Benedetta Liberali
Sulla trasformazione del rapporto di coppia a seguito di rettificazione di sesso dieci anni dopo: la parola (ancora) alla Corte costituzionale
A dieci anni dalla sentenza n. 170 del 2014 la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su una questione per molti profili analoga a quella allora sollevata, accogliendone le prospettazioni di illegittimità costituzionale con la sentenza n. 66 del 2024.
In quella occasione la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge n. 164 del 1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), laddove non prevedevano che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi (determinante lo scioglimento automatico del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio) consentisse, nel caso in cui entrambi lo richiedessero, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata, che tutelasse in modo adeguato i diritti e gli obblighi della stessa coppia, con le modalità da definirsi da parte del legislatore.
Quest’ultimo, recependo tali indicazioni e quelle ancora più risalenti dettate dalla sentenza n. 138 del 2010, è intervenuto con la legge n. 76 del 2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze): da un lato si è estesa (quasi) tutta la disciplina codicistica del matrimonio eterosessuale al nuovo istituto delle unioni fra persone dello stesso sesso (oltre a disciplinarsi per la prima volta il regime delle convivenze sia eterosessuali sia omosessuali); dall’altro lato in modo particolarmente zelante si è avuto cura di inserire il comma 27, che prevede che laddove intervenga una rettificazione anagrafica di sesso, ove entrambi i coniugi lo desiderino, al matrimonio consegue l’automatica instaurazione di una unione civile fra le parti (ormai divenute, appunto, dello stesso sesso), con ciò, quindi, eliminandosi il carattere automatico dello scioglimento del vincolo matrimoniale e garantendo il mantenimento di un vincolo senza soluzione di continuità.
Nella stessa legge n. 76 al comma 26 (analogamente a quanto prevedeva l’art. 4 della legge n. 164 del 1982 rispetto al matrimonio prima della citata sentenza n. 170 del 2014) si stabiliva (nell’impianto originario della disciplina, prima della sentenza n. 66 del 2024) che la “sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. Proprio rispetto a tale previsione vengono sollevate diverse questioni di legittimità costituzionale (in relazione agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost. rispetto agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), intravvedendosi un vuoto di tutela per la coppia omosessuale, cui pure la legge n. 76 ha offerto un preciso inquadramento giuridico (ossia l’unione civile). Tale violazione viene precisamente individuata nell’arco temporale che intercorre fra il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso e la conseguente celebrazione del matrimonio, che resta ovviamente pur sempre possibile, proprio in ragione della trasformazione da coppia omosessuale a coppia eterosessuale. Vengono pertanto censurate le disposizioni (ossia l’art. 1, commi 26 e 27, della legge n. 76; l’art. 31, comma 4-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2011; l’art. 70-octies, comma 5, del d.P.R. n. 396 del 2000), che sostanzialmente imponevano alla coppia di veder reciso il proprio legame, per il tempo materialmente necessario per poterla (ri)unire in matrimonio.
In linea di solo apparente perfetta continuità con i propri precedenti (sentenze n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014) la Corte afferma che l’istituto del matrimonio (che trova espresso fondamento nell’art. 29 Cost.) si differenzia dall’unione civile, che pure trova il proprio riconoscimento in Costituzione (art. 2 Cost.), non imponendosi affatto al legislatore di garantire alle coppie formate da persone dello stesso sesso l’accesso al primo, ma potendosi diversamente regolare la dinamica di diritti e doveri reciproci entro una differente cornice giuridica.
In realtà, leggendo le motivazioni che sostengono la conclusione intorno alla non fondatezza della specifica censura che si appuntava sull’asserita irragionevole differenziazione nel trattamento riservato alle due tipologie di coppie, pur entrambe attraversate da una esperienza analoga (ossia la rettificazione di sesso di un componente), sembra che la Corte offra argomentazioni qualitativamente più vigorose nel rimarcare le differenze fra i due istituti.
Non solo essa si limita a ribadire che matrimonio e unione civile hanno una “differente copertura costituzionale” e che costituiscono “fenomeni distinti, caratterizzati da differenti panorami normativi”, ma tiene a specificare ulteriormente che il “rapporto coniugale si configura come un vincolo diverso da quello che ha fonte nell’unione civile, e non può essere ad esso assimilato perché se ne possa dedurre l’impellenza costituzionale di una parità di trattamento”.
La previsione dell’automatico scioglimento dell’unione civile a seguito di rettificazione di sesso, senza possibilità di immediata trasformazione in matrimonio, viene invece dichiarata incostituzionale in relazione all’art. 2 Cost. L’accoglimento in rapporto a questo parametro risulta senz’altro coerente con quanto stabilito nella sentenza n. 138 del 2010, con cui pure si era dichiarata inammissibile la questione tesa all’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali. In quella occasione in modo molto chiaro la Corte aveva dato indubbio rilievo al diritto di queste ultime di vivere liberamente la propria condizione di coppia, al contempo demandando al legislatore il compito di disciplinarne il relativo rapporto giuridico, ma riservandosi comunque “la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni”, potendo “accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”.
Ecco che, in tale occasione, la Corte rileva precisamente un “vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri”, determinato dal tempo necessario per la celebrazione del matrimonio: proprio in ciò risiede l’irrimediabile “frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità”, comportando un “sacrificio integrale del pregresso vissuto”.
Queste conclusioni vengono ulteriormente arricchite attraverso una precisa contestualizzazione che tiene conto del “diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di sessualità costituisce certa espressione”: l’esigenza di garantire, in fondo, il “percorso di affermazione della propria identità di genere” conduce al riconoscimento di una tutela continua della coppia, senza che si possa porre l’individuo, “in modo drammatico, nella condizione di dover scegliere tra la realizzazione della propria personalità, di cui la perseguita scelta di genere è chiara espressione ed alla quale si accompagna l’automatismo caducatorio del vincolo giuridico già goduto, e la conservazione delle garanzie giuridiche che al pregresso legame si accompagnano”.
Il perno centrale delle motivazioni che sostengono la sentenza n. 66 del 2024, quindi, paiono certamente partire dalla più ampia considerazione del rilievo della coppia omosessuale (che pure diventa eterosessuale), ma saldamente innestarsi sulla posizione del singolo individuo, del cui percorso di rettificazione si tratta. La soluzione accolta dalla Corte, infatti, in modo esplicito viene qualificata come “rimedio [che] deve garantire la tutela della personalità del singolo lungo il tempo, non altrimenti governabile dalle parti, strettamente necessario alla celebrazione” del matrimonio.
Nonostante, come si è già sottolineato, si sia riservata la facoltà di intervenire per garantire tutela a specifiche situazioni, pur senza affatto omologare i due distinti istituti dell’unione civile e del matrimonio (così come ebbe a fare in occasione della ben nota sentenza n. 404 del 1988 in rapporto a quest’ultimo e alla convivenza more uxorio), la Corte, in modo forse non del tutto convincente, afferma che, in ogni caso, proprio in ragione delle citate differenze il rimedio “non può essere quello di omologare le due situazioni”, ma deve essere “diversamente declinato, in modo che siano preservate dette differenze”.
In particolare, occorre secondo la Corte tenere ben separate le soluzioni approntate per le due fattispecie: da un lato si permette alla coppia coniugata di manifestare la volontà di rimanere legalmente unita in una unione civile a fronte della intervenuta rettificazione di sesso con ciò determinandosene l’automatica instaurazione; dall’altro lato, invece, “lo strumento di tutela deve evitare ai componenti dell’unione civile per il tempo necessario alla celebrazione del matrimonio quella soluzione di continuità nel rapporto”, senza però poter ricorrere alla automatica trasformazione del rapporto come accade nel primo caso.
E, infatti, la Corte – tenendo ferma la ontologica differenza dei due istituti che, in questa occasione, impone di individuare per ciò solo strade differenti per porre fine al vulnus analogo che in ogni caso viene riscontrato – individua autonomamente (senza cioè rimetterne la decisione al legislatore, così come aveva fatto con la sentenza n. 138 del 2010 a proposito della possibile regolamentazione concreta dei rapporti giuridici per la coppia omosessuale) lo strumento della “sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario”, introducendo quindi l’istituto della proroga del regime di assetto previsto per l’unione civile.
A ciò si aggiunge una ulteriore operazione che riguarda la quantificazione della durata di simile sospensione (o meglio di sostanziale proroga degli effetti dell’unione omosessuale), che si determina attraverso il riferimento già presente “nel sistema e, segnatamente, nella disciplina dell’istituto matrimoniale”, ossia il termine che il codice civile stabilisce per la celebrazione del matrimonio a partire dalle pubblicazioni. Nel caso di specie, specifica sempre la Corte, il termine di sospensione dovrà evidentemente decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso (i cui effetti appunto restano sospesi).
