L’Italia condannata ancora una volta dalla Corte EDU per trattamenti inumani e degradanti nell’hotspot di Lampedusa

Il 19 ottobre 2023, con tre sentenze – nella sostanza “gemelle” per i fatti all’origine delle denunce, per l’iter argomentativo e per le conclusioni cui giunge la Corte – l’Italia è stata condannata, una volta ancora, dalla Corte EDU, a causa delle condizioni disumane di trattenimento alle quali alcuni stranieri tunisini sono stati sottoposti, tra il 2017 e il 2019, nell’hotspot di Contrada Imbriacola, sito a Lampedusa.
Preliminarmente, è necessario ricordare come ai sensi dell’art. 17 del D.L. 13/2017 (c.d. Minniti-Orlando), lo straniero, che venga rintracciato «in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare», sia condotto, «per le esigenze di soccorso e di prima assistenza», presso appositi punti di crisi – i c.d. centri di primo soccorso e di accoglienza (CPSA), tra i quali, per l’appunto, quello di Lampedusa – al cui interno sono effettuate le «operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico» e come debba essere anche assicurata «l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito».
Le sentenze M.A. c. Italia, A.B. c. Italia e A.S. c. Italia, hanno invece sancito che rispetto a tale procedura vi è stata da parte italiana, nel centro qui in considerazione, violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della CEDU. È inoltre da sottolineare come la violazione di queste disposizioni fosse stata decretata dalla Corte EDU già nel 2023, con la sentenza J.A. e al. c. Italia, relativa a quattro cittadini tunisini informalmente trattenuti nel centro di Lampedusa per dieci giorni alla fine del 2017, e, prima ancora, nel 2016, con la sentenza Khlaifia e al. c. Italia.
Le sentenze in commento rimarcano, dunque, come nell’hotspot di Lampedusa continuino ad essere violati i termini della CEDU, malgrado siano state nel tempo avanzate, nelle opportune sedi giudiziarie, ripetute denunce da parte degli stranieri che vi stazionano, e nonostante le conseguenti condanne già comminate ad opera della Corte EDU.
In tutte e tre le sentenze i ricorrenti risultano essere cittadini tunisini, approdati sulle coste italiane con imbarcazioni di fortuna. Tutti sono stati trattenuti, con alterne vicende, nel CPSA di Contrada Imbriacola (in un caso, anche nonostante il centro fosse stato dichiarato ufficialmente chiuso a causa di un incendio che lo aveva reso inadatto), senza potere lasciare l’hotspot durante la permanenza, stazionandovi altresì in condizioni disumane e degradanti (sovraffollamento della struttura, assenza di condizioni igienico-sanitarie, limitato accesso all’acqua calda e potabile, presenza di due bagni condivisi da quaranta persone, materassi per dormire collocati in aree all’aperto, presenza di stanze troppo fredde o troppo calde, etc.). Da parte dei ricorrenti veniva altresì lamentato l’essere stati costretti a compilare il c.d. ‘foglio notizie’, attestante le ragioni della venuta in Italia, in assenza di qualsiasi informazione, impossibilitati del resto a comprendere il contenuto dei documenti e in mancanza di ogni indicazione circa la possibilità di accesso alla procedura di protezione internazionale: l’essersi dunque trovati nella condizione di compilare il documento senza l’assistenza necessaria. In un caso ci si doleva altresì della violenza subita durante le operazioni di rimpatrio.
La Corte di Strasburgo, rigettando le obiezioni del Governo italiano e richiamandosi alla Relazione del 2020 del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale al Parlamento italiano, nonché al proprio precedente J.A. e al. c. Italia, ha recepito le doglianze dei ricorrenti, sia per le condizioni di accoglienza disumane e degradanti del centro, sia per il trattenimento de facto presso l’hotspot, «in assenza di base legale chiara e accessibile» e, quindi, per l’impossibilità dei ricorrenti di ricevere informazioni adeguate in relazione alla privazione della propria libertà e, conseguentemente, per il non potere contestare tale condizione di fronte ad un’autorità giudiziaria.
Due sono i profili su cui la Corte EDU si sofferma, seppure con una certa sinteticità argomentativa, che si ritiene peraltro sia intenzionale a corroborare la posizione da essa assunta. La Corte interviene infatti nel solco di una giurisprudenza oramai consolidata in materia, limitandosi per molta parte a rinviare agli argomenti utilizzati – più sviluppati – e alle conclusioni cui era già giunta nei precedenti supra citati; la concisione che si denota nelle tre sentenze sembra quindi, da un lato, volta a rafforzare tale indirizzo e, dall’altro, quasi voler assurgere ad un ancora più incisivo monito per gli Stati, in particolare quello italiano.
