Chiara Amalfitano
Jusqu'ici tout va bien… ma non sino alla fine della storia. Luci, ombre ed atterraggio della sentenza n. 115/2018 della Corte costituzionale che chiude (?) la saga Taricco
In passato ed in varie sedi, si è fatto notare come sia stato merito della Corte costituzionale nel suo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea aver fatto emergere il linguaggio delle tradizioni costituzionali comuni come possibile valida alternativa ad un dialogo tra le Corti fondato sul codice linguistico molto meno inclusivo, pluralista e tollerante che si fonda sulla nozione di identità costituzionale.
Si era anche fatto notare come l’assist della Corte costituzionale fosse stato fatto proprio dalla Corte di giustizia, che in M.A.S e M.B. definiva quale semplice precisazione quello che in realtà sembra essere un radicale cambio di rotta rispetto a Taricco, almeno riguardo al principio di legalità previsto dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali che diventa – nella seconda pronuncia della Grande Sezione – la sublimazione europea di tradizioni costituzionali anche (come spesso, del resto, accade) non comuni. In questo senso, il fatto che l’ombrello dell’art. 49 sia così ampio da includere anche tradizioni costituzionali (di un ristretto numero di Stati membri) come quelle relative alla natura sostanziale della prescrizione propria dell’ordinamento italiano ne è la prova lampante.
Si concludeva l’ultimo commento testé citato sottolineando che «the Court of Justice of European Union [...] decisione in M.A.S. and M.B. will presumably bring this saga to an end prior than the Italian Constitutional Court (‘ICC’) takes back the floor and ‘cashes out’ and (…) that the ECJ decision will be welcomed and promptly enforced by the ICC despite its argumentative weakness (…)».
Ecco, in quest’ultimo passaggio si è stati forse eccessivamente ottimisti.
La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 115/2018 del 31 maggio scorso effettivamente prende atto della svolta di M.A.S. e M.B. rispetto a Taricco, ma ci tiene a fare precisazioni e aggiunte che, proprio in forza di quell’alleanza sul terreno (e linguaggio) condiviso delle tradizioni costituzionali comuni, francamente non ci si aspettava. La Corte costituzionale sembra parlare questa volta un linguaggio diverso, quello dell’identità costituzionale a cui si affianca una attitudine oppositiva e non cooperativa e dialogica rispetto alle ragioni di Lussemburgo. Non è un caso che sia del tutto assente qualsiasi riferimento alle tradizioni costituzionali (anche non comuni), mentre si richiama l’identità costituzionali in ben due passaggi della pronuncia (v. punti 5 e 11).
Del resto, sotto diversi profili la Corte costituzionale, anche in quest’ultima (?) tappa della saga, sembra parlare un proprio linguaggio, diverso da quello della Corte di giustizia. Rectius, la prima sembra almeno formalmente seguire il ragionamento della seconda. Ma nel trarne le conseguenze che ritiene “scontate”, si distacca dall’impostazione del giudice di Lussemburgo, giungendo sostanzialmente a negare l’efficacia diretta (di cui la “determinatezza” rappresenta il “nocciolo duro”) dell’art. 325 TFUE. Pur concordandosi sul fatto che tale disposizione non ha i caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza che la Corte di giustizia le ha riconosciuto in Taricco (punto 51) e confermato in M.A.S. e M.B. (punto 38), la Consulta sembra osare troppo nell’effettuare una valutazione che non le spetta, non essendo essa deputata a sancire quali norme UE hanno (o meno) effetto diretto. Vero è che essa evidenzia – come già e più diffusamente aveva fatto nell’ordinanza n. 24/2017 (punti 6 e 8) – che resta ferma la competenza della «sola Corte di giustizia [di] interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e [di] specificare se esso abbia effetto diretto» (sentenza n. 115/2018, punto 12). Tuttavia, tale giudice nella sostanza contraddice i menzionati punti delle sentenze di Lussemburgo là dove afferma con forza che è «evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE [...], sia la “regola Taricco” in sé» (punto 11). E si tratta – secondo la Consulta – di deficit irrimediabile, che non può essere colmato neppure «grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale», che è inidoneo a sopperire all’originaria carenza di precisione del precetto penale.
Ma andiamo con ordine.
