La Corte di giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema”

(nota minima a Corte giust., Grande Sez., 26 febbraio 2013, in causa C-399/11, Melloni c. Ministerio Fiscal)*

* Ho discusso alcuni passaggi di questa nota con R. Conti ed O. Pollicino, ai quali sono molto grato per l’opportunità offertami di un confronto che mi ha – come sempre – arricchito molto, consentendomi di mettere meglio a fuoco alcuni concetti bisognosi di precisazione; come di consueto, ovviamente, la responsabilità per ciò che è
scritto è solo mia.

 

  1. Pars destruens

 

Particolarmente attesa e subito fatta oggetto di varie e discordanti valutazioni, la Melloni si segnala sotto più aspetti, tutti meritevoli di una speciale attenzione. Non mi addentro ora in una minuta analisi del merito della vicenda, peraltro a tutti nota, per quanto – come si vedrà – proprio qui stia il cuore della questione specificamente riguardata da questo succinto commento. È ad ogni buon conto pressoché certo che è in ragione della “copertura” offerta dal giudice eurounitario alla disciplina che fa salva, sia pure a certe condizioni, i processi in absentia che è stata quindi data risposta al terzo dei quesiti posti in via pregiudiziale dal tribunale costituzionale spagnolo[1], al quale soltanto intendono dedicarsi le notazioni che seguono: una risposta – come si vedrà – monca, che da se medesima si dispone a letture suscettibili di gravi implicazioni ed eventuali, futuri ed inopportuni svolgimenti, nell’insieme inappagante insomma. La qual cosa, invero, ugualmente consiglia – come pure si tenterà di mostrare – una certa prudenza prima di condannare senza appello la decisione stessa, che potrebbe trovarsi anche a breve soggetta – la speranza è questa – a non secondarie precisazioni ed alla sua complessiva messa a punto.

La motivazione, in relazione al profilo al quale qui specificamente si guarda, è assai contenuta e francamente insufficiente, in buona sostanza allineata alle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot[2]. Perentoria, senza alcuna possibile riserva o condizione, è l’affermazione secondo cui il principio del primato del diritto dell’Unione deve comunque essere preservato, costi quel che costi, quand’anche dunque all’applicazione del diritto stesso possa ostare una contraria disposizione di rango costituzionale (punto 59). La Corte è consapevole – proprio qui è infatti il punctum crucis della questione sollevata dal tribunale remittente – che l’art. 53 della Carta di Nizza-Strasburgo, preso alla lettera, parrebbe configurare come meramente “sussidiario” il ruolo della Carta stessa a salvaguardia dei diritti in rapporto ad una tutela apprestata in ambito interno e giudicata[3] meno “intensa” di quella offerta dall’Unione. La Corte ci dà oggi, tuttavia, una lettura “integrativa” (o, forse meglio, “correttiva”) del disposto in parola, precisando che gli standard di tutela riscontrabili in ambito nazionale non possono, in alcun caso, compromettere “il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione” (punto 60)[4].

Viene, in tal modo, inevitabilmente ad instaurarsi un rapporto di strumentalità necessaria – se si vuole: di gerarchia, culturale e positiva – tra Costituzione nazionale (e, in genere, disciplina normativa interna) e Carta dell’Unione, la prima potendo entrare in campo e farsi valere unicamente quale strumento di attuazione della seconda, non già in via alternativa rispetto a questa. Un’attuazione – si riconosce – che può anche portare all’innalzamento del livello di tutela fissato in ambito sovranazionale[5], ma che – come si vede – deve pur sempre svolgersi lungo un binario (e il verso) tracciato dalla Carta dell’Unione. Le eventuali “addizioni” nella tutela – per riprendere ed adattare al caso nostro una nota immagine forgiata per esperienze processuali nondimeno assai diverse – devono dunque pur sempre risultare, secondo la fortunata immagine crisafulliana, “a rime obbligate” (o, meglio, baciate), senza che possa comunque aversene alcun pregiudizio per l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione.

La Corte stranamente non s’interroga circa l’opportunità (rectius, la necessità) di bilanciare – perlomeno al ricorrere di talune circostanze e pur sempre entro certi limiti di sistema – il principio del primato con altri principi parimenti fondamentali dell’Unione, e segnatamente con quello della osservanza da parte dell’Unione stessa dei principi di struttura degli ordinamenti degli Stati membri (art. 4 del trattato di Lisbona); e si rammenti: di ciascuno degli Stati, non soltanto delle “tradizioni costituzionali” ad essi “comuni”[6]. La qual cosa, poi, invero inquieta non poco, alimentando l’impressione che il bisogno indisponibile di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, al fine di essere come si conviene appagato, non possa arrestarsi davanti ad alcun ostacolo, foss’anche dato dai principi fondamentali di diritto interno (dai c.d. “controlimiti”, come ormai è d’uso chiamarli).

Non viene così presa in considerazione, come invece a mia opinione si sarebbe dovuto, una delle più rilevanti (forse, proprio la più rilevante) delle risorse apprestate dal trattato di Lisbona nell’intento di preservare il difficile, pur sempre precario, equilibrio tra uniformità e differenziazione, su cui invero si fondano e svolgono le relazioni tra Unione e Stati, edificandosi ed incessantemente rinnovandosi, in forme originali, quell’ordine “intercostituzionale” che è proprio dell’Unione, quale istituzione autenticamente ex pluribus una.

L’“europeizzazione” dei “controlimiti” – come la si è altrove chiamata –, frutto dell’accorta e lungimirante intuizione dell’autore del trattato, vede così spenta sul nascere ogni possibilità di esser fatta valere, quanto meno – come si diceva e si preciserà ancora meglio più avanti – di essere fatta oggetto della dovuta attenzione; ed i “controlimiti” stessi restano affidati, in ordine alla loro concreta salvaguardia, esclusivamente alla buona volontà degli operatori di diritto interno ed agli strumenti in quest’ultimo allo scopo disponibili; e si badi: non dei soli giudici costituzionali, come invece comunemente si pensa, ma ancora prima dei giudici comuni, dal momento che se a tutt’oggi essi sono, perlomeno da noi e diversamente da altri ordinamenti come quello ceco[7], rimasti lettera morta, lo si deve proprio ad un tacito patto in tal senso siglato dagli uni e dagli altri giudici, una convenzione o forse pure una consuetudine costituzionale fin qui sistematicamente osservata[8].

La Corte dell’Unione vede le cose dal proprio punto di vista: è naturale che sia così; eppure, ciò non toglie che esso possa rivelarsi parziale e, per ciò stesso, deformante, non tendendo conto dei principi fondamentali dell’Unione nel loro fare “sistema”. Parimenti legittimo, però, è che i giudici nazionali vedano le cose dal loro punto di vista, che può dunque differenziarsi, in maggiore o minore misura, da quello adottato in ambito sovranazionale.

Nessuno dubita che possano esservi scostamenti sensibili, nel modo con cui si risolvono, a questo o quel livello istituzionale e piano di esperienza, le questioni di diritto costituzionale (in senso materiale), e segnatamente le questioni relativi ai diritti costituzionali. Dove però non dovrebbero esservi divergenze, tali da innaturalmente convertire il “dialogo” in un doppio o plurimo monologo tra parlanti lingue diverse[9], è nel metodo. Vedere le cose dal proprio punto di vista non equivale (o non dovrebbe equivalere) a rinunziare in partenza all’idea di poter realizzare una convergenza, se non proprio la piena integrazione, l’immedesimazione, tra gli ordinamenti. Una rinunzia che purtroppo si concreta ogni qual volta si trascura – indebitamente, già alla luce delle indicazioni dell’ordinamento di appartenenza – di prendere in  considerazione le ragioni dell’altro.

In ciascun ordinamento si riscontra l’apertura all’altro, innalzata a vero e proprio principio di struttura delle relazioni interordinamentali. L’Unione dichiara di voler tener conto della CEDU, delle tradizioni comuni, dei principi – come si diceva – dei singoli Stati membri; la CEDU, a sua volta, si apre all’Unione ed agli ordinamenti nazionali, essa pure configurando – come si sa – il proprio ruolo al servizio dei diritti quale “sussidiario” e, per ciò, come recessivo a fronte di una ancòra più avanzata tutela altrove apprestata; le Costituzioni nazionali (segnatamente la nostra), secondo la lettura invalsa in giurisprudenza, dichiarano esse pure di voler essere orientate verso l’alto in vista del loro ottimale, alle condizioni oggettive di contesto, inveramento nell’esperienza.

Insomma, se non si tiene conto del punto di vista altrui, non si tiene nel dovuto conto neppure il proprio, per la elementare ragione che a quello fa rimando questo, per il tramite dei principi di struttura dell’ordinamento di appartenenza. È così, e solo così, che può prendere corpo quel “sistema di sistemi”, frutto di paritaria convergenza di più ordini (ciascuno al proprio interno composito, piace a me dire: tendenzialmente “intercostituzionale”), che è l’orizzonte verso il quale decisamente tendere se si ha cuore la causa dei diritti. Perché è solo con lo sforzo congiunto di tutti, prodotto simultaneamente a più livelli istituzionali, che questo ambizioso, ancorché sempre più problematico (specie nella presente congiuntura segnata da una crisi economica senza precedenti), obiettivo può, sia pure in parte, essere raggiunto. Chiudersi in un insano patriottismo o, peggio, nazionalismo costituzionale, assumendo essere l’ordine di appartenenza l’unico vero sovrano, ogni altro dovendovi prestare incondizionato ossequio, equivale non soltanto a far torto alle ragioni dell’altro ma allo stesso tempo – qui è il punto – negare le proprie, col fatto stesso di mettere da parte proprio quel principio fondante dell’apertura che informa di sé ciascun ordinamento, segnandone ed illuminandone le più salienti esperienze riguardanti i diritti.

 

 

  1. Pars construens

 

In che modo avrebbe dunque dovuto procedere il giudice dell’Unione, volendosi attenere all’indicazione metodica appena enunciata? E ancora: si sarebbe trovato obbligato a rovesciare il verdetto, segnatamente al terzo quesito postogli, ovvero avrebbe potuto ugualmente tenerlo fermo, sia pure attraverso un percorso argomentativo diversamente orientato al piano teorico-ricostruttivo?

Parto dalla coda, dicendo subito che non necessariamente l’esito avrebbe dovuto essere diverso, purché però si fosse prestato rispetto ad una duplice condizione.

La prima.

Il primato del diritto eurounitario e il rispetto delle fondamenta costituzionali di ciascuno Stato membro, di cui al cit. art. 4, sono – è fuor di dubbio – entrambi principi che informano di sé l’ordinamento dell’Unione: per il tramite del primo, quest’ultima manifesta ed esprime nel massimo grado la propria vocazione istituzionale, quale ordinamento appunto che in progress tende verso una crescente integrazione interna e stabilizzazione; per il tramite del secondo, si rende palese la vocazione “pluralista” dell’istituzione stessa, che vuole edificarsi e crescere nello scrupoloso rispetto dell’identità costituzionale di ciascuno degli ordinamenti nazionali da cui risulta composta.

Questa doppia vocazione o, diciamo pure, doppia faccia non è propria della sola Unione ma anche dello Stato, di ciascuno degli Stati che, in piena autodeterminazione, ha deciso di appartenere all’Unione. Perché ogni Stato sa di essere gravato da obblighi, in forza dell’appartenenza stessa, ma anche di non volere e potere abdicare a ciò che ne dà l’essenza, l’identità costituzionale appunto.

Il bilanciamento tra queste due anime di ciascun ordine positivo si pone, dunque, quale il prodotto di uno sforzo costante, un esito naturale e caratterizzante le relazioni interordinamentali[10]. Nella specie, si tratta di un bilanciamento tra due norme sulla normazione, una delle quali peraltro rimanda a norme sostantive dei singoli ordinamenti nazionali[11]. A conti fatti, tuttavia, il bilanciamento investe pur sempre norme di tale ultima specie, dovendosi stabilire dove si appunti la più intensa tutela ai diritti e – come si dirà a momenti – in genere ai beni costituzionali nel loro fare “sistema”. È perciò che – come mi affanno a dire ormai da anni – un bilanciamento… squilibrato, a senso unico, che veda sempre e comunque l’affermazione di questo o quel principio sarebbe una contraddizione insanabile, svilendo questo o quello degli elementi costitutivi della struttura sia dell’Unione che degli stessi Stati e, per ciò stesso, del fisiologico modo di essere dei loro rapporti. Ed è sempre per ciò che, a mio modo di vedere, ragionare, dal punto di vista dello Stato[12], della prevalenza, sempre e comunque, dei “controlimiti” sul diritto dell’Unione sarebbe palesemente erroneo: né più né meno che dire, con la Corte dell’Unione stessa, che il primato del diritto sovranazionale non incontra alcun impedimento in ambito nazionale alla propria incondizionata affermazione.

Il vero è che v’è una coppia assiologica fondamentale, quella risultante dai principi, dalle mutue ed inscindibili implicazioni[13], di eguaglianza e di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo (e, ulteriormente risalendo, a mio modo di vedere, dalla dignità della persona umana[14]), alla cui luce va ambientata e risolta ogni questione che dovesse porsi in caso di eventuali conflitti tra le norme di questo o quell’ordinamento, quand’anche appunto ritenute espressive di principi fondamentali. Norme giudicate idonee ad apprestare un’ancòra più adeguato servizio ai valori fondamentali suddetti rispetto a quello che può esser loro offerto da altre norme possono (e devono), perciò, trovare applicazione[15]. La qual cosa – come si vede – porta in conclusione a dire che i “controlimiti” potrebbero alle volte, ma non appunto sempre, aver modo di esser fatti valere, mentre altre volte restare silenti. Ciò che importa è che di un siffatto riscontro non può (non potrebbe…) farsi comunque a meno, salvo a dar spazio a soluzioni apoditticamente affermate (per mero accidente, magari non sbagliate e però prive di solido fondamento ed adeguata argomentazione).

La seconda condizione, dalla prima linearmente discendente, è che, tutti i principi fondamentali trovandosi naturalmente soggetti a reciproco bilanciamento (anche in prospettiva interordinamentale[16]), se ne ha che il canone della tutela più intensa non può riguardare il solo diritto di volta in volta evocato in campo o posto in primo piano sulla scena bensì, appunto, l’intera tavola dei principi di struttura sia del singolo ordinamento dato che di quest’ultimo nelle sue proiezioni interordinamentali. È insomma l’idea di “sistema” che ha da essere preservata e bisognosa di esser sempre fatta valere nelle sue massime espressioni teorico-positive, in ragione del contesto nel quale nelle singole esperienze di vita viene ambientata e se ne ricerca la realizzazione.

La nostra giurisprudenza costituzionale tutto questo lo va ripetendo, di recente persino in modo martellante e – a dirla tutta –, a mio modo di vedere, anche strumentale[17], allo scopo cioè di “smarcarsi” da un pressing delle Corti europee (e, segnatamente, della Corte EDU) in qualche caso divenuto ormai insopportabile[18].

Il ricorso all’idea di “sistema” può, non di rado, comportare il doveroso bilanciamento della pretesa di un singolo, pur se espressiva di un diritto fondamentale, con un interesse della collettività; ed è interessante notare che alle volte entrambi i beni della vita in campo sono riportabili ad uno stesso principio di struttura, quale quello – per ciò che qui specificamente importa – del giusto processo, risolvendosi pertanto in un bilanciamento interno a quest’ultimo.

Questo è quanto appunto si è avuto nel caso nostro, nel quale la richiesta di una possibile ripetizione del processo svolto in absentia è venuta a scontrarsi con l’interesse sotteso al giudicato e riportabile ad esigenze di funzionalità di un processo nel corso del quale, peraltro, certe garanzie soggettive non erano venute meno. E, invero, la Corte dell’Unione ha argomentato la tesi difensiva della disciplina normativa dell’Unione stessa relativa alla esecuzione del mandato d’arresto, facendo in particolare notare come l’imputato avesse volontariamente ed in modo certo rinunziato a comparire nel processo, non risultandone pertanto leso né il diritto di difesa né l’equità del processo stesso, di cui agli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza-Strasburgo[19].

Come avvertivo all’inizio di questa nota, non intendo qui affrontare di petto la questione se siffatta argomentazione può dirsi fino in fondo stringente e persuasiva. Il “salto” che tuttavia, a mia opinione, si riscontra nella decisione in esame sta nel non essersi in essa compiuto il doppio passaggio cui si è appena accennato, vale a dire nel non aver la Corte rilevato, in primo luogo, la necessità di conciliare, reciprocamente bilanciandoli, il principio del primato e il principio di cui all’art. 4 del trattato e, in secondo luogo, nel non aver chiarito che la stessa salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali va rettamente e compiutamente intesa per il modo con cui essi fanno “sistema”. E, poiché nella specie, a dire del giudice dell’Unione, la soluzione normativa in materia di arresto era (ed è) “ragionevole”, nella sua densa e duplice accezione di conforme al “fatto”, a tutti gli interessi oggetto di regolazione, e rispondente ai valori fondamentali evocati in campo e riguardati nel loro fare “sistema”, piana è pertanto apparsa la conclusione per cui nessun ostacolo si aveva all’affermazione del diritto dell’Unione.