Il primo profilo di analisi è dunque relativo al perdurare dell’assenza di rimedi effettivi rispetto alla detenzione dei ricorrenti, dal momento che la privazione di libertà avviene de facto, senza alcun fondamento giuridico. Sul punto, l’aspetto di maggiore interesse sollevato dalle sentenze in esame riguarda del resto il fatto che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, il 2 dicembre 2021, aveva in verità già dichiarato esaurita la procedura di monitoraggio della sentenza Khlaifia e al. c. Italia, con la quale, in un caso similare, l’Italia era stata appunto condannata per l’assenza di una base giuridica circa il trattenimento dei migranti nell’hotspot di Lampedusa e per la loro impossibilità di presentare ricorso per il sindacato sulla legalità del trattenimento e sulle condizioni del centro di accoglienza. Il Comitato dei Ministri aveva infatti ritenuto – come attestato dagli Action Report italiani, l’ultimo dei quali risalente al 2021 – che le misure adottate dalle autorità nazionali avessero invero soddisfatto le richieste della Corte di Strasburgo, ottemperando agli obblighi imposti.
Le previsioni introdotte con la L. 130/2020, richiamate dal Governo italiano nel predetto Report, per il vero, riguardano esclusivamente i centri per il rimpatrio (centri di detenzione deputati all’allontanamento dello straniero) e non sono invece rivolte, specificatamente, agli hotspot, la cui finalità dovrebbe essere non già il contenimento e la detenzione degli stranieri quanto, piuttosto, la loro accoglienza, la messa a disposizione di operazioni di soccorso, di prima assistenza sanitaria, di pre-identificazione e di foto-segnalamento, la messa a conoscenza delle procedure di protezione internazionale e il ricollocamento dei richiedenti asilo in diversi Stati membri dell’Unione europea. Inoltre, poiché per la presentazione da parte dello straniero delle istanze previste dalla normativa richiamata è comunque necessaria un’assistenza legale, ai trattenuti nell’hotspot di Lampedusa quest’ultima non viene garantita in loco ed essi sono impossibilitati a lasciare il centro. Non ultimo, la durata della loro permanenza nello stesso risulta essere indefinita e indefinibile.
Le recenti sentenze in esame sono dunque meritevoli di rilievo soprattutto in quanto evidenziano nuovamente che, oggi ancora, e contrariamente a quanto affermato dal Comitato dei Ministri, continuano a darsi in Italia la mancanza di una «base legale chiara e accessibile» per la privazione della libertà e per il trattenimento dei migranti nei centri di accoglienza, nonché, di conseguenza, la possibilità di un provvedimento formale che disponga tali misure e l’ulteriore facoltà di contestazione del provvedimento.
Inoltre, come si è già fatto notare, la Corte di Strasburgo è stata estremamente tranchante nel respingere quanto eccepito dal Governo italiano circa il mancato esaurimento, da parte dei ricorrenti, delle vie legali nazionali di ricorso. Sebbene i migranti avrebbero potuto, di fatto, chiedere al prefetto un permesso temporaneo per lasciare l’hotspot, il Governo, al momento degli avvenimenti oggetto di ricorso, non ha fornito ai ricorrenti alcuna informazione circa l’accesso pratico all’assistenza legale per presentare tale domanda, né ha contestato di fronte alla Corte EDU l’affermazione dei ricorrenti secondo cui l’elenco degli avvocati che potevano accedere al CPSA di Lampedusa non era mai stato reso loro noto nel periodo di loro permanenza.
Anche il D.L. 130/2020 e il più recente D.L. 20/2023, recanti disposizioni urgenti in materia di immigrazione, pur intervenendo in parte sulla disciplina degli hotspot, non hanno ancora provveduto ad indicare criteri certi per stabilire se la permanenza in questi “punti di crisi”, debba avvenire in strutture dalle quali lo straniero può allontanarsi oppure in luoghi chiusi, nei quali si realizza, in sostanza, una privazione della libertà personale; si assiste così alla conseguente violazione, quale da tempo segnalato dalla dottrina (cfr., ex multis, A. Pugiotto, 2010, 333 ss.; D. Loprieno, 2018; M. Benvenuti, 2020, 398 ss.), non solo dell’art. 5 della CEDU, ma ancor prima delle garanzie di cui all’art. 13 della Costituzione (cfr. Corte costituzionale, sent. n. 105/2001, cons. in dir. n. 4).