La Corte, quindi, forse allo scopo di rafforzare qualitativamente e ulteriormente la differenza fra i due istituti (che peraltro era già chiaramente stata disegnata come si è visto nei propri precedenti), non ritiene di poter estendere la disciplina dettata per la trasformazione del matrimonio in unione civile per dare immediata tutela a quella specifica situazione, ma di dover individuare un diverso meccanismo, “diversamente declinato”, che però, sorprendentemente, pur sempre alla disciplina del primo fa riferimento. La Corte, infatti, richiama il termine decorrente dalle pubblicazioni, che, però, caratterizzano solo il matrimonio, come essa stessa ha cura di specificare nell’elencare puntualmente le differenze fra i due istituti.
Alcune ultime considerazioni possono essere svolte e alcuni ulteriori interrogativi sembrano (im)porsi sempre con riguardo all’arco temporale in cui si determina la citata sospensione degli effetti della sentenza di rettificazione, ossia dello scioglimento dell’unione, con conseguente proroga del relativo regime.
Se nella prospettiva della Corte la sospensione garantisce la posizione dei componenti dell’unione civile, poiché si “lascia alle parti la facoltà di procedere alla celebrazione del matrimonio, nel contempo conservando agli uniti civilmente la tutela propria del rapporto già goduto e riconosciuto nell’ordinamento nelle more della celebrazione del matrimonio”, ci si può chiedere - nel caso in cui a quest’ultimo, invece, non si proceda - come si intenderanno regolati i rapporti che si sono comunque determinati in quel periodo: la sospensione si interromperà, con conseguente effettivo scioglimento dell’unione civile a partire dal superamento del termine previsto per le pubblicazioni o con effetto retroattivo relativo alla sentenza di rettificazione?
Di conseguenza, se nel medesimo arco temporale ci troviamo di fronte a tutti gli effetti, come si è già sostenuto, a una forma di sostanziale proroga dell’unione civile, che discende dalla sospensione degli effetti di automatico scioglimento derivante dalla rettificazione di sesso, si configura forse nel nostro ordinamento una forma di unione civile (ormai però divenuta) eterosessuale, quando invece la legge n. 76 rigorosamente perimetra il relativo campo applicativo alle sole coppie formate da persone dello stesso sesso?
Il nostro ordinamento, in definitiva, a seguito della sentenza n. 66 del 2024 ammette un’unione civile certamente non più omosessuale (a seguito di rettificazione riconosciuta con una sentenza passata in giudicato i cui effetti vengono sospesi), ma non riconosce, all’opposto, un matrimonio non più eterosessuale (per la medesima ragione, ossia l’intervenuta rettificazione di sesso di uno dei coniugi), imponendosi, laddove ovviamente i soggetti interessati lo vogliano, l’automatica trasformazione in un’unione civile, di cui ragiona il comma 27 della legge n. 76?
Questi interrogativi pongono in luce dapprima un profilo di non perfetta coerenza laddove pur tenendosi ferme le sostanziali differenze fra unione civile e matrimonio non si estende il regime di tutela previsto per il secondo pur avendo riscontrato una violazione della libertà di autodeterminazione del singolo (così come invece la Corte si era ripromessa di fare fin dalla sentenza n. 138 del 2010 e così come aveva già fatto nella citata sentenza n. 404 del 1988) e in secondo luogo i concreti approdi applicativi che consistono nella sostanziale introduzione di un istituto del tutto innovativo (ossia l’unione civile eterosessuale, pur per un arco temporale potenzialmente contenuto).
Essi, inoltre, inducono a ragionare in modo più ampio rispetto alle profonde connessioni determinate dalle trasformazioni della società e della tecnica sul riconoscimento di nuove forme di famiglia e di ricerca della genitorialità non solo da parte del legislatore, ma anche della Corte costituzionale.
Se con la sentenza in commento la Corte ha stabilito che la coppia non più omosessuale, ma eterosessuale continui a trovare il proprio assetto nella regolazione dei rapporti reciproci nell’unione civile (fino al momento della celebrazione del matrimonio), con ciò quindi introducendo una declinazione innovativa della stessa, con la sentenza n. 161 del 2023, occupandosi dell’irrevocabilità del consenso maschile alla prosecuzione della procedura di fecondazione assistita a seguito di formazione dell’embrione, ha interpretato i requisiti soggettivi previsti dalla legge n. 40 del 2004 per l’accesso alle tecniche assistite in modo cristallizzato alla fase iniziale delle relative procedure. Tale interpretazione, infatti, ha condotto ad ammettere che anche la donna single possa (avere una possibilità di) diventare madre, pur venendo a mancare il requisito essenziale per l’affermazione del modello tradizionale di famiglia, ossia la presenza di una coppia eterosessuale sposata o convivente, e dunque incidendo profondamente sull’impianto portante della legge n. 40.
8 Maggio 2024
Il ddl sulla morte medicalmente assistita: un ulteriore problematico tassello del complesso rapporto fra legislatore, Corte costituzionale e corpo elettorale
L’approvazione del disegno di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita (AC n. 2553) da parte della Camera dei Deputati impone di tornare a ragionare su alcuni profili problematici del testo che non sono stati superati o che sono stati aggiunti prima del passaggio al Senato (in relazione alla versione originaria del testo sia consentito il rinvio a B. Liberali; in generale, sulle problematiche sottese si veda G. F. Pizzetti).
L’individuazione di questi profili consente di svolgere riflessioni di più ampio respiro sul complessivo e complesso rapporto fra legislatore e Corte costituzionale, anche alla luce dell’iniziativa referendaria relativa alla fattispecie dell’omicidio del consenziente e della relativa decisione di inammissibilità del quesito (sulle quali si vedano i contributi in G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi (a cura di), e M. D’Amico – B. Liberali (a cura di)).
1.Il testo intende regolare la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di chiedere assistenza medica per porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni ivi previste. In tale prospettiva, si mantiene fermo l’oggetto di disciplina, limitato alla richiesta di aiuto al suicidio, senza considerare i casi in cui pur versandosi in analoghe condizioni di salute non si sia (più) in grado di compiere l’ultimo atto autonomo per eseguire il proposito suicidario.
Se, quindi, da un lato il legislatore ha avviato il percorso per la costruzione di un vero e proprio diritto di accesso a tale prestazione (fermi restando i profili problematici di cui si dirà) a fronte della sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale che ha potuto “solo” occuparsi del perimetro di liceità della condotta di terzi che aiutino al suicidio le persone che si trovano in determinate condizioni di salute (essendo così stata posta la questione alla Corte, avente a oggetto l’art. 580 c.p.), dall’altro non si è inteso prendere in considerazione la pur diversa (ma certamente assimilabile) situazione di coloro che a causa della patologia da cui sono affetti non sono in grado di dare esecuzione all’ultimo atto autonomo per porre fine alla loro vita (rendendosi in tali casi necessario non l’aiuto al suicidio, ma una vera e propria condotta omicidiaria). Con riguardo, ancora una volta, alla condotta dei terzi e non già all’individuazione di un diritto a richiedere il proprio omicidio, come è noto, la Corte costituzionale si è pronunciata nel senso dell’inammissibilità del quesito referendario sull’art. 579 c.p., che mirava a rendere lecita la relativa condotta, tranne nei casi previsti al terzo comma, nn. 1), 2) e 3) (sulla sent. n. 50/2022 si vedano A. Ruggeri, e S. Penasa).
2.Nel testo approvato dalla Camera, inoltre, permangono alcuni riferimenti che paiono porsi in contrasto con quanto chiaramente indicato dalla Corte nella sent. n. 242/2019.
Innanzitutto, continua a richiedersi la capacità di intendere e di volere (ma anche la capacità di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli) quale requisito per l’accesso alla prestazione dell’aiuto al suicidio, mentre la Corte costituzionale nella sent. n. 242/2019 aveva in modo significativo richiamato (solo) la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.
In secondo luogo, rispetto alle condizioni di salute il testo prevede che la patologia irreversibile debba anche avere una prognosi infausta e che le sofferenze patite debbano essere sia fisiche sia psichiche, mentre la Corte costituzionale aveva posto in alternativa i due aggettivi.
Ancora, nella procedura che conduce all’esecuzione del proposito suicidario sono chiamati a intervenire molteplici soggetti (il Servizio Sanitario Nazionale, il medico curante, il medico specialista, i componenti del Comitato per la valutazione clinica) e la stessa viene scandita secondo tappe temporali talvolta non definite (con rischi di espansione dei tempi non controllabile), talaltra invece forse eccessive. Di questo profilo, peraltro, si mostra consapevole lo stesso legislatore, che in tale prospettiva opportunamente impone che si garantisca un adeguato supporto medico e psicologico al paziente nelle more delle valutazioni richieste.