La prima parte della motivazione è esattamente quella che ci si aspettava.
La Corte costituzionale ricorda, al punto 7 della sua pronuncia, come la Corte di giustizia in M.A.S. e M.B. abbia “precisato” (punto 60) che in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la regola Taricco non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015. Si tratta – secondo la Consulta – di un divieto che discende immediatamente dal diritto dell’Unione e non richiede alcuna ulteriore verifica da parte delle autorità giudiziarie nazionali. Ne deriva che «[a]lla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza M.A.S., tutte le questioni sollevate da entrambi i rimettenti risultano non fondate, perché la “regola Taricco” non è applicabile nei giudizi a quibus» (punto 9).
Jusqu'ici tout va bien, per ricordare la citazione dell’ultima scena di un film indimenticabile. Ma ciò che conta purtroppo, come la stessa citazione ricorda, è l’atterraggio. E quello della Corte costituzionale, per come sviluppa e conclude il suo ragionamento, non sembra immune da un impatto inter-ordinamentale di un certo spessore.
La Corte, infatti, al punto 10 specifica, rispetto a quanto poc’anzi ricordato, che l’infondatezza delle questioni «non significa che le questioni sollevate siano prive di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali». Si tratta di scelta già effettuata, ad esempio, dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 9494/2018 e su cui, evidentemente, la Consulta non concorda, ritenendo piuttosto che «[i]ndipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare [...] la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
Chiaro è l’intento della Corte costituzionale di pronunciarsi con una sentenza che abbia efficacia sostanzialmente erga omnes e ponga fine alle derive giurisprudenziali della saga, con indicazioni stringenti e univoche per tutte le autorità giudiziarie nazionali che saranno chiamate a prendere posizione rispetto alla applicabilità della regola Taricco nei procedimenti dinanzi ad esse pendenti.
Vero è che la Corte di giustizia non ha mai espressamente chiarito in M.A.S. e M.B. a quale giudice (Corte costituzionale o giudice comune) spettasse verificare la compatibilità della regola Taricco con il principio di legalità sotto il profilo della determinatezza e della irretroattività in malam partem (per diverse posizioni in proposito v. qui e, già ad una prima lettura della sentenza del 5 dicembre 2017, anche qui). Certo, leggendo in combinato le due pronunce dei giudici del Kirchbergh si potrebbe sostenere che il giudice chiamato a garantire il rispetto dei diritti fondamentali sia innanzitutto il giudice comune (v. punto 46 della sentenza M.A.S. e M.B. che richiama il punto 53 della Taricco). Non poteva essere altrimenti in Taricco e anche in M.A.S. e M.B., in fin dei conti, la Consulta era chiamata a pronunciarsi in via incidentale e ben avrebbe potuto lasciare la verifica ultima della suddetta compatibilità ai giudici comuni dell’ordinamento nazionale che assicurano “dalla base” il funzionamento del rinvio pregiudiziale quale “chiave di volta” del sistema giurisdizionale dell’Unione europea.
La Corte costituzionale, al contrario, ritiene che spetti in via esclusiva ad essa effettuare tale controllo, poiché è in gioco un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale (sentenza n. 115/2018, punto 8). Pur senza espressamente richiamarlo, la Consulta pare in tal modo allinearsi all’obiter dictum (punto 5.2) di cui alla sentenza n. 269/2017. In questo obiter, come noto, essa ritiene di doversi riservare un controllo accentrato di costituzionalità quando una norma interna viola tanto la Costituzione, quanto la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, come accaduto da ultimo – espressamente ricorda la stessa Corte costituzionale – nel caso M.A.S. e M.B. Analogamente, nella sentenza in esame essa riserva a se stessa la verifica del rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e ricorda che compito del giudice comune in casi siffatti è (soltanto) quello di sollevare il dubbio di legittimità costituzionale della norma interna che consente l’ingresso di una disposizione di diritto dell'Unione che si ritiene lesiva dei controlimiti (punto 8).
Tuttavia, se pur ci è chiara la premessa logica-argomentativa da cui parte la Consulta, non si può non notare che (anche) sotto il profilo in esame, come accennato, il ragionamento del Giudice costituzionale pare non perfettamente in linea con quello della Corte di giustizia.
