Caterina Nardo
La Corte di Giustizia europea e la legge ungherese sulla trasparenza delle ONG: tra mercato interno e tutela dei diritti fondamentali
Lo scorso giugno, con la sentenza Commissione c. Ungheria (C-78/18), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato la cd. legge sulla trasparenza ungherese (legge n. LXXVI del 2017) non conforme alla libertà di circolazione dei capitali di cui all’art. 63 TFUE, nonché contraria agli articoli 7, 8 e 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La sentenza si inserisce, senza dubbio, nel solco di altre decisioni che la CGUE ha intrapreso in tal senso (già affrontate qui su questo blog).
L’intento dichiarato dal governo ungherese, che adotta la legge in questione nel giugno 2017, era di assicurare una maggiore trasparenza delle organizzazioni della società civile, le quali «contribuiscono al controllo democratico e al dibattito sugli affari pubblici, e svolgono un ruolo determinante nella formazione dell’opinione pubblica». Nella realtà le disposizioni introducevano nuovi e selettivi obblighi alle ONG. Erano, infatti, imposti vincoli di registrazione, di dichiarazione e di pubblicità alle organizzazioni della società civile che beneficiano direttamente o indirettamente di un sostegno estero di importo pari o superiore a una certa soglia (500 000 HUF). Dette organizzazioni dovevano registrarsi presso le autorità nazionali con la denominazione specifica di «organizzazione che riceve sostegno dall’estero», elencando i donatori e l’importo del loro finanziamento. I dettagli erano pubblicati su una piattaforma online liberamente consultabile e si prevedevano sanzioni in caso di mancato rispetto degli obblighi.
Nonostante la diffida ricevuta da parte della Commissione europea, l’Ungheria non ha adottato le misure necessarie per modificare le disposizioni. Anzi, dal punto di vista ungherese, la legge sulla trasparenza era perfettamente in linea con la possibilità concessa agli Stati membri di limitare il libero movimento di capitali per motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica (articolo 65 TFUE). La Corte ha però evidenziato che, se da un lato l’obiettivo di aumentare la trasparenza del finanziamento associativo risulta legittimo, dall’altro gli obblighi imposti dalla legge non si fondano su «una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per uno degli interessi fondamentali della collettività», bensì su una presunzione di principio e indifferenziata. L’assunto per cui le organizzazioni della società civile che ricevono sostegno finanziario dall’estero rappresentano un rischio per gli interessi economici e politici dello stato di appartenenza, non è dimostrato.
Inoltre, come si evince dalla giurisprudenza della Corte, quando uno stato membro giustifica restrizioni di una delle libertà fondamentali del mercato interno sulla base del trattato, deve conformare tali misure anche ai principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. L’art. 2 e l’allegato I della legge ungherese risultano così violare non solo il diritto alla libertà di associazione garantito dall’art. 12, par. 1, della Carta di Nizza, ma anche il diritto al rispetto della vita privata e familiare e alla protezione dei dati di carattere personale previsti rispettivamente dagli artt. 7 e 8, par. 1, della stessa. Nel primo caso, la Corte di Giustizia - richiamando la giurisprudenza della Corte EDU - ribadisce che il diritto alla libertà di associazione è uno dei fondamenti essenziali delle società democratiche e pluraliste.
Tale diritto non riguarda solamente la facoltà di creare o di sciogliere un’associazione, ma anche la possibilità che questa possa agire e funzionare senza ingerenze statali ingiustificate. Ed è proprio quest’ultimo aspetto ad essere richiamato dalla Corte: gli obblighi introdotti dalla legge possono dissuadere i donatori esteri dal concedere finanziamenti alle organizzazioni della società civile e dunque ne limitano l’attività. Si corre inoltre il rischio di generare un clima di sfiducia nei confronti delle associazioni e delle fondazioni in questione e di impedire che svolgano quel ruolo chiave nella formazione dell’opinione pubblica tanto auspicato nel preambolo della legge.
D’altro canto, la comunicazione richiesta di dati nominativi e finanziari nonché la diffusione degli stessi dati al pubblico rappresentano un’ingerenza nella vita privata e familiare delle persone e violano la protezione dei dati di carattere personale. L’Ungheria ha provato a difendersi invocando l’art. 52, paragrafo 1, della Carta il quale prevede limitazioni all’esercizio dei diritti fondamentali solo per finalità di interesse generale perseguite dall’Unione Europea (causa C-292/97). Ma anche in questo caso le giustificazioni richiamate dallo stato membro non soddisfano i requisiti richiesti: la presunzione avanzata dal preambolo della legge ungherese per cui i finanziamenti esteri possano minacciare la vita sociale e politica del paese non rappresentano una ragione imperativa di interesse generale.