Il secondo profilo di sicuro interesse delle sentenze in commento riguarda poi l’attenzione motivatamente critica rispetto alle condizioni di permanenza presso la struttura di Lampedusa. Significativo è infatti il richiamo alla Relazione del 2020 del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale al Parlamento italiano, nella parte in cui descrive le condizioni – ci si consenta di definire – di “sopravvivenza” al suo interno, in quanto si sottolinea implicitamente l’importanza di un costante monitoraggio, non solo istituzionale, ma anche ad opera di organizzazioni non governative, in relazione alle condizioni, troppo spesso inumane e degradanti, in cui sono trattenuti gli stranieri.
La pronuncia, nella sua stringatezza, anche in questo caso non lascia infatti spazio a dubbi rispetto alla condanna di un hotspot approach che, pur promosso da tempo dall’Unione europea, risulta al momento, quantomeno per l’Italia, fortemente critico e criticato (Amnesty International, 2016; European Council for Refugees and Exiles, 2017; EU Fundamental Rights Agency, 2019), non solo per le ragioni evidenziate supra o per l’insufficiente capacità di accoglienza di tali centri, ma anche, e prima ancora, per la violazione dei diritti umani al loro interno.
Gli hotspot, sotto questo profilo, sembrano costituire quanto di più inumano sia possibile, trasformandosi di fatto in una «chimera» (M. Benvenuti, 2018), in un indeterminato “limbo”, nel quale la condizione giuridica e, prima ancora, umana, degli immigrati non viene presa nella dovuta considerazione, contribuendosi così a perpetuare un disastro umanitario che non si può più sostenere essere invisibile ai più.
Ben vengano, dunque, sentenze di tale spessore, capaci di riportare immediatamente in primo piano un’urgente questione, rispetto alla quale la Corte EDU chiede, oramai da tempo, una soluzione di maggiore “sostanza” e, soprattutto, rispondente pienamente ai principi della CEDU.


Vaccinazioni obbligatorie nei confronti di minori quale «misura necessaria in una società democratica». Pronuncia della Corte europea sul caso della Repubblica ceca. Riflessi possibili sulla campagna vaccinale contro il Covid-19?

Con la sentenza Vavřička e altri c. Repubblica Ceca  dell’8 aprile 2021 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Repubblica Ceca non ha violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel rendere obbligatori alcuni vaccini nei confronti di minori.
Non si tratta del primo caso nel quale la Corte europea si è occupata del tema dell’obbligo vaccinale, essendosi già pronunciata, nel 2012, nel caso Solomaikhin c. Ucraina. All’epoca, i giudici di Strasburgo ritennero che l’obbligo vaccinale stabilito dalla legge ucraina rispettasse i requisiti richiesti, poiché l’interferenza con l’integrità fisica del ricorrente era giustificata da considerazioni di salute pubblica e dalla necessità di controllare la diffusione delle malattie infettive nel Paese. Inoltre, il personale medico aveva verificato l’idoneità alla vaccinazione del ricorrente, prendendo le precauzioni necessarie per garantire che l’intervento medico non andasse a suo scapito e che il corretto bilanciamento tra l’integrità personale del richiedente e l’interesse pubblico alla protezione della salute della popolazione non venisse in alcun modo attenuato.
Nella sentenza in commento la Corte europea ritorna, dunque, a pronunciarsi in tema di vaccinazioni obbligatorie. La decisione, sebbene non intervenga direttamente sui vaccini contro il Covid-19, risulta però particolarmente interessante e significativa in quanto consente di riflettere sulle implicazioni derivanti dalla eventuale decisione degli Stati di imporne l’obbligatorietà.
Il caso fa seguito al ricorso di un genitore inadempiente, che si era visto comminare una sanzione pecuniaria, e di altri cinque ricorrenti, che si erano visti rifiutare l’ammissione dei figli alla scuola dell’infanzia.
La Repubblica Ceca, con la legge n. 258/2000 sulla protezione della salute pubblica ha infatti previsto la vaccinazione obbligatoria dei minori; nello specifico, si tratta di vaccinazioni pediatriche per prevenire nove malattie infantili riconosciute dalla scienza medica. La normativa prevede inoltre che le vaccinazioni non possano essere imposte mediante costrizione fisica, ma che i minori non vaccinati – fatta eccezione per quanti non possano essere vaccinati motivi di salute – vengano esclusi dalla frequenza della scuola dell’infanzia e che ai genitori possa essere applicata una sanzione pecuniaria. Ai minori non vaccinati, inoltre, non può comunque essere precluso l’accesso alla scuola primaria.