Considerata la specificità della materia si è prevista espressamente la possibilità di sollevare obiezione di coscienza, richiamando il tenore dell’art. 9 della legge n. 194/1978 in materia di aborto. Sembra significativo che proprio in relazione alla configurazione di questo diritto il legislatore abbia deciso di richiamare espressamente la parola “suicidio”. Ecco che, a questo riguardo, si prevede che possano essere rifiutate le procedure e le attività specificamente (ma non necessariamente) dirette al suicidio e non anche l’assistenza che lo precede. Si pone un indubbio profilo problematico interpretativo che si appunta sulla successione degli atti che precedono l’evento: se, infatti, da un lato è richiesto che la morte sia determinata dall’ultimo atto autonomo del soggetto che richiede l’aiuto, dall’altro può essere difficoltoso ricostruire quali tipi di attività (evidentemente precedenti) non possano essere coperte dall’obiezione di coscienza perché non consistenti in forme di assistenza antecedenti. Opportunamente, invece, è stato introdotto l’obbligo di adozione di tutte le misure anche di natura organizzativa che si rendano necessarie per assicurare l’espletamento delle procedure richieste.
In relazione all’obiezione di coscienza, peraltro, occorre soffermarsi sul passaggio della motivazione della sent. n. 242/2019 che a essa aveva fatto espresso richiamo. La Corte in quella occasione aveva tenuto a chiarire che la propria pronuncia di incostituzionalità, limitandosi a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, non creava alcun obbligo di procedere a tale aiuto per i medici, restando affidata alla loro coscienza la scelta di soddisfare la richiesta del paziente. Essendosi la Corte occupata “solo” della perimetrazione di liceità della condotta dei terzi e non essendosi delineato affatto alcun “diritto” a ottenere l’aiuto al suicidio, non era (e non è) di conseguenza configurabile alcun dovere di renderlo effettivo.
3.Tralasciando ulteriori profili che paiono non coerenti o di difficile applicazione, preme sottolineare due ulteriori punti particolarmente significativi, che riconsegnano in fondo il rilievo che viene assegnato alla stessa regolamentazione e ai diritti fondamentali sottesi e che è stato inserito in sede di approvazione del testo alla Camera.
Si prevede che ai componenti del Comitato per la valutazione clinica non sia riconosciuto alcun compenso, gettone di presenza, rimborso di spese o altro emolumento comunque denominato: considerata l’importanza delle valutazioni richieste al Comitato in ordine al riconoscimento o meno del diritto di accedere alla prestazione dell’aiuto al suicidio questa previsione sembra non valorizzare adeguatamente il ruolo che in ogni caso a esso viene affidato.
Nella medesima linea pare collocarsi anche l’ulteriore aggiunta della clausola di invarianza finanziaria. Si specifica, infatti, che dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e che le amministrazioni competenti devono provvedere ai relativi adempimenti con le risorse (umane, strumentali e finanziarie) già disponibili.
Ancora una volta, tenendo conto non solo di tutte le attività richieste strettamente connesse alla procedura di morte volontaria anticipata (sia amministrative sia materiali), ma anche quelle ulteriori specificamente delineate dallo stesso testo in ordine al più generale monitoraggio e potenziamento dei servizi necessari (compresi il sostegno psicologico per i pazienti e per i famigliari, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza delle procedure di morte assistita, la garanzia di una campagna informativa sulla legge n. 219 del 2017 e il monitoraggio e il potenziamento della rete di cure palliative), la mancata previsione di una specifica voce di spesa da un lato potrebbe incidere (anche) sull’effettiva garanzia dell’accesso alla prestazione e dall’altro pone (e impone) una domanda cruciale: la prestazione offerta consistente nell’aiuto al suicidio può o deve rientrare nei livelli essenziali di assistenza? In tale caso, evidentemente, risulta necessaria l’indicazione delle relative fonti di finanziamento, come peraltro messo in luce nel documento predisposto dalla stessa Camera sull’Analisi degli effetti finanziari (n. 78, 8/2/2022).
4.Come si è anticipato, l’analisi del testo in discussione al Senato permette di soffermarsi sulle dinamiche che si sono sviluppate in materia di fine della vita fra legislatore e Corte costituzionale, ma anche, evidentemente, fra il primo e il corpo elettorale.
La Corte, come è noto, ha tentato di indirizzare il primo verso una regolamentazione specifica dell’aiuto al suicidio fissando le altrettante ben note condizioni del paziente nell’ord. n. 207/2018, cui ha fatto seguito la sent. n. 242/2019 che le ha ulteriormente arricchite, a fronte della perdurante inerzia legislativa.
Rispetto all’omicidio del consenziente, pur tenendo conto delle evidenti differenze strutturali del giudizio di ammissibilità del referendum, la Corte non ha rinunciato a individuare quattro specifiche indicazioni sostanziali per la relativa regolamentazione, la cui mancanza ha reso inammissibile il quesito referendario e la cui previsione, al contrario, è idonea a garantire la necessaria tutela minima del bene della vita: la selezione dei motivi per i quali il consenso viene prestato, la definizione delle forme di espressione dello stesso, la qualità del soggetto agente (e anche le ragioni che lo muovono) e le modalità con cui viene provocata la morte.
La sent. n. 50/2022, quindi, risulta chiaramente protesa verso il legislatore e proprio in ciò sembra esprimere, in definitiva, il fondamento della stessa scelta fra ammissibilità e inammissibilità del quesito referendario, ossia la necessità di una specifica regolamentazione per l’accesso alla prestazione suicidaria o omicidiaria. In relazione a entrambe le fattispecie e necessariamente tenendo conto delle peculiarità del giudizio costituzionale in via incidentale e di quello di ammissibilità del referendum, come si è visto, la Corte ha individuato gli specifici requisiti e i profili che devono essere presi in considerazione da parte del legislatore nell’esercizio della sua pur riconosciuta discrezionalità in materia.
16 Maggio 2022
Vaccinazioni contro il Covid-19: obbligo e nuove forme di obiezione di coscienza?
1.Il decreto-legge n. 44 del primo aprile 2021 introduce una serie di misure per la gestione della situazione pandemica. Tra i punti di maggiore interesse si segnalano la previsione che limita la responsabilità penale del personale incaricato della somministrazione dei vaccini contro il Covid-19 in caso di omicidio e lesioni personali colpose (art. 3) e la regolamentazione tesa a garantire l’assolvimento dell’obbligo vaccinale per “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali” (art. 4).
L’introduzione dell’obbligo, il cui adempimento costituisce “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati” (con sanzioni in caso di inottemperanza, come l’assegnazione a mansioni differenti o la sospensione dalla retribuzione), consente di tornare a riflettere su profili di più ampio respiro, come la stessa scelta di adottare la tecnica dell’obbligo o della raccomandazione; l’individuazione delle categorie di destinatari della vaccinazione obbligatoria o solo raccomandata; le ricadute economiche connesse al diritto di indennizzo in caso di menomazioni permanenti all’integrità fisica o psichica, previsto in generale per le vaccinazioni obbligatorie dalla legge n. 210/1992 e solo per alcune vaccinazioni raccomandate dalla Corte costituzionale; il possibile riconoscimento di un “diritto di obiezione di coscienza” sia per gli operatori medici e sanitari che rifiutino di vaccinare sé stessi e anche gli altri sia per i destinatari di un eventuale obbligo di vaccinazione, in assenza di ragioni che ne giustifichino (o meglio ne impongano) la mancata somministrazione; infine, e più in generale, il rapporto fra acquisizioni tecniche e sperimentali, attività legislativa e “diritto” a una corretta e completa informazione scientifica.
2.In ordine alla scelta di imporre o raccomandare la vaccinazione contro il Covid-19, si deve ricordare che la Corte costituzionale è ferma nel ritenere che, se pure le due tecniche “possono essere sia il frutto di concezioni parzialmente diverse del rapporto tra individuo e autorità sanitarie pubbliche, sia il risultato di diverse condizioni sanitarie della popolazione di riferimento”, entrambe perseguono l’obiettivo comune ed essenziale nella profilassi delle malattie infettive che consiste nella tutela della salute non solo individuale, ma anche collettiva, “attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale” (C. cost., sent. n. 268/2017, sulla quale si rinvia per più ampie considerazioni, volendo, a B. Liberali, “Vaccinazioni obbligatorie e raccomandate tra scienza, diritto e sindacato costituzionale”, in BioLaw Journal, 2019, III, 115 ss.).
