Il nuovo British Bill of Rights e la public ownership dei diritti nel Regno Unito

What does it mean for the United Kingdom adopting a new Bill of Rights? Is there any reason why the Human Rights Act 1998 cannot be considered a catalogue of rights? Or, conversely, is there reason to think that it is a victim of its own success, having been able to deploy all too well its potential to interfere with government action? According to the Independent Human Rights Act Review, which was called to question civil society and academia on the prospects for reform, the most critical issue lies in the lack of public ownership of rights. But judging from the bill filed in Parliament on June 22, 2022, the culture of rights is giving way to rights wielded as a cudgel to delude, with the supposed favour of history, frustrated and livid sectors of society, to keep them hooked to a political agenda that has long failed to know how to deal with their fates. 


In Memoriam R.B.G.

È a tutt’oggi impossibile visitare New York senza imbattersi in qualcuno dei tanti gadget con le sue riconoscibilissime iniziali – RBG – o con l’effigie del colletto di pizzo con cui usava ingentilire la monacale toga nera dei giudici. Senza dimenticare i numerosi libri per bambini dedicati a questa figura esemplare di donna e giurista, alla parabola di una ragazza di Brooklyn ammessa assieme a poche altre alla Harvard Law School, paladina dei diritti delle donne ma anche moglie e madre, approdata infine alla Corte Suprema – seconda donna dopo Sandra Day O’Connor, prima donna ebrea – per iniziativa del Presidente Clinton. Come ha ricordato il Presidente Obama, nel 1960 Ginsburg fece domanda come law clerk alla Corte Suprema ma, a dispetto delle lettere di presentazione che ne elogiavano le qualità fuori dal comune, non fu selezionata perché donna. Solo dieci anni più tardi, come avvocato, ella presentò la sua prima memoria alla Corte che contribuì alla prima dichiarazione di incostituzionalità di una legge statale fondata sulla discriminazione di genere.
Con Ruth Bader Ginsburg scompare non solamente una delle legal mind più brillanti della sua generazione, ma una vera e propria icona. Forse nessuno fra i suoi predecessori ha mai avuto in sorte di assurgere a una tale popolarità: non certo Earl Warren, già governatore repubblicano della California, poi presidente di quella commissione chiamata a indagare sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, che pure fu presidente negli anni Sessanta della Corte Suprema più progressista del Ventesimo secolo – come dire: di sempre –, quella di Brown v. Board of Education e la fine della segregazione razziale nelle scuole pubbliche, di Griswold v. Connecticut e l’invenzione della privacy che aprirà la strada più tardi a Roe v. Wade, della legalizzazione dei matrimoni interrazziali di Loving v. Virginia. Non Antonin Scalia, giudice iniziatore della scuola originalista, che, per quanto radicale nelle sue letture della Costituzione, seppe nondimeno catalizzare intorno a sé una curiosità che ne fece un volto molto noto anche fra i detrattori. E neppure William Brennan, giudice cattolico di ascendenze irlandesi, colui che più di ogni altro da quello scranno si batté affinché anche la settecentesca Costituzione degli Stati Uniti potesse farsi garante della dignità umana. Ma se tanti fra i giudici hanno goduto di una notorietà ben oltre i confini dei circuiti forensi, se pure la Corte Suprema altro non è che la mera somma di nove singoli giudici, nessuno fra loro ha vista impressa la propria immagine e la scritta “Notorious RBG” su t-shirt, borse, occhiali da sole come è accaduto a lei. E se ogni giudice si fa riconoscibile per certi gesti, certe posture – si sa che Clarence Thomas, per dirne una, non pone mai domande agli avvocati, non interviene mai durante le udienze, ma scrive di continuo messaggi su carta che distribuisce ai colleghi per scambiarsi le impressioni del momento –, la statura più che minuta di Ginsburg e quella voce precisa, tagliente, quasi chirurgica erano le sue temibili cifre nel corso dei dibattimenti: avvocati consumati, stretti nelle loro marsine, ne subivano la possanza di una vita spesa con coerenza e irriducibile determinazione all’affermazione dell’uguaglianza.
Ma come vedeva la Costituzione degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg? Intanto, la vedeva vecchia, persino antiquata: a uno studente nord-africano che le chiedeva, in uno degli ultimi incontri pubblici tenutosi alla Library of Congress, cosa avessero le giovani, instabili democrazie della primavera araba da imparare dalla Costituzione degli Stati Uniti, lei rispondeva senza abbellimenti: Nothing at all, e suggeriva, invece, di guardare a costituzioni più moderne, fonti di ispirazione come non sa certo essere un testo scritto da soli uomini, bianchi, istruiti, luterani e benestanti alla fine del Diciottesimo secolo. Amava quella Costituzione, ma non la idolatrava; era votata con ogni fibra del suo essere a difenderla, ma non la considerava la migliore sulla piazza, certo non la più adatta a ogni latitudine e storia.