Senza dubbio in M.A.S. e M.B anche la Corte di giustizia – ribaltando (al punto 52) il bilanciamento effettuato in Taricco tra interessi in gioco, ovvero tutela delle finanze dell’Unione e principio di legalità, a favore di quest’ultimo – ha sancito la non applicabilità della regola Taricco laddove essa violi il principio della determinatezza. Ma la Corte di giustizia si riferisce alla indeterminatezza del regime di prescrizione applicabile a seguito della disapplicazione del regime nazionale controverso di prescrizione (punto 59).
Diversamente, la Corte costituzionale fa riferimento ad una indeterminatezza “a monte”, quella della base legale, ritenendo irrimediabilmente indeterminati tanto l’art. 325, parr. 1 e 2, TFUE, quanto la regola Taricco. Vero è che già nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, si è sostenuta l’inammissibile applicazione della regola Taricco in assenza di una base legale sufficientemente determinata. Nella sentenza in esame tuttavia si evidenzia in modo più stringente di quanto non sia accaduto nell’ordinanza n. 24/2017 che la regola Taricco e ancor prima l’art. 325 TFUE non possono considerarsi una base legale che soddisfa tale caratteristica (punto 11).
Quanto alla regola Taricco si sottolinea, in particolare, che il giudice non ha gli strumenti per trarre dall’enunciato “numero considerevole di casi” una regola sufficientemente definita e che ad esso comunque non può essere attribuito il compito di perseguire obiettivi di politica criminale: ciò implicherebbe infatti la violazione del principio della soggezione del giudice alla legge di cui all’art. 101, 2° comma, Cost. Quanto all’art. 325 TFUE in sé, la Consulta afferma che «è persino intuitivo» (sigh!) che da tale previsione non potesse essere estrapolata la regola Taricco (punto 12). E aggiunge che se è pur vero che anche la più certa delle leggi ha bisogno di interpretazioni sistematiche, resta fermo che esse non possono surrogarsi alla praevia lex scripta. In paesi di tradizione continentale come l’Italia vige l’imperativo imprescindibile che le scelte di diritto penale sostanziale permettano all’individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta e ciò implica necessariamente che «tali scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati» (punto 11). Perciò, «rispetto al diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (ibidem).
Il ripetuto (quasi ridondante) richiamo da parte della Consulta ad un testo scritto legislativo come unica base possibile per la definizione del precetto penale evoca (seppur solo implicitamente) il principio di legalità sotto il coté della riserva di legge (nazionale), che pure – come la più attenta dottrina aveva rilevato – non era stato espressamente impiegato nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale a sostegno dell’illegittimità costituzionale della regola Taricco. E sotto questo profilo, il ragionamento della Consulta suscita qualche perplessità a fronte del fatto che nel nostro ordinamento esistono ipotesi in cui un precetto non realmente determinato deve essere necessariamente integrato dall’interprete per poter trovare applicazione: si pensi, per tutti, al d. lgs. 16 marzo 2015, n. 28 che introduce l’istituto della “non punibilità per particolare tenuità dell’offesa”. Ha ragione d’essere questa disparità di impostazione? Certo in quest’ultimo caso si tratta di applicazione a favore del reo, mentre la regola Taricco implica una disapplicazione in malam partem … e qui si torna al “peccato originale” della Corte di giustizia e al funzionalismo che ha guidato la sua prima decisione del settembre 2015, dettato dall’esigenza di assicurare a qualunque costo la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Anche il ragionamento che la Consulta svolge rispetto all’indeterminatezza dell’art. 325, par. 2, TFUE pone qualche perplessità. La Corte di giustizia sul punto in M.A.S. e M.B. rimane silente: il punto 59 della sentenza esamina infatti la sola indeterminatezza del regime prescrizionale applicabile a seguito di disapplicazione del regime nazionale di prescrizione per contrasto con l’art. 325, par. 1. Si potrebbe forse sostenere che anche sotto questo profilo non si abbia indeterminatezza, perché a seguito della disapplicazione il reato rilevante diventa imprescrittibile. E se è conoscibile la nuova regola (ovvero si applica nel rispetto del principio di irretroattività in malam partem) non si ha violazione del principio di legalità.