La differenza fra obbligo e raccomandazione (relativa alla libertà di autodeterminazione) sfuma, in particolare, laddove venga in rilievo l’esigenza di garantire anche a chi si è sottoposto a una vaccinazione raccomandata il diritto all’indennizzo di cui alla citata legge n. 210. Dato il comune obiettivo di giungere alla più ampia immunizzazione collettiva, infatti, “non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione: l’obbligatorietà del trattamento vaccinale è semplicemente uno degli strumenti a disposizione delle autorità sanitarie pubbliche per il perseguimento della tutela della salute collettiva, al pari della raccomandazione. I diversi attori (autorità pubbliche e individui) finiscono per realizzare l’obiettivo della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia indipendentemente dall’esistenza di una loro specifica volontà di collaborare: «e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito»” (C. cost., sent. n. 268/2017).
Tale conclusione, peraltro, è stata ribadita anche in relazione all’introduzione dell’obbligo di vaccinazione per i minori di 16 anni con il decreto-legge n. 73/2017: “nell’orizzonte epistemico della pratica medico-sanitaria la distanza tra raccomandazione e obbligo è assai minore di quella che separa i due concetti nei rapporti giuridici”; infatti, in ambito medico “raccomandare e prescrivere sono azioni percepite come egualmente doverose in vista di un determinato obiettivo” (C. cost., sent. n. 5/2018, su cui si veda C. Salazar, “La Corte costituzionale immunizza l’obbligatorietà dei vaccini”, in Quad. cost., 2018, II, 465 ss.).
In relazione alla vaccinazione contro il Covid-19 – o, meglio, alle diverse tipologie di vaccinazione, che determinano una serie di problematicità in relazione alla stessa individuazione delle categorie di soggetti che ne possono essere destinatari – è stata avviata una campagna di somministrazione fondata sulla volontaria adesione dei singoli, sulla base di mutevoli ordini di priorità.
Con il decreto-legge n. 44, invece, anche a fronte di una prassi applicativa che restituisce i numeri della mancata adesione alla vaccinazione da parte del personale medico e sanitario (ma non anche, a quanto consta, di forme di “obiezione di coscienza alla somministrazione”), si è deciso di introdurre un vero e proprio obbligo.
Considerata la portata dell’emergenza sanitaria e il grado di diffusività del contagio, tale cambio di paradigma limitato a questi lavoratori non sembra irragionevole, se si considerano le specifiche mansioni svolte e le condizioni di fragilità dei pazienti. Resta fermo che, affinché un trattamento sanitario obbligatorio sia conforme all’art. 32 Cost., esso debba essere “diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche quello degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione dell’autodeterminazione del singolo” (C. cost., sent. n. 268/2017). I destinatari dell’obbligo, quindi, non potranno (anzi non dovranno) essere vaccinati, laddove presentino ostative condizioni di salute (come stabilisce lo stesso decreto-legge n. 44, prevedendo l’individuazione di “mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio”, oltre che l’adozione delle “misure di prevenzione igienico-sanitarie indicate dallo specifico protocollo di sicurezza”).
Anche rispetto al ricorso alla decretazione d’urgenza non paiono potersi delineare profili problematici, sempre considerando la giurisprudenza costituzionale che in relazione al decreto-legge n. 73/2017, adottato in un contesto ben diverso dall’attuale situazione pandemica, ha ritenuto decisivo l’accertamento di “una copertura vaccinale insoddisfacente nel presente e incline alla criticità nel futuro”, che legittima un ampio margine di discrezionalità e responsabilità politica circa l’apprezzamento della “sopraggiunta urgenza di intervenire [...], anche in nome del principio di precauzione che deve presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione” (C. cost., sent. n. 5/2018).
Se in quella occasione il passaggio dalla raccomandazione all’obbligo è stato giustificato valorizzando la caratteristica dell’obiettivo di massima copertura vaccinale, da intendersi “strumento di prevenzione”, che richiede di essere messo in opera “indipendentemente da una crisi epidemica in atto” – con ciò giustificandosi la scelta di “intervenire prima che si verifichino scenari di allarme e decidere [...] di non attendere oltre nel fronteggiarla con misure straordinarie” – (C. cost., sent. n. 5/2018), considerando ancora una volta le caratteristiche epidemiologiche sia quantitative sia qualitative dell’attuale pandemia non sembra che un’eventuale questione di legittimità costituzionale possa essere accolta.
Alla medesima conclusione pare potersi pervenire anche considerando l’impatto economico della scelta di rendere obbligatoria la vaccinazione per la sola categoria del personale medico e sanitario, in relazione al riconoscimento del diritto all’indennizzo. Ancora una volta richiamando la giurisprudenza costituzionale (pure resa in relazione alla sua estensione ad alcune vaccinazioni solo raccomandate) si coglie chiaramente quale sia la ratio sottesa a simile previsione, che coniuga inscindibilmente la somministrazione obbligatoria e l’insorgenza di una menomazione (indipendentemente dalla responsabilità colposa) all’inderogabile dovere di solidarietà che grava sull’intera collettività, che trae beneficio dalla vaccinazione dei singoli. Proprio in questo vincolo che unisce l’individuo alla collettività si ritrova il fondamento dello stesso indennizzo e non nel mero carattere obbligatorio del trattamento.
3.Le ragioni che hanno condotto all’introduzione dell’obbligo si ritrovano nella rilevata mancata adesione alla campagna di vaccinazione su base volontaria che individua come prioritaria, fra le altre, la categoria del personale medico e sanitario e nelle conseguenze che in termini di contagio si sono registrate nelle relative strutture.
Come si è sottolineato, la differenza fra obbligo e raccomandazione risiede nella diversa impostazione che l’ordinamento sceglie di adottare con riguardo alla maggior o minor valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, pur sempre avendo quale obiettivo la tutela della salute individuale e collettiva.
Con specifico riferimento al personale medico e sanitario, però, emerge un ulteriore profilo di criticità che attiene alle conseguenze che si possono determinare sul rapporto di lavoro con la struttura socio-sanitaria e assistenziale.
A questo proposito, si può richiamare il succinto provvedimento del Tribunale di Belluno del 19 marzo 2021 che, rispetto al ricorso presentato da alcuni dipendenti in servizio presso una residenza sanitaria per anziani che avevano rifiutato di sottoporsi alla vaccinazione (allora) solo raccomandata, ha richiamato gli obblighi di sicurezza che, nei loro confronti, gravano sul datore di lavoro (art. 2087 c.c.), per rigettare il ricorso, ritenendo corretta la misura adottata da quest’ultimo, ossia l’applicazione delle ferie forzate, ma comunque retribuite. In particolare, non si è rilevato il rischio concreto di un licenziamento né di una sospensione retributiva.
Ecco che il decreto-legge correda l’obbligo di vaccinazione con un insieme di sanzioni che prevedono innanzitutto “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. In questo caso, “il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, […] con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio”. Laddove tale assegnazione non sia possibile, si procede alla sospensione dal servizio, in relazione al quale “non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato”.
Se è pur vero che l’obbligo di vaccinazione comprime la sfera di libertà nelle scelte terapeutiche, si deve rilevare che il provvedimento governativo garantisce pur sempre al personale medico e sanitario (che non si affida, evidentemente, alle risultanze scientifiche e sperimentali connesse alle vaccinazioni, pur prestando servizio in strutture sanitarie e ospedaliere) di sottrarsi al suo adempimento, non configurandosi un’esecuzione coattiva.
Certamente, in considerazione del bilanciamento dei diritti fondamentali che vengono in rilievo e dei doveri inderogabili di solidarietà individuali e collettivi, a tale condotta libera e lecita fanno seguito una serie di conseguenze sul piano del rapporto di lavoro, che dovrebbero arginare quelle che potremmo definire “obiezioni di coscienza di comodo” e far emergere i convincimenti personali di coloro che, pur avendo scelto altrettanto liberamente la professione sanitaria, mostrano di non confidare nella sperimentazione e negli studi scientifici.
Da un’altra prospettiva, invece, la previsione della modifica di mansioni potrebbe essa stessa depotenziare l’obbligo di vaccinazione, così come – anche se in misura inferiore – la sospensione retributiva, laddove il rifiuto di vaccinarsi comporti l’allontanamento dalle attività di reparto, comprese, in alcuni casi, proprio le attività di somministrazione del vaccino.
Come è stato sottolineato, peraltro, il datore di lavoro in generale conserva(va) pur sempre (anche quando non vi era alcun obbligo di vaccinazione) la possibilità di verificare la “proficua utilizzazione dell’attività lavorativa del dipendente”: verifica da effettuare “non in astratto, ma in concreto con riferimento allo specifico ambito […] nel quale opera il dipendente non vaccinato, tenendo anche conto della compresenza di altri lavoratori vaccinati e non (cosa possibile in quanto la campagna di vaccinazione procede per fasi successive, anche collegate all’età, con la conseguenza inevitabile che in azienda potranno operare lavoratori vaccinati ed altri in attesa di vaccinazione) oppure degli eventuali contatti che il lavoratore deve intrattenere per motivi di servizio con soggetti terzi (utenti/clienti)” (A. Maresca, “La vaccinazione volontaria anti Covid nel rapporto di lavoro”, in Federalismi, 2021, VIII, xiv).