Sono celebri alcune opinion della Corte di cui fu redattrice e altrettanto molti suoi dissent. In entrambi i casi, sapeva che una sentenza non è un lavoro accademico e che va difesa dalla tentazione del narcisismo del mot juste, della frase icastica e memorabile che, però, non serve la causa della piena intelligibilità e funzionalità del disposto, che è ciò che conta quando si decide dei rapporti giuridici e dei destini.
Si rese conto di aver commesso un errore fatale, all’indomani delle elezioni del 2016, quando Trump salì alla Casa Bianca malgrado i quasi tre milioni di voti in più di Hillary Clinton. Fonti dirette dall’interno della Corte Suprema mi dissero che aveva deciso di non dimettersi allora perché convinta della vittoria democratica. Che anche lei avesse perso il contatto con quelle viscere profonde del Paese che avevano reso possibile l’impensabile elezione di un outsider che, dopo aver schiaffeggiato il GOP, lo aveva ridotto alla sua mercé? Negli ultimi quattro anni, l’America liberal, che ha assistito con crescente apprensione alle ultime due nomine di Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh in sostituzione dello stesso Scalia e del dimissionario Anthony Kennedy, ha fatto il tifo per la sua salute, anche per non lasciare al Presidente Trump l’occasione di una terza nomina in un solo mandato, come riuscì solo a George Washington. Per una manciata appena di settimane, la sua pertinace resistenza malgrado gli infortuni e la malattia non è bastata.

Nel ripercorrere la carriera che le ha guadagnato un posto nella storia, merita di essere ricordato anche suo marito, Marty Ginsburg. Si sposarono nel 1954, appena lei completò il college a Cornell: decisero che, qualunque professione avessero intrapreso, lo avrebbero fatto insieme, e insieme scelsero legge. Quando il Presidente Carter la nominò alla Corte d’appello del Distretto di Columbia, nell’aprile 1980, lui, che era di ruolo come Charles Keller Beekman Professor of Law alla Columbia Law School, si trasferì al Georgetown Law Center, dove insegno tax law fino alla sua morte. Era così orgoglioso di lei che ripeteva che, entrambi studenti alla Harvard Law School, fu lei e non lui a entrare nel board della Harvard Law Review. All’ingresso dello Hart Auditorium, al primo piano del Georgetown Law Center, fa mostra di sé un ritratto maestoso di Ruth – anche in questo caso il suo, non quello di Marty, che pure vi trascorse trent’anni. Ma lui non aveva problemi a presentarsi come l’uomo un passo dietro la grande donna.


Apprendimento e resistenze nel dialogo fra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo: il caso del diritto all’anonimato della madre naturale

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Un modo per affrontare il tema delle tradizioni comuni in Europa e le vie con cui le Corti apprendono ciascuna dalle altre – senza necessariamente renderlo esplicito – è scegliere un terreno su cui i giudici nazionali ed europei si siano confrontati e alternati per tentare di verificare se e quali argomenti siano trasmigrati (e come e con quali esiti) a partire dalle rispettive sentenze.

Una delle materie che si presta a questa indagine è quella relativa alla tutela del diritto all’anonimato della madre naturale quando abbia dato in adozione il figlio che ha generato. Si tratta di una materia drammatica e complessa, che tiene insieme e in tensione uno con l’altro gli interessi di almeno tre parti: la madre naturale, che ha scelto di dare il figlio in adozione e si è avvalsa del diritto all’anonimato; il diritto del figlio prima a venire alla luce e poi a conoscere la sua identità, e il diritto della famiglia adottiva e della famiglia naturale a difendere l’assetto e l’economia dei loro legami e affetti. Scegliendo questa materia come punto di osservazione, sarà possibile lumeggiare gli intrecci, la comunanza di soluzioni, le resistenze ma anche i processi di apprendimento che sorgono nel rapporto fra giudici nazionali e sovranazionali (segnatamente fra Corte costituzionale italiana e Corte europea dei diritti dell’uomo).