[1] Un opportuno invito ad “una lettura composita dell’intera trama argomentativa espressa dalla Corte” è in R. Conti, alla voce Mandato d’arresto europeo ed esecuzione di una pena irrogata in absentia, in Corr. giur., 4/2013, 8.

[2] … annotate nel mio Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo), in www.diritticomparati.it, 5 ottobre 2012, e pure ivi un commento di G. Repetto.

[3] … non si è ben capito da chi ed in che modo. Se, infatti, per un verso, è pacifico che spetti all’Unione (e, per essa, alla sua Corte) far luogo ad una raffronto delle tutele, rispettivamente assicurate in ambito sovranazionale ed in ambito nazionale, per un altro verso neppure può escludersi che esso possa aversi anche in tale ultimo ambito e ad opera di plurimi operatori (non si dimentichi che molte questioni di “comunitarietà” sono omisso medio risolte dai giudici comuni, mentre per altre si rende necessaria la chiamata in campo del giudice delle leggi, senza peraltro scartare l’eventualità del ricorso allo stesso giudice dell’Unione in via pregiudiziale). E, poiché gli esiti del raffronto in parola possono non coincidere, in ragione del diverso punto di vista adottato da questo o quel giudice, è altresì da mettere in conto l’ipotesi del conflitto che, laddove investa le Corti “costituzionali” (in senso materiale, siccome riferito altresì alle Corti europee che – come si è fatto notare da una sensibile dottrina – in modo crescente vanno appunto assumendo siffatta connotazione), si rivela essere assai problematicamente risolvibile, senza la spontanea convergenza o, diciamo pure, l’onorevole accomodamento della questione, in spirito di “leale collaborazione”, da parte degli stessi protagonisti di queste vicende.

[4] Si faccia caso al fatto che, al tempo stesso in cui si enuncia il primato del diritto dell’Unione, si ha quello stesso della Corte, competente a darne l’“autentica” e definitiva interpretazione, rispetto a quello che potrebbe aversene ad opera degli operatori di diritto interno (e, segnatamente, dei tribunali costituzionali). Su ciò, invero, molto potrebbe dirsi (e molto è già stato detto), precisando e correggendo in non secondaria misura il giudizio che la Corte dell’Unione dà di se stessa e dell’ordinamento di appartenenza.

[5] Torna qui ad affacciarsi la vexata quaestio, cui si è appena fatto cenno, relativa al parametro della “intensità” della tutela ed al modo complessivo del suo accertamento.

[6] Un implicito riferimento alle tradizioni in parola può forse vedersi nell’affermazione fatta nella decisione in esame, in merito al “consenso raggiunto dagli Stati membri nel loro insieme a proposito della portata da attribuire, secondo il diritto dell’Unione, ai diritti processuali di cui godono le persone condannate in absentia raggiunte da un mandato d’arresto europeo” (punto 62). È vero che il consenso in parola è frutto di un deliberato politico in tal senso espresso dagli Stati, che tuttavia potrebbe qualificarsi come quodammodo esplicitativo ovvero attuativo di principi costituzionali idonei a darvi fondamento; quanto meno, questo può, con una certa, buona volontà, forse considerarsi l’avviso della Corte.

[7] … su di che, ora, O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis-à-vis il processo di integrazione europea, in Dir. Un. Eur., 4/2012, 765 ss.

[8] Sul punto, di recente e tra gli altri, M. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it, 16 ottobre 2012, e G. Martinico, Lo spirito polemico del diritto europeo. Studio sulle ambizioni costituzionali dell’Unione, Roma 2011; con specifica attenzione alle prospettive al riguardo aperte dal trattato di Lisbona, v., inoltre, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.

[9] La più accorta dottrina da tempo avverte di questo rischio, tanto sul versante dei rapporti, cui solo ora si guarda, con la Corte dell’Unione, quanto su quello dei rapporti con la Corte EDU.

[10] L’ipotesi del conflitto (e della sua conseguente soluzione mediante la tecnica del bilanciamento) parrebbe essere in radice esclusa a stare all’idea, argomentata già al momento della redazione del principio di cui all’art. 4, originariamente – come si sa – presente nell’art. 5 della Costituzione europea, secondo cui esso afferirebbe al riparto delle competenze tra Unione e Stati, ponendosi pertanto quale un prius logico-giuridico rispetto alle possibili applicazione del principio del primato (su ciò, ora, part. l’ampio saggio di B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss.). Un esito ricostruttivo, questo, invero suggestivo, al cui accoglimento tuttavia sembra ostare, per un verso, la circostanza per cui, così inteso, il principio in parola risulterebbe sostanzialmente ripetitivo delle norme del trattato specificamente riguardanti il riparto delle competenze tra Unione e Stati, nel mentre, per un altro verso, si farebbe torto alla lettera del disposto di cui all’art. 4, che parrebbe presupporre il riparto stesso, aggiungendo a quali limiti di sistema soggiacciono gli atti dell’Unione laddove ricadenti negli ambiti materiali di loro spettanza.

Tutto ciò posto, convengo che la lettura aprioristicamente conciliante porti acqua al mulino della Corte europea, cui sta a cuore che non sia frapposto ostacolo alcuno alla avanzata delle norme euro unitarie ed alla loro incondizionata affermazione in ambito interno.

[11] D’altro canto, che possano darsi casi in cui le metanorme sono obbligate a bilanciarsi con norme sostantive è un dato di frequente riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale, tanto al piano dei rapporti interordinamentali quanto a quello dei rapporti infraordinamentali. Si pensi, ad es., per l’uno, alla nostra giurisprudenza nella parte in cui chiama l’art. 117, I c., a bilanciarsi con altre norme costituzionali, un bilanciamento che – dice la Consulta – potrebbe portare a far salve norme di legge ancorché contrarie a CEDU (in realtà, come mi sono sforzato di mostrare altrove, in una congiuntura siffatta, non si dà violazione alcuna della Convenzione e, di riflesso, della Costituzione, dal momento che è la stessa Convenzione a dichiarare di voler valere unicamente laddove si dimostri in grado di servire ancora meglio delle norme interne i diritti). Per l’altro piano, si rammenti la giurisprudenza che, in fatto di rapporti Stato-Regioni, fa salve norme di leggi statali, ancorché invasive di ambiti di competenza regionale, in nome della loro provata attitudine a salvaguardare i diritti e. in ultima istanza, la dignità della persona umana (tra le altre, sentt. nn. 10 e 121 del 2010). Stranamente non ammesso, invece, il caso inverso, di norme regionali anticipatrici di una disciplina statale carente e funzionali alla salvaguardia dei diritti (sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011).

[12] … e della stessa Unione, ove dovesse farsi luogo ad un insano ordinamento gerarchico per sistema a beneficio del principio di cui all’art. 4 del trattato sul principio del primato (proprio l’opposto di ciò che ha inteso fare la decisione qui annotata).

[13] Su ciò, part., G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[14] … quella dignità cui ha opportunamente fatto riferimento, nella vicenda che ha dato origine alla pronunzia qui annotata, il tribunale spagnolo (a riguardo del modo con cui la dignità è intesa nell’ordinamento spagnolo, riferimenti in A. Oehling de los Reyes, Sobre la evolución jurídica de la noción de dignidad del hombre en España, in Jahrbuch öff. Rechts, 60/2012, 503 ss. e, dello stesso, già, La dignitad de la persona, Madrid 2010).

[15] Non è inopportuno rilevare che ragionare della maggiore ovvero minore tutela offerta ai diritti da questa o quella norma non necessariamente equivale ad ammettere che le norme stesse debbano trovarsi in guerra tra di loro; potrebbe anche darsi che esse si dispongano lungo lo stesso verso, fissando tuttavia la tutela stessa – diciamo così – ad una diversa “altezza”. Ciò non toglie che debba talora (ma, appunto, non sempre) farsi una scelta tra di esse, fermo restando che la soluzione ideale, appagante al massimo grado in ragione del contesto, è quella che consente di fare congiunta applicazione di entrambe le norme, composte ad unità nei fatti interpretativi [su tutto ciò, maggiori ragguagli possono, volendo, aversi dal mio Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, spec. al § 3].

[16] Si è poi tentato in altra sede di mostrare che i bilanciamenti interordinamentali si risolvono pur sempre in un bilanciamento interno al singolo ordinamento preso in considerazione, in virtù del principio dell’apertura che ciascuno di essi fa all’altro (o agli altri).

[17] … a puntello, cioè, di una certa soluzione di merito, altrimenti problematicamente argomentabile (riferimenti al “sistema” possono, ancora di recente, vedersi, tra le altre, in Corte cost. n. 264 del 2012 e 1 del 2013).

[18] Per la verità, non pochi distinguo dovrebbero al riguardo farsi, non soltanto tra le due Corti europee nei loro rapporti con le Corti nazionali ma anche, con riguardo ad una stessa Corte, in ragione della sua evoluzione nel tempo (con specifico riferimento alla Corte EDU, una sensibile dottrina si è persino spinta a ragionare, in più scritti, della sua “aggressività” nei confronti dei giudici nazionali: O. Pollicino, Corti europee e allargamento dell’Europa: evoluzioni giurisprudenziali e riflessi ordinamentali, in Dir. Un. Eur., 2009, 1 ss., e spec. in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010).

[19] Ad ulteriore rinforzo del suo ragionamento, la Corte si premura di rilevare come l’interpretazione da essa fatta propria degli artt. citt. della Carta risulti conforme all’art. 6, parr. 1 e 3, della CEDU per come inteso dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: quasi a voler significare che ogni diverso esito della vicenda avrebbe potuto comportare ovvero certamente comporterebbe una violazione della Convenzione.

zione.


La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale

(“a prima lettura” di Corte cost. n. 264 del 2012)*

* La nota riproduce i contenuti salienti di una lezione svolta presso il dottorato in Scienze Giuridiche dell’Università di Pisa il 13 dicembre 2012.

Sommario: 1. Delimitazione dell’oggetto della riflessione ora svolta e cenni all’orientamento della Corte EDU in merito alle leggi d’interpretazione autentica ed alla reazione nei suoi riguardi manifestata dalla prima giurisprudenza costituzionale. – 2. Il mutamento di linea strategica reso palese dalla pronunzia in commento: l’abbandono del riferimento alla certezza del diritto quale “imperioso motivo d’interesse pubblico” e la sottolineatura della diversa prospettiva da cui le Corti guardano alla tutela dei diritti, quella europea facendosi cura del singolo diritto in gioco, diversamente da quella costituzionale che si fa cura dell’intero sistema dei diritti (e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti). – 3. Il bilanciamento tra pretese soggettive e interessi della collettività, con particolare riguardo alla osservanza dei vincoli di stabilità e di parità del bilancio, e l’uso singolare che la Corte fa del principio secondo cui il rispetto della giurisprudenza EDU resta circoscritto alla sua sola “sostanza”, coi vantaggi e però pure gli inconvenienti che possono aversi nella pratica giuridica per effetto delle selezioni operate in seno alla giurisprudenza suddetta. – 4. La maschera e il volto: l’una ci mostra una Corte sensibile interprete dell’esigenza di far sempre valere il sistema, l’altro è quello di una Corte preoccupata dell’esigenza di far comunque quadrare i conti, ovverosia quando il fondamento dei diritti non è più nella Costituzione (o in altre Carte) bensì unicamente nel contesto, specie per come segnato dalla gravissima congiuntura economica in atto.

 

1.Delimitazione dell’oggetto della riflessione ora svolta e cenni all’orientamento della Corte EDU in merito alle leggi d’interpretazione autentica ed alla reazione nei suoi riguardi manifestata dalla prima giurisprudenza costituzionale

Nulla ora dirò di ciò che si dice nella decisione cui si dirige questo breve commento a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno e, dunque, del modo complessivo di essere dei suoi rapporti con le leggi da un canto, la Costituzione dall’altro. In particolare, non indugerò su quelli che lo stesso giudice costituzionale considera i punti fermi del proprio indirizzo in merito ai rapporti in discorso, richiamati in sunto anche dalla decisione ora annotata[1]: ad es., per ciò che attiene al carattere comunque “subcostituzionale” che è proprio della Convenzione, all’obbligo fatto ai giudici di esperire il tentativo di interpretare le leggi in modo conforme a Convenzione, nel significato datovi dalla Corte di Strasburgo, nonché all’obbligo, conseguente all’esito infruttuoso del tentativo stesso, di adire la Consulta, ritenendosi loro precluso di far luogo in ogni caso all’applicazione diretta della Convenzione[2].
Mi limito, dunque, solo a trarre spunto dall’annosa vicenda delle leggi d’interpretazione autentica, che qui non ripercorro passo passo a motivo della sua notorietà[3], per ricavarne qualche indicazione di ordine generale, idonea cioè a portarsi oltre il thema decidendum, nel tentativo di stabilire quale sia la strategia di fondo che il giudice delle leggi va definendo al piano dei suoi rapporti con la Corte EDU, ponendo le basi su cui i rapporti stessi possano saldamente reggersi e dalle quali muovere nei loro prossimi svolgimenti.
Rammento in due parole qual è il percorso giurisprudenziale tracciato dalla Corte EDU con Agrati e Maggio, a riguardo delle leggi d’interpretazione autentica: da un canto, è palese la preoccupata attenzione per i diritti soggettivi (anche sociali o, meglio, “economico-sociali”)[4], la cui salvaguardia, rivendicata in sede giudiziaria, potrebbe risultare vanificata da interventi del legislatore interferenti con l’amministrazione della giustizia e, come tali, lesivi dell’art. 6 della Convenzione; dall’altro, non si dichiara la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1, conseguente alla riduzione della pensione per effetto della interpretazione “autentica” operata dal legislatore stesso.
La reazione della Corte italiana si presenta in forme differenziate nel corso del tempo ed a mezzo di tecniche decisorie parimenti diverse.
Dapprima, viene adottata una strategia processuale che non cela il contrasto di vedute rispetto alla Corte europea a riguardo delle condizioni di azionabilità e dei limiti di svolgimento delle operazioni di interpretazione autentica. L’indirizzo adottato a Strasburgo appare infatti essere tendenzialmente restrittivo: per norma, le leggi stesse non possono aversi, siccome appunto interferenti col fisiologico esercizio della funzione giurisdizionale, salvo comunque il caso, di tutta evidenza ritenuto eccezionale, che soccorrano (non meglio definiti) “imperiosi motivi d’interesse pubblico”. Tendenzialmente di favore è, di contro, l’indirizzo patrocinato dalla Consulta, che annovera tra tali motivi proprio quello della certezza del diritto[5]: un’affermazione praticamente tautologica[6], che potrebbe in fin dei conti portare a mettere al riparo dalla sua caducazione pressoché ogni legge che si autoqualifichi d’interpretazione autentica[7], i ripetuti appelli ai giudici fatti dai ricorrenti e le resistenze opposte dall’amministrazione statale evidenziando per tabulas l’esistenza di contrasti interpretativi tali appunto da giustificare l’intervento del legislatore.