La Corte europea, in linea con il precedente supra richiamato, ha affermato che la vaccinazione obbligatoria rappresenta un’interferenza con l’integrità fisica dell’individuo e che essa riguarda pertanto il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 della CEDU. Anche in questa occasione i giudici hanno peraltro sottolineato come la normativa della Repubblica ceca persegua il «legittimo» obiettivo di tutelare sia la salute individuale, sia l’interesse alla salute della collettività, e come le vaccinazioni tutelino «sia coloro che le ricevono, sia quelli che non possono essere vaccinati per ragioni mediche e che pertanto si affidano all’immunità ‘di gregge’ per essere protetti dalle malattie infettive gravi». Essi evidenziano poi come le conseguenze subite dai ricorrenti siano proporzionali e giustificate rispetto allo scopo che la Repubblica ceca intende raggiungere – la protezione cioè di tutti da gravi malattie infettive – e come la misura introdotta sia in linea con il migliore interesse dei minori.
La Corte europea ha dunque stabilito che le vaccinazioni obbligatorie possono essere considerate «misure necessarie in una società democratica» e che il vaccinarsi rientra nella sfera dei valori della solidarietà sociale, il cui scopo ultimo è proteggere la salute di tutti i membri di una società, in particolare quella delle persone particolarmente vulnerabili.
Essa ritiene che sia compito prioritario e irrinunciabile della politica sanitaria di un Paese il salvaguardare l’interesse della tutela della salute pubblica, soprattutto dei minori, e che lo Stato ceco abbia effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi collettivi e la tutela dei singoli, sancendo così che la politica sanitaria della Repubblica ceca non ha violato il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 della CEDU. Nello Stato ceco le vaccinazioni per prevenire malattie infantili note alla scienza medica sono pertanto un dovere e non una scelta rimessa al singolo. Nel caso di specie è quindi risultato infondato asserire che l’obbligo vaccinale ledesse la libertà di autodeterminazione, anche in quanto i ricorrenti non hanno prodotto prove scientifiche idonee a dimostrare che i vaccini in questione fossero poco efficaci e pericolosi.
Si noti al riguardo, e in primo luogo, come la vicenda ceca e la sentenza della Corte europea in commento ricalchino quanto avvenuto in Italia, in particolare con il decreto legge n. 73 del 2017, sul quale la Corte costituzionale si è pronunciata (sentenza n. 5 del 2018), ritenendo costituzionalmente non irragionevole introdurre l’obbligo vaccinale, quando ciò sia utile, come era nel caso di specie – e così come nella vicenda ora oggetto di commento – a tutelare la salute della collettività.
Rispetto al tema dell’obbligatorietà delle vaccinazioni pediatriche, si è dunque in presenza non solo di una ‘circolarità’ in Europa dei contenuti delle decisioni delle Corti, ma anche di quelli delle normative, che paiono sovente coincidere. A titolo esemplificativo, la recente disciplina della Germania (Legge federale 10.2.2020), che ha imposto la vaccinazione dei minori contro il morbillo, pena una sanzione pecuniaria sino a 2500 euro, o, ancora, quella francese (Loi n° 2017-1836, art. 49), che prevede vaccinazioni pediatriche obbligatorie, il non rispetto delle quali determina l’impossibilità di accedere ai servizi educativi e al sistema scolastico (cfr. Commissione europea, The organization and delivery of vaccination services in the European Union).
Volendo ritornare sul dettato della richiamata sentenza della Corte europea, è anzitutto utile precisare come essa non consenta di presupporre che in Europa si possano eseguire coattivamente vaccinazioni contro la volontà degli individui; ma, altresì, che gli obblighi vaccinali e le corrispondenti misure sanzionatorie non possano essere considerati atti in violazione dei diritti umani. Essa risulta inoltre interessante in quanto potrebbe avere riflessi, proprio in Europa, in relazione alla campagna vaccinale in corso contro il Covid-19, rispetto alla quale vi è al momento una forte raccomandazione da parte degli Stati, pur non essendo ancora stato introdotto l’obbligo vaccinale generalizzato; obbligo che verosimilmente non potrà essere comunque previsto fintanto che non vi sarà la garanzia della effettiva disponibilità di vaccini per tutti.