Molte potrebbero essere le materie utili e significative a questo scopo, specie a partire dalle sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale che hanno moltiplicato le occasioni di incontro, scontro e di scambio fra la Corte italiana e quella di Strasburgo, ma sarebbe impensabile tentarne una resa esaustiva e complessa. Ho preferito invece assumere una prospettiva fra quelle possibili. Nell’ambito che ho scelto, cercherò di evidenziare come le sentenze di Roma e Strasburgo si siano alternate, mescolate, con quali contaminazioni e generando quali conseguenze, specie nella portata della tutela dei diritti invocati.

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A che punto è la notte (in tema di riforma sanitaria USA)?

In materia di welfare state e, in particolare, di servizi sanitari erogati dall'autorità pubblica, le due sponde dell'Atlantico sembrano avviate verso orizzonti opposti: nell’ultimo scorcio del 2013, in occasione della sua prima apparizione annuale davanti al Parlamento, Re Guglielmo Alessandro d'Olanda ha annunciato che, a causa di cambiamenti epocali quali la globalizzazione e l'invecchiamento della popolazione, il tradizionale Stato sociale dovrà evolversi – lentamente ma inesorabilmente – verso una forma non meglio specificata di «società partecipata», nella quale i cittadini dovranno prendersi cura di se stessi e individuare soluzioni per l'intera società civile. Nel suo discorso, il sovrano ha anche specificato che gli attuali livelli di spesa per le indennità di disoccupazione e per il sovvenzionamento dell'assistenza sanitaria sono insostenibili, tenendo conto del malessere economico dell'Europa. Con il rating di Moody's che minacciava di declassare il debito olandese, il re ha anticipato la creazione di un sistema di sicurezza sociale a carico dei cittadini stessi, con una partecipazione molto inferiore da parte dello Stato. La nuova tendenza non è stata presentata come una risposta temporanea e congiunturale alle misure restrittive imposte dalle regole di budget dell'Unione europea, ma come un cambiamento permanente verso un ruolo pubblico più limitato. Dure reazioni sono seguite al discorso, definito un «racconto degli orrori»; qualcun altro si è invece limitato ad evidenziare più maliziosamente che la parola «anziano» non è mai stata pronunciata dal re con riferimento alle misure sociali indirizzate ai più deboli, ma solo in occasione del tributo che egli ha espresso verso la regina sua madre. A quanto pare, l’Olanda si appresta ad avviare un serio processo di ripensamento di uno dei sistemi di welfare da sempre fra i più capillari d’Europa.

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Cercasi primus inter pares disperatamente

Può esser parso un caveat del tutto ridondante, fin troppo didascalico e ultroneo. Eppure, la precisazione caduta nel bel mezzo del discorso di fine anno del Capo dello Stato circa la non eleggibilità diretta del Presidente del Consiglio non era così scontata. Sarà sembrato un ribadire l’ovvio, che poi tanto ovvio non è, a guardare alcuni degli eventi politici di quest’ultimo scorcio di legislatura verso una delle più drammatiche contese elettorali della storia repubblicana.