 

2.Il mutamento di linea strategica reso palese dalla pronunzia in commento: l’abbandono del riferimento alla certezza del diritto quale “imperioso motivo d’interesse pubblico” e la sottolineatura della diversa prospettiva da cui le Corti guardano alla tutela dei diritti, quella europea facendosi cura del singolo diritto in gioco, diversamente da quella costituzionale che si fa cura dell’intero sistema dei diritti (e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti)

Ora, con la decisione qui annotata si rende palese un significativo mutamento di strategia processuale.
Il debole argomento teorico che si rifà alla certezza, offrendo “copertura” alle leggi in discorso, non è qui più riproposto, così come si abbandona il terreno del confronto (e del possibile, temuto scontro) con la giurisprudenza EDU costituito dall’art. 6. La Corte, in fondo (e tra le righe), sembra ammettere la violazione del principio del giusto processo; e, d’altro canto, una volta che essa sia ormai stata riconosciuta dal giudice europeo, sarebbe vano contestarla. Sposta, dunque, il tiro e dà al discorso un tono più elevato, dotandolo di un respiro teorico che non appare presente nei ragionamenti fatti a Strasburgo, maggiormente segnati dalla concretezza del caso e dalle pretese soggettive in esso avanzate.
Riprendendo un’indicazione affacciata da una sensibile dottrina[8], la Corte rileva in premessa la diversità delle prospettive, rispettivamente adottate da se stessa e dalla Corte europea, dalle quali si guarda alle questioni di giustizia portate alla cognizione di ciascuna Corte: a Strasburgo, preme stabilire se v’è stata, o no, la violazione del singolo diritto in gioco; a Roma, non ci si può fermare a questo soltanto e devesi piuttosto verificare che ne è dell’intero sistema dei diritti e, più largamente, dei beni o interessi costituzionalmente protetti[9].
Non è chiaro, per vero, se, marcando la diversità delle prospettive, la Corte punti allo stesso tempo ad evidenziare lo “stacco” esistente tra se stessa, quale giudice stricto sensu ed optimo iure costituzionale, e la Corte europea, giudice pur sempre internazionale, malgrado ormai molti segni si abbiano della vocazione di tale giudice (al pari, peraltro, della Corte dell’Unione europea[10]) alla propria “costituzionalizzazione”, senza nondimeno che ne risulti per ciò rinnegata l’origine e la peculiare connotazione; ovvero se punti, puramente e semplicemente, a fare del “sistema” il grimaldello che apra al giudice delle leggi la porta per sfuggire alla “presa” del giudice convenzionale, sgravandolo dell’obbligo di conformarsi a pronunzie da quest’ultimo emesse che risultino alla Consulta sgradite[11].
Sta di fatto che è al piano del “sistema” che – ci dice la pronunzia qui annotata – va, dunque, raffrontata la tutela, rispettivamente apprestata dalle norme convenzionali e da quelle di diritto interno, onde stabilire quale di esse risulti essere maggiormente intensa[12].
La Corte riprende sul punto un’indicazione più volte data (spec. in sent. n. 317 del 2009[13]), ammettendo espressamente l’eventualità che dalla disciplina convenzionale possa venire una garanzia ancora più avanzata ai diritti[14]. Altra cosa ancora, qui come altrove non chiarita, è quale sia il parametro o il criterio che consenta di “misurare” il grado o la intensità della tutela, fermo restando che la soluzione ottimale è quella che risulta non già in applicazione della “logica” dell’aut-aut, espressiva del primato di questa o quella norma (o, meglio, di questo o quel sistema di norme), bensì l’altra che porta alla “integrazione delle tutele”[15]; ma, è chiaro che la nostra Corte si riserva pur sempre, dal proprio punto di vista (vale a dire, dal punto di vista dell’ordinamento di appartenenza), di poter dire la parola definitiva al riguardo. Non sappiamo, tuttavia, cosa possa accadere nel caso che tale parola risulti quindi incompatibile rispetto ad una (anteriore ovvero sopravveniente) pronunzia della Corte EDU[16]; al giudice delle leggi non fanno, ad ogni buon conto, difetto le risorse argomentative che consentano di “smarcarsi” dal pressing esercitato dalla Corte europea, secondo quanto già ampiamente dimostrato in passato e di cui qui pure si è avuta ulteriore conferma.
Sappiamo da risalenti pronunzie che la Corte orgogliosamente rivendica esser la tutela apprestata ai diritti dalla Costituzione non inferiore a quella data da qualsivoglia altra Carta (CEDU compresa)[17]. Quando pure tuttavia dovesse aversi riscontro dell’ipotesi formulata nell’art. 53 della Convenzione, laddove si configura come “sussidiario” il ruolo esercitato dalla Convenzione stessa (e dalla sua Corte), ugualmente potrebbe darsi – è questo il punto che sta oggi a cuore alla Consulta di fissare in modo fermo – che, seppur la salvaguardia di un diritto dato risulti maggiormente avanzata secondo la disciplina posta dalla CEDU[18], l’intero sistema di beni riceva dalla Costituzione una protezione tale da consentire di pervenire a sintesi assiologiche maggiormente apprezzabili in relazione alle esigenze del caso rispetto a quelle raggiungibili in base alle previsioni convenzionali. Detto altrimenti: la Corte rilegge ed adatta, al fine dell’affermazione della Costituzione come “sistema”, l’art. 53 della Convenzione, discostandosi nettamente dal modo con cui esso è inteso e praticato a Strasburgo[19].

 

3.Il bilanciamento tra pretese soggettive e interessi della collettività, con particolare riguardo alla osservanza dei vincoli di stabilità e di parità del bilancio, e l’uso singolare che la Corte fa del principio secondo cui il rispetto della giurisprudenza EDU resta circoscritto alla sua sola “sostanza”, coi vantaggi e però pure gli inconvenienti che possono aversi nella pratica giuridica per effetto delle selezioni operate in seno alla giurisprudenza suddetta

A sostegno dell’operazione condotta, la Corte fa abilmente appello anche ad interessi che sono, sì, dell’intera collettività ma che nondimeno fanno altresì capo ai soggetti riguardati dalle norme sub iudice: interessi di prima grandezza, in cui si specchiano valori fondamentali, quali quello della uguaglianza e della solidarietà[20]; è, però, chiaro che il bilanciamento che può dar modo di mettere in secondo piano (o, diciamo pure, da canto) la pretesa economica del ricorrente, pur laddove costituzionalmente fondata, va operato con interessi che, specie nella presente congiuntura caratterizzata da una crisi economica senza precedenti, non possono in alcun caso o modo essere posposti, in particolare quello alla osservanza dei vincoli di stabilità e di parità del bilancio imposti, a un tempo, dall’Unione europea e dall’art. 81 della Carta costituzionale, così come riscritto dalla legge cost. n. 1 del 2012.
Il punto è di estremo rilievo, per più aspetti ed a più piani di riflessione teorica.
La Corte è accorta nel rilevare che l’interesse a far quadrare i conti, “al fine di garantire un sistema previdenziale sostenibile e bilanciato”[21], è uno di quegli interessi pubblici “imperiosi” che, secondo la giurisprudenza EDU, può giustificare il sacrificio delle posizioni soggettive. Ed è altresì accorta nel rammentare, nella chiusa del suo articolato ragionamento, quanto ha più volte dichiarato[22], vale a dire che la giurisprudenza stessa richiede di esser osservata non già in ogni sua parte bensì unicamente nella sua “sostanza”: una “sostanza” che, a suo dire, autorizzerebbe ad avere riguardo, se del caso, anche ad un solo frammento di un indirizzo internamente composito delineato a Strasburgo, nella sua parte cioè in cui è stata esclusa la violazione del Protocollo n. 1, chiudendo un occhio (o, meglio, tutti e due…) davanti alla pur acclarata violazione dell’art. 6 della CEDU.
Qui è, a mio modo di vedere, una palese debolezza di passaggio argomentativo, ove si convenga che, riferita ad una pronunzia data, la sua “sostanza” non possa che risultare dall’insieme della pronunzia stessa, non già da una sola delle decisioni in essa incorporate, quella sfavorevole alla pretesa del ricorrente, tralasciando invece per intero l’altra di segno opposto (la dichiarazione della violazione dell’art. 6, cit.). Ed è del tutto chiaro che, orba la pronunzia della Corte EDU di una sua parte costitutiva essenziale, il significato dell’insieme subisce una profonda, irreparabile alterazione[23].
Il riferimento alla “sostanza” è, ad ogni buon conto, l’espressione di una tecnica decisoria raffinata, che offre il destro alla Corte per far luogo a vistose selezioni e manipolazioni della giurisprudenza europea[24]. La qual cosa, per vero, qualche vantaggio pure lo dà, quale quello di rendere estremamente remota l’eventualità, in astratto dalla Consulta non scartata, che sia prima o poi dichiarata l’incompatibilità di questa o quella norma convenzionale rispetto alla Costituzione[25] o, ancora, l’altro di far risaltare le specificità culturali e positive della tutela data ai diritti in ambito interno rispetto a quella apprestata dalla Convenzione. La salvaguardia dell’identità costituzionale, tuttavia, non può (e non deve) far da ostacolo alla diffusione di quel “patrimonio costituzionale comune” – per riprender una fortunata espressione di un’autorevole dottrina[26] – che ha proprio presso le Corti europee il luogo elettivo della sua custodia ed emersione[27].
Per altro verso, il richiamo alla “sostanza” fa correre il rischio di uno scostamento (sostanziale, appunto) dalla CEDU, vanificandosi pertanto il raggiungimento di quell’obiettivo dell’impianto di pratiche interpretative diffuse convenzionalmente orientate che la Consulta considera quale l’autentica stella polare che guida il quotidiano e non di rado sofferto cammino di tutti gli operatori di diritto interno (Corte inclusa…)[28].
Sta di fatto che quello alla “sostanza” è un riferimento prezioso, perché è proprio il frutto delle selezioni effettuate nel suo nome che entra a comporre quel bilanciamento che la Corte riserva a se stessa, orientandone il verso, fino appunto a determinarne l’esito.

 

4.La maschera e il volto: l’una ci mostra una Corte sensibile interprete dell’esigenza di far sempre valere il sistema, l’altro è quello di una Corte preoccupata dell’esigenza di far comunque quadrare i conti, ovverosia quando il fondamento dei diritti non è più nella Costituzione (o in altre Carte) bensì unicamente nel contesto, specie per come segnato dalla gravissima congiuntura economica in atto

Da una prospettiva di più ampio respiro, poi, la soluzione oggi accolta dal giudice costituzionale offre un’ulteriore, eloquente testimonianza del fatto che il fondamento dei diritti fondamentali non sta oggi tanto nella Costituzione o in altre Carte, che pure ne danno l’astratto riconoscimento, bensì nel contesto: un contesto, di certo, al presente non benigno per i diritti stessi (specie per alcuni diritti e di alcuni soggetti[29]), obbligati a forti riduzioni di senso ed a pressoché sistematico sacrificio davanti al pressante e prioritario bisogno di far salvi i vincoli di ordine economico-finanziario imposti dall’Unione (e – come si diceva – ora anche dall’art. 81 cost.).
C’è, come si suol dire, la maschera e il volto: l’una ci mostra una Consulta sensibile interprete dell’esigenza di far sempre valere il sistema, a mezzo degli opportuni bilanciamenti tra gli interessi costituzionalmente protetti; l’altro è quello di una Corte preoccupata di anteporre le esigenze dell’erario ad ogni cosa, persino appunto ai diritti fondamentali (e, in ultima istanza, alla dignità della persona umana[30]), esigenze alla luce delle quali si verifica di volta in volta fin dove sia possibile restare in asse rispetto agli indirizzi delineati dalla Corte EDU, costi quel che costi: persino, dunque, laddove si tratti di far passare per “interpretativa” una legge che tale, a conti fatti, non è[31].
È col metro che dà modo di apprezzare la consistenza di tali esigenze che si misura e verifica la possibilità di mantenere aperto (ed anzi di ravvivare senza sosta) il “dialogo” tra le Corti: un “dialogo” vero, non già quel doppio monologo tra parlanti lingue diverse che ha fin qui, non poche volte, segnato lo svolgimento dei rapporti tra le Corti stesse in talune delle sue più rilevanti espressioni.

[1] V., in particolare, il punto 4 del cons. in dir.

[2] Quest’ultimo punto, in special modo, ha – come si sa – animato un fitto dibattito, ad oggi in corso, alcuni ritenendo che l’applicazione diretta dovrebbe esser sempre consentita ai giudici, altri invece dichiarandosi ad essa favorevoli unicamente al ricorrere di talune circostanze. Di tutto ciò, nondimeno, non tocca ora dire; mi limito solo a far notare, facendo richiamo ad un rilievo altrove svolto, come per una singolare eterogenesi dei fini per effetto dell’indirizzo accolto dal giudice costituzionale non poche volte i giudici facciano luogo ad adattamenti interpretativi dei testi di legge forzatamente orientati verso la Convenzione, in buona sostanza facendo applicazione diretta di quest’ultima (e, dunque, della sua giurisprudenza). Altre volte, poi, la sospetta incompatibilità della legge a Convenzione non viene denunziata davanti alla Consulta, nel timore che presso quest’ultima possa aversi non già la dichiarazione della invalidità della fonte interna bensì quella della incompatibilità della fonte convenzionale a Costituzione. Ed è così che norme legislative dalla assai dubbia conformità a CEDU seguitano imperterrite ad essere portate ad applicazione… (su ciò, di recente, E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012, 138 s.).

[3] Tra i molti commenti, M. Massa, Agrati: Corte europea vs. Corte costituzionale sui limiti alla retroattività, e il mio, Ieri il giudicato penale, oggi le leggi retroattive d’interpretazione autentica, e domani? (a margine di Corte EDU 7 giugno 2011, Agrati ed altri c. Italia), entrambi in www.forumcostituzionale.it, e in Quad. cost., 3/2011, rispettivamente, 706 ss. e 709 ss.; S. Foà, Un conflitto di interpretazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: leggi di interpretazione autentica e ragioni imperative di interesse generale, in www.federalismi.it, 15/2011; ancora M. Massa, Dopo il caso Agrati il caso Scattolon: le leggi interpretative tra disapplicazione e prevalenza sulla CEDU, in Quad. cost., 4/2011, 957 ss. e, dello stesso, Difficoltà di dialogo. Ancora sulle divergenze tra Corte costituzionale e Corte europea in tema di leggi interpretative, in corso di stampa in Giur. cost.; G. Repetto, Il triangolo andrà considerato. In margine al caso Scattolon, in www.diritticomparati.it, 27 dicembre 2011; G. Ricci, Il passaggio del personale Ata dagli enti locali allo Stato: per la Corte di giustizia è un caso di trasferimento d’azienda (Osservaz. a Corte giust. 6 settembre 2011, causa C-108/10), in Foro it., 11/2011, IV, 503 ss.; V. De Michele, Le vicende del personale Ata trasferito allo Stato dopo le giurisdizioni superiori tornano al vero giudice: quello comune “europeo” che decide nel merito, in www.europeanrights.eu, 14 marzo 2012; R. Caponi, Giusto processo e retroattività di norme sostanziali nel dialogo tra le Corti, in Giur. cost., 5/2011, 3753 ss., e, nella stessa Rivista, A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, 3779 ss.

[4] Contrariamente a ciò che un nutrito drappello di studiosi ritiene [indicazioni nei contributi al convegno su I diritti sociali dopo il trattato di Lisbona, in ricordo di Massimo Roccella, Roma 14 giugno 2011 (e, tra questi, R. Caponi, Diritti sociali e giustizia civile: eredità storica e prospettive di tutela collettiva, e G. Bronzini, La tutela dei diritti fondamentali e la loro effettività: il ruolo della Carta di Nizza, entrambi in www.europeanrights.eu, rispettivamente, 18 marzo 2012 e 5 maggio 2012) e, ancora, nei contributi al convegno su I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo delle Corti. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e vincoli di sistema, Reggio Calabria 5 novembre 2011, i cui Atti sono in corso di stampa, ma alcuni di essi sono già disponibili: v., dunque, A. Spadaro, I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in www.rivistaaic.it, 4/2011; C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?,  in www.gruppodipisa.it, 21 dicembre 2012 e, nella stessa Rivista, C. Panzera, Per i cinquant’anni della Carta sociale europea, 28 febbraio 2012; A. Rauti, La “giustizia sociale” presa sul serio. Prime riflessioni, in www.forumcostituzionale.it; inoltre, AA.VV., Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010), a cura di L. Mezzetti e A. Morrone, Torino 2011, ed ivi part. G. Romeo, Civil rights v. social rights nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: c’è un giudice a Strasburgo per i diritti sociali?, 487 ss., della quale v., inoltre, amplius, La cittadinanza sociale nell’era del cosmopolitismo: uno studio comparato, Padova 2011, nonché, ora, La garanzia dei diritti sociali tra “autosufficienza nazionale” e tutela sopranazionale, in paper; S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, Bologna 2012; S. Gambino, Constitutionnalismes nationaux et constitutionnalisme européen: les droits fondamentaux sociaux, la Charte des droits de l’Union Européenne et l’identité constitutionnelle nationale, in www.federalismi.it, 6/2012, e, dello stesso, I diritti sociali fra costituzioni nazionali e costituzionalismo europeo, pure ivi, 24/2012; A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano 2012; altri riferimenti ancora possono aversi dai contributi al convegno di Trapani dell’8 e 9 giugno 2012 su I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, in www.gruppodipisa.it, agosto 2012, tra cui, D. Tega, I diritti sociali nella dimensione multilivello tra tutele giuridiche e politiche e crisi economica, e A. Guazzarotti, Giurisprudenza CEDU e giurisprudenza costituzionale sui diritti sociali a confronto; infine, AA.VV., I diritti dei lavoratori nelle Carte europee dei diritti fondamentali, a cura di S. Borelli-A. Guazzarotti-S. Lorenzon, Napoli 2012], non poche sono le occasioni – e la vicenda che ha dato lo spunto a queste notazioni ne dà palmare conferma – in cui in ambito sovranazionale si presta un’ancòra maggiore attenzione alle sorti dei diritti “economico-sociali” di quella che è invece loro data in ambito interno.

[5] Si dice, ad es., in Corte cost. n. 257 del 2011 che “la finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore” (punto 5.1 del cons. in dir.).

[6] … le leggi d’interpretazione autentica essendo sempre adottate in presenza di incertezze e divergenze d’indirizzo manifestate dalla pratica giuridica, specie processuale.

