte; tra questi si ritrova anche la grande maggioranza dei circa 820.000 insegnanti attivi in Germania. Il caso nasce proprio dalla violazione del divieto di sciopero da parte di quattro insegnanti con status di Beamte, nel 2009 e 2010; sottoposti a sanzione disciplinare, i quattro ricorrenti si rivolgono al giudice amministrativo, ma senza esito. In ultima istanza, il Tribunale amministrativo federale conferma la legittimità della sanzione: pur se ai Beamte deve essere riconosciuto il diritto di sciopero ex art. 11 CEDU, tale diritto si scontra con l’art. 33, quinto comma, Grundgesetz, che richiede che la pubblica amministrazione sia disciplinata nel rispetto dei “principi tradizionali del rapporto di impiego professionale”, tra cui appunto il divieto di sciopero. Essendo impossibile interpretare la disposizione costituzionale in maniera conforme alla CEDU, nel contrasto fra il diritto previsto dalla CEDU e il divieto previsto dalla Legge fondamentale, sarà quest’ultimo a prevalere, fintantoché il legislatore (costituzionale) non adempirà all’obbligo di comporre il contrasto fra CEDU e Grundgesetz.
2. Investo del ricorso, il Bundesverfassungsgericht (‘BVerfG’) pone in essere la più netta e decisa difesa possibile del divieto di sciopero in esame. Nella sua sentenza del 2018, infatti:
- afferma che il divieto di sciopero discende direttamente dall’art. 33, quinto comma, GG, trattandosi di uno dei principi tradizionali del rapporto di impiego professionale (§§ 144 e 152): non quindi una scelta del legislatore, legittima ma modificabile, bensì un divieto di rango costituzionale, non superabile se non attraverso la revisione costituzionale;
- esclude che sia possibile una diversa disciplina di tale divieto che ne faccia venir meno il carattere assoluto, ad esempio limitandolo ai soli funzionari pubblici che esercitano determinate funzioni oppure condizionandone l’esercizio a determinati requisiti, quali un obbligo di notifica o di autorizzazione (§§ 153 e 159);
- afferma, attraverso un approfondito esame della giurisprudenza della Corte EDU, che un simile divieto non viola l’art. 11 della CEDU, specificando che alla luce dell’attuale giurisprudenza della Corte EDU non sussiste una situazione di contrasto fra il diritto tedesco e la Convenzione e che, anche qualora tale contrasto sussistesse, sarebbe comunque giustificato alla luce dell’art. 11, secondo comma, CEDU (§§ 163 ss.);
- Lascia intendere, che, qualora il divieto di sciopero dovesse essere invece considerato (dalla Corte di Strasburgo) in contrasto con la CEDU, esso ben potrebbe essere qualificato come principio costituzionale fondamentale, prevalente rispetto alla Convenzione, pur lasciando per il momento aperta la questione (§172).
Il tutto preceduto da una ricostruzione generale dei rapporti fra Grundgesetz e CEDU non particolarmente Convention-friendly, dove si ribadisce sì la funzione di guida e orientamento della giurisprudenza di Strasburgo per l’interpretazione costituzionale, ma circondandola di una serie di limiti e cautele: le pronunce della Corte EDU devono essere contestualizzate, deve essere evitato un mero allineamento delle nozioni costituzionali a quelle della CEDU, e più che alle sentenze di Strasburgo deve essere prestata attenzione alle affermazioni sui valori fondamentali in esse contenute.
Con tutta evidenza, si tratta di una pronuncia scritta avendo in mente la (sicura) reazione della Corte EDU, la “prima parola” di un dialogo, anche se, per la perentorietà delle sue affermazioni, essa suona più come una minaccia che non sembra prendere in considerazione l’ipotesi di una risposta non allineata. Il messaggio che il giudice costituzionale lancia a Strasburgo è insomma chiaro: “Non si azzardi la Corte EDU a toccare il divieto di sciopero per i Beamte…”.