L’art. 92 della Costituzione dispone con chiarissima laconicità che è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio (e, su proposta di questi, i ministri), come – almeno formalmente – avviene in tutte le forme di governo parlamentari. In una forma di governo debolmente razionalizzata come la nostra, poi, con una Costituzione che, per vocazione d’origine, guarderebbe ad un sistema elettorale proporzionale, tale prerogativa presidenziale si spiega ancor di più per il valore di interpretazione della scena politica affidato alla saggezza istituzionale ed equidistante del Capo dello Stato. Mentre, cioè, il monarca inglese apprende l’identità del Primo Ministro da nominare dalle prime pagine dei giornali il giorno dopo le elezioni generali, avendo il sistema elettorale britannico la specificità di indicare tempestivamente – salvo vistose e rarissime eccezioni – il partito di governo ed il suo leader come Premier; mentre il presidente tedesco suggerisce al Bundestag il nome di un cancelliere perché sia votato senza discussione, affidandosi anche in questo caso ad un responso di voto pressoché automatico e limitandosi a tener d’occhio il calendario per regolare i tempi della formazione del governo disciplinati tassativamente dalla Legge Fondamentale, il Presidente della Repubblica nostrano è più esposto ad una qualche discrezionalità necessaria alla lettura degli eventi e alla ricerca di equilibri ed intese. In qualche fase della vita repubblicana quella discrezionalità si è fatta inesistente, vittima dell’arroganza delle segreterie dei partiti, ma anche della ultradecennale continuità al governo della DC, o a causa del bipolarismo tutto all’italiana; in qualche altra fase è stata ben più visibile ed attiva, anche qui a causa del bipolarismo tutto all’italiana. Sta di fatto che, data la nostra esperienza politica ed istituzionale, siamo molto meno impressionabili degli inglesi che, all’indomani delle elezioni politiche del maggio 2010, tradivano la preoccupazione di veder la Regina scomodata dall’empireo rarefatto di Buckingham Palace per dirimere l’incandescente materia politica alla ricerca di una possibile coalizione di governo e di un Primo Ministro a guidarla.

Tutto questo si spiega a maggior ragione perché l’art. 94, altrettanto stringatamente, prevede che «Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere». In questo caso, si parla di Governo inteso nella sua collegialità e non certo e solo del suo Presidente, le cui funzioni sono esplicitate all’articolo seguente nei termini di direzione della politica generale del Governo e di mantenimento dell’unità di indirizzo politico. Il Presidente del Consiglio è, dunque, un primus inter pares, ossia una figura gerarchicamente omogenea rispetto alla compagine dei suoi ministri, rispetto ai quali non può praticare alcuna disciplina e tantomeno rimozione.

Non tutte le forme di governo parlamentari adottano il modello di un primus inter pares: al contrario, tanto più razionalizzata è la forma di governo, quanto più il ruolo del premier si distingue all’interno del potere esecutivo. Esempio più drastico in questo senso è senza dubbio quello britannico, un primo sopra ineguali, che raccoglie su di sé la carica di leader del partito di maggioranza e di capo del governo, disponendo con pienezza di poteri della sorte dei ministri del suo gabinetto. Primo tra ineguali è, invece, il cancelliere tedesco, figura a capo di un governo di coalizione, non necessariamente coincidente con la leadership di partito, ma che dispone discrezionalmente dei suoi ministri, ad esso gerarchicamente subordinati.

Quello che si evince dall’architettura costituzionale italiana è, dunque, che la fiducia è votata al Governo collegialmente perché essa non serve a designare un capo del governo, quanto a sostenere un programma, di fronte al quale la maggioranza parlamentare promette l’impegno di contribuire al suo svolgimento, oltre alle tipiche responsabilità di indirizzo e controllo nei confronti dell’Esecutivo. La figura del Presidente del Consiglio è, in questo senso, funzionale a servire meglio l’esecuzione del programma: si veda, non a caso, la descrizione delle sue mansioni, tutte rivolte a coordinare le azioni necessarie al suo adempimento e non certo alla manutenzione dei rapporti di potere tra ministri e tra le componenti partitiche che formano i governi di coalizione. Questa è la specificità del nostro parlamentarismo: che il perno del potere esecutivo sta nel programma che esso intende svolgere, non nel capo del governo, reso, piuttosto, strumento attraverso cui si coordinano meglio le politiche del governo sottintese dal programma stesso. Non la persona, ma le idee, quindi, che, in virtù della sua collocazione politica, del suo orientamento e del suo spessore, quel Presidente del Consiglio potrebbe aiutare più e meglio di altri a concretizzare. Nel nostro caso, allora, la tipica condivisione del potere delle forme di governo parlamentari non è tanto emblematizzata dalla coincidenza in capo al Primo Ministro della leadership del partito di maggioranza e del ruolo di governo, ma dalla collaborazione tra Parlamento (maggioranza) e governo verso lo svolgimento di un programma che ognuno fa proprio secondo le responsabilità che gli sono costituzionalmente  attribuite.