[7] … salvo appunto che non lo sia, vale a dire che agli occhi della Corte non appaia esser tale e, dunque, irragionevolmente retroattiva (da tempo predicata, come si sa, l’astratta assoggettabilità delle leggi in discorso a scrutinio stretto di costituzionalità, senza che però si sia sempre rimasti fedeli a questa direttiva d’azione. Un caso recente di annullamento è quello avutosi con sent. n. 78 del 2012).

[8] Tra gli altri, E. Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 7/2010, 955 ss., spec. 961.

[9] V. spec. al punto 4.1 del cons. in dir.

[10] La questione, come si sa assai discussa, relativa alla “costituzionalizzazione” della Corte dell’Unione fa tutt’uno con quella della “costituzionalizzazione” dell’ordinamento di appartenenza: si tratta, infatti, di due facce di una stessa medaglia o, se si preferisce, di due processi, tuttora in corso, che confluiscono l’uno nell’altro ricaricandosi senza sosta a vicenda (su ciò, nella ormai nutrita lett., v., ora, G. Martinico, The Tangled Complexity of the EU Constitutional Process, London 2012).

[11] Ho discusso questo passaggio argomentativo con O. Pollicino, che ringrazio per avermi sollecitato a riflettere sul punto. Lo stesso P. si è in molti luoghi intrattenuto sulla vocazione di cui è parola nel testo (ad es., in Allargamento ad est dello spazio giuridico europeo e rapporto tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale?, Milano 2010, spec. 451 ss.; O. Pollicino-V. Sciarabba, Tratti costituzionali e sovranazionali delle Corti europee: spunti ricostruttivi, in AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti-V. Piccone, Roma 2010, 125 ss., nonché in altri scritti subito appresso citt.; v., inoltre, utilmente, E. Malfatti, L’“influenza” delle decisioni delle Corti europee sullo sviluppo dei diritti fondamentali (e dei rapporti tra giurisdizioni), in AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli-F. Dal Canto-E. Malfatti-S. Panizza-P. Passaglia-A. Pertici, Torino 2010, 165 ss.).

[12] Attorno al criterio della “intensità” della tutela si è tessuta una tela assai fitta di elaborazioni teoriche di vario segno ed orientamento: tra i molti altri, v. O. Pollicino, Margini di apprezzamento, art. 10, c. 1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it; AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010; AA.VV., Le garanzie giurisdizionali, cit.; R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011; G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; AA.VV., Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo, cit.; A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, Giornate di studio in ricordo di A. Concaro, a cura di F. Dal Canto ed E. Rossi, Torino 2011, 313 ss.; L. Cappuccio, Differenti orientamenti giurisprudenziali tra Corte EDU e Corte costituzionale nella tutela dei diritti, in AA.VV., La “manutenzione” della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Spagna e Francia, a cura di C. Decaro-N. Lupo-G. Rivosecchi, Torino 2012, 65 ss.; G. Martinico-O. Pollicino, The Interaction between Europe’s Legal Systems. Judicial Dialogue and the Creation of Supranational Laws, Cheltenham (Gran Bretagna) - Northampton (Stati Uniti d’America) 2012; AA.VV., Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, a cura di L. Cassetti, Napoli 2012; D. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano 2012; A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, cit.; A. Guazzarotti, I diritti sociali nella giurisprudenza CEDU, cit.; P. Caretti, I diritti e le garanzie, relaz. al Convegno dell’AIC su Costituzionalismo e globalizzazione, Salerno 23-24 novembre 2012, in www.rivistaaic.it.

[13] … una delle due “gemelle cresciute”, secondo l’azzeccata qualifica che ne dà E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, cit., 165 in nt. 104; forse, però, non è inopportuno aggiungere che, crescendo, alle volte si cambia...

[14] Per vero, nella decisione appena richiamata, che si rifà ad un sibillino passaggio della sent. n. 348 del 2007, l’intento è esattamente rovesciato, prefigurandosi il caso che, nel contrasto tra legge e Convenzione, possa esser la prima ad avere la meglio, siccome idonea a portare ancora più in alto la tutela. È però chiaro (ed è stato fatto notare in altri luoghi) che trattasi di un’affermazione perfettamente rovesciabile su se stessa, a doppio verso di marcia insomma, non potendosi ovviamente escludere l’ipotesi opposta di una tutela maggiore apprestata dalla Convenzione, ipotesi che – come si viene dicendo – è espressamente presa in considerazione dalla decisione in commento.

[15] Così, espressamente, nella chiusa del punto 4.2 del cons. in dir. della pronunzia qui annotata, laddove la Corte mostra di rifarsi, pur senza farvi esplicito richiamo, ad una sua ispirata pronunzia, la n. 388 del 1999, nella quale è l’efficace rilievo secondo cui la Costituzione e le altre Carte (CEDU inclusa) “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Quanto, poi, siffatta affermazione armonicamente s’inscriva nel quadro teorico-ricostruttivo ormai marcatamente delineato secondo cui la Convenzione è seccamente, stancamente qualificata quale fonte “subcostituzionale”, come tale obbligata a prestare rispetto ad ogni norma della Carta costituzionale, seguita ad apparire ai miei occhi misterioso.

[16] Ad oggi bisognosa di ulteriore, approfondito studio è la questione cruciale relativa agli eventuali conflitti tra giudicato costituzionale e giudicato europeo (sempre che il termine risulti appropriato all’uno o all’altro o, ancora, ad entrambi; ma di ciò qui non discorro). Per quanto se ne può ora dire, per un verso, conviene a mia opinione distinguere a seconda dei “tipi” di giudicato, in relazione alle funzioni di volta in volta esercitate, ciascuno di essi presentando connotati non riscontrabili in capo agli altri. Per un altro verso, conviene riguardare a siffatte vicende senza alcun pregiudizio di ordine ideologico o teorico, in particolare senza muovere dall’assunto, giudicato indiscutibile, della irreversibilità del giudicato costituzionale, ex art. 137, ultimo comma, cost. Si commetterebbe altrimenti l’errore che la stessa Corte ci dice oggi esser assai grave e, perciò, da evitare a tutti i costi, di far luogo ad una considerazione – come dire? – “atomistica” del disposto suddetto, al di fuori della sua doverosa riconduzione al sistema di cui è parte; e il sistema vuole che ogni volta, nel corso di un’esperienza processuale data, si ricerchi il punto di sintesi assiologica maggiormente elevato, a mezzo delle opportune operazioni di bilanciamento: un bilanciamento che, come sempre, appare essere imprevedibile nei suoi possibili esiti, ora giocando a beneficio della norma interna ed ora però premiando quella sovranazionale, siccome appunto maggiormente idonea a farsi cura dei diritti, nel loro fare – come opportunamente si segnala alla Consulta – “sistema” (maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi da miei studi anteriori, a partire da Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, cit., 178 ss., spec. 185 ss.).

[17] Senza nulla togliere agli incommensurabili meriti della nostra Carta, che seguito a giudicare un’ottima Carta ancorché bisognosa ormai di non pochi aggiustamenti (nella seconda così come nella prima parte e, persino, nei princìpi fondamentali), considero però l’animus del giudice delle leggi, cui si accenna nel testo, espressivo di un nazionalismo o patriottismo costituzionale sterile e, anzi, alla prova dei fatti, dannoso.

[18] Una evenienza, questa, alla quale – come si è fatto poc’anzi notare – espressamente si riferisce il punto 4.1 del cons. in dir. della decisione in commento.

[19] Ci si può chiedere, ma in luogo diverso da questo, se la medesima “logica” può valere altresì nei rapporti con la Carta dei diritti dell’Unione (e la sua Corte). Posso qui solo dire che, malgrado la diversità dei rapporti stessi, la “logica” sistematica, con lo strumentario di cui si avvale allo scopo di potersi affermare (sopra ogni altra, la tecnica dei bilanciamenti secondo valore), a me pare dotata di generale valenza. Gli esiti possono, poi, ovviamente essere varî da caso a caso, in ragione della specificità degli interessi in campo e delle  norme da essi evocate a loro tutela; e, tuttavia, non si trascuri la spinta formidabile verso la convergenza degli esiti stessi che viene già dal sol fatto che la Carta dell’Unione dichiara di volersi rifare alla CEDU, salva comunque la maggior tutela offerta ai diritti in ambito “eurounitario”, e tutte, poi, alle “tradizioni costituzionali comuni” (sul punto, ulteriori rilievi a breve).

[20] V., part., il punto 5.3 del cons. in dir. Trovo particolarmente opportuno il richiamo ai valori in parola, specie al secondo, stranamente molte volte dimenticato e forse più di ogni altro oggi afflitto da una crisi lacerante (in argomento, ora, A. Apostoli, La svalutazione del principio di solidarietà. Crisi di un valore fondamentale per la democrazia, Milano 2012).

[21] Punto 5.4 del cons. in dir.

[22] Con particolare vigore, in sent. n. 236 del 2011, a commento della quale, per tutti, R. Conti, La scala reale della Corte Costituzionale sulla tutela della CEDU nell’ordinamento interno, in Corr. giur., 9/2011, 1259 ss., ed E. Cacace, Fra deroghe alla retroattività della lex mitior e collocazione delle norme Cedu: ribadendo principi consolidati, aperture non irrilevanti della Corte Costituzionale. Nota a margine della sentenza 236/2011, in www.forumcostituzionale.it, nonché, volendo, il mio La Corte costituzionale “equilibrista”, tra continuità e innovazione, sul filo dei rapporti con la Corte EDU, in www.giurcost.org, 7 novembre 2011.

[23] Altra cosa è che la “sostanza” si reputi apprezzabile unicamente in senso diacronico, vale a dire con riferimento non già ad una singola decisione bensì ad un “indirizzo” giurisprudenziale composto da plurime e convergenti decisioni e, perciò, a conti fatti, al “diritto vivente”. Ciò che autorizzerebbe gli operatori di diritto interno a discostarsi da un isolato verdetto del giudice europeo, non ancora appunto commutatosi in “indirizzo”. Dalla giurisprudenza EDU, tuttavia, non abbiamo indicazioni univoche, che consentano di prendere partito su questa intricata questione teorica, peraltro gravida di implicazioni pratiche a largo raggio e suscettibile di lasciare un segno marcato, a seconda che sia risolta nell’uno ovvero nell’altro modo, sugli equilibri istituzionali (dei giudici inter se e nei loro rapporti con gli organi della direzione politica).

[24] È qui appena il caso di far notare che le selezioni in parola possono, ancora prima, aversi ad opera dei giudici comuni, la delimitazione dell’obbligo di osservanza della giurisprudenza EDU alla sua sola “sostanza” valendo – com’è chiaro – per tutti i giudici, non per il solo giudice costituzionale. La qual cosa, poi, potrebbe avere una significativa ricaduta su ciascuno dei “paletti” fissati dalla Consulta, a partire dalle sentenze “gemelle” del 2007: sull’interpretazione conforme così come, nel caso del suo infruttuoso esperimento, sull’obbligo del ricorso al giudizio di costituzionalità per ogni sospetta incompatibilità tra norme legislative e norme convenzionali.

Ora, poiché la “sostanza” può essere, in prima battuta, apprezzata dai giudici comuni e, solo in seconda (ed eventualmente), dalla Corte costituzionale, nulla esclude che la stessa Corte EDU possa, se adita avverso la pronunzia di un giudice nazionale, far sentire la propria voce, emettendo un verdetto che, a sua volta, immesso in ambito interno, si presta a costituire oggetto di ulteriore vaglio in applicazione del canone della “sostanza”. Come si vede, la opportuna messa a punto di quest’ultima, resta naturalmente rimessa al mai finito “dialogo” intergiurisprudenziale, non già alla esclusiva determinazione di un’autorità nazionale, foss’anche il giudice delle leggi.

[25] Si è, poi, in altri luoghi discusso se tale dichiarazione debba aversi nelle forme ordinarie, vale a dire con la caducazione della legge di esecuzione della CEDU “nella parte in cui…”, secondo quanto il giudice delle leggi ha tenuto a ribadire fino alla sent. n. 311 del 2009, ovvero se possa aversi – come a me parrebbe – senza il passaggio obbligato dell’annullamento della norma convenzionale, il quale poi ridonderebbe nella espunzione della disposizione che quella norma racchiude ed esprime, in ogni suo possibile significato, secondo quanto usualmente (e però, a mia opinione, assai discutibilmente) si ha ogni qual volta venga appunto meno per mano del giudice costituzionale una statuizione di legge. Per questo secondo corno dell’alternativa, dunque, il giudice costituzionale dovrebbe limitarsi a dichiarare la “irrilevanza” della Convenzione al fine della risoluzione del caso, siccome inidonea ad integrare il parametro di cui al I c. dell’art. 117 (così, già nel mio Corte costituzionale e Corti europee, cit., 168 ss.). Si è poi avuto modo di far notare (nel mio Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in www.giurcost.org, 21 aprile 2012, spec. al § 4) che, in molti casi e verosimilmente, più che di un vero e proprio contrasto tra le due Carte, si avrebbe una varietà di “gradi” di tutele, disponendosi le norme delle Carte stesse ad una diversa “altezza” senza nondimeno dar vita ad un’antinomia strettamente intesa, dovendosi pertanto scegliere quale di esse offra appunto la più “intensa” salvaguardia ai beni della vita in gioco. Per quest’ultimo ordine di idee, non dandosi un’antinomia, non ci si dovrebbe comunque rivolgere al giudice delle leggi, restando pertanto demandata la scelta della norma più adeguata al caso al giudice comune.

[26] Ovvio il riferimento al noto saggio monografico di A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna 2002.

[27] Tra “tradizioni europee” e “tradizioni nazionali” si dà un rapporto complesso, di mutuo soccorso, vale a dire di circolare alimentazione semantica: quelle attingendo da queste al fine della loro conformazione e del loro incessante rinnovo e queste, a loro volta, da quelle ricevendo suggestioni ed indicazioni per il cui tramite esse pure si rigenerano, caricandosi di inusuali valenze espressive. Perlomeno, così dovrebbe essere secondo modello, ove delle une e delle altre si faccia buon uso; ed è superfluo qui nuovamente precisare che ciò può aversi alla sola condizione che nessuna Carta (e Corte) si arrocchi, rinchiudendosi in modo autoreferenziale in se stessa, in nome di una supposta primauté che, a mia opinione, non si dà per sistema ma che va conquistata sul campo, in relazione alle specifiche esigenze del caso, e che piuttosto ciascuna Carta (e Corte) si renda con molta umiltà disponibile a farsi beneficamente fecondare dalle altre, con ciò stesso esaltandosi e realizzandosi al massimo grado, alle condizioni oggettive di contesto. Tengo molto, infatti, qui a far richiamo ad un pensiero che ho in molti luoghi enunciato, vale a dire che, quando pure la Costituzione dovesse piegarsi davanti ad un’altra Carta per cederle il posto in una spinosa vicenda processuale, ciò pur sempre farebbe in nome dei suoi valori fondamentali, al fine della loro ottimale realizzazione e salvaguardia: primi su tutti i valori di libertà ed eguaglianza, nelle loro mutue implicazioni (a riguardo delle quali, sopra tutti, G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009), le due gambe su cui si regge e muove l’intero ordinamento, anche nelle sue proiezioni verso l’esterno.

[28] Il punto è già stato toccato in altri miei scritti, ai quali faccio dunque rimando: v., ad es., Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in www.giurcost.org, 17 marzo 2012, spec. § 7, e, nella stessa Rivista, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, 21 aprile 2012, § 4; pure ivi, inoltre, A. Bonomi, Brevi note sul rapporto fra l’obbligo di conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e l’art. 101, c. 2 Cost. (… prendendo spunto da un certo mutamento di orientamento che sembra manifestarsi nella sentenza n. 303 del 2011 Corte cost.), 5 aprile 2012.

[29] Si pensi solo al diritto alla salute, forse il più esposto assieme al (o dopo il) diritto al lavoro al soffio impetuoso del vento della crisi (su di esso, ora, E. Cavasino, La flessibilità del diritto alla salute, Napoli 2012). Non a caso, d’altronde, la giurisprudenza costituzionale lo ha, come si sa, stranamente riconosciuto agli stranieri irregolari unicamente nel suo “nucleo duro” (sent. n. 61 del 2011 ed altre ancora), diversamente da altri diritti, come quello al matrimonio (sent. n. 245 del 2011). Quanta coerenza, poi, ci sia in tutto ciò non saprei dire (si pensi solo alla circostanza che dal matrimonio discendono anche diritti che “costano”, in campo economico-sociale); soprattutto, non saprei dire come tutto ciò possa conciliarsi coi principi-valori costituzionale nel loro fare “sistema”, primo su tutti quello della dignità, di cui si fa parola subito appresso, che vigorosamente sollecita all’adozione di soluzioni a finalità “inclusiva”, in ordine al godimento dei diritti inviolabili, quale appunto quello alla salute, non già “esclusiva”, odiosamente discriminatoria (su quest’ultimo punto, di cruciale rilievo, v., part., A. Morelli, Il carattere inclusivo dei diritti sociali e i paradossi della solidarietà orizzontale, intervento al convegno di Trapani su I diritti sociali, cit.).