Di recente, peraltro, l’obbligo di vaccinazione per la prevenzione dell’infezione da Covid-19 è stato introdotto, proprio in Italia, per gli esercenti le professioni sanitarie, per «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza» (Decreto legge n. 44/2021). Sebbene siano molti i profili giuridici potenzialmente interessati da tale introduzione e, ancor più, dall’eventuale imposizione di un obbligo generalizzato di vaccinazione per tutti i cittadini degli Stati parte della Convenzione, sono almeno due le questioni che interessa evidenziare in questa sede. In primo luogo, la legittimità, non solo rispetto alle Costituzioni nazionali, ma anche in relazione alle CEDU, di un obbligo vaccinale; in secondo luogo, la discrezionalità del legislatore nel prevedere le sanzioni corrispondenti alla violazione dell’obbligo.
Rispetto alla prima, si può desumere dalla decisione della Corte europea che, sebbene ogni vaccinazione implichi un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata (cfr. decisioni Salvetti c. Italia e Solomaikhin c. Ucraina) e, in particolare, una limitazione alla libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, occorre riferirsi alla politica sanitaria degli Stati contraenti, la quale – proprio in considerazione degli artt. 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata) della CEDU – impone agli Stati l’onere di adottare misure adeguate e proporzionate per proteggere la vita e la salute di coloro che sono sottoposti alla propria giurisdizione, specie dei più vulnerabili. L’obbligo vaccinale può dunque essere imposto, in presenza di uno scopo legittimo e quando gli interventi siano proporzionati allo scopo perseguito.
Nell’attuale contesto pandemico e di pericolo per la salute pubblica, se il fine, rispetto ai vaccini contro il Covid-19, potrebbe ragionevolmente rinvenirsi nell’interesse pubblico e nell’esigenza sociale di protezione della salute collettiva, nonché nel vincolo di solidarietà che nelle società democratiche lega gli individui, qualche dubbio potrebbe emergere rispetto alla proporzionalità e all’invasività dell’intervento in rapporto alla libertà di autodeterminazione degli individui, poiché molte incertezze paiono ancora circondare la sicurezza per la salute e l’efficacia dei diversi vaccini proposti contro il Covid-19.
Dubbi maggiori potrebbero poi emergere rispetto alla discrezionalità del legislatore nel disciplinare la sanzione per il mancato adempimento dell’onere vaccinale. In merito, ad esempio, alla recente introduzione in Italia dell’obbligo vaccinale per il personale sanitario, se le conseguenze sul piano del rapporto di lavoro potrebbero non ritenersi discriminatorie o irragionevoli (cfr., in questo blog), esse potrebbero tuttavia non risultare così efficaci proprio rispetto all’obiettivo di garantire l’adempimento dell’obbligo vaccinale e, soprattutto, non sarebbero da sottovalutare le conseguenze ricadenti sulla organizzazione stessa del sistema sanitario, sulla garanzia di funzionamento e di erogazione di servizi pubblici essenziali e, non ultimo, sulla tutela del diritto medesimo alla salute della collettività.
Immaginare di introdurre un obbligo generalizzato di vaccinazione contro il Covid-19 a tutta la popolazione sarebbe dunque, verosimilmente, ancora più problematico, soprattutto in relazione agli strumenti e alle modalità con le quali imporlo. Sarebbe inoltre interessante indagare quanto margine di giudizio potrebbero realisticamente avere le Corti costituzionali e la Corte di Strasburgo rispetto agli ampi spazi di discrezionalità che si aprirebbero, in punto di previsioni sanzionatorie, per il legislatore.
In effetti, la proposta – che si sta profilando in ambito europeo e nazionale – di introduzione di un passaporto vaccinale per circolare liberamente ed accedere a determinati servizi sembrerebbe implicitamente volta a superare la complessità di queste questioni. Essa, tuttavia, ne determinerà certamente altre – quali il rispetto dell’eguaglianza tra individui e l’introduzione, implicita e surrettizia, dell’obbligo vaccinale – non necessariamente di più semplice soluzione.
La decisione della Corte europea in commento, nel sancire le vaccinazioni obbligatorie come «misure necessarie in una società democratica», potrebbe tuttavia costituire, con la dichiarata loro legittimazione, un ragionevole ‘assist’ per futuri interventi statali di ulteriori oneri vaccinali contro il Covid-19. Sul punto, peraltro, è opportuno evidenziare che il 27 gennaio scorso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione n. 2361, nella quale si sollecitano gli Stati parte e l’Unione Europea ad assicurarsi «that citizens are informed that the vaccination is not mandatory and that no one is under political, social or other pressure to be vaccinated if they do not wish to do so».
La questione, e le problematiche ad essa sottese in relazione alle quali la Corte di Strasburgo potrebbe essere indotta a pronunciarsi, sono dunque – si è certi – solo ad un primo stadio.