Al di là del carattere assai marcatamente confrontational della pronuncia, tuttavia, l’argomentazione del giudice costituzionale coglie un aspetto estremamente interessante e problematico del rapporto fra giurisdizioni costituzionali nazionali e Corte EDU. Il BVerfG rivolge infatti ai giudici di Strasburgo un perentorio appello a non considerare isolatamente il solo diritto di sciopero, bensì a guardare alla disciplina dei Beamte come a un sistema (§ 58), in cui ai Beamte è sì tolto il principale strumento di lotta sociale, lo sciopero, ma è assicurato in cambio sia il diritto di partecipare, attraverso i propri rappresentanti, al procedimento legislativo per la disciplina delle loro condizioni di lavoro, sia il diritto costituzionalmente garantito a un adeguato mantenimento. Non si può quindi – dice in sostanza il BVerfG – verificare meccanicamente se i Beamte possono scioperare oppure no, ed eventualmente dichiarare la violazione dell’art. 11 CEDU. Occorre invece cogliere la logica di un sistema, fortemente radicato nella tradizione tedesca, in cui il Beamte si dedica pienamente al servizio dello Stato, e lo Stato si prende adeguatamente cura del Beamte. In tale sistema, ogni elemento è parte di un equilibrio: ciò fa sì che non sia possibile toccare un elemento isolatamente senza inevitabilmente compromettere l’intero istituto.
Con ciò, il BVerfG non solo si fa chiaramente portavoce e difensore delle peculiarità nazionali di fronte alla Corte EDU, ma sembra anche riecheggiare una preoccupazione espressa in termini non dissimili dalla Corte costituzionale italiana: quella che a Strasburgo la tutela dei diritti avvenga “in modo parcellizzato, con riferimento a singoli diritti”, laddove essa deve essere “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sent. n. 264/2012).
3. Di fronte a una così netta presa di posizione del BVerfG, la Corte EDU si trova in una situazione non semplice. Non avendole il giudice costituzionale tedesco lasciato alcun margine di manovra, una pronuncia di violazione dell’art. 11 CEDU avrebbe inevitabilmente aperto la strada a uno scontro aperto fra corti. D’altra parte, escludere la violazione dell’art. 11 CEDU non solo richiedeva un’accurata rilettura dei propri precedenti (e in particolare della pronuncia Enerji Yapi-Yol Sen c. Turquie, in cui si legge che il divieto di sciopero non può applicarsi indiscriminatamente a tutti i funzionari pubblici, ma solo a determinate categorie di questi, strettamente delimitate e chiaramente definite), ma anche di superare due ostacoli piuttosto evidenti: lo European consensus e l’interpretazione della CEDU in armonia con gli altri trattati internazionali.
Sotto il primo profilo, in nessuno dei 35 Paesi del Consiglio d’Europa esaminati dalla Corte è proibito agli insegnanti di scioperare, anche qualora godano dello status di civil servants (§ 67). Sotto il secondo, la Corte richiama le numerose prese di posizione dei diversi monitoring bodies incaricati di verificare il rispetto del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, della Convenzione n. 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, e della Carta sociale europea, che non solo riconoscono in generale la protezione internazionale del diritto di sciopero, ma specificamente censurano il divieto assoluto di sciopero per i Beamte in Germania (§§ 53-60). E l’elenco potrebbe allungarsi, quando la Corte internazionale di giustizia renderà la sua opinione consultiva circa la tutela del diritto di sciopero da parte della menzionata Convenzione n. 98.
Affermare la non violazione dell’art. 11 CEDU era insomma possibile solo al prezzo di mettere da parte tanto “the practice of Contracting States” quanto “the consensus emerging from specialised international instruments” quali tradizionali punti di riferimento per l’interpretazione della Convenzione. Nella sentenza in esame, la Corte EDU si mostra pronta a pagare questo prezzo (attirandosi così le critiche dell’opinione dissidente del giudice Serghides), sostanzialmente accogliendo l’approccio sistemico richiesto dal BVerfG.