[30] Valore che si è definito “supercostituzionale” [A. Ruggeri-A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss., e, più di recente, C. Drigo, La dignità umana quale valore (super)costituzionale, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura di L. Mezzetti, Torino 2011, 239 ss.], la vera e propria “bilancia” – è stato detto, nel medesimo ordine di idee della dottrina sopra richiamata, da un autorevole studioso (G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it) – su cui si dispongono i beni della vita bisognosi di bilanciamento: un valore a riguardo del quale, nondimeno, la giurisprudenza costituzionale esibisce perduranti incertezze ed oscillazioni, ora nel suo nome anteponendo le norme sui diritti ad ogni altra norma, persino a quelle sulla normazione (ad es., sent. n. 10 del 2010), ora invece giudicandole recessive (sentt. n. 373 del 2010 e 325 del 2011). Tra gli autori che considerano la dignità passibile di bilanciamento, v. M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, a cura di G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Napoli 2009, 1060 ss., e G. Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in Pol. dir., 1/2011, 45 ss., spec. 69 ss. Ulteriori ragguagli e riferimenti di lett. in un senso e nell’altro, ora, in A. Pirozzoli, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, Napoli 2012, spec. 26 ss.

[31] Con riguardo al caso che ha dato lo spunto a queste notazioni, la genuinità della legge quale atto d’interpretazione autentica e la sua congruità rispetto al fine, già rilevate da Corte cost. n. 172 del 2008, hanno avuto ulteriore conferma nella decisione qui annotata, dov’è un espresso riferimento alla decisione ora richiamata.

Resta tuttavia il fatto, su cui la stessa Corte ha ripetutamente sollecitato a fermare l’attenzione, che il linguaggio delle leggi delimita pur sempre l’area dei significati da essi astrattamente desumibili: spacciare per “interpretativo” un atto che rovescia il senso di un enunciato anteriore, facendo pertanto luogo ad una forte manipolazione della sua sostanza normativa, costituisce un palese superamento dei confini di quell’area.


Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale*

Sommario: 1. I riflessi della questione fatta qui oggetto di esame al piano della teoria della Costituzione e a quello dei rapporti istituzionali (in ispecie, la comune opinione secondo cui il mantenimento delle forme a finalità sistematica risponderebbe allo scopo di preservare lo stacco tra civil e common law e la sua critica). – 2.  La ricostruzione corrente del sistema, secondo forma, e la descrizione più diffusamente accolta della operatività dei criteri ordinatori. – 3. La teoria dei limiti alla revisione costituzionale, l’abbandono delle forme in ordine alla sistemazione delle norme costituzionali che il suo accoglimento comporta, il mancato ricorso alla “logica” delle “coperture” secondo valore, dichiaratamente ammessa dal giudice costituzionale per il solo campo di esperienza in cui si svolgono i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea. – 3.1. Il percorso non lineare della giurisprudenza, ovverosia le “schegge” di una sistemazione secondo le norme, non già secondo le fonti, con specifico riguardo alle discipline statali che danno i “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali. – 3.2. I limiti all’abrogazione popolare segnati dalle norme di legge che danno una “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti. – 3.3. Il “bilanciamento” tra norme sulla normazione e norme sostantive (a proposito di alcune esperienze riguardanti le discipline legislative di Stato e Regione a presidio dei diritti, dello sperequato trattamento loro riservato, della singolare dottrina di una dignità della persona umana… a scomparsa, di cui si fa portatrice la giurisprudenza costituzionale). – 3.4. La deformalizzazione delle dinamiche della normazione, al piano delle relazioni interordinamentali e per effetto della crescente espansione del diritto di origine esterna, e la internamente composita giurisprudenza avente ad oggetto la CEDU e le forme del suo giuridico rilievo in ambito interno, oscillante tra il corno formale-astratto e quello assiologico-sostanziale in ordine alla ricostruzione e incessante rinnovo delle dinamiche costitutive del sistema. – 3.5. (Segue) Raffronti tra norme, commutazione del parametro in oggetto, e viceversa, tecniche di ripianamento delle antinomie (in particolare, applicazioni e disapplicazioni dirette della Convenzione da parte dei giudici comuni, alla luce del criterio della tutela più “intensa” offerta ai diritti fondamentali). – 3.6. (Segue) L’insegnamento che viene dall’ultima giurisprudenza sulla CEDU: la Costituzione come “intercostituzione”, i materiali offerti da altre Carte immettendosi nella struttura della Carta costituzionale e concorrendo senza sosta alla sua rigenerazione semantica, e il carattere “condizionato” di ogni fonte (Costituzione inclusa!), idonea a valere ed essere portata ad effetto unicamente in quanto ne sia provata l’attitudine a dare, in relazione al caso, la tutela più “intensa” ai diritti, vale a dire ad assicurare, a un tempo, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali. – 4. Il sistema è, a conti fatti, ricerca del… sistema, dell’armonica congiunzione di norme, “fatti” e valori, secondo una teoria della Costituzione assiologicamente orientata: una teoria che, proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, ha da esser tenuta ferma e portata alle massime realizzazioni consentite dal contesto, al servizio della Costituzione stessa, dei suoi valori, dell’uomo. 

 

1.I riflessi della questione fatta qui oggetto di esame al piano della teoria della Costituzione e a quello dei rapporti istituzionali (in ispecie, la comune opinione secondo cui il mantenimento delle forme a finalità sistematica risponderebbe allo scopo di preservare lo stacco tra civil e common law e la sua critica)

Parto dalla coda, enunciando subito la conclusione alla quale credo di poter pervenire a seguito di un monitoraggio costante che vado facendo della giurisprudenza; ed è che sembra essere confermato il giudizio evocato dal secondo frammento del titolo dato a questa mia riflessione, vale a dire che la Corte non sappia o non voglia optare né per l’uno né per l’altro corno dell’alternativa, che non abbia insomma una sola idea di sistema, di fonti o di norme che sia, che fedelmente e linearmente applica ai casi su cui è di volta in volta chiamata a pronunziarsi.
L’esito, se – come credo – avvalorato dall’esperienza (anche di quella che verrà…), è inquietante, dal momento che – come tenterò di mostrare – l’indecisione circa la conformazione strutturale del sistema ridonda ed interamente si risolve in una sostanziale indecisione circa ciò che è la Costituzione: in gioco è, insomma, la teoria della Costituzione, il modo con cui la legge fondamentale della Repubblica s’invera nell’esperienza e, per ciò stesso, dà senso sia al sistema che a… se stessa, confermandosi quale fons fontium, fondamento dell’ordinamento, nel suo essere ed incessante rigenerarsi nei suoi contenuti contingenti, tuttavia trasmettendosi sempre identico a sé.
Il quadro non è però tutto in penombra; s’intravedono, di tanto in tanto, sprazzi di luce, particolarmente frequenti proprio negli ultimi tempi e tali da indurre ad un cauto, se si vuole: molto cauto, ottimismo. Vistosi e duri a morire sono, nondimeno, i condizionamenti che vengono da una tradizione risalente, che ha nella forma il perno attorno al quale si fanno ruotare e dal quale stabilmente tenere le dinamiche della normazione: una tradizione – riconosco – che pure aveva, nel contesto in cui è maturata, una sua innegabile giustificazione, venuta tuttavia a mia opinione meno nel momento in cui quel contesto è stato soppiantato da altro, dal primo profondamente diverso[1]. La Corte in breve – è questa la tesi che mi propongo di argomentare – deve finalmente liberarsi da un vero e proprio crampo mentale che le impedisce di applicare e far valere schemi ricostruttivi originali, adeguati alla presente congiuntura e, a un tempo, idonei ad inscriversi armonicamente nel quadro costituzionale, non solo senza far luogo ad alcuna forzatura dello stesso ma anzi rendendone ancora più nitidi ed espressivi i lineamenti. Vi sono in una certa giurisprudenza, come si vedrà a breve con esempi, i semi che, opportunamente coltivati, alimentano questa speranza e che spingono decisamente per il secondo corno dell’alternativa evocata dal titolo dato a questa mia riflessione. A fronte di tale giurisprudenza sta però un’altra, diversamente orientata al piano metodico ancora prima che a quello teorico-ricostruttivo, che accusa forti ritardi culturali, siccome legata a filo doppio ad un formalismo esasperato, radicato in quel dogmatismo imperante che – come si sa – si è affermato a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento e che sta tuttora a base della più accreditata rappresentazione teorica dell’ordine delle fonti.
Le resistenze opposte da una parte assai consistente della nostra cultura giuridica ad abbandonare taluni schemi d’inquadramento sistematico di connotazione formale-astratta, pure finemente elaborati ma ormai vetusti, è comunemente spiegata col bisogno di preservare lo stacco esistente tra civil e common law, che tuttavia – com’è da molti, e sia pure con varietà di prospettive e di svolgimenti teorici, rilevato – appare ormai essere assai ridotto, proprio per effetto di una coraggiosa ed innovativa giurisprudenza[2], che ha infaticabilmente concorso (e concorre) a far mutare volto al sistema e, a un tempo, a… se stessa, incarnando il proprio ruolo in modi assai diversi rispetto al passato[3].
Rivista questa vicenda dal peculiare angolo visuale degli equilibri istituzionali, nella ricostruzione delle fonti comunemente accolta è da vedere lo sforzo di mettere al riparo la rappresentanza politica e le sue più emblematiche espressioni dalla sua “occupazione” e dal vero e proprio svilimento cui si reputa esser andata soggetta ad opera di un indirizzo scientemente e vigorosamente perseguito da parte dei giudici (sia comuni che costituzionali) e volto a debordare dagli argini agli stessi fissati per il fisiologico esercizio del ruolo ad essi assegnato[4].
Non è a mezzo di questi argomenti, tuttavia, che la questione può essere convenientemente posta e risolta, altro essendo il superamento dei limiti stabiliti per l’esercizio dell’attività di questo o quell’organo ed altro ancora il modo con cui l’attività stessa può (e deve) essere legittimamente svolta. E la circostanza per cui si assiste, anche assai di frequente, a torsioni vistose dei ruoli (ma, da parte di tutti: organi della direzione politica e preposti alla produzione giuridica, così come da parte dei garanti, persino dei massimi garanti dell’ordinamento) nulla di per sé dice a riguardo dei canoni o criteri che presiedono allo svolgimento delle funzioni assegnate agli organi stessi.
Ad ogni buon conto, anche l’indirizzo metodico-teorico che fa leva sulle forme a finalità ricostruttiva dell’ordine positivo (quale ordine di fonti, appunto) ammette che, secondo modello, i giudici non possano ormai più essere (se mai sono stati…) una mera bouche de la loi, secondo una fortunata loro immagine che tuttavia stancamente si ripete. Piuttosto, è da dire che vicende varie, a taluna delle quali si farà qui pure cenno, hanno col tempo sempre più messo in evidenza il ruolo attivo (alle volte, singolarmente attivo) dei giudici, specificamente sul terreno della salvaguardia dei diritti fondamentali; la qual cosa, per la sua parte, ulteriormente avvalora l’idea, nella quale da tempo mi riconosco e che qui pure tenterò di argomentare, secondo cui il sistema o è sistema di norme oppure semplicemente non è.

 

2.La ricostruzione corrente del sistema, secondo forma, e la descrizione più diffusamente accolta della operatività dei criteri ordinatori

L’impianto del sistema, nelle sue ricostruzioni ad oggi più diffuse e largamente fatte proprie dalla giurisprudenza, appare essere – come s’è accennato – d’ispirazione formale-astratta.
Molti sono i segni che potrebbero essere addotti a sostegno di quest’affermazione. E basti solo por mente al fatto che il criterio posto dalla Corte costituzionale a base del riconoscimento della propria competenza a giudicare della validità delle leggi e degli atti a queste equiparati fa appunto leva sulla forma degli atti, unicamente alcuni di essi essendo riconosciuti come dotati di “valore di legge” e, pertanto, esclusivamente soggetti al sindacato del giudice costituzionale. Nessun rilievo, come si sa, è assegnato alla forza sostanziale espressa dalle norme contenute negli atti stessi: i regolamenti delegati, ad es., pur essendo provvisti della capacità di statuire in contrasto di leggi vigenti, restano esclusi, per il solo fatto di portare il nome di regolamenti, dal novero degli atti impugnabili in sede di giudizio sulle leggi (non ha, infatti, come si sa, avuto fortuna la contraria e argomentata proposta di un’autorevole dottrina volta a dar modo anche a tali regolamenti di essere portati alla cognizione della Corte[5]).
Non risolutivo, a giustificazione della tesi ormai invalsa, appare tuttavia essere il rilievo per cui l’effetto abrogativo sarebbe da far risalire – secondo l’opinione fatta propria sia dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988 che dalla giurisprudenza – alla legge “delegante”, sicché, non producendolo il regolamento, non si capirebbe la ragione della sua sindacabilità da parte della Corte costituzionale. Un argomento, questo, a mia opinione privo di pregio; piuttosto, l’errore è, in realtà, a monte, proprio nella esclusiva imputazione dell’effetto abrogativo in capo alla legge di delegificazione che – come ho avuto modo di dire altrove – porta diritto a fare del regolamento delegato una fonte senza effetto, così dunque in buona sostanza degradata a mero “fatto”. Se, tuttavia, non si vuol fare della legge di delegificazione una mera fonte sulla normazione, dando pertanto il giusto peso alle sue “norme generali regolatrici della materia”, non può che concludersi – a me pare[6] – nel senso che ciascuna delle fonti in campo, la legge di delegificazione e il regolamento delegato, appare esser artefice di una quota dell’effetto da esse unitariamente ed inscindibilmente prodotto, con apporti varî a seconda della estensione delle norme in ciascun atto contenute.
Non si sta, ad ogni buon conto, ora a discutere dell’esattezza o dell’inesattezza né della tesi fatta propria dalla Corte né della tesi patrocinata dalla dottrina minoritaria appena evocata in ordine alla sindacabilità degli atti normativi in parola. Ciò che solo qui importa è che è così; e col diritto vivente – piaccia o no – occorre pur sempre fare i conti, dal momento che è in esso che si converte e interamente risolve il diritto vigente. Ormai si è dunque affermata una metanorma consuetudinaria, interpretativa del disposto di cui all’art. 134 cost., che ha determinato l’esito della estraneazione dei regolamenti (e di altri atti ancora) dalla cerchia degli oggetti possibili dei giudizi sulle leggi.
Una sola cosa tuttavia preme adesso mettere in evidenza a riguardo dell’indirizzo giurisprudenziale ora indicato e dell’orientamento dottrinale che lo sostiene; ed è che a poco giova addurre a sua giustificazione la circostanza per cui, altrimenti opinando, verrebbe senza riparo pregiudicata la certezza del diritto, nel presupposto (assiomaticamente accolto) che la forma dia certezze, la sostanza incertezze, risultando pertanto opportunamente contenuto, se non pure azzerato, il margine di discrezionalità degli operatori (e, tra questi, della stessa Corte) in ordine alla selezione degli oggetti possibili del sindacato di costituzionalità.
Un ragionamento siffatto, pure assai ricorrente, va infatti incontro, a mia opinione, ad alcuni ostacoli in ordine al suo possibile accoglimento, mostrandosi espressivo di un’idea mitica e quasi sacrale della certezza, che pure – non si discute – è valore fondamentale dell’ordinamento, secondo quanto peraltro è stato più volte riconosciuto anche in giurisprudenza, e però, al pari di qualsivoglia altro valore, passibile di bilanciamento. In disparte questa generale riserva, il vero è che è la stessa giurisprudenza, in talune sue recenti, particolarmente significative espressioni, a mostrare di intendere la certezza in un’accezione non formale bensì sostanziale (o, meglio, assiologico-sostanziale) o, per dir meglio, ad oscillare tra l’una e l’altra accezione. Ciò che, ad ogni buon conto, fa venire meno proprio la base metodica sulla quale far stabilmente reggere la costruzione teorica di cui ora si discorre. Ma di ciò, a tempo debito.
Tornando ora alla tesi di fondo fatta propria dalla giurisprudenza, il carattere formale-astratto della ricostruzione del sistema balza subito agli occhi per il modo con cui sono intesi i criteri ordinatori. La giurisprudenza (e, con essa, la comune dottrina) si dichiara dell’avviso che ogni fonte abbia un suo “posto” nel sistema, che stabilmente detenga, un “posto” appunto riportabile alla forma della fonte stessa. Si può dire, con una corta espressione che ho più volte utilizzato per sintetizzare questo stato di cose, che la forma fa la forza. Sta tutta qui, in nuce, la visione piramidale del sistema, dalle fin troppo note ascendenze teoriche perché vi si debba fare ora richiamo[7], che, partendo dall’alto, ha nelle leggi di revisione costituzionale e nelle “altre” leggi costituzionali[8] le fonti apicali del sistema[9] e da queste via via discende ai gradi ulteriori della scala gerarchica (passando attraverso la legge e gli atti a questa equiparati, rigorosamente individuati secondo criteri appunto formali, fino a pervenire ai regolamenti, alle fonti terziarie, ecc.).
Anche laddove poi si rileva l’operatività di criteri ordinatori diversi dalla gerarchia (e, segnatamente, di quello della separazione delle competenze o, più semplicemente, della competenza), le cui movenze sono state magistralmente rappresentate da una insuperata dottrina[10], ugualmente non se n’è rinnegata la conformazione secondo forma. Basti solo al riguardo pensare al modo con cui sono stati intesi (specie sul finire degli anni cinquanta e primi anni sessanta del secolo appena trascorso) i rapporti tra leggi statali e leggi regionali o quelli tra legge e regolamento parlamentare: laddove, nuovamente, è il nomen dell’atto a decidere del “posto” dell’atto stesso, della sua idoneità ad esprimere certi vincoli a carico di altri atti ovvero di resistere ai tentativi d’invasione della propria sfera di competenze posti in essere da atti aventi nome diverso.
D’ispirazione formale-astratta è, infine, anche il canone, di antichissima fattura, della lex posterior[11]: l’abrogazione e la modifica in genere è consentita a beneficio di una fonte nei riguardi di altra fonte (perlopiù – come si diceva – tutte di pari grado), ancora una volta in nome del… nome, non già di certe “qualità” possedute dalle norme degli atti in campo. Le norme rilevano, sì, al fine di stabilire se v’è contrasto o, all’inverso, se è possibile riconciliare in via interpretativa gli atti in campo; ma l’attitudine, appunto quale astratta capacità, a produrre l’effetto abrogativo (in larga accezione, comprensiva di qualsivoglia innovazione normativa) si fa riportare pur sempre alla forma: nessun dubbio, infatti, può, per la tesi ora succintamente riferita, aversi a riguardo del fatto che un atto posteriormente adottato non possa innovare ad uno anteriore nel caso che il primo sia gerarchicamente sovraordinato al secondo (e lo sia, come s’è veduto, in ragione della forma di cui si riveste).
Si vedrà tuttavia tra non molto che quest’affermazione non è sempre vera; e il fatto che non lo sia in qualche caso (non saprei dire in quanti casi, ma qui non è luogo per statistiche costituzionali…) toglie validità all’affermazione stessa, perlomeno nella sua ambiziosa proiezione a carattere generale.
Questo è, dunque, il tronco della costruzione corrente del sistema, la sua struttura portante. Ma è in grado di resistere ai colpi infertigli dalla stessa giurisprudenza trattando di alcune cruciali questioni riguardanti la composizione delle fonti in sistema e il modo con cui esse si riportano alla Costituzione?