Le conseguenze previste dal decreto-legge n. 44 non possono, per questi motivi, considerarsi discriminatorie o irragionevoli e neppure, come si è cercato di mostrare, del tutto efficaci rispetto all’obiettivo di garantire l’adempimento dell’obbligo vaccinale. L’obbligo vaccinale, infatti, è superabile e solo la libera scelta di non vaccinarsi determina la conseguente modifica delle mansioni o la sospensione retributiva, che in ogni caso non può protrarsi oltre la conclusione della campagna di vaccinazione nazionale o comunque il 31 dicembre 2021.
4.In ragione delle complesse problematiche sottese alle scelte individuali del personale medico e sanitario, in rapporto alla tutela dei diritti alla salute e al lavoro, oltre che alla libertà di coscienza, è significativo richiamare i bandi di concorso – adottati dopo le due decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali rese nei casi IPPFEN (2014) e CGIL c. Italia (2016) che hanno accertato la violazione del principio di uguaglianza, del diritto alla salute delle donne e dei diritti lavorativi dei medici non obiettori di coscienza – con cui alcuni ospedali hanno dato applicazione all’art. 9 della legge n. 194/1978 che impone specifici oneri organizzativi per garantire, nonostante l’esercizio del diritto di obiezione di coscienza, l’accesso al trattamento interruttivo di gravidanza. Con essi si è assunto personale non obiettore di coscienza, che intendesse offrire le prestazioni liberamente e lecitamente rifiutate dai medici obiettori di coscienza: nessun profilo di discriminazione, dunque, considerando che l’esclusione dai bandi è la diretta conseguenza del libero esercizio del diritto di obiezione di coscienza.
Allo stesso modo sono altrettanto significative le due decisioni gemelle della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rese nei casi Grimmark e Steen c. Svezia (2020), secondo cui non vi è alcuna violazione dei diritti di libertà religiosa e di coscienza di due ostetriche che avevano espresso la loro contrarietà alle prestazioni interruttive di gravidanza e per questo non erano state assunte in via definitiva dalle strutture presso cui lavoravano, tenendo conto che l’ordinamento svedese impone la garanzia di quel trattamento sanitario.
Sarà la concreta prassi applicativa a mostrare l’efficacia dell’obbligo vaccinale contro il Covid-19, in relazione al numero di casi in cui il personale sanitario intenderà rifiutare di adempiervi e alle conseguenti modalità di gestione e organizzazione degli ospedali e delle Regioni.
Tenendo ben presenti le problematiche sottese alla perdurante inadeguata applicazione della legge n. 194 (ribadita dal Comitato Europeo nel Follow-up to decisions on the merits of collective complaints. Findings 2020) e anche quelle che potrebbero emergere dal monitoraggio dell’effettiva attuazione della legge n. 219 del 2017 in materia di fine vita, infatti, non sono da sottovalutare le conseguenze pratiche derivanti dal mancato adempimento dell’obbligo di vaccinazione, che ricadono sulla stessa organizzazione dei reparti e sulla garanzia di servizi pubblici essenziali sia nel caso in cui il personale “obiettore” venga adibito a mansioni che non comportano il contatto con i pazienti, sia nel caso in cui venga disposta la sospensione dalla retribuzione.
Inoltre, non si può escludere un ulteriore rischio (che finora non pare essere emerso) connesso a una nuova forma di obiezione di coscienza al vaccino, ossia quella del rifiuto di procedere alla sua somministrazione ai terzi. Laddove il personale medico e sanitario, infatti, rifiuti di sottoporsi a vaccinazione perché ne revoca in dubbio il grado di affidabilità, non è inimmaginabile che questa convinzione li conduca a rifiutare questo tipo di prestazione: trattandosi però di personale che non intende vaccinarsi, queste risorse non potrebbero in ogni caso essere adibite a simile attività, poiché si applicherebbero le sanzioni previste dal decreto-legge relative all’allontanamento dal contatto con i pazienti e alla sospensione retributiva (e in questo, allora, potrebbe intravvedersi quella che può definirsi una “obiezione di comodo”, posta in essere proprio al fine di sottrarsi all’espletamento di quelle specifiche mansioni connesse anche alla vaccinazione).
15 Aprile 2021
Rifiuto di emotrasfusioni: “mera autodeterminazione sanitaria” o “vera e propria forma di obiezione di coscienza”?
1.La Corte di cassazione torna a pronunciarsi sulle problematiche sottese alla manifestazione del consenso informato ai trattamenti sanitari nella sentenza n. 29469 del 2020, con cui viene espresso un principio di diritto che si inserisce perfettamente nel quadro dei principi costituzionali, alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale e della stessa Corte di cassazione, e, in prospettiva (considerando che i fatti oggetto di giudizio sono precedenti alla sua entrata in vigore), anche della legge n. 219 del 2017, in materia di disposizioni anticipate di trattamento.
La peculiarità della decisione risiede nel fatto che nel caso di specie la paziente è Testimone di Geova: ciò, indubitabilmente, arricchisce di ulteriori profili di riflessione le ormai pacifiche e acquisite conclusioni in materia, senza però che si possa tracciare una netta linea di differenziazione fra il trattamento riservato a questa specifica categoria di soggetti e coloro che non aderiscono a quella fede religiosa.
2.La Corte di cassazione stabilisce, cassando con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Milano, giunta insieme al Tribunale di primo grado a opposta conclusione, che “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.
Sono ben noti i sopra richiamati approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di consenso informato e trattamenti sanitari alla luce degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.
In particolare, attraverso tali disposizioni, il consenso informato deve essere “inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico”, configurandosi “quale vero e proprio diritto della persona”: ciò “pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali”, ossia “quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale” (Corte cost., sent. n. 438 del 2008). La declinazione complessa del diritto alla salute come diritto sia a essere curati sia a non esserlo, anche quando tale scelta conduca alla morte, è altrettanto pacificamente ammessa, in particolare alla luce della sent. n. 21748 del 2007 della Corte di cassazione, che giunge ad assegnare rilievo alla “idea di dignità della persona”, anche laddove questa sia incapace di intendere e di volere.
Tali principi riconducibili al fondamento costituzionale del consenso informato e al diritto di rifiutare ogni tipo di trattamento sanitario anche salva-vita sono stati definitivamente riconosciuti dalla legge n. 219 del 2017, che per la prima volta ha dato un organico rilievo normativo al consenso informato, alle cd. disposizioni anticipate di trattamento e alla pianificazione condivisa delle cure.
Peraltro, la centralità della “posizione” del paziente nelle scelte terapeutiche ha ricevuto ulteriore conferma anche nelle più recenti decisioni della Corte costituzionale relative alla (ben diversa) fattispecie penale dell’aiuto al suicidio, di cui all’art. 580 c.p. Con l’ord. n. 207 del 2018 e la sent. 242 del 2019 la Corte è giunta ad assegnare rilievo alla dimensione soggettiva della dignità del malato e alla sua capacità di assumere “decisioni libere e consapevoli” (riferimento senz’altro più ampio della mera capacità di intendere e di volere), per scriminare la condotta di terzi che lo aiutino a portare a termine l’intento suicidario.
Questo quadro di principi fondamentali, peraltro, consente di ritenere inconferente la pur evocativa argomentazione del ricorso, secondo cui il rifiuto delle emotrasfusioni fondato su motivi religiosi non costituirebbe solo mero esercizio del diritto di autodeterminazione sanitaria, ma anche “una vera e propria forma di obiezione di coscienza”. Se l’obiezione di coscienza, infatti, si contraddistingue per il rilievo che possono assumere i convincimenti interiori, essa deve in ogni caso inquadrarsi all’interno di un contesto normativo che pone un determinato obbligo (si pensi alle vigenti discipline in materia di interruzione di gravidanza, fecondazione assistita e sperimentazione animale, che consentono a specifiche categorie di soggetti di non partecipare a determinate procedure o eseguire determinati trattamenti).
3.A fronte di questo se pur breve richiamo ai ben noti principi costituzionali della materia, la soluzione cui perviene la Corte di cassazione non risulta del tutto innovativa, sebbene, come si anticipava, contribuisca senz’altro a chiarire – se mai ve ne fosse stato bisogno – la centralità delle scelte espresse dal paziente, nello specifico caso in cui le motivazioni che lo inducono a rifiutare determinati trattamenti o terapie si radichino nella fede religiosa dei Testimoni di Geova.