La realtà istituzionale e politica italiana pare radicalmente dimentica di tutto questo, e non certamente da oggi, verso un’opposta visione ultrapersonalistica della politica e delle istituzioni. Per rimanere alla stretta attualità, dei 215 simboli elettorali depositati nei giorni scorsi al Viminale, quelli che davvero parteciperanno alla contesa elettorale hanno un chiaro tratto comune: tutti hanno inserito nel logo il nome del loro candidato alla Presidenza del Consiglio – che è, in più di un caso, la ragione della loro più immediata riconoscibilità ed identità. L’hanno fatto tutti tranne il PD che, invece, forse sembrava quello ad essersi effettivamente precostituito i termini per una simile indicazione simbolica, quando ha indetto le primarie per la designazione diretta del candidato a Palazzo Chigi.

Ora, e detto incidentalmente, ci sarebbe più di una ragione per credere che quelle primarie abbiano servito più un’eterogenesi dei fini (rianimare un elettorato sfinito e disamorato, e non solamente tra coloro che votano PD o Sel) che l’obiettivo proprio di indicazione dal basso del candidato alla guida del governo, dal momento che tanto l’esito elettorale ancora incerto, soprattutto al Senato, quanto l’andamento della stessa legislatura una volta avviata potrebbero marginalizzare del tutto quel responso di voto – come ha scritto Riccardo Barenghi alias Jena su La Stampa: «Domani il centrosinistra sceglie il premier – che magari non sarà mai premier».

Ma la vera questione è un’altra: in questa ormai ventennale, tumultuosa stagione di riforme mancate, di vicoli ciechi, di avventure senza futuro, il dettato costituzionale è stato svuotato o, in alternativa, stravolto da molte trasformazioni di significato, creando l’illusione di una quasi realtà parallela. Perché praticare l’insano strabismo che tiene insieme l’impianto costituzionale sopra descritto e la convergenza politica verso un modello di premiership «europea», all’inglese o alla tedesca, per intenderci, nelle cui forme di governo, tuttavia, il ruolo del capo del governo è descritto ed inteso diversamente che da noi? A quale scopo introdurre un sistema come quello delle primarie o, comunque, l’indicazione generica sui simboli del capo del governo (detto al netto dell’attuale legge elettorale), se il Presidente del Consiglio non è gerarchicamente superiore al resto dell’Esecutivo, quale elemento di coesione e di tenuta della stessa coalizione di governo? Perché introdurre rimedi e variabili almeno parzialmente spurii dall’essenza della nostra forma di governo senza una riflessione organica e coerente circa le sue debolezze e le possibili, auspicabili ipotesi di manutenzione? Perché ostinarsi a guardare il dito e mai seriamente, con senso di realtà e sapienza, la luna?


Coabitazione all’americana

Chissà se l’American Taxpayer Relief Act appena approvato finalmente da entrambi i rami del Congresso manterrà la promessa di dare vero sollievo al popolo americano, dopo averlo tenuto con il fiato sospeso dal giorno dopo le elezioni presidenziali di inizio novembre. A dire il vero, in materia di bilancio federale il primo mandato di Obama, che si chiuderà ufficialmente il 20 gennaio prossimo, giorno dell’insediamento del Presidente eletto, ha riservato più di un colpo di scena e fatto tenere il fiato sospeso fino all’orlo del precipizio.

La storia comincia nella primavera del 2011, con la cosiddetta debt-ceiling crisis (crisi del tetto del debito). Il Congresso degli Stati Uniti può, secondo l’Articolo 1, Sezione 8 della Costituzione federale, contrarre debiti per conto degli Stati Uniti. Questo ha implicato che, fino al 1917, il Congresso provvedeva ad autorizzare ogni singola erogazione del debito nazionale. Nella congiuntura della Prima Guerra Mondiale, invece, al fine di rendere il meccanismo di finanziamento della spesa più elastico ed agevole, si emanò una legge con la quale si fissava annualmente il tetto massimo di Buoni del Tesoro che potevano essere immessi sul mercato per finanziare la spesa pubblica.