 

3.La teoria dei limiti alla revisione costituzionale, l’abbandono delle forme in ordine alla sistemazione delle norme costituzionali che il suo accoglimento comporta, il mancato ricorso alla “logica” delle “coperture” secondo valore, dichiaratamente ammessa dal giudice costituzionale per il solo campo di esperienza in cui si svolgono i rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea

Non è agevole, come dicevo all’inizio di questa mia riflessione, rispondere a cuor leggero alla domanda da ultimo posta. Viste le cose da una certa angolazione alle volte verrebbe di dire di sì, che l’impianto secondo forma tenga a fronte di soluzioni, diversamente orientate al piano metodico e svolte al piano dogmatico, apprestate per talune questioni definite dal giudice delle leggi; altre volte, di contro, verrebbe di dire di no, la prospettiva d’ispirazione formale-astratta sembrando essere messa risolutamente da canto per far posto ad una prospettiva d’ispirazione assiologico-sostanziale. Si tratta, dunque, al tirar delle somme, di stabilire se le risposte date dalla giurisprudenza alla luce di questa seconda prospettiva siano idonee non soltanto ad incrinare la costruzione eretta alla luce della prima prospettiva ma, addirittura, a determinarne il crollo.
Lascio al lettore di queste mie scarne e succinte notazioni il verdetto finale; ciò che solo chiedo è di fare lo sforzo di non leggerle in modo preorientato, con le lenti forgiate da una pur nobile tradizione culturale ma, a mia opinione, ormai inadeguate a penetrare la struttura dell’oggetto riguardato ed a coglierne l’essenza, le incessanti movenze degli elementi che la compongono e senza sosta rinnovano.
La prima e più rilevante espressione di un indirizzo non formalista è da vedere nella dottrina, fatta propria senza esitazione e riserve dal giudice costituzionale[12], dei limiti sostanziali alla revisione costituzionale. Qualcuno dice non esser corretto al riguardo ragionare – come invece molti fanno – di una vera e propria gerarchia di norme in seno alla Carta costituzionale; sta di fatto, tuttavia, che alcune di esse esibiscono una formidabile capacità di resistenza a qualsivoglia innovazione per via legale, potendo – in via di mera ipotesi – essere travolte unicamente dall’avvento, per tabulas forzoso[13], di un nuovo potere costituente. Poi, è tutto da vedere come far luogo, in modo adeguato, al riconoscimento delle norme che, sole, possono fregiarsi del titolo estremamente selettivo di esprimere i principi fondamentali dell’ordinamento ovvero di porsi al servizio dei principi stessi in guise tali che la loro incisione o venuta meno ipso facto (e… iure) ridonderebbe in incisione o caduta dei principi medesimi[14].
Non è qui possibile indugiare a riguardo delle tecniche interpretative dei principi o, ad esser più precisi, delle tecniche che consentano di stabilire se le norme di volta in volta desunte per via d’interpretazione siano o no principi (è evidente, infatti, che questi ultimi non sono un prius bensì un posterius dei fatti interpretativi). Ciò che solo importa, come si diceva, è che si distingua in seno al corpo costituzionale elemento da elemento, norma da norma, secondo un criterio certamente non formale (tutte le norme stesse appartenendo al medesimo documento) bensì assiologico-sostanziale, dovendosi riguardare ai valori in nome dei quali si è svolta la lotta vittoriosa che ha portato all’avvento dell’ordine costituzionale vigente e da essi appunto muovere nella ricerca delle norme che nel modo più diretto, immediato, genuino li esprimano, ponendo le basi per il loro più saldo radicamento nell’ordinamento[15].
Sulla dottrina dei limiti all’innovazione costituzionale, ad ogni buon conto, si registra ormai, salvo – come si sa – un isolato dissenso[16], una unanimità di vedute, in tale dottrina riconoscendosi – e la cosa non cessa ai miei occhi di apparire misteriosa – persino quanti si dichiarano dell’idea che il sistema risulti composto – come si diceva – da fonti, ciascuna provvista di una forza sua propria in ragione della forma di cui si riveste. Seguito, infatti, a considerare[17] afflitta da una contraddizione insanabile la comune opinione che, in premessa, individua il quid proprium della Costituzione nel suo “nucleo duro”, quale costituito dai principi fondamentali che ne danno appunto la essenza[18], ricostruendo quindi le dinamiche interne al sistema in applicazione di criteri di formale fattura. In tal modo, viene però meno la ragion d’essere delle “coperture” costituzionali secondo valore; viene, cioè, scavato un solco incolmabile tra i principi fondamentali, che dei valori danno la prima e più genuina rappresentazione positiva, e tutte le norme restanti (e sottostanti) i cui rapporti si reputano essere governati da canoni (criteri ordinatori, appunto) d’ispirazione formale-astratta. Senza avvedersene, si spiana così la via al fraudolento aggiramento dei principi stessi (e, risalendo, dunque, dei valori), una volta che si recida il filo che li lega alle norme (non già, si badi, alle fonti) che vi danno il primo, diretto e necessario svolgimento, ammettendosi che le norme stesse soggiacciano in tutto e per tutto al regime valevole per gli atti cui esse appartengono. Si nega pertanto un dato di tutta evidenza, fedelmente rappresentato dall’immagine circolare che vede, sì, i principi offrire protezione (“copertura”, come si suol dire) alle norme che vi danno attuazione ma, allo stesso tempo, ricevere un servizio da queste, grazie al quale i principi possono radicarsi nel terreno dell’ordinamento e in esso inverarsi, nel migliore dei modi alle condizioni oggettive di contesto.
A conti fatti, solo in un campo di esperienza, quello dei rapporti tra Stato e Unione europea, al quale fanno capo interessi peculiari e bisognosi di una speciale salvaguardia, la “logica” delle “coperture” secondo valore ha avuto modo di affermarsi in modo esplicito, portando persino al ribaltamento della gerarchia secondo forma, regolamenti adottati al fine di dare attuazione alle norme dell’Unione mostrandosi idonei a resistere a tentativi di deroga da parte di leggi (e fonti sovraordinate in genere) che, ad essi innovando, per ciò stesso vengano ad urtare con la norma costituzionale di “copertura”, di cui all’art. 11 della Carta.
Se ne dirà meglio a momenti. Resta, ad ogni buon conto, singolare la circostanza che la “logica” in parola si consideri sprovvista di generale valenza: quasi che solo una tra le norme di cui si compone la Carta costituzionale possa essere in grado di attivare meccanismi di protezione di natura assiologica ovvero che essi possano aversi solo in un campo materiale di esperienza, quello dei rapporti con l’Unione.
Eppure, malgrado alla Consulta le “coperture” secondo valore si predichino unicamente per il campo suddetto, di fatto sono poi riconosciute e fatte valere – è questo il punto su cui vorrei qui fermare specificamente l’attenzione – in molti altri casi, venendosi così a formare, goccia dopo goccia, un vero e proprio fiume sotterraneo dall’andamento carsico, che solo a tratti affiora in superficie e che però va giorno dopo giorno a corrodere le fondamenta di quella costruzione del sistema su basi formali-astratte i cui tratti di fondo sono stati poc’anzi succintamente rappresentati.
Le tracce più vistose di questo percorso non lineare ed anche, a dire il vero, non poco sofferto si hanno nel campo della tutela dei diritti fondamentali.
Torno ora a riguardare a questa tutela da quattro angoli visuali diversi, con riferimento a talune note esperienze della giustizia costituzionale, che qui richiamo, corredandole di brevi notazioni, unicamente per le specifiche esigenze ricostruttive di questo studio. Si tratta di “schegge” – come le si sono altrove chiamate – di una sistemazione di ordine assiologico-sostanziale, che si innestano nel tronco della ricostruzione d’ispirazione formale-astratta ed alle quali è a mia opinione da riconoscere uno speciale rilievo, oltre che la capacità di irradiarsi e beneficamente contagiare altresì le parti restanti della costruzione stessa.
Di esse dobbiamo dunque ora dire, sia pure con la sintesi imposta a questa riflessione.

 

3.1.Il percorso non lineare della giurisprudenza, ovverosia le “schegge” di una sistemazione secondo le norme, non già secondo le fonti, con specifico riguardo alle discipline statali che danno i “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali

Dal primo angolo visuale si colgono le vicende riguardanti la definizione normativa dei c.d. “livelli essenziali” delle prestazioni relative ai diritti[19]. Cosa siano tali livelli non s’è mai ben capito; è certo, peraltro, che la loro definizione normativa rimanda al contesto nel quale s’inscrive, mutando pertanto col mutare di questo. Se ne ha palmare riprova proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economico-finanziaria senza precedenti[20], da essa discendendo un forte ridimensionamento di taluni diritti (specie di quelli c.d. “sociali”) e, in genere, di bisogni elementari dell’uomo. Eppure, v’è una soglia al di sotto della quale non è possibile, in alcun caso o modo, scendere, venendo altrimenti pregiudicata la dignità della persona umana (un valore, questo, su cui tornerò ad insistere anche più avanti, giocando un ruolo di centrale rilievo nella ricostruzione qui prospettata).
Dei “livelli” in parola si discorre animatamente, come si sa, con specifico riguardo al nuovo riparto costituzionale delle competenze operato dalla riforma del 2001 del Titolo V della Carta. Dalla prospettiva qui accolta, però, il riferimento ad essi fatto nell’art. 117, II c., lett. m) assume un’ancòra maggiore valenza, apprezzabile in prospettiva assiologicamente orientata. Le leggi statali cui è riservata la fissazione dei livelli in parola possono, dunque, spostare, per i singoli ambiti materiali, ora più in alto ed ora più in basso la linea di confine tra ciò che è “essenziale” e ciò che “essenziale” non è, ove si convenga a riguardo del carattere storicamente determinato sia dell’uno che dell’altro, ma pur sempre – come si è venuti dicendo – entro margini di escursione di campo circoscritti e soggetti a vaglio secondo ragionevolezza, nella sua conformazione internamente complessa, siccome riferita alla congruità delle norme, a un tempo, rispetto all’assetto degli interessi e rispetto ai valori, in special modo alla coppia assiologica di libertà ed eguaglianza, nelle mutue implicazioni che tra di esse s’intrattengono[21]. Le leggi statali sui “livelli” sono, perciò, sì, modificabili ma pur sempre a condizione che ne risulti integra la dignità della persona umana. È una importante testimonianza (altre si vedranno a breve) del fatto che l’operatività dei criteri ordinatori (qui, di quello della lex posterior) può cogliersi nella giusta luce non già dalla prospettiva formale-astratta, che guarda unicamente alle fonti, bensì da una storico-concreta, d’ispirazione assiologico-sostanziale, che fa capo alle norme, per il modo con cui si riportano le une alle altre e tutte assieme, a un tempo, a “fatti” e valori.
Si vedrà, nondimeno, a momenti che la giurisprudenza non si presenta sempre ferma e lineare nei suoi svolgimenti, a presidio dei diritti fondamentali (e, in ultima istanza, della dignità), esibendo incertezze non lievi ed anche vistose incoerenze (o, quanto meno, come lascia intendere il titolo dato a questa mia riflessione, oscillazioni), al punto da doversi faticare non poco a rinvenire un “nucleo duro” di una teoria giurisprudenziale delle fonti che rimanga sempre identico a sé, pur nel variare dei casi e delle rispettive soluzioni.

 

3.2I limiti all’abrogazione popolare segnati dalle norme di legge che danno una “tutela minima” a beni costituzionalmente protetti

Non dissimile è la “logica” che sta a base dell’indirizzo giurisprudenziale in materia di referendum, specificamente nella parte in cui sono messe al riparo dalle iniziative di abrogazione popolare quelle leggi (o, meglio, quelle loro norme) che danno una “tutela minima” – come la Consulta è solita chiamarla – di beni costituzionalmente protetti[22].
Qui, non sono in gioco soltanto, seppur principalmente, i diritti; il riferimento è, infatti, in via di principio esteso a tutto campo, ad ogni bene che risulti essere provvisto di riconoscimento costituzionale e che potrebbe risultare irreparabilmente pregiudicato dall’effetto abrogativo avente ad oggetto norme di legge poste a salvaguardia di quei beni.
Nuovamente, non si tratta ora di stabilire (o, con doverosa cautela, tentare di stabilire) in cosa tale “tutela minima” si risolva né se essa sia, in tutto o in parte, sovrapponibile a quei “livelli essenziali”, di cui si è appena discorso. Una sola cosa è tuttavia certa; ed è che se le norme che danno la tutela in parola resistono alla loro rimozione mediante referendum, non possono che resistere altresì alla loro abrogazione “secca” con legge.
Come si vede, le vicende della normazione, laddove incrocino i diritti (e, in genere, i beni costituzionalmente protetti), non possono essere convenientemente spiegate col mero riferimento alle fonti; è solo nel momento in cui si trapassa la corazza della forma e si punta alla sostanza in essa racchiusa (alle norme, appunto) che può stabilirsi se l’innovazione è, o no, lecita. È, dunque, solo riguardando le relazioni tra le norme in seno al contesto nel quale esse s’inscrivono ed alla luce dei valori che può dirsi se v’è, o no, vera parità tra le norme stesse, potendosi pertanto dar spazio al canone della lex posterior che ne governa la successione nel tempo, o non piuttosto gerarchia, malgrado la identità di forma e l’astrattamente non diversa collocazione nel sistema.
Ci si avvede così che nulla può dirsi a priori circa il modo con cui una fonte si pone davanti ad altre fonti e viene pertanto a trovare ricetto nel sistema; tutto, piuttosto, può dirsi solo a posteriori, per il modo con cui le norme dalle fonti prodotte si riportano le une alle altre e tutte assieme a “fatti” e valori. La gerarchia, insomma, in ultima istanza si fa e senza sosta rinnova, fissandosi per le esigenze di un’esperienza data, davanti al giudice (e, segnatamente, avuto riguardo alle vicende delle fonti di primo grado, davanti al giudice costituzionale), la certezza del diritto convertendosi ed interamente risolvendosi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela, la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto (ma sul punto, di cruciale rilievo, anche più avanti).