Secondo la Corte EDU, lo sciopero rappresenta uno dei più importanti strumenti con cui i sindacati possono difendere gli interessi dei lavoratori e come tale è protetto dall’art. 11 della Convenzione. Tuttavia, poiché esso non è l’unico strumento di cui essi dispongono, per valutare la compatibilità di una restrizione del diritto di sciopero con l’art. 11 CEDU occorre esaminare l’insieme delle misure adottate da uno Stato per tutelare la libertà sindacale. Ne consegue – questo il passaggio fondamentale in cui la Corte EDU accoglie la prospettiva del giudice di Karlsruhe – che “the question whether a prohibition on strikes affects an essential element of trade-union freedom because it renders that freedom devoid of substance in the circumstances […] is context-specific and cannot therefore be answered in the abstract or by looking at the prohibition on strikes in isolation. Rather, an assessment of all the circumstances of the case is required, considering the totality of the measures taken by the respondent State to secure trade-union freedom, any alternative means – or rights – granted to trade unions to make their voice heard and to protect their members’ occupational interests, and the rights granted to union members to defend their interests” (§ 109).
In questa prospettiva, lo European consensus e il trend che emerge a livello internazionale non rappresentano più l’aspetto determinante per decidere se lo Stato si è mosso all’interno del margine di apprezzamento riconosciutogli oppure no, bensì soltanto uno degli aspetti – sei in tutto – dell’ “overall assessment” della Corte. Il § 127 mette nero su bianco la marginalizzazione di tali aspetti: “while any trend emerging from the practice of the Contracting States and the negative assessments made by the aforementioned monitoring bodies of the respondent State’s compliance with international instruments constitute relevant elements, they are not in and of themselves decisive for the Court’s assessment […]”. Nella valutazione della Corte, prevalgono altri elementi:
- la presenza di altri strumenti con cui i Beamte possono far valere i propri interessi; in particolare, il diritto di partecipare, attraverso le loro rappresentanze sindacali, al procedimento legislativo che porta alla definizione per legge delle loro condizioni di lavoro, nonché il diritto a un adeguato mantenimento (garantito dal giudice costituzionale tedesco che in alcune occasioni ha dichiarato incostituzionale la disciplina adottata dal legislatore);
- la strumentalità del divieto di sciopero alla garanzia dell’efficienza della pubblica amministrazione e in particolare del diritto all’istruzione;
- il fatto che i Beamte godano di altri diritti legati a questo status, che risulta complessivamente più vantaggioso sia rispetto a quello dei dipendenti pubblici tedeschi contrattualizzati, sia rispetto a quello degli insegnanti della maggior parte degli altri Paesi europei;
- la possibilità per gli insegnanti di scegliere fra due regimi alternativi di impiego pubblico: quello di Beamte, con migliori condizioni e divieto di sciopero, o quello di dipendente contrattualizzato, con condizioni meno vantaggiose ma senza divieto di sciopero;
- la natura non particolarmente severa delle misure disciplinari adottate verso i ricorrenti.
Tutti questi elementi, considerati “in their totality”, portano la Corte a escludere la violazione dell’art. 11 CEDU.
4. Se la Corte EDU essenzialmente accoglie l’approccio “sistemico” del BVerfG e loda “the extensive assessment of the Federal Constitutional Court” (§ 146), in quel gioco di concessioni, distinguo e avvertimenti che è oggi il dialogo fra corti, i giudici di Strasburgo non mancano di segnare alcuni punti di distanza rispetto ai colleghi di Karlsruhe, ciò che evita di fare della pronuncia in esame una resa incondizionata al BVerfG.
In primo luogo, la Corte EDU evita di seguire il giudice costituzionale tedesco dove non strettamente necessario. Nella sua argomentazione sulla compatibilità del divieto di sciopero con l’articolo 11 CEDU, il BVerfG non solo aveva ritenuto che il divieto di sciopero si giustificasse in termini generali alla luce del primo periodo del secondo comma dell’art. 11 CEDU, quale restrizione “necessaria in una società democratica”, ma si era spinto sino a sostenere che gli insegnanti che godono dello status di Beamte potessero rientrare nella categoria dei “members of the administration of the State” per i quali il secondo periodo del secondo comma dell’art. 11 CEDU espressamente prevede la possibilità di “lawful limitations”, al pari dei membri delle forze armate e di polizia. La Corte di Strasburgo ritiene superfluo esprimersi su questa questione, e non segue così il BVerfG in quella che sarebbe stata un’interpretazione estremamente estensiva della nozione di “members of the administration of the State”. Al contrario, nel lasciare aperta la questione, la Corte EDU coglie l’occasione per ricordare, a futura memoria, che “the concept of ‘the administration” deve essere interpretato in maniera restrittiva (§ 114), quasi implicitamente smentendo il giudice costituzionale tedesco.