Ogni anno, il Presidente sottopone all’approvazione del Congresso il federal budget, il bilancio nazionale, cioè, che fissa l’ammontare delle entrate fiscali e della spesa pubblica. Se, nel corso dell’anno finanziario, si dà il caso di un budget deficit, cioè di un disavanzo nel bilancio federale in ragione di una leva fiscale insufficiente rispetto alle spese, il Presidente può proporre di attingere al public debt, contraendo prestiti tramite il Tesoro. Se serve aumentare il tetto del debito, che restringe l’autorità del Dipartimento del Tesoro di contrarre debiti oltre una certa soglia, il voto del Congresso è di norma una pura formalità, dal momento che si tratta di fondi che serviranno per sostenere le azioni di governo già decise dal Congresso stesso e dal Presidente. Se così non fosse, l’amministrazione federale sarebbe nell’impossibilità di finanziare la spesa così come è stata decisa dagli atti approvati dal Congresso, con le spiacevoli conseguenze facili da immaginare.

Non è andata così nel 2011. In quella occasione, il voto della maggioranza del Congresso necessario ad elevare il tetto del debito non si rese così facilmente disponibile. Solo alla fine di luglio, dopo mesi di stallo, il Presidente Obama e lo Speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti John Boehner annunciarono un accordo che si sarebbe tradotto nel Budget Control Act, con cui tempestivamente il debt ceiling fu elevato di 400 miliardi di dollari, al prezzo di una riduzione della spesa più alta dello stesso aumento del debito e di un divieto assoluto di inasprire la leva fiscale. La riluttanza dei Repubblicani a votare qualsiasi legge che non prevedesse un’immediata e significativa riduzione della spesa e la loro indisponibilità fino all’ultimo a qualsiasi tentativo di compromesso fu indotta dalle pressioni del Tea Party Movement, anima radicale e ultraconservatrice del partito. In quel frangente, gli Stati Uniti rischiarono il default del debito sovrano, in assenza di fondi sufficienti a ripagare gli interessi sui Buoni del Tesoro. Tre giorni dopo l’approvazione della legge, Standard & Poor’s abbassò il rating dei Buoni del Tesoro americani per la prima volta nella storia del paese.

Il secondo episodio di suspence finanziaria, appena conclusosi, ha riguardato il cosiddetto fiscal cliff, cioè la consistente riduzione (di circa la metà) del budget deficit prevista per il 2013, dovuta alla concomitanza dell’aumento della pressione fiscale e dei tagli alla spesa come previsti dalla legislazione posta in essere già durante l’amministrazione Bush. Alla mezzanotte del 31 dicembre 2012, stante il raggiungimento già avvenuto del debt ceiling, sarebbero scattati seicento miliardi di dollari di tasse, a danno prevalentemente dei lavoratori – con conseguenti rischi di recessione e di aumento della disoccupazione già paventati dalla Federal Reserve di Bernanke e dal Fondo Monetario di Lagarde – e, contestualmente, tagli draconiani alla spesa pubblica, tra cui cinquanta miliardi tolti alla difesa ed altrettanti al programma Medicare. L’approvazione del Senato dell’American Taxpayer Relief Act è arrivata in articulo mortis alle due del mattino del 1 gennaio 2013, mentre quella della Camera circa venti ore più tardi.

Si può dire che l’amministrazione americana si sia affacciata sul baratro fino quasi a precipitarvi ma che, in ultimo, tutto è bene quel che finisce bene. Va tuttavia tenuto presente che, dall’agosto 2011, data di approvazione del Budget Control Act, sono passati invano 507 giorni utili ad affrontare il problema senza che il Congresso sia riuscito a partorire una qualsiasi concreta ipotesi di legge, essendo il fronte repubblicano per una rigorosa riduzione della spesa a tassazione invariata (più che un no politico, quello alle tasse, un no culturale, contro ogni senso di comunità), e coi Democratici che spingevano per una combinazione di tagli e aumento della pressione fiscale.

Ora, può essere che parte della responsabilità del fallimento della politica economica di questi ultimi anni sia l’introversione del Presidente Obama, la sua imperizia a scegliersi i collaboratori, a cominciare da Rahm Emanuel, e la sua insofferenza a lavorarsi i membri del Congresso per ottenerne il supporto, secondo il giudizio che ne ha dato Bob Woodward, il giornalista del Watergate, nel suo ultimo libro «The Price of Politics». Ma forse vale la pena di andare a guardare direttamente dentro uno dei problemi più critici della forma di governo americana, e cioè la coabitazione tra Presidente e maggioranze diverse al Congresso.