Alla posizione del paziente, infatti, occorre pur sempre assegnare preminenza (in assenza delle condizioni che legittimino un trattamento sanitario obbligatorio), a prescindere dalla tipologia e “direzione” delle motivazioni interiori, morali, etiche o religiose che ne possono orientare le scelte.
La circostanza che, nel caso di specie, la paziente fosse Testimone di Geova contribuisce, in definitiva, a fornire al giudice comune elementi concreti atti a ricostruire quella specifica volontà di rifiutare l’emotrasfusione, che, come sottolinea la stessa Corte, si distingue dai trattamenti sanitari rispetto ai quali può presentarsi necessaria anche per salvare la vita.
Le problematiche riscontrate dalla Corte d’Appello e ancora prima dal Tribunale (che hanno ritenuto che non potesse dirsi sussistente un “espresso, inequivoco ed attuale dissenso all’emotrasfusione perché l’accettazione dell’intervento di laparotomia esplorativa implicava l’accettazione di tutte le sue fasi, ivi compresa la necessità della trasfusione per il caso di pericolo di vita”) sollecitano, in questa prospettiva, ben diversi interrogativi.
Innanzitutto, occorre soffermarsi sulle effettive ed efficaci modalità (orali o scritte) con cui vengono espletati in generale gli oneri informativi tesi alla raccolta del consenso (e, dunque, alla realizzazione della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017): quel medesimo consenso che, come si è visto richiamando la giurisprudenza costituzionale, è del tutto funzionale al pieno e consapevole esercizio del diritto di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche e, quindi, alla tutela effettiva della salute.
In secondo luogo, proprio le peculiarità del caso concreto mostrano l’importanza di cogliere la dimensione dinamica e niente affatto cristallizzata della “costruzione” e della “registrazione” del consenso informato. Se, infatti, come sostiene la Corte, la “dichiarazione anticipata di dissenso all’emotrasfusione, che possa essere richiesta da un’eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può […] essere neutralizzata dal consenso prestato a quest’ultimo”, proprio perché si tratta di interventi differenti, nemmeno si può negare rilievo a un eventuale ripensamento del paziente, che pure abbia preventivamente espresso un diniego alla trasfusione di sangue all’inizio del percorso chirurgico, sulla base di pur solidissime convinzioni (anche, come nella specie, religiose).
La stessa Corte di cassazione, in fondo, mostra di assegnare preminente rilievo alla valutazione del caso concreto demandata al giudice in sede di rinvio, che dovrà “accertare se sia intervenuto un informato, inequivoco, autentico ed attuale dissenso della paziente all’emotrasfusione”.
4.Risulta significativa, dunque, l’identificazione da parte della Corte di cassazione di una “osmosi di principi costituzionali”, che contribuisce a qualificare la posizione del paziente alla luce del “duplice e concorrente riferimento al principio di autodeterminazione circa il trattamento sanitario e alla libera professione della propria fede religiosa”.
L’esplicito riferimento alla libertà religiosa di cui all’art. 19 Cost. non fa che sostanziare ulteriormente, in fondo, lo stesso fondamento costituzionale del principio del consenso informato e della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche e sanitarie.
Al riguardo, la Corte di cassazione non manca di richiamare alcuni suoi precedenti, in cui parimenti si è dato rilievo a tale profilo di collegamento fra le due sfere di libertà individuali (autodeterminazione sanitaria e libertà religiosa), che non incontrano “principi costituzionali di segno opposto i quali impongano una forma di bilanciamento” differente.
Si tratta, in definitiva, della conferma dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, recepito successivamente anche dal legislatore del 2017, che nel riconoscere e dare fondamento al consenso informato quale strumento di tutela della salute si apre necessariamente all’autodeterminazione del paziente che non può che declinarsi secondo ampie, variegate ed eterogenee sfaccettature, tra le quali, certamente, può esservi anche (ma non solo) quella religiosa, riconducibile come nel caso oggetto della decisione in commento alla fede dei Testimoni di Geova.
15 Febbraio 2021
L’aiuto al suicidio “a una svolta”, fra le condizioni poste dalla Corte costituzionale e i tempi di reazione del legislatore?
Le questioni relative all’aiuto al suicidio, a fronte del deposito delle motivazioni della sentenza n. 242 del 2019 a meno di due mesi dall’udienza pubblica del 24 settembre 2019 (per prime osservazioni critiche alla decisione si veda innanzitutto A. Ruggeri, “Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito”, in www.giustiziainsieme.it, 27 novembre 2019), consentono non solo di ragionare sul merito e sull’impatto della sostanziale conferma della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce, a determinate condizioni, l’aiuto al suicidio, ma anche di svolgere più ampie considerazioni che attengono al rapporto fra Corte costituzionale e legislatore, considerando l’indubbio arricchimento dello strumentario decisorio attraverso il ricorso all’innovativa tecnica adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018 (sulle cui caratteristiche si rinvia a M. D’Amico, “Il ‘Caso Cappato’ e le logiche del processo costituzionale”, in www.forumcostituzionale.it, 24 giugno 2019, e N. Fiano, “L’ordinanza n. 207/2018 e la prassi temporalmente manipolativa del Bundesverfassungsgericht”, in Notizie di Politeia, 2019, XXXV, 150 ss.).
Rispetto al primo profilo (sul merito e sull’impatto della decisione) occorre chiedersi, in particolare, se la Corte abbia inteso con la sentenza n. 242 riconoscere un vero e proprio diritto all’aiuto al suicidio.
Dal secondo punto di vista (quello relativo al rapporto fra Corte costituzionale e reazione del legislatore) è necessario verificare – tenendo conto della ben nota inerzia del Parlamento a seguito dell’ordinanza n. 207 – se la sentenza n. 242 non possa considerarsi davvero l’“ultima tappa” del percorso relativo a queste questioni o se si possa invece ritenere la stessa in ogni caso “autoapplicativa”, pur in attesa di un (comunque forse) auspicabile intervento del legislatore.
- Benché si inseriscano all’interno del più ampio tema del cd. fine vita e dunque dei principi sottesi al consenso informato e alla possibilità di rifiutare anche i trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali, oltre alla pianificazione condivisa delle cure (materia ormai regolata dalla legge n. 219 del 2017, che ha recepito direttamente non solo i principi costituzionali e l’interpretazione che di essi ha dato la Corte costituzionale, ma anche le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comune e di legittimità nei noti casi Welby ed Englaro), le questioni poste alla Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio hanno posto (e ancora pongono, come si vedrà oltre, in ragione del continuo riferimento al legislatore) ben differenti profili problematici, che attengono, in particolare, al contributo dei terzi nell’attuazione della volontà del paziente.
Entro questa specifica perimetrazione delle questioni relative all’aiuto al suicidio si colloca la decisione della Corte costituzionale, che non sembra affatto riconoscere alcun “diritto al suicidio assistito”, che si tradurrebbe in una vera e propria pretesa del singolo a ottenere dal servizio sanitario nazionale le prestazioni necessarie. Al contrario, essa individua le quattro (imprescindibili) condizioni in cui deve trovarsi il soggetto che intenda suicidarsi (ma che non possa evidentemente farlo da solo) che rendono non punibile la condotta dei terzi.
Proprio rispetto a queste quattro specifiche condizioni individuate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242 del 2019 occorre soffermarsi per verificare se questa decisione possa, in definitiva, ritenersi autoapplicativa oppure se necessiti, per la sua concreta attuazione, dell’intervento del legislatore (peraltro già chiaramente sollecitato, senza effetto, con la precedente ordinanza n. 207).
Come è noto, la Corte conferma la non punibilità del soggetto che agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi del soggetto che deve essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli (istituto ben diverso e più ampio rispetto alla capacità di intendere e di volere), che deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e che sia affetto da una patologia irreversibile (quindi non necessariamente terminale), fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili.
La mancata individuazione del diritto al suicidio assistito, quindi, sembra chiaramente emergere già considerando queste quattro condizioni, che se fossero state declinate dalla Corte in tal senso - e non invece in quello relativo alla (sola) area di non punibilità del terzo - avrebbero determinato profili di ulteriore discriminazione sia nei confronti di chi versi nella medesima situazione senza però poter autonomamente attivare il meccanismo che determina il suicidio (necessitando, in questo caso, di un ben diverso apporto materiale da parte dei terzi: omicidio del consenziente); sia nei confronti di chi versi nella medesima situazione senza però essere tenuto in vita da alcun macchinario; sia, ancora, nei confronti di chi versi nella medesima situazione caratterizzata però non da patologia irreversibile, ma (solo) terminale.