 

3.3. Il “bilanciamento” tra norme sulla normazione e norme sostantive (a proposito di alcune esperienze riguardanti le discipline legislative di Stato e Regione a presidio dei diritti, dello sperequato trattamento loro riservato, della singolare dottrina di una dignità della persona umana… a scomparsa, di cui si fa portatrice la giurisprudenza costituzionale)

Non è solo il canone della lex posterior a trovarsi non di rado in crisi, fino al punto di essere messo interamente da canto; anche il canone della competenza e persino quello della gerarchia secondo forma possono – come si diceva – sottostare a grave stress ed a forte ridimensionamento della loro vis ordinativa.
A fronte del bisogno di dare appagamento ai diritti possono, dunque, alle volte “saltare” (ed effettivamente “saltano”) le quiete sistemazioni d’ispirazione formale-astratta.
A riguardo del riparto costituzionale delle competenze Stato-Regioni, la giurisprudenza ci dice che le stesse norme sulla normazione, usualmente considerate categoricamente inderogabili, da esse discendendo la integra trasmissione dell’ordinamento nel tempo, possono soggiacere a “bilanciamento” con norme sostantive della Carta: un “bilanciamento” che, tuttavia, appare essere… squilibrato, portando al loro stesso risoluto accantonamento.
Si pensi, ad es., alla “invenzione” della social card da parte dello Stato, espressamente riconosciuta come invasiva della sfera materiale di competenze delle Regioni e tuttavia ugualmente giustificata, in nome della salvaguardia della dignità di persone particolarmente bisognose[23]. È singolare la circostanza per cui la medesima “logica” non si giudica idonea a valere in modo speculare, a “copertura” di leggi regionali “anticipatrici” di leggi statali carenti[24]: laddove la invasione di campo non avrebbe comunque impedito allo Stato di riappropriarsi in ogni tempo della competenza che ad esso spetta, in applicazione – come si vede – di quell’accezione concreta del canone della competenza di cui la stessa giurisprudenza già da tempo si è fatta portatrice[25].
Rivista la vicenda dal punto di vista della salvaguardia della dignità, se ne ha che quest’ultima non appare più essere, quale invece è, un valore indisponibile, la “bilancia” – è stato detto da una sensibile dottrina[26] – su cui si dispongono i beni bisognosi di “bilanciamento”[27]; come mi è venuto di dire in altre occasioni, è piuttosto un valore a scomparsa, che ora c’è ed ora no, prestandosi a strumentali utilizzi ad esclusivo beneficio del soggetto più forte, lo Stato.
Al tirar delle somme, come si è veduto, le esperienze di giustizia costituzionale ora riguardate, con il loro non lineare, confuso svolgimento, danno l’idea di un andamento altalenante della giurisprudenza, che ora si fa attrarre dalle suggestioni del corno assiologico-sostanziale ed ora però resiste visceralmente legata al corno formale-astratto, non riuscendo pertanto a liberarsi del condizionamento esercitato dalla tradizione culturale che a quest’ultimo fa capo.

 

3.4. La deformalizzazione delle dinamiche della normazione, al piano delle relazioni interordinamentali e per effetto della crescente espansione del diritto di origine esterna, e la internamente composita giurisprudenza avente ad oggetto la CEDU e le forme del suo giuridico rilievo in ambito interno, oscillante tra il corno formale-astratto e quello assiologico-sostanziale in ordine alla ricostruzione e incessante rinnovo delle dinamiche costitutive del sistema

Il campo di esperienza nel quale questa lotta tra un “vecchio” che mostra sorprendenti capacità di resistenza e un “nuovo” che incalza per prenderne il posto si rende particolarmente visibile è quello delle relazioni interordinamentali.
Se n’è detto, sia pure con la sintesi imposta a questa riflessione, per alcuni aspetti poc’anzi. Qui, deve ora aggiungersi che la crescita esponenziale del rilievo delle fonti di origine esterna porta ad una parimenti crescente, marcata deformalizzazione delle dinamiche della normazione.
Si pensi, ancora solo per un momento, alle ricadute in ambito interno del primato del diritto dell’Unione. A seguito dell’adozione delle norme sovranazionali e del loro ingresso in ambito interno, viene non di rado in quest’ultimo ad accendersi un motore di produzione giuridica che porta alla formazione di vere e proprie catene di atti, gli uni agli altri funzionalmente connessi e assai di frequente disposti a plurimi livelli istituzionali (statali, regionali, locali, senza peraltro escludere la normazione frutto di autonomia privata, posta in essere in esercizio di poteri espressivi di sussidiarietà “orizzontale”).
In congiunture siffatte, l’effetto giuridico appare essere la risultante di più atti: si può pertanto, volendo, seguitare tralaticiamente a ragionare di una pluralità di effetti, dal momento che più d’uno sono appunto gli atti in campo; forse, però, la rappresentazione più fedele di questo stato di cose è quella di una congiunta imputazione di un unico ed unitario effetto a più atti, con una distribuzione che varia in ragione del contributo da ciascuno di essi offerto alla sua produzione[28]. Si assiste, insomma, ad una catena seriale di atti, volti al fine di dar modo alla disciplina normativa di origine esterna di radicarsi nel migliore dei modi nell’ordine interno. È questa la ragione per cui, a mia opinione, anche negli studi di diritto costituzionale (e, segnatamente, in quelli aventi ad oggetto catene siffatte di fonti), giova fare il passo che già da molti anni s’è fatto in diritto amministrativo, sotto la spinta vigorosa di una illuminata dottrina: ragionando, dunque, di una normazione per risultati, piuttosto che per atti, e volgendosi perciò alla percezione di ciò che tutti assieme possono fare, con le loro norme, al servizio del diritto dell’Unione.
Le indicazioni di maggior significato, nel quadro della ricostruzione che si viene facendo, si hanno però dalla giurisprudenza sulla CEDU, con specifico riguardo alle forme del suo giuridico rilievo in ambito interno.
Ancora una volta, è la giurisprudenza a confessare (per vero, in assai dubbia coerenza con se stessa…) non essere sempre vero che la forma fa la forza, per riprendere la formula cui s’è fatto poc’anzi ricorso. La Corte ripetutamente ammette la eventualità che la CEDU, al pari di altre Carte e fonti pattizie, possa contenere enunciati espressivi di norme materialmente consuetudinarie della Comunità internazionale[29]. La qual cosa equivale a dire che uno stesso documento può ospitare norme “graduate” o, come che sia, reciprocamente distinte per natura e, di conseguenza, per forza: a conferma, appunto, che la forza stessa è delle norme, non delle fonti.
La giurisprudenza sulla CEDU ha, nondimeno, molte facce, ora orientate verso il corno formale-astratto ed ora verso quello assiologico-sostanziale, richiedendosi pertanto per la sua compiuta comprensione e fedele rappresentazione la congiunta osservazione da plurimi angoli visuali[30].
L’impianto è, ancora una volta, di formale fattura: la Convenzione è seccamente definita come fonte “subcostituzionale”[31], soggetta in tutto e per tutto all’osservanza della Costituzione (diversamente dal diritto dell’Unione, come si sa obbligato a prestare rispetto ai soli principi fondamentali dell’ordine costituzionale) e, allo stesso tempo, idonea a condizionare la validità delle leggi di Stato e Regioni (e, ovviamente, delle fonti ancora discendenti).
Ci si può chiedere come stiano le cose al piano dei rapporti tra CEDU e leggi costituzionali.
A seguire la “logica” formale-astratta, il carattere della Convenzione di fonte “interposta” dovrebbe qui venire meno: vuoi per il fatto che la giurisprudenza – come si è appena rammentato – è ferma nel dichiarare soggetta la CEDU all’osservanza di qualsiasi norma costituzionale e vuoi per il fatto che le leggi in parola sono abilitate a derogare al primo comma dell’art. 117, a suo tempo inscritto nella Carta con legge parimenti costituzionale, a meno che non si reputi che tale disposto costituisca la mera esplicitazione di un principio fondamentale dell’ordinamento. In disparte però la circostanza per cui, anche per l’ipotesi da ultimo formulata, il vincolo resterebbe pur sempre ristretto alle sole leggi ordinarie, alle quali soltanto il dettato costituzionale si riferisce[32], va tenuto presente che la stessa giurisprudenza ha qualificato l’innovazione in discorso quale “integrazione” dell’originario dettato costituzionale, di cui avrebbe colmato una grave lacuna di costruzione lasciata aperta al momento della confezione della Carta. Dal mio canto, mi sono già altrove dichiarato dell’avviso che trattasi piuttosto di una “deroga” (e, perciò, di una violazione) a carico dei principi di cui agli artt. 10 e 11 cost.[33], nei quali è in modo esclusivo definito l’assetto dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale. La qual cosa, peraltro, è stata dalla stessa giurisprudenza, unitamente alla dottrina corrente, riconosciuta prima della “novella” costituzionale del 2001, essendosi dato modo alle leggi comuni di statuire in deroga delle leggi di esecuzione dei trattati internazionali, eccezion fatta per quelli di essi, come i concordati con la Chiesa, che risultano provvisti di specifica “copertura” costituzionale. Ad ogni buon conto, “integrazione” o “deroga” che sia, ormai il disposto di cui al primo comma dell’art. 117 è stato ripetutamente fatto valere quale parametro nei giudizi di costituzionalità (dalla giurisprudenza sulla CEDU così come con riferimento ad altri documenti internazionali). Si è, insomma, avuto ope juris prudentiae l’avvento di un’autentica metanorma consuetudinaria di riconoscimento della validità del disposto suddetto.
A seguire, di contro, la “logica” assiologico-sostanziale, la deroga di norma convenzionale ad opera di norma costituzionale può considerarsi esclusa, ove in tesi si ammetta che essa ridondi in una (inammissibile) incisione della “copertura” di cui la prima norma gode da parte degli artt. 2 e 3 della Carta, nel loro fare “sistema” coi principi fondamentali restanti. Se, poi, anche la norma interna dovesse invocare a propria giustificazione la “copertura” della coppia di libertà ed eguaglianza, si tratterebbe di stabilire, all’esito di un’operazione di bilanciamento[34], quale delle due norme in campo, la esterna e la interna, si dimostri in grado di servire meglio la Costituzione come “sistema”, secondo quanto si vedrà meglio a momenti.
Ancora una testimonianza, come si vede, del fatto che, in nome dei valori costituzionali, lo stesso canone della gerarchia secondo forma può trovarsi a recedere davanti ad una gerarchia secondo valore, che imperiosamente reclami di esser fatta valere.
L’ipotesi che la norma interna possa risultare vincente all’esito di un’operazione di bilanciamento assiologico è stata espressamente presa in considerazione dalla giurisprudenza, con specifico riguardo al caso di contrasto tra legge comune e Convenzione. La giurisprudenza ammette, infatti, in modo esplicito l’eventualità che leggi idonee a dare ai diritti una tutela ancora più “intensa” di quella che è ad essi offerta dalla Convenzione possano essere ugualmente applicate, ancorché incompatibili rispetto alla Convenzione stessa[35]. Ancora una volta – dice la Corte[36] – le norme costituzionali sulla normazione possono soggiacere a “bilanciamento” con le norme sostantive, giustificandosi pertanto la “deroga” (o, meglio, la violazione) del primo comma dell’art. 117 da parte delle leggi più avanzate della Convenzione al piano della salvaguardia dei diritti.
In realtà, in congiunture siffatte, non di vera “deroga” o violazione è appropriato discorrere, dal momento che è la stessa Convenzione a dichiarare di voler valere unicamente in modo “sussidiario”, con riguardo cioè ai soli casi in cui la tutela offerta ai diritti in ambito interno non risulti adeguata rispetto allo standard fissato nella Convenzione stessa[37].

3.5. (Segue) Raffronti tra norme, commutazione del parametro in oggetto, e viceversa, tecniche di ripianamento delle antinomie (in particolare, applicazioni e disapplicazioni dirette della Convenzione da parte dei giudici comuni, alla luce del criterio della tutela più “intensa” offerta ai diritti fondamentali)

Ora, è di tutta evidenza che la ricerca della tutela più intensa, quale che sia il criterio in applicazione del quale può essere determinata, obbliga al raffronto tra le norme, un raffronto – ed il punto è di cruciale rilievo – che non lascia indenni le stesse norme costituzionali, suscettibili di disporsi, all’esito di un siffatto raffronto, ad un “grado” inferiore rispetto a quello in cui si situa la disciplina convenzionale[38].
Solo così può invero spiegarsi la circostanza per cui, in sede di giudizio di costituzionalità, l’oggetto può commutarsi in parametro, e viceversa: una legge impugnata davanti alla Corte per supposta incompatibilità rispetto alla Convenzione (e, perciò, per violazione indiretta dell’art. 117, I c.) riuscendo – come si è appena veduto – a farla franca, ove dimostri di apprestare una più “intensa” tutela ai diritti, così come una norma convenzionale invocata a parametro potendo convertirsi in oggetto laddove appaia essere non rispettosa della Costituzione ovvero inidonea a dare quella tutela più “intensa”, di cui un momento fa si diceva.
In realtà, per un verso, la prima evenienza (della caducazione della legge di esecuzione della Convenzione “nella parte in cui…”) a me sembra estremamente remota, non riuscendo ad immaginarmi la dichiarazione d’incostituzionalità di norma convenzionale[39] (forse, qui si ha qualcosa di analogo a ciò che ricorre al piano dei rapporti col diritto dell’Unione, l’osservanza dei “controlimiti” essendo, sì, predicata ma non praticata[40]); per un altro verso, poi, quando pure si accerti essere maggiormente “intensa” la tutela offerta da norma di diritto interno rispetto a norma convenzionale, ho seri dubbi che possa, nuovamente, aversi la dichiarazione d’incostituzionalità di quest’ultima, ove si ammetta in tesi che non sussista alcuna violazione dell’art. 117, la stessa Convenzione – come si è poc’anzi osservato – richiedendo di non potere, in congiunture siffatte, essere portata ad effetto.
Resta, tuttavia, aperta la questione se l’accertamento del “grado” di tutela dato da questa o quella norma ai diritti sia affare esclusivo del giudice delle leggi ovvero possa, come a me parrebbe e sia pure unicamente per taluni casi, considerarsi rimesso ai giudici comuni. Una tesi, quest’ultima, che sembra avvalorata dalla circostanza per cui, non ricorrendo qui alcuna violazione della Convenzione, viene in radice meno la giustificazione della chiamata in campo della Corte costituzionale[41].
Come si è venuti dicendo, Costituzione e Convenzione (e altre Carte ancora, a partire da quella di Nizza-Strasburgo) sono, insomma, chiamate a giocarsi la partita alla pari, in una sana competizione al rialzo, potendo farsi valere unicamente laddove ciascuna di esse sia in grado di dimostrare di essere in grado di offrire ai diritti la maggior tutela in ragione del caso[42]. Una competizione che si svolge al piano culturale, ancora prima che a quello positivo, e che si fa apprezzare nelle sue incessanti movenze e negli esiti concretamente conseguibili specificamente in sede d’interpretazione (e per le esigenze dell’applicazione). Nel corso di queste vicende, peraltro, dandosi fondo alle formidabili risorse argomentative di cui non di rado gli operatori dispongono (e il rilievo vale per i giudici comuni non meno di quelli costituzionali)[43], si ha modo di riconciliare i materiali normativi in campo, fatti oggetto di raffinate ed incisive operazioni di mutua alimentazione semantica. È ancora una volta la stessa Corte costituzionale, in una delle sue più ispirate e ormai risalenti pronunzie (pur se non linearmente svolta dalle decisioni successive), a mettere in chiaro il principio secondo cui Costituzione e Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione”[44]: laddove, come si vede, nel circolo interpretativo viene a smarrirsi la diversità delle forme o la supposta ordinazione gerarchica degli atti che ne sono provvisti, gli atti stessi unicamente rilevando ed affermandosi per la sostanza che è in essi racchiusa e l’attitudine di cui sono dotati a servire i diritti.
La ricerca del primato si fa dunque apprezzare specificamente al piano culturale; ed è interessante notare che, laddove il primato stesso si risolva a beneficio della Convenzione, dal punto di vista del diritto interno esso avrebbe pur sempre fondamento nella… Costituzione, nei principi-valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, come si è già fatto osservare, di dignità). La Costituzione, insomma, recede per far posto ad altra Carta, ancora più adeguata, in relazione alle esigenze di un caso, a servire la coppia assiologica di cui agli artt. 2 e 3, nel loro fare “sistema” coi principi-valori restanti. Il più delle volte, però, come si è appena veduto, non è luogo per dar spazio alla “logica” dell’aut-aut: facendo leva sulla formidabile apertura strutturale degli enunciati costituzionali, si rende infatti possibile prevenire il conflitto, riconciliando in sede interpretativa le norme dell’una e dell’altra Carta, fatte oggetto di un’opera accurata, pur se alle volte non poco sofferta, di progressivo affinamento semantico che rinviene nelle punte più avanzate della giurisprudenza, sia nazionale che europea, l’indirizzo per il suo congruo svolgimento.
Ad agevolare questo compito è, poi, per un verso, l’uso non infrequente della tecnica del distinguishing a mezzo della quale le Corti hanno modo non soltanto di liberarsi di propri precedenti scomodi o, diciamo pure, imbarazzanti ma anche di “smarcarsi” dal pressing esercitato da altre Corti[45], e, per un altro, il cauto indirizzo manifestato dalla giurisprudenza costituzionale nella parte in cui considera obbligatoria la osservanza della giurisprudenza di Strasburgo non già in ogni sua parte bensì unicamente nella sua “sostanza”[46]: formula che, nuovamente, ambienta a un piano non formale-astratto la dinamiche sia della normazione che dell’applicazione; formula ambigua, se si vuole: sommamente ambigua, che rimette, di tutta evidenza, margini non poco consistenti di apprezzamento discrezionale in capo ai giudici, sia costituzionali che comuni, e che tuttavia dà modo – come si diceva – di far convergere Carte e Corti, nelle loro più espressive affermazioni al servizio dei diritti.