In secondo luogo, la Corte di Strasburgo risponde in maniera netta e chiarissima alle affermazioni generali sui limiti costituzionali all’applicazione della CEDU nell’ordinamento tedesco contenute nella pronuncia del BVerfG. La parte in diritto della sentenza della Corte EDU si apre infatti con un paragrafo dedicato a “the role of the Court” (§§ 69 ss.), in cui, senza troppi giri di parole, si ricorda che (tutti) gli Stati sono tenuti ad adempiere agli obblighi volontariamente assunti per mezzo della ratifica della Convezione, senza poter invocare la propria Costituzione come causa di giustificazione per il mancato adempimento. Assai ricettiva sulla specifica questione del divieto di sciopero, la Corte di Strasburgo sottolinea invece che, sul piano generale della vincolatività degli obblighi derivanti dalla Convenzione, la distanza fra i due giudici rimane assai marcata e risponde in maniera ferma alle minacce contenute, in maniera nemmeno troppo velata, nella pronuncia del BVerfG.
5. La decisione della Corte EDU appare nel complesso condivisibile, anche se non priva di costi. Si è già detto di come lo European consensus e l’interpretazione della Convenzione in armonia con il trend internazionale risultino essere le sue vittime principali e più immediate. Più in generale si può aggiungere che essa sembra abbandonare l’idea di fornire agli Stati dei criteri, ampi e flessibili quanto si vuole ma pur sempre generali, per stabilire l’estensione del margine di apprezzamento a essi riconosciuto, a favore di una valutazione casistica, in cui anche una disciplina estremamente restrittiva di un diritto può risultare conforme alla CEDU sulla base di un “overall assessment” che lascia alla Corte EDU un margine di discrezionalità estremamente ampio, grazie alla possibilità di compensare la restrizione di un diritto con un trattamento vantaggioso sotto un diverso aspetto.
A fronte di questi limiti, la pronuncia ha tuttavia dei meriti innegabili. Nell’immediato, essa evita uno scontro diretto con il giudice costituzionale tedesco e, più in generale, valorizza il procedural review, di cui sottolinea le potenzialità nel dialogo fra corti: tanta è stata l’attenzione dedicata dal BVerfG alla giurisprudenza dei giudici Strasburgo, quanta quella dedicata dalla Corte EDU agli argomenti dei giudici di Karlsruhe.
Leggere la pronuncia in esame esclusivamente attraverso la prospettiva istituzionale del dialogo fra le corti, nei termini di un mero adeguamento della Corte di Strasburgo alle ragioni del giudice costituzionale tedesco sarebbe tuttavia riduttivo. Il pregio maggiore della decisione Humpert v. Germany sembra invece risiedere, da una parte, nella capacità dimostrata dalla Corte di Strasburgo di cogliere e rispettare la peculiarità di una disciplina nazionale, seguendo un approccio che non impone i diritti della Convenzione come rigido metro di misura esterno bensì è capace di far propria la logica interna del sistema sottoposto al suo giudizio. Dall’altra, nell’aver fatto questo attraverso un giudizio articolato e rigoroso, che fa sì che difficilmente questa decisione possa essere strumentalmente utilizzata da altri Stati in cui il diritto di sciopero venga semplicemente conculcato senza le cautele e le compensazioni proprie del sistema tedesco. Nel complesso, un esempio di equilibrio tra il rispetto delle peculiarità nazionali (volendo: dell’identità costituzionale) e la garanzia di un livello adeguato di protezione dei diritti.
24 Giugno 2024
di Davide Paris
Recensione a Giovanni Piccirilli, La “riserva di legge”. Evoluzioni costituzionali, influenze sovrastatuali, Giappichelli, Torino 2019, pp. XXIII-306
Le numerose riserve di legge previste dalla nostra Costituzione sono tradizionalmente intese come finalizzate alla protezione di diversi beni costituzionali (la garanzia dei diritti individuali, il principio di uguaglianza, la tutela delle minoranze parlamentari, etc.) attraverso una limitazione del libero concorso tra le fonti nella disciplina di una determinata materia. Ma quanto di questa ricostruzione tradizionale corrisponde effettivamente all’attualità della riserva di legge e quanto invece è “narrazione” o “mito” che non trova in realtà corrispondenza nelle dinamiche presenti del nostro ordinamento costituzionale?