Si sa, la scarsa disciplina interna e la modestissima connotazione ideologica dei partiti americani fanno sì che il Presidente possa trovare un terreno di negoziazione e di compromesso anche con una maggioranza congressuale politicamente diversa, se non ostile. Del resto, di norma non può dare per scontati nemmeno i voti dei senatori e dei deputati del suo stesso partito. Solo questo dettaglio, che deriva dalla tradizione più antica della storia istituzionale degli Stati Uniti, impedisce la paralisi istituzionale, l’impossibilità di legiferare e governare.

Più o meno solo una dozzina di presidenti, a partire dal 1787, hanno potuto contare su una maggioranza del loro stesso partito sia alla Camera che al Senato per tutta la loro permanenza alla Casa Bianca. Di questi, solo cinque nel Novecento: Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson e Jimmy Carter. Nixon, Ford e Bush padre ebbero entrambi i rami del Congresso contrari per tutto il tempo, Clinton per sei anni su otto; Reagan otto per la Camera e sei per il Senato, e così anche Eisenhower. Figuriamoci che neppure Washington ebbe il privilegio dell’en plein, visto che la Camera fu a maggioranza anti-federalista per due anni durante la sua presidenza.

La coabitazione è, dunque, un fenomeno tutt’altro che eccezionale. Dal 1901, anno dell’insediamento di Theodore Roosevelt al 1969, alla fine del mandato di Lyndon Johnson, gli anni di coabitazione sono stati quattordici per la Camera e dieci per il Senato. Dalla presidenza di Nixon nel 1969 al 2012, per la Camera sono stati ventiquattro e al Senato trenta. Nei primi settant’anni del Novecento la coabitazione è dunque durata meno della metà che nei successivi quaranta. Nel complesso, inaugurandosi un nuovo Congresso ogni due anni (con il Senato rinnovato per un terzo e la Camera completamente), possiamo dire che, dal 1945 al 2009, la Camera è stata a maggioranza democratica per ventisei legislature contro sette dei repubblicani e il Senato ventitré volte contro dieci. Mentre, nello stesso periodo, l’alternanza alla Casa Bianca tra repubblicani e democratici è stata quasi perfetta.

Dalle elezioni di medio termine dell’autunno 2010, il Presidente Obama convive con una maggioranza repubblicana alla Camera, potendo invece contare – anche se di misura – sulla maggioranza democratica al Senato. Al di là delle incapacità e inadeguatezze che si possano attribuire al Presidente circa la sua inabilità al dialogo ed al costante lavoro di negoziazione, lo scorso Congresso, come quello appena rinnovatosi, era caratterizzato da una forza inedita nel panorama politico, capace di estremizzare e radicalizzare il confronto: si tratta ovviamente del Tea Party Movement – dimostrazione concreta dell’assunto teorico secondo cui la forma di governo presidenziale funziona solo in assenza di componenti partitiche troppo ideologiche ed anelastiche. Il Tea Party Movement, conservatore, populista, libertario, ha tenuto e tiene ancora in ostaggio culturale una parte significativa del partito repubblicano, richiamandolo ai valori originali ed autentici della Costituzione federale e comunque contro il ruolo pubblico dello Stato, contro l’aumento della spesa, contro l’immigrazione e contro ogni compromesso politico. Peraltro, le elezioni congressuali avvenute in coincidenza con quelle presidenziali, lo scorso novembre, hanno restituito un Congresso quasi per nulla variato per maggioranze e per peso delle singole componenti ideologiche.