Un simile riconoscimento, peraltro, avrebbe introdotto notevoli problematiche per le stesse strutture ospedaliere, chiamate evidentemente a pianificare la propria organizzazione interna al fine di garantire i trattamenti sanitari richiesti.
Al contrario, la Corte – e questo aspetto è stato sottolineato fin dal comunicato stampa del 25 settembre 2019 – non riconoscendo un diritto all’aiuto al suicidio “si limita” a richiedere che le strutture pubbliche accertino le condizioni in cui versa il paziente e verifichino le modalità di esecuzione del proposito suicidario.
Il mancato riconoscimento di un vero e proprio diritto al suicidio, da ultimo, sembra ulteriormente confermato anche dal passaggio della motivazione che la Corte riserva all’obiezione di coscienza del medico.
La Corte, infatti, in modo particolarmente significativo non ignora affatto questa tematica, ma la declina coerentemente con il presupposto che fonda la sua stessa decisione (ossia, appunto, il mancato riconoscimento di un diritto al suicidio assistito). Proprio perché “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati”, non si pone alcun profilo problematico circa l’assenza nell’ordinamento di una specifica disposizione che riconosca il diritto di sollevare obiezione di coscienza: e infatti, secondo la Corte, dalla sentenza n. 242 non discende “alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, restando al più affidato “alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato” (sui nodi problematici sottesi invece al – quantomeno espresso – mancato riconoscimento del diritto di obiezione di coscienza nella materia delle disposizioni anticipate di trattamento, sia consentito il rinvio a B. Liberali, “Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla concreta prassi applicativa?”, in Rivista di Diritti comparati, 2017, III, 267 ss.).
Il ruolo delle strutture ospedaliere, peraltro, si coglie sempre in questa specifica direzione anche laddove la Corte, opportunamente, valorizza oltre che le procedure previste dalla già richiamata legge n. 219 del 2017, anche quelle di cui alla legge n. 38 del 2010, con specifico riferimento alla indefettibile necessità di assicurare una appropriata terapia del dolore, oltre che l’erogazione delle cure palliative. Anche in questa occasione la Corte non manca di chiarire in modo specifico i limiti del proprio sindacato, richiamando un proprio precedente particolarmente significativo, ossia la sentenza n. 236 del 2016 che era giunta a modificare la cornice edittale di una fattispecie di reato facendo rigoroso rinvio a precisi punti normativi già presenti nell’ordinamento.
- Rispetto al secondo ordine di interrogativi di più ampio respiro che riguardano il rapporto fra la Corte costituzionale e i limiti del suo sindacato da un lato e dall’altro lato la sfera di discrezionalità che deve essere assicurata al legislatore e i tempi di reazione di quest’ultimo a fronte di decisioni di monito o di additive di principio, il cd. caso Antoniani costituisce un campo di indagine di specifico interesse in ragione della indubitabile evoluzione che la Corte compie nell’arricchimento qualitativo del proprio strumentario decisorio.
Se con l’ordinanza n. 207, come è noto, la Corte pur accertando profili di incostituzionalità della norma censurata ritiene di dover rinviare la trattazione delle questioni fissando una nuova udienza pubblica per consentire nel frattempo al Parlamento di intervenire facendo in tal modo leva sui “propri poteri di gestione del processo costituzionale” (sulle problematiche sottese all’individuazione di un vero e proprio processo costituzionale si rinvia a M. D’Amico, Parti e processo nella giustizia costituzionale, Giappichelli, 1991), con la sentenza n. 242 la Corte sottolinea di dover “però ora prender[e] atto di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more delle nuova udienza”, né tantomeno “l’intervento del legislatore risulta imminente”.
Come si è già anticipato la Corte - che pure procede alla dichiarazione di incostituzionalità “In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento” e dopo aver disposto il rinvio della pubblica udienza (con “diversa tecnica”, che comunque risponde “alla stessa logica che ispira […] il collaudato meccanismo della ‘doppia pronuncia’”) - non manca di fare costante riferimento al ruolo che in ogni caso resta pur sempre affidato al legislatore nella scelta di una organica e compiuta disciplina della materia. Proprio questi riferimenti potrebbero indurre a ritenere che, ancora una volta, non si possa assegnare alla sentenza n. 242 il carattere di “sostanziale definitività” nella risoluzione delle questioni concrete sottese, dovendosi attendere l’imprescindibile intervento del Parlamento.
Al contrario, invece, sembrano doversi richiamare non solo gli specifici requisiti già individuati con l’ordinanza n. 207 del 2018 – rispetto alle condizioni del paziente – ma anche – e questo forse è il dato ancor più significativo in tale prospettiva – il ruolo, cui si è già fatto riferimento, demandato alle strutture ospedaliere pubbliche. A queste ultime non è affatto richiesto di organizzarsi in modo da garantire l’effettivo espletamento delle procedure necessarie per attuare l’intento suicidario del soggetto, quanto di verificarne le condizioni di salute e quelle di esecuzione delle volontà.
Viene in rilievo a tale proposito – e la Corte ne fa espresso richiamo nelle sue motivazioni – la sentenza n. 96 del 2015, che, benché resa nella ben diversa materia della fecondazione medicalmente assistita, offre un precedente specifico che consente di ritenere autoapplicativa la sentenza n. 242 certamente fino a quando, ma soprattutto se il legislatore non intenderà intervenire in modo organico recependo le indicazioni di principio ivi contenute.
In quella occasione la Corte nell’ampliare la platea di coppie destinatarie delle tecniche assistite ricomprendendo anche quelle né sterili né infertili, ma portatrici di gravi malattie geneticamente trasmissibili pur richiedendo al legislatore la stesura di un elenco di tali malattie (pur aggiornabile periodicamente) e imponendo lo svolgimento delle relative procedure in apposite strutture pubbliche ancorò la “qualità” di tali malattie a quei medesimi criteri di gravità cui già la legge n. 194 del 1978 fa riferimento – senza contenere peraltro alcun elenco di malattie – per consentire alla donna l’intervento di interruzione di gravidanza oltre il terzo mese di gestazione (art. 6, lett. b).
In attesa di un (davvero auspicabile?) intervento del legislatore nella materia del cd. suicidio assistito sarà la concreta prassi applicativa a dare prova degli effetti dispiegati dalla sentenza n. 242 (già anticipata dall’ordinanza n. 207) sia con riguardo ai profili di autonomia e responsabilità dei medici che, in accordo con lo stato di evoluzione della scienza e della tecnica, sono chiamati ad applicare i protocolli medici più adatti per ogni caso concreto (come per esempio, sentenze nn. 282 del 2002, 338 del 2003 e 151 del 2009), sia con riferimento ai procedimenti penali pendenti o che si avvieranno in futuro, alla luce del perdurante rilievo penale di alcune delle condotte previste dall’art. 580 c.p. Anche rispetto ai compiti demandati ai giudici comuni, peraltro, la Corte ha mostrato di essere consapevole dei risvolti “concreti” e immediati della propria pronuncia, offrendo specifiche indicazioni circa la modalità di valutazione delle condotte, con ciò ancora una volta modulando gli effetti della propria decisione.
9 Dicembre 2019
Il referendum irlandese in materia di interruzione di gravidanza: quali prospettive per la futura regolamentazione?
1.Il referendum del 25 maggio 2018 che ha modificato parzialmente l’art. 40, co. 3, par. 3, della Costituzione irlandese si inserisce in un lungo percorso che, dall’espresso riconoscimento del diritto alla vita del nascituro, con corrispondente divieto di interrompere la gravidanza (corredato dalla sanzione dell’ergastolo dall’Offences against the Person Act 1861), giunge alla possibilità che siano regolamentati i casi e i modi che legittimano l’intervento interruttivo.
La modifica referendaria elimina il 36mo emendamento della Costituzione irlandese, inserito dopo il referendum del 7 ottobre 1983, con cui si riconosceva il diritto alla vita del nascituro, pur “con il dovuto riguardo per il pari diritto alla vita della madre”.
Nel 1992 tale assetto è stato parzialmente modificato grazie all’interpretazione della Corte suprema irlandese che nel caso Attorney General c. X riconobbe che l’interruzione di gravidanza fosse possibile a fronte di un pericolo per la vita (ma non per la salute) della donna (ivi compreso il rischio di suicidio) e alla luce di altri due emendamenti alla Costituzione, con cui si è riconosciuta la libertà di ottenere o rendere disponibili informazioni sui servizi interruttivi in altri paesi e di recarsi all’estero per ottenere tale tipo di prestazione. L’Irlanda è stata condannata, inoltre, in diverse occasioni dalla Corte EDU (Open Door and Dublin Well Women, 1992; A. B. e C., 2010) e, successivamente, è stato approvato il Protection of Life During Pregnancy Act 2013, che ha recepito l’interpretazione della Corte suprema e le indicazioni della Corte EDU.