È questa la domanda fondamentale cui cerca di rispondere il bel volume di Giovanni Piccirilli, partendo dal presupposto che la riserva di legge è “istituto immediatamente influenzato dall’evoluzione del sistema costituzionale in cui è inserito” (p. 5). Nel tentativo di definire quale funzione svolga oggi effettivamente questo istituto nel nostro ordinamento costituzionale è pertanto imprescindibile confrontarsi con le “evoluzioni costituzionali” ― in primis la giurisprudenza costituzionale in materia, ma anche le concrete modalità di produzione della legge ―, così come con le “influenze sovrastatuali” determinate dal consolidarsi di quella che l’Autore chiama, riprendendo l’espressione di Besselink, una Costituzione “composita”, cioè “una architettura istituzionale e procedurale nella quale sono presenti fonti propriamente europee e fonti nazionali, che fanno reciprocamente rinvio le une alle altre e, anzi, si presuppongono vicendevolmente” (pp. XV-XVI). Il volume è quindi strutturato in due parti: la prima finalizzata a problematizzare le letture tradizionali della riserva di legge alla luce delle attuali dinamiche costituzionali e a “proporre una rilettura dell’istituto all’interno dell’assetto costituzionale contemporaneo” (p. 124); la seconda ad approfondire i “concetti di legge e legalità emergenti dalla dimensione sovrastatuale che interagisce con l’ordinamento costituzionale italiano” (p. 133).
Nella prima parte del volume, l’Autore mostra inizialmente come una giurisprudenza costituzionale “granitica” (p. 50) nell’accettare che atti aventi forza di legge possano disciplinare ambiti coperti da riserva di legge, così come “la crisi delle garanzie proprie del procedimento legislativo” (p. 75) cui la Corte ha per lo più rifiutato di porre un freno, rendano ormai insostenibili alcune letture della funzione della riserva di legge. In particolare, di fronte a una giurisprudenza costituzionale che ha inteso la riserva di legge come “riserva di livello normativo” e non come “riserva di organo” (p. 40) diventano difficilmente difendibili letture di stampo garantista tese a valorizzare la funzione di protezione del singolo dall’arbitrio del potere esecutivo attraverso il necessario intervento del Parlamento. Ugualmente, “è davvero difficile poter affermare – sottolinea l’Autore – che i modi di produzione legislativa degli ultimi anni consentano di realizzare quella effettiva partecipazione delle minoranze parlamentari alla decisione legislativa, o quella realizzazione del principio democratico che potrebbero presupporsi al fondo della ratio della riserva di legge” (p. 83).
Alla pars destruens segue la pars construens: alla luce delle evoluzioni costituzionali esaminate, è possibile individuare, riprendendo e approfondendo una riflessione inizialmente proposta da Sergio Fois, una funzione della riserva di legge che guarda alla Corte costituzionale più che al Parlamento. Secondo l’Autore, “è proprio nella giurisdizione costituzionale che sembra doversi individuare la ragion d’essere contemporanea dell’istituto”. Attraverso la riserva di legge “la Costituzione individua quegli ambiti che in nessun modo possono essere sottratti non tanto a questo o quel soggetto normatore, quanto al giudice di quei prodotti normativi, appunto individuato nella stessa Corte costituzionale” (p. 87). Risulta così valorizzato, in chiave nuova, l’aspetto garantistico della riserva di legge quale “ambito entro il quale debba necessariamente svolgersi la funzione di garanzia formale della Costituzione da parte della Corte” (p. 88), nonché il suo aspetto positivo, inteso quale “obbligo per il legislatore di non sottrarre alla Corte costituzionale la possibilità di esercitare il proprio sindacato sul punto” (p. 92).