L’elettore americano che si reca alle urne per scegliere il suo presidente lo fa nella tradizione di chi sa che quel presidente sarà per quattro anni il padre della patria e il padrone della politica. Per quei quattro anni il suo mandato non sarà mai revocabile (Bagehot vi riconosceva l’inferiorità del modello presidenziale su quello parlamentare britannico, nel quale il Primo Ministro può sempre essere sfiduciato) e il paese diventerà quello che il presidente sarà stato capace di farne. Va da sé che la tentazione più immediata è quella di attribuire al presidente la responsabilità del mancato raggiungimento degli obiettivi, anche laddove sia stato il Congresso a non disporsi al raggiungimento di un accordo. Il partito repubblicano ostile ad Obama in certa misura ne ha approfittato, riparandosi da dirette responsabilità per il fallimento dei negoziati – ma solo in certa misura. In definitiva, rischio di paralisi istituzionale, incerta attribuzione delle responsabilità, inefficienza del sistema: è proprio vero che il punto di maggiore forza della forma di governo presidenziale è che gli americani restano ancora convinti che funzioni.


Conversazione con Guido Calabresi

Il 19, 20 e 21 marzo 2012 Guido Calabresi (Sterling Professor Emeritus of Law, Yale Law School; giudice alla Corte federale d'appello del Secondo Circuito con sede a New York) ha tenuto tre lezioni di eccellenza presso la cattedra di Diritto costituzionale comparato dell'Università di Macerata, inaugurando le "Alberico Gentili Lectures". Il titolo era "Il mestiere di giudice. Pensieri di un accademico americano".

L'incontro si è aperto con una conversazione dal titolo: "L'uomo, il professore, il giudice", cui sono seguite le tre lezioni:

1) Il giudice federale d'appello degli Stati Uniti: chi è e cosa fa
2) Il giudice ed il dialogo: storie di federalismo
3) Il giudice e la giustizia: di fronte alla pena di morte

Di seguito, i link dell'intervista iniziale e delle tre lezioni:

http://www.youtube.com/watch?v=fCwHcXQ10fI
http://www.youtube.com/watch?v=v3zG-cmuVS0
http://www.youtube.com/watch?v=3Igye4dBFe4
http://www.youtube.com/watch?v=f_-14lYQZko


La retorica dei diritti e l’impoverimento del discorso politico. Il caso del Giappone

Quando uno statunitense si ferma a riflettere su un problema che affligge la sua comunità, è piuttosto facile che tenda a concepirlo nei termini di un diritto da rivendicare in sede politica o da invocare davanti ad una corte. Nel suo caso, si tratta di un metodo dialettico ed argomentativo accessibile, familiare, con il quale la cultura americana tutta dimostra una provata familiarità, forse anche grazie all’epopea del movimento di liberazione per i diritti civili che, stagliandosi come la più fiera conquista del Novecento con la quale gli Stati Uniti hanno raggiunto il novero di nazioni civili da cui la segregazione li divideva, ha tracciato il solco retorico e politico per ogni altra rivendicazione sociale.
L’approccio secondo cui ogni esigenza o problema della società debba essere promosso nei termini di un diritto da reclamare ha la sua convenienza anche solo guardando alla mera strategia comunicativa: un’agenda politica attrae decisamente più attenzione ed intercetta più facilmente militanze a suo favore se imbastita con i termini di un diritto invocato e finora disatteso, forte di quell’autorevolezza morale (oltre che giuridica) che la pretesa di un diritto porta con sé nell’immaginario pubblico. La facilità di presa e di circolazione del messaggio, tuttavia, corre il rischio di semplificare i piani che si intersecano nella trama di un’istanza sociale, e la retorica dei diritti finisce così per impoverire il discorso politico anziché agevolarlo, lasciando senza voce e sullo sfondo tutti quei significati e quelle implicazioni che la formula di un diritto preteso non riesce a veicolare. Mary Ann Glendon, tra gli altri, ne ha fatto il tema del suo Rights Talk. The Impoverishment of Political Discourse, con abbondanza di esempi tratti dall’esperienza d’oltreoceano degli ultimi decenni.

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L’uomo e la sua privacy (I). Il marchese de Sade approda a Strasburgo

Nel tempo, il diritto alla privacy è stato diversamente declinato sui due versanti dell’Atlantico a seconda dei valori di fondo delle rispettive culture giuridiche: se in Europa ha seguito la tradizione della dignità come controllo dell’immagine di sé proiettata in pubblico, negli Stati Uniti la privacy si traduce nel «right to be let alone», lo spazio precluso allo Stato e costituzionalmente protetto che si estende intorno al singolo e si lega alla sua libertà ed autonomia personale.

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