L’esito del referendum non introduce in via immediata una disciplina dei casi e delle modalità con cui è possibile interrompere la gravidanza. Sarà necessario, infatti, l’intervento del Parlamento, che individui le condizioni di pericolo o danno per la vita e/o per la salute fisica o psichica della donna, oltre che i termini temporali entro cui effettuare l’intervento.
A tale proposito è già stato pubblicato un disegno di legge, la cui analisi si rivela particolarmente interessante anche tenendo conto della nostra disciplina dell’interruzione di gravidanza (legge n. 194 del 1978), che ha recepito le specifiche indicazioni della sentenza n. 27 del 1975 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 546 c.p., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta a fronte di un danno o pericolo grave medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della donna.
2.Il disegno di legge irlandese, innanzitutto, si segnala per una serie di definizioni molto specifiche contenute fin dall’art. 1.
In modo significativo per la ricostruzione dei termini del bilanciamento fra le posizioni della donna e del feto, si è chiarito che per interruzione di gravidanza si intende il trattamento medico che pone fine alla vita del feto. A questo proposito, si è definita anche la nozione di viabilità, che indica il momento nella gravidanza in cui, secondo l’opinione ragionevole di un medico, il feto è in grado di sopravvivere all’esterno dell’utero. Ancora, il disegno di legge specifica che per feto si intende un embrione o un feto durante il periodo di tempo che inizia dopo l’impianto in utero fino al parto. La nostra legge n. 194, come è noto, se pure all’art. 1 intende tutelare la vita umana dal suo inizio, senza introdurre alcuna specificazione circa la sua esatta individuazione, certamente non attribuisce il concetto di vita al feto (peraltro definito anche quale concepito o nascituro), mentre introduce la (sola) nozione di possibilità di vita autonoma del feto per limitare l’intervento interruttivo ai casi di grave pericolo per la vita della donna e per richiedere al medico di salvaguardare la vita del feto (art. 7).
Il disegno di legge irlandese, oltre a chiarire che per salute si intende sia quella fisica sia quella psichica, stabilisce in che modo si debbano calcolare le 12 settimane di gestazione entro cui l’intervento interruttivo è legittimo (art. 7). La legge n. 194 individua genericamente lo stesso termine di 90 giorni per differenziare le circostanze che legittimano l’interruzione prima e dopo tale limite. Non vengono invece indicati né le precise modalità di calcolo (demandato, quindi, alla pratica medica) né, soprattutto, il termine finale (quantomeno numerico) oltre il quale l’intervento non è più possibile. Da quest’ultimo punto di vista le previsioni del disegno di legge irlandese e della legge n. 194 sembrano potersi equiparare, laddove fanno esclusivo riferimento alla possibilità di vita autonoma del feto.
Il primo arco temporale entro cui sarà possibile interrompere la gravidanza, quindi, è individuato nelle prime 12 settimane di gestazione, imponendosi il rispetto di un termine di 3 giorni fra le necessarie certificazioni e l’intervento stesso (art. 7). La legge n. 194, invece, per il medesimo periodo pone specifiche (se pure ampiamente interpretabili) condizioni che legittimano il trattamento, ricondotte a un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, e un termine di ripensamento di 7 giorni (artt. 4 e 5).
L’interruzione di gravidanza sarà possibile, secondo il disegno di legge irlandese, anche quando due medici accertino un rischio per la vita o di un serio danno per la salute della donna e l’impossibilità di vita autonoma del feto (art. 4). Il riferimento alla vita autonoma del feto manca, invece, in caso di rischio imminente per la vita o di serio danno alla salute della donna accertato da un solo medico (art. 5).
L’intervento è possibile, inoltre, in caso di anomalie del feto che secondo il ragionevole apprezzamento di due medici possa determinare la morte del feto prima o poco dopo la nascita (art. 6), con ciò ancora una volta attribuendosi al feto anche prima della nascita i concetti di vita e di morte, al pari della preliminare definizione di trattamento interruttivo che pone fine alla sua vita. La legge n. 194 prevede la possibilità di interrompere la gravidanza oltre i primi 3 mesi alle condizioni, alternativamente poste, di grave pericolo per la vita della donna o di processi patologici (fra cui anche rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro) che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6) e, come si è già detto, richiama solo la nozione di possibilità di vita autonoma del feto. Laddove questa sia prospettabile l’interruzione è consentita solo in presenza di un rischio grave per la vita della donna e si impone al medico l’adozione di ogni misura per salvaguardare la vita del feto (art. 7).
Ulteriori profili di interesse, soprattutto se li si pongono ancora una volta a confronto con la legge italiana, riguardano la mancata differenziazione della procedura per le donne minorenni o incapaci (indicando il disegno di legge che con il termine donna si intende, in generale, una persona di sesso femminile di qualsiasi età) e la diretta responsabilità dei medici nella garanzia delle prestazioni.
Rispetto a tale ultimo aspetto da un lato si impone ai medici di adottare le misure necessarie per l’espletamento della prestazione il più presto possibile dopo la scadenza dei 3 giorni e prima che siano superate le 12 settimane (art. 7). Dall’altro lato, pur riconoscendo il diritto di obiezione di coscienza (particolarmente ampio, essendo esteso ai medici, agli ostetrici e agli infermieri; alle attività interruttive e anche a quelle di assistenza), si impone agli stessi medici di garantire, appena possibile, il trasferimento di cura che consenta alla donna di ottenere la prestazione (art. 15).
La legge n. 194 come è noto non pone specifici oneri organizzativi in capo ai singoli medici, bensì (solo) alle strutture sanitarie che in ogni caso devono garantire le prestazioni richieste, anche con il controllo delle Regioni che possono ricorrere alla mobilità del personale. Il diritto di obiezione di coscienza, inoltre, è limitato al solo compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione con esclusione di quelle di assistenza precedenti e successive e dell’intervento interruttivo necessario per salvare la vita della donna (art. 9).
3.Se, dunque, l’esito del referendum rappresenta una tappa necessaria e decisiva nella regolamentazione dell’accesso all’interruzione di gravidanza, sarà indispensabile verificare se e in quali termini il Parlamento irlandese intenderà aderire all’impostazione già tracciata dal disegno di legge.
La circostanza per la quale il progetto è stato pubblicato il 27 marzo 2018 e, dunque, in data precedente rispetto al referendum potrebbe far ritenere che a quell’impianto il legislatore potrebbe (o dovrebbe) sostanzialmente attenersi, considerando che il testo ben potrebbe aver influenzato il voto, anticipando i contenuti della futura regolamentazione e trasformando, quindi, la consultazione sulla (sola) modifica costituzionale nell’espressione di una specifica valutazione positiva su di essa.
Una volta approvata la disciplina, sarà la concreta prassi applicativa a mostrare l’idoneità delle previsioni a guidare l’attività dei medici, chiamati a interpretare nozioni particolarmente ampie (quali il rischio o il pericolo per la vita e la salute fisica e psichica della donna, oltre che la possibilità di vita autonoma del feto) e ad assicurare in ogni caso l’accesso al trattamento laddove esercitino il diritto di obiezione di coscienza.
Di non poco rilievo, da ultimo, risulta la circostanza che nel disegno di legge permangano riferimenti alla vita e alla morte del feto in una fase che precede la nascita. Tali riferimenti possono essere ragionevolmente (ma, forse, non meno problematicamente) inquadrati nel più generale contesto dell’ordinamento irlandese che, oltre alla sanzione penale dell’interruzione di gravidanza, espressamente riconosceva (fino al referendum del 25 maggio) il diritto alla vita del feto.
La relazione annuale del Ministero della Salute sui dati dei trattamenti interruttivi (art. 17), così come quella del Governo in merito alla procedura per l’eventuale revisione dei pareri dei medici (art. 13), potrebbe contribuire a un efficace monitoraggio sull’applicazione della legge, con particolare riguardo al diritto di obiezione di coscienza e alla garanzia delle prestazioni.
11 Giugno 2018
Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla concreta prassi applicativa?
L’articolo analizza la disciplina sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, al fine di porre in luce alcuni profili che a una prima lettura sembrano potenzialmente problematici per la sua stessa attuazione e suscettibili di dispiegare effetti anche negativi sulla posizione del paziente.
L’analisi sarà condotta tenendo conto dello specifico rilievo che assumono da un lato i diritti alla vita, alla salute e all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche del paziente e dall’altro i principi di autonomia e responsabilità del medico. In questa prospettiva, assumono uno specifico rilievo le disposizioni che definiscono il ruolo del medico nella relazione di cura e il coinvolgimento di soggetti terzi, quali il fiduciario e il giudice tutelare.
26 Gennaio 2018