Alla funzione di delimitare il “perimetro necessario della giurisdizione costituzionale” (p. 88), l’Autore ne affianca una seconda, individuata nel porsi come “presidio delle giunture ordinamentali” (p. 124) nell’interazione fra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione, “permettendo alla Corte di mantenere il presidio sui principi supremi in quegli ambiti nei quali vengono a sovrapporsi ordinamento interno e ordinamento dell’Unione europea” (p. 128). A conferma di questa tesi viene portato l’esempio del notissimo caso Taricco, e, in particolare, la sentenza n. 115/2018 che conclude il caso. Nella lettura dell’Autore, la Corte “ha supportato l’impossibilità di applicazione nell’ordinamento italiano della cd. ‘regola Taricco’ [...] alla luce del principio di determinatezza come parte integrante del principio (supremo) di legalità in materia penale, riferendosi alla necessità di una certezza in tale ambito che, nell’opinione della Corte, può essere assicurata solo da una previa lex scripta” (p. 112): con il che, la Corte avrebbe ripristinato “una concezione pre-1973 della riserva di legge (almeno in ambito penale), nel senso di renderla impermeabile alle fonti del diritto europeo” (p. 113).
Delle due funzioni della riserva di legge individuate in questa prima parte del libro mi sembra particolarmente interessante quella che sottolinea lo spostamento di fatto del fondamento dell’istituto dal Parlamento alla Corte costituzionale, garantendo che nelle materie coperte da riserva di legge il controllo del giudice costituzionale non possa essere escluso. Sul punto vorrei esprimere due osservazioni.
In primo luogo, mi chiedo se questa lettura non sia particolarmente adeguata per un ordinamento come quello italiano, in cui la giustizia costituzionale è essenzialmente una giurisdizione sulle leggi, in cui cioè è la natura dell’atto a determinare la competenza del giudice costituzionale. In questo contesto, la riserva di legge assume effettivamente una funzione garantista nell’imporre al legislatore l’obbligo di non sottrarre le materie riservate al controllo del giudice costituzionale. Diversamente, una simile ricostruzione perderebbe forse gran parte del suo significato in un ordinamento in cui la giustizia costituzionale è essenzialmente giurisdizione sui diritti – penso ovviamente all’ordinamento tedesco –, dove cioè è la violazione di un diritto fondamentale a legittimare l’intervento del giudice costituzionale, attraverso la Verfassungsbeschwerde, indipendentemente dal fatto che tale violazione sia riconducibile a un atto legislativo, amministrativo o giudiziario.
In secondo luogo, mi pare opportuno chiedersi se questa rilettura della riserva di legge, che sposta il centro delle garanzie dal Parlamento al giudice costituzionale, non possa iscriversi in una più generale tendenza, che caratterizza l’attuale costituzionalismo occidentale, in cui a una crescente sfiducia nei confronti delle assemblee rappresentative corrisponde una crescente attenzione al ruolo dei giudici, e in particolare dei giudici costituzionali. Non dalla dialettica democratica adeguatamente presidiata scaturisce la tutela dei diritti dei cittadini, bensì dai giudici costituzionali che riesaminano il risultato di tale dialettica. In questo senso, come nota l’Autore, in un’evidente eterogenesi dei fini (p. 38), un istituto inizialmente pensato a tutela dell’intervento del Parlamento, si trasforma nella garanzia dell’intervento del giudice costituzionale.
Meno persuasiva, ancorché assai suggestiva è, a mio giudizio, la tesi che assegna alla riserva di legge il ruolo di “giuntura” o “cerniera” nei rapporti fra ordinamenti (p. 250). Mentre mi sento di condividere l’osservazione secondo cui esiste una “stretta interrelazione tra le dinamiche evolutive della riserva di legge e quelle relative all’integrazione europea” (p. 105), e, più specificamente, che solo “con il pieno riconoscimento della copertura costituzionale” di cui all’art. 11 Cost. “è stato possibile accettare apertamente l’incidenza dello stesso diritto europeo” nelle materie coperte da riserva di legge (p. 100), mi sembra che l’Autore sopravvaluti il ruolo della riserva di legge quando sottolinea il “protagonismo (a volte evidente, a volte più nascosto) che la riserva di legge ha comunque avuto nello sviluppo del rapporto tra ordinamento costituzionale e dimensione sovrastatuale”, fino a fare della riserva di legge un “presupposto per l’attivazione dei controlimiti, a tutela di quegli elementi di intersezione tra sistemi giuridici che sono i diritti fondamentali” (p. 129).