Ad ogni modo, anche ammettendo che una violazione della determinatezza del regime prescrizionale applicabile discenda dall’applicazione della regola Taricco ex art. 325, par. 1, TFUE, siffatta violazione potrebbe escludersi in caso di disapplicazione imposta dal rispetto dell’art. 325, par. 2, TFUE. Come rilevato in dottrina, per assicurare il principio di assimilazione sancito da tale previsione infatti, a fronte della disapplicazione della normativa nazionale controversa, potrebbe ritenersi applicabile senza problemi interpretativi il corrispondente regime di prescrizione che opera a salvaguardia delle finanze nazionali. Tuttavia, la Consulta esclude con forza questa soluzione ermeneutica: essa chiaramente afferma che «anche se il principio di assimilazione non desse luogo sostanzialmente a un procedimento analogico in malam partem e potesse permettere al giudice penale di compiere un’attività priva di inaccettabili margini di indeterminatezza, essa, comunque sia, non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della “regola Taricco”» (punto 13).
Prima di svolgere qualche considerazione “di sistema”, pare ancora opportuno evidenziare come la Consulta si distacchi dalla Corte di giustizia anche con riguardo alla natura del regime della prescrizione. Quest’ultima sembra ammettere la natura sostanziale della prescrizione sino all’adozione della direttiva PIF e sulla base di tale premessa consentire la non applicazione della regola Taricco, data la libertà dell’Italia, sino a tale data, di regolamentare autonomamente la prescrizione (M.A.S. e M.B., punti 45 e 58). La Consulta ribadisce con forza la natura sostanziale dell’istituto (sentenza n 115/2018, punto 10), senza nulla dire (ma forse non è il suo compito?) sulle possibili ricadute nel nostro ordinamento della trasposizione di tale direttiva, che secondo la Corte di giustizia sembra conferire natura processuale alla prescrizione (M.A.S. e M.B., punti 44 e 45). E quasi a volersi rimangiare quanto affermato, seppur incidentalmente, al punto 9 dell’ordinanza n. 24/2017, dove sembra ammettersi che la prescrizione possa avere natura processuale, anche se ciò certo non farebbe venire «il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate».
Alla luce di quanto sopra, una domanda sorge quasi spontanea.
Perché la Consulta ha sentito il bisogno di chiarire con tanta enfasi la propria prospettiva del radicale contrasto della regola Taricco con il principio di determinatezza in materia penale, previsto dall’art. 25. 2° comma, Cost. se, per porre fine alla saga, sarebbe bastato riconoscere il “chiarimento” della regola (in base alla sentenza M.A.S. e M.B.) quanto alla sua applicazione nel tempo?
Perché non chiudere con un’ordinanza (anziché con una sentenza) che facesse emergere la non applicabilità della regola Taricco ai giudizi pendenti?
Per la semplice ragione che, così facendo, si sarebbe definitivamente sterilizzato sì il conflitto con Lussemburgo, ma si sarebbe lasciato aperto un fronte (interno) del conflitto, quello con i giudici comuni che già prima della sentenza M.A.S. e M.B. avevano limitato l’applicazione temporale della regola Taricco (qui), sulla base di un’impostazione che la Consulta non condivide. E conflitto, quindi, che tale Corte ha appunto ritenuto indispensabile chiudere con una pronuncia, come detto, dagli effetti sostanzialmente erga omnes.
Non è un caso che sia stato rilevato da un giudice costituzionale nella sua veste accademica che la tendenza al giudizio diffuso di legittimità a cui si va assistendo grazie anche al rapporto privilegiato tra giudici comuni e Corte di giustizia rischi di portare all’erosione – proprio con riguardo alla protezione dei diritti fondamentali – del ruolo e dei poteri del giudice delle leggi nel contesto di un mandato costituzionale (quello di un sistema accentrato di costituzionalità) che non può essere disatteso.
Evidentemente la Corte costituzionale non è indifferente a tale rischio.
E in questo senso sembra poter essere letto il menzionato obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in cui la Consulta – dopo la pronuncia della Corte di giustizia in M.A.S. e M.B., che viene espressamente citata – rileva che «può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene» e aggiunge che, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
Alla luce di questo fronte dialogico interno che evidentemente si affianca a quello esterno, i destinatari del messaggio (neanche così criptico) della Consulta sembrano i giudici nazionali, che sono chiamati a pensarci due (ma anche tre) volte prima di aggirare il giudice delle leggi, alimentando il loro canale privilegiato con la Corte di giustizia.