Da un punto di vista giuridico, la sentenza emessa dalla Corte conferma una giurisprudenza ormai consolidata che estende il campo di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nell’ambito delle quattro libertà fondamentali. Non è possibile (in quanto risulterebbe anche privo di senso) dunque per uno Stato membro limitare una delle quattro libertà invocando un interesse riconosciuto dall'Unione Europea e violando allo stesso tempo i diritti della Carta. E – coincidenza – tale orientamento giurisprudenziale fu ribadito proprio in occasione di un’altra sentenza Commissione c. Ungheria (C-235/17) esattamente un anno prima. Un orientamento che si conforma all’impegno assunto e all’azione intrapresa dalla Commissione europea di rafforzare l’utilizzo e la consapevolezza della Carta.
Questa vicenda aggiunge un ulteriore tassello al dibattito sulla democrazia e lo stato di diritto all’interno dell’Unione Europea, in quanto fondamenta della società e dell’identità comunitaria ai sensi dall’art. 2 del TUE. Nel condannare l’Ungheria - ricordando al governo ungherese che le regole e i diritti sanciti dai Trattati europei e dai documenti con uguale valore giuridico devono essere rispettati - la Corte conferma un proprio spazio nelle questioni di rule of law crisis.
Dal punto di vista politico-istituzionale, questa sentenza – e il dibattito che ha generato – ribadisce le problematiche che affliggono alcune delle attuali democrazie (in particolare di Ungheria, Polonia e Romania). E le giustificazioni avanzate dal paese in difesa della legge sulla trasparenza sembrano proprio confermare una deriva “illiberale” della democrazia. Da tempo ormai si assiste in Ungheria a modifiche costituzionali e legislative che stravolgono l’equilibrio tra i poteri, riducono le libertà individuali e comprimono il pluralismo. Si ricorda al tal proposito un altro provvedimento adottato dal Parlamento ungherese (la c.d. legge “Stop Soros”, precedentemente analizzata qui su questo sito) che influisce sulle attività delle organizzazioni della società civile.
Si inserisce in questo contesto la prima relazione sullo stato di diritto pubblicata dalla Commissione europea lo scorso 30 settembre, la quale mette in evidenza la crescente influenza del potere esecutivo e legislativo sul funzionamento del sistema giudiziario, un indebolimento dell’indipendenza ed efficacia della libertà di stampa e una maggiore pressione sulla società civile.
Gli aspetti – ed effetti - di questo democratic backsliding sono stati successivamente oggetto di discussione durante la prima plenaria del mese di ottobre del Parlamento europeo. Gli eurodeputati hanno accolto con favore la relazione annuale sullo stato di diritto pubblicata dalla Commissione, ma hanno richiesto un rafforzamento dell’azione comunitaria. Infatti, durante le audizioni a norma dell’articolo 7 riguardo alla Polonia e all’Ungheria, è stata osservata – e denunciata - la mancanza di tentativi di adeguamento dei due stati membri ai valori di cui all'art. 2 TUE. Dunque, la proposta del Parlamento prevede l'istituzione di un meccanismo dell'UE in materia di democrazia e stato di diritto disciplinato da un accordo tra le tre istituzioni e realizzato attraverso un ciclo di monitoraggio annuale dei valori dell'Unione. Al contrario della valutazione annuale della Commissione, il nuovo sistema prenderà in esame anche la libertà di associazione e la riduzione dello spazio per la società civile.
L’aspetto principale e discriminante della proposta parlamentare è che il ciclo di monitoraggio dovrà contenere chiare raccomandazioni specifiche per paese il quale, in mancanza di attuazione, andrà incontro a concrete misure dell'Unione, fra cui le procedure di cui all'art. 7 TUE, procedimenti d'infrazione e la condizionalità di bilancio una volta in vigore. Si attende ora che la Commissione presenti una proposta legislativa sulla base della risoluzione.
Alla vigilia di un accordo provvisorio raggiunto tra il Parlamento e la presidenza tedesca del Consiglio dell’UE riguardo un nuovo regime di condizionalità per la tutela del bilancio comunitario, la Corte di Giustizia riafferma l’esigenza di rispettare i principali valori dell’Unione Europea.
7 Dicembre 2020