A mio modo di vedere, il protagonista dell’interazione fra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione è stato e rimane l’art. 11 della Costituzione: la riserva di legge mi pare piuttosto, entro certi limiti, una vittima di tale interazione. Essa rappresenta infatti uno di quegli “ostacoli” di carattere costituzionale che il giudice costituzionale ha dovuto superare, appellandosi appunto all’art. 11, per garantire il primato del diritto europeo, con il solo limite dei controlimiti, attivabili a prescindere dall’esistenza di una riserva di legge nella materia incisa dal diritto europeo. Nel caso Taricco, la Corte ha sì elevato la riserva di legge in materia penale (estesa fino a comprendere la disciplina della prescrizione) al rango di principio supremo dell’ordinamento in funzione di controlimite; mi pare però che il fatto che una particolare riserva di legge – quella in materia penale, che, come sottolinea l’Autore, gode di una posizione e tutela particolare fra le riserve di legge (pp. 60 ss.) ― sia qualificabile come principio supremo dell’ordinamento non attribuisca necessariamente all’istituto della riserva di legge in quanto tale il ruolo di istituto-cerniera nei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento europeo.
Nella seconda parte del volume, dedicata come si è detto alle “influenze sovrastatuali”, divengono oggetto di ricerca “il concetto di ‘atto legislativo’, introdotto nel diritto dell’Unione europea dal Trattato di Lisbona, e il concetto di ‘legge’ emergente dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” (p. 165), sullo sfondo di tre domande poste in relazione tanto all’ordinamento UE quanto al sistema convenzionale di protezione dei diritti. L’Autore si chiede in primo luogo se il diritto UE e la Convenzione “conoscano strumenti paragonabili alla riserva di legge, o che comunque assolvano funzioni analoghe a quelle esercitate dall’istituto all’interno degli ordinamenti statali, e di quello italiano in particolare”; quindi “se sia possibile che ‘dall’esterno’ possano essere riservati alla legge all’interno dello Stato oggetti o materie nuovi e ulteriori rispetto a quanto previsto dal testo della Costituzione”; infine, se e come tali influenze sovrastatuali “abbiano contribuito a modificare il significato teorico e il funzionamento in concreto delle riserve di legge poste dalla Costituzione italiana” (p. 134).
Quanto all’ordinamento dell’Unione, rileva soprattutto la prima delle tre questioni poste, cioè se nella categoria degli “atti legislativi” introdotta dal Trattato di Lisbona sia rinvenibile un istituto paragonabile alla riserva di legge quale si ritrova nel diritto costituzionale statale. Sul punto l’Autore rileva che le profonde differenze di sistema fra l’assetto delle fonti nell’ordinamento costituzionale e in quello dell’Unione – differenze non scalfite dall’introduzione della categoria degli atti legislativi – porterebbero a rispondere in senso negativo. Il sistema delle fonti dell’Unione, infatti, rigetta un’idea di gerarchia che ponga gli atti legislativi in posizione sovraordinata rispetto agli atti non legislativi. Al contrario, sono determinanti, nell’ordinamento dell’Unione, le singole basi giuridiche che al tempo stesso conferiscono una specifica competenza all’Unione e stabiliscono attraverso quali atti essa debba essere esercitata. Ma né la procedura legislativa richiede necessariamente l’intervento del Parlamento europeo in qualità di co-legislatore, né le aree in cui intervengono gli atti legislativi sono necessariamente quelle di maggiore importanza. In sintesi, la “qualificazione di un atto come ‘legislativo’ ha, all’interno dell’Unione europea, una valenza estremamente diversa rispetto al concetto di ‘legislazione’ proprio degli ordinamenti nazionali, e di quello italiano in particolare” (p. 184).