Più precisamente, detto messaggio, letto congiuntamente con quanto si legge al punto 14, nelle due righe conclusive della sentenza n. 115/2018, vale a dire che «la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento» (corsivo aggiunto), sembra indirizzato, in particolare, alla Corte di Cassazione. Non è un mistero che recentemente siano emerse prospettive piuttosto distanti tra quest’ultima e la Corte costituzionale quanto a modi e tempi di applicazione del ruolo che sicuramente condividono, seppur ovviamente con declinazioni differenti, di garanti dei diritti fondamentali del nostro ordinamento. Così, è vero con che con l’ordinanza n. 3831/2018, la Corte di Cassazione ha seguito alla lettera l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017 che richiede, come si è visto, in una situazione di contrasto della normativa oggetto di applicazione tanto con il parametro costituzionale quanto con quello della Carta, di sollevare, innanzitutto, la questione di costituzionalità. Allo stesso tempo però, i Giudici di Piazza Cavour hanno chiesto chiarimenti alla Consulta in merito ad una serie di problematicità, non solo inter-ordinamentali, che sembrano derivare da tale “questione prioritaria di costituzionalità”. Altrettanto vero che, solo due mesi dopo, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13678/2018 ha di fatto ignorato, invece, le indicazioni della Corte costituzionale e, in una situazione di doppio contrasto, ha immediatamente rinviato alla Corte di giustizia.
Ma, ancora più problematica – per il rischio di una progressiva marginalizzazione della Corte costituzionale nel suo ruolo di garante ultimo della tutela dei diritti fondamentali all’incrocio tra Carte e Corti – è la citata decisione n. 9494/2018 della Corte di Cassazione, che dopo M.A.S. e M.B. e prima della sentenza n. 115/2018 decide di applicare la regola Taricco così come depurata dalla Corte di giustizia dall’efficacia ex tunc e, quindi, di applicare la normativa nazionale controversa.
Alla luce di tali orientamenti, il solo modo per imporre alla Cassazione, in primis, e così a tutti i giudici comuni di “sbarrare la strada” alla regola Taricco a prescindere dalla data di commissione dei fatti è quello di dichiararne con forza la contrarietà con il principio di determinatezza sancito dall’art. 25, 2° comma, Cost. Sarebbe del resto un cattivo maestro chi applica una regola che, a detta della Consulta, è chiaramente in contrasto con la Costituzione a prescindere da qualsiasi valutazione sulla sua applicazione temporale.
Si tratta di una formale attestazione di controlimiti? No, perché secondo la Corte costituzionale la stessa conclusione è stata raggiunta dalla Corte di giustizia in M.A.S. e M.B. Ciò è quanto la Consulta specifica al punto 14 della sentenza n. 115/2018 dove, richiamando un concetto già espresso al punto 7, ritiene inapplicabile la regola Taricco non solo alla luce della Costituzione, ma anche sulla base dello stesso diritto dell’Unione europea (e della lettura che dell’art. 49 della Carta si è data nella sentenza del 5 dicembre 2017).
Certo, parlare di controlimiti accertati ma non azionati sembra forse eccessivo, ma rimangono molti dubbi su questa interpretazione autentica della Corte costituzionale di quanto si direbbe in M.A.S. e M.B. e sarà oltremodo interessante conoscere se e quale sarà la reazione del giudice di Lussemburgo.
Certamente, alla luce del percorso argomentativo della Consulta, questa rilettura di M.A.S. e M.B. era probabilmente l’unico modo per evitare l’opposizione dei controlimiti. Eventualità, quest’ultima, che avrebbe concretizzato un atterraggio ad impatto eccessivamente rischioso anche per questa Corte così motivata a difendere strenuamente – e ragionevolmente, dal suo punto di vista – il suo ruolo di Garante della protezione dei diritti fondamentali dell’ordinamento italiano all’interno del sistema multilivello.
Jusqu'à mi-chemin tout va bien… and what is next?
5 Giugno 2018