Ciò detto, l’emergere, anche grazie all’intervento della Corte di Giustizia, di alcune garanzie di trasparenza e pubblicità specifiche dei procedimenti legislativi – in particolare la trasmissione ai Parlamenti nazionali degli atti di iniziativa e il regime di pubblicità delle sedute del Consiglio quado questo deliberi e voti su atti legislativi – porta l’Autore a chiedersi se questi sviluppi procedurali non possano preludere a una “preminenza assiologica” (p. 207) degli atti legislativi rispetto agli atti che hanno seguito procedimenti diversi. In questo modo, l’introduzione della categoria degli atti legislativi “potrebbe quindi essere letta come un rafforzamento della qualità democratica dei procedimenti decisionali europei” (p. 207).
Il capitolo dedicato al sistema della Convenzione EDU mostra la distanza fra l’istituto della riserva di legge contemplato dal diritto costituzionale e la nozione di “legge” elaborata dalla Corte di Strasburgo. Quest’ultima, infatti, nella sua giurisprudenza, è “progressivamente giunta a conclusioni […] che finiscono per ignorare qualsiasi collegamento tra il comando giuridico e la sua produzione da parte dell’organo rappresentativo dei cittadini, focalizzandosi piuttosto su una prospettiva sostanzialistica relativa alla buona ‘qualità’ del prodotto normativo, soprattutto dal punto di vista della sua capacità di fornire ai destinatari elementi di certezza e prevedibilità degli effetti delle proprie condotte” (pp. 212-213). Per la Corte EDU, pertanto, non l’intervento del Parlamento nazionale nel procedimento di formazione dell’atto rileva ai fini del rispetto della Convenzione, bensì, la certezza, prevedibilità e conoscibilità della disciplina. Dal che l’Autore condivisibilmente conclude che l’apporto della giurisprudenza di Strasburgo alla lettura costituzionale delle riserve di legge non va cercato nello stabilire nuove e ulteriori riserve di legge, bensì nel rafforzare le riserve di legge già previste dalla Costituzione, “innalzando le ‘pretese’ nei confronti del legislatore e dunque arricchendo e dettagliando meglio il tipo di obbligo in capo ad esso” (p. 245).
Nel complesso, il volume di Giovanni Piccirilli si fa particolarmente apprezzare per la scelta, sopra ricordata, di studiare la riserva di legge alla luce delle evoluzioni dell’ordinamento costituzionale italiano, interne e nella sua interazione con l’ordinamento dell’Unione e con il sistema della Convenzione. Ciò permette di giungere a una valutazione realistica, quasi disincantata, della effettiva capacità della riserva di legge di perseguire i beni costituzionali alla cui protezione essa è, o dovrebbe essere, finalizzata e a una sua rinnovata comprensione che fa del controllo giurisdizionale da parte della Corte costituzionale, reso più rigoroso dall’integrazione del parametro convenzionale, il cuore del significato garantistico della riserva di legge.
Un’altra scelta di fondo del lavoro consiste nell’affrontare la riserva di legge come istituto unitario (p. 13), prescindendo non solo dalle sue diverse qualificazioni (assoluta, relativa, ecc.), ma anche dalla specifica materia riservata alla legge. In diverse occasioni, tuttavia, l’Autore riconosce come sia essenzialmente la riserva di legge in materia penale a venire in rilievo e a presentare specificità che le conferiscono una posizione particolare fra le riserve di legge, richiedendo un’analisi separata: è il caso della giurisprudenza costituzionale, che in questo ambito si mostra assai più sensibile al necessario intervento del Parlamento, enfatizzando gli aspetti “democratici” della riserva di legge (p. 60), del caso Taricco (p. 112), e della sentenza n. 230/2012, in cui la legalità costituzionale si confronta con quella convenzionale (p. 231).
L’impressione complessiva che si ricava dalla lettura del volume è che, se alle “evoluzioni costituzionali” si sommano le “influenze sovrastatuali”, la capacità della riserva di legge di limitare, al di fuori dell’ambito penale, il libero concorso fra le fonti nella disciplina di una materia sia piuttosto debole, o comunque si sia fortemente indebolita nel tempo: a una giurisprudenza costituzionale assai generosa nell’accettare l’intrusione di atti diversi dalla legge formale nelle materie riservate, si somma la tendenziale indifferenza, agli occhi dei giudici di Strasburgo e Lussemburgo, in ordine alla scelta della fonte cui gli Stati fanno ricorso per disciplinare una determinata materia.
3 Febbraio 2020
di Davide Paris