 

3.6. (Segue) L’insegnamento che viene dall’ultima giurisprudenza sulla CEDU: la Costituzione come “intercostituzione”, i materiali offerti da altre Carte immettendosi nella struttura della Carta costituzionale e concorrendo senza sosta alla sua rigenerazione semantica, e il carattere “condizionato” di ogni fonte (Costituzione inclusa!), idonea a valere ed essere portata ad effetto unicamente in quanto ne sia provata l’attitudine a dare, in relazione al caso, la tutela più “intensa” ai diritti, vale a dire ad assicurare, a un tempo, certezza del diritto costituzionale e certezza dei diritti costituzionali

Si tocca qui con mano quanto si diceva all’inizio di questa riflessione, laddove si avvertiva che la questione ora discussa coinvolge, a conti fatti, la Costituzione, il modo d’intenderla e di farla valere nell’esperienza. Come si è appena veduto (e in linea con un’indicazione già altrove data e qui ripresa con ulteriori argomenti[47]), ogni Costituzione[48] appare essere una sorta di “intercostituzione”, una volta che si assuma che della sua stessa struttura entrino a far parte materiali offerti da altre Carte, idonei a concorrere alla sua incessante rigenerazione semantica. È vero, naturalmente, pure l’inverso; e le Carte stesse si dispongono parimenti a farsi in varia misura “impressionare” dalle tradizioni costituzionali degli Stati che le sottoscrivono e le recepiscono, specie laddove fortemente convergenti, se non pure stricto sensu “comuni” (per riprender una nota loro definizione maturata in seno all’Unione), nelle loro statuizioni al servizio dei diritti.
Se ci si pensa, nessuna fonte (Costituzione inclusa!) può dunque dire di poter incondizionatamente valere ovvero di valere di per sè; piuttosto, ciascuna fonte vale sub condicione, sempre che appunto si dimostri idonea a fissare più in alto di altre fonti (rectius, norme) il punto di sintesi assiologica in ragione del caso[49]. Di contro, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale inaugurata nel 2007, il moto non è bidirezionale, così come parziale è la prospettiva da cui esso è riguardato, il principio dell’apertura al diritto di origine esterna (e, segnatamente, a quello convenzionale) essendo subordinato alla condizione che il diritto stesso si dimostri in tutto e per tutto compatibile col dettato costituzionale[50].
L’obiezione più grave (ed intensamente avvertita) mossa da quanti faticano a riconoscersi nell’ordine concettuale ora succintamente esposto sta – come si diceva poc’anzi – nella incidenza che se ne avrebbe a carico della certezza del diritto, un valore che sarebbe messo definitivamente in crisi per il solo fatto che la ricostruzione del sistema risulti ambientata ad un piano assiologico-sostanziale. Il carattere recessivo della forma a finalità sistematica obbligherebbe, insomma, la certezza a restare confinata ai margini del sistema stesso o, addirittura, di esserne del tutto estromessa.
L’obiezione è seria ma, a conti fatti, non risolutiva ed appare, anzi, a mia opinione, quale il frutto di una visione distorta sia della certezza che del sistema; e a darne conferma è nuovamente la stessa giurisprudenza.
Ammettendo (in sent. n. 113 del 2011) che lo stesso giudicato penale, per tabulas espressivo di certezza, possa esser rivisto laddove irrispettoso della Convenzione (e, perciò, in buona sostanza, in presenza di pronunzie della Corte EDU con esso incompatibili)[51], la Consulta parrebbe dare ad intendere di voler anteporre la certezza dei diritti alla certezza del diritto, la sostanza alle forme. Eppure anche una rappresentazione in termini siffatti, se ci si pensa, non coglie l’essenza delle cose e, piuttosto, finisce col dare un’immagine deformata delle vicende della normazione, al piano delle relazioni tra diritto interno e diritto convenzionale. Piuttosto, la Corte ancora una volta opera una sintesi ricostruttiva del sistema su basi assiologiche e restituisce alla Costituzione la sua vera natura, la sua identità, pregiudicata dal giudicato anticonvenzionale. Perché – come si sa – la Costituzione è, in nuce, riconoscimento, un riconoscimento bisognoso di convertirsi costantemente in effettiva tutela (la massima alle condizioni oggettive di contesto) dei diritti fondamentali, secondo l’aureo insegnamento consegnatoci dal rivoluzionari francesi (si rammenti il disposto di cui all’art. 16 della Dichiarazione del 1789). Non v’è, non può esservi, dunque, alcuna certezza del diritto che non si risolva in certezza dei diritti: quella senza questa è niente, solo con questa è tutto.


4.Il sistema è, a conti fatti,
ricerca del… sistema, dell’armonica congiunzione di norme, “fatti” e valori, secondo una teoria della Costituzione assiologicamente orientata: una teoria che, proprio nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, ha da esser tenuta ferma e portata alle massime realizzazioni consentite dal contesto, al servizio della Costituzione stessa, dei suoi valori, dell’uomo

Ci si avvede così che il sistema – come mi sono sforzato di mostrare altrove – è ricerca del… sistema, una ricerca che non può farsi in modo adeguato in vitro (in prospettiva formale-astratta, appunto) e che, piuttosto, può in fin dei conti maturare con fecondità di esiti davanti ai giudici e per le esigenze dell’applicazione. Si tratta, infatti, ogni volta di rinvenire il modo ottimale di far convergere e – fin dove possibile – sostanzialmente ricongiungere norme, “fatti”, valori. Le fonti sono solo strumenti e tali pur sempre restano: strumenti al servizio dei bisogni elementari dell’uomo, in rispondenza ai valori. La giurisprudenza – come si è veduto – ripetutamente ci dice non esser decisiva la conformità delle fonti alle norme sulla normazione che presiedono alla loro adozione ed abilita anzi le prime a discostarsi dalle seconde ogni qual volta ciò si giustifichi allo scopo di apprestare un’appagante tutela ai diritti.
Il vizio di fondo delle dottrine correnti in tema di fonti – fa capire la Corte, nelle più lungimiranti espressioni della sua giurisprudenza – sta nel corto orizzonte culturale che esse si danno al momento in cui si accingono alla ricostruzione del sistema, considerando salvaguardato quest’ultimo col mero fatto del riscontro della osservanza delle norme sulla normazione da parte degli atti in campo. L’essenza del sistema però – si è qui pure tentato di mostrare – si coglie andando oltre la crosta avvolgente le fonti e correggendo perciò l’immagine deformante che se ne ha per effetto della sua osservazione in prospettiva formale-astratta.
Le norme sulla normazione valgono – come s’è veduto – alla sola condizione che per il loro tramite si dia appagamento alle norme costituzionali sostantive (segnatamente, a quelle espressive di diritti) e, appagando queste ultime, si dia modo ai valori di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, di dignità) di realizzarsi al meglio di sé, alle condizioni oggettivamente date.
Il sistema delle fonti si coglie nella sua essenza, come si è venuti dicendo, solo nella sua naturale, obbligata conversione in sistema di norme, secondo valore. Viene così a trovare conferma la tesi, patrocinata da una sensibile dottrina[52], secondo cui non è in alcun caso o modo possibile tenere innaturalmente separata la Costituzione dei diritti dalla Costituzione dei poteri ed entrambe dai principi espressivi dei valori fondanti dell’ordine repubblicano, in cui hanno la loro giustificazione e il fine.
Quella qui nuovamente patrocinata è, dunque, una teoria assiologicamente orientata della Costituzione, una teoria – si è detto in altri luoghi – esigente, a fronte della quale stanno tuttavia pratiche assai deludenti (e, in qualche caso, invero sconfortanti) della normazione subcostituzionale, nelle sue più salienti e diffuse manifestazioni. Perché esigenti (ed anzi, com’è stato detto da un’autorevole dottrina, “tiranni”[53]) sono i valori, obbligati tuttavia, specie nella presente congiuntura segnata da una crisi economica lacerante, a fare i conti con la esiguità delle risorse disponibili, alla cui considerazione non restano (non possono restare) insensibili gli stessi organi di garanzia (a partire, appunto, dalla Corte costituzionale). Il rischio, micidiale, è che all’impoverimento di fasce sempre più larghe della popolazione si accompagni altresì – mi è venuto di dire in altre occasioni[54] – l’impoverimento della Costituzione, lo smarrimento della sua vis prescrittiva a fronte di misure normative varate dagli organi della direzione politica e segnate dallo stato d’emergenza, con grave pregiudizio dei diritti fondamentali (e, in ultima istanza, della dignità). Il rischio è, insomma, che il vero fondamento dei diritti non stia più in Costituzione (o in altre Carte, come la CEDU o la Carta di Nizza-Strasburgo) bensì unicamente nel contesto: un contesto fortemente alterato e profondamente discosto dai valori che stanno a base sia dell’ordinamento che delle relazioni interordinamentali.
Non saprei ora dire se questo rischio possa essere davvero e fino in fondo parato; sono tuttavia certo del fatto che ciascuno di noi, uomini di cultura ed operatori, deve fare tutta quanta la propria parte per fugarlo: al servizio della Costituzione, dei suoi valori, dell’uomo.

 

[1] La tesi, alla quale qui pure mi rifaccio con ulteriori svolgimenti, secondo cui il sistema è sistema di norme, non già di fonti, trovasi argomentata da varî punti di vista e per esigenze ricostruttive parimenti diverse in molti miei scritti: per tutti, È possibile parlare ancora di un sistema delle fonti?, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, nonché nei miei “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XII, Studi dell’anno 2008, Torino 2009, 433 ss.

[2] … per la verità, più comune ed europea che costituzionale, secondo quanto è, ancora di recente, testimoniato da Corte cost. n. 230 del 2012, nella quale si tiene a precisare esser diverso il regime, rispettivamente, proprio del “diritto legislativo” e del “diritto giurisprudenziale”: in particolare, si nega risolutamente che il mutamento giurisprudenziale, ancorché registratosi presso la Cassazione a Sezioni Unite, possa considerarsi ius novum, qual è appunto quello di produzione legislativa. Diverso l’orientamento al riguardo manifestato non solo dalla Corte di Strasburgo (peraltro, ben noto al giudice costituzionale, che vi fa espresso richiamo) ma anche dalle punte più avanzate della giurisprudenza ordinaria: v., ad es., Trib. Torino, Sez. giudici per le indagini preliminari, ord. 30 gennaio 2012, dove si riprende con originali svolgimenti l’indicazione della Corte EDU secondo cui l’interpretazione giudiziaria fa tutt’uno col dato positivo su cui si svolge, venendo pertanto a comporre un unicum inscindibile nelle sue parti; tanto più, appunto, laddove si tratti di interpretazione fatta propria dal giudice di legittimità nella sua più ampia composizione. A commento della pronunzia del giudice delle leggi sopra richiamata, v. V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2012, preceduto da una Nota introduttiva di F. Viganò, nonché, volendo, i miei Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.diritticomparati.it, 15 ottobre 2012, e www.giurcost.org, 16 ottobre 2012, e, pure ivi, Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum; rilievi a quest’ultimo scritto sono mossi da R. Conti, Pensieri sparsi dopo il post scriptum di Antonio Ruggeri su Corte cost. n. 230/2012, in www.diritticomparati.it, 29 ottobre 2012. Sulla questione che ha costituito oggetto della pronunzia stessa, da una peculiare prospettiva, D. Savy, La tutela dei diritti fondamentali ed il rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione nella disciplina del mandato di arresto europeo, in www.penalecontemporaneo.it, 22 ottobre 2012.

[3] Uno degli argomenti maggiormente ricorrenti a sostegno della perdurante attualità della distinzione è nel vincolo del precedente giudiziario che varrebbe per gli ordinamenti di common law e sarebbe invece insussistente nei Paesi di civil law; si tratta però di un argomento non irresistibile, non soltanto per le ragioni ancora di recente enunciate da studiosi di varia estrazione (tra gli altri, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, Bologna-Roma 2011, spec. 710 ss., e V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello: trapianto, palingenesi, cross-fertilization, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2012, 839 ss.) ma anche, e soprattutto, a motivo del fatto che è nel DNA della funzione giurisdizionale il suo doversi comporre in “indirizzi” connotati da linearità di svolgimento e tendenziale conformità ai precedenti, rese palesi in ispecie dalla parte motiva dei verdetti dei giudici. La qual cosa, ovviamente, nulla toglie né al carattere “creativo” (o, diciamo pure, “normativo”) della giurisprudenza, sul quale tornerò a momenti, né alla facoltà, di cui la giurisprudenza stessa è dotata, di far luogo al rinnovo degli orientamenti dapprima espressi. E, tuttavia, come ancora da ultimo si rammenta nel mio scritto per ultimo cit., mentre ai decisori politici (e, segnatamente, al legislatore) è dato in ogni tempo di innovare profondamente a decisioni dapprima adottate, proprio in ragione del loro carattere politico, al giudice è precluso di poter risolvere due questioni identiche in modi radicalmente diversi, salvo il caso di mutamento di contesto (o, come a me piace dire, di “situazione normativa”), altrimenti rinnegherebbe se stesso, vale a dire il carattere propriamente “giurisdizionale” dell’attività svolta. Come si vede, creatività e continuità sono tratti costanti della giurisprudenza, del suo modo di essere e di affermarsi, in ordinamenti sia di civil che di common law. Con ciò, resta fermo che una piena omologazione dei due sistemi sarebbe comunque forzosa, non consentita né da una tradizione culturale risalente né dalla conformazione complessiva della struttura degli ordinamenti qui sottoposti ad un rapido ed approssimativo confronto.

[4] Sintetizza questo stato di cose la formula, come si sa largamente diffusa e però caricata di sì varie valenze da rendersi a conti fatti inservibile a finalità teorico-ricostruttiva, dello “Stato giurisdizionale”: dove v’è pure – chi può negarlo? – un fondo di verità, fatto tuttavia oggetto di esasperate, deformanti rappresentazioni.

Il discorso sarebbe al riguardo assai lungo e deve perciò rimandarsi ad altro luogo di riflessione scientifica ad esso specificamente dedicato. Per ciò che se ne può ora dire, ciascuna sede istituzionale ha da fare, fino in fondo, la propria parte, concorrendo all’inveramento dei fini-valori costituzionali e, a un tempo, al mantenimento dell’equilibrio del sistema [sta in ciò la perdurante vitalità del principio della separazione dei poteri, a riguardo del quale, per tutti, la corposa indagine di G. Silvestri, La separazione dei poteri, Milano, I (1979) e II (1984)]. Le carenze, in modo particolarmente vistoso evidenziatesi, nello svolgimento dell’attività di direzione politica non possono poi essere colmate a mezzo di indebite supplenze da parte degli organi di garanzia, quanto meno in situazioni di quiete istituzionale, vale a dire per un fisiologico svolgimento delle dinamiche ordinamentali; in stati di crisi, è invece giocoforza che gli stessi organi di garanzia si addossino responsabilità che non dovrebbero loro competere, in linea peraltro con una nota teorizzazione di siffatte esperienze (mi riferisco ora, come si sarà capito, in particolare al ruolo del Capo dello Stato quale gestore dell’emergenza). Anche in situazioni di pur relativa “normalità” istituzionale, gli organi di garanzia sono nondimeno sollecitati ad usi particolarmente incisivi e coraggiosi degli strumenti di cui dispongono; e basti, al riguardo, solo rammentare l’applicazione diretta della Costituzione (e, però, anche delle altre Carte…) da parte dei giudici, nei limiti in cui può aversi con riguardo ai casi di mancanza di leggi comuni a salvaguardia dei diritti (su ciò, di recente e per tutti, F. Mannella, Giudici comuni e applicazione della Costituzione, Napoli 2011; A. Guazzarotti, L’autoapplicabilità delle norme. Un percorso costituzionale, Napoli 2011, e L. Azzena, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità dalle origini alla dimensione europea, Napoli 2012, 114 ss.).

[5] Il riferimento è, ovviamente, a C. Mortati, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano 1964.

[6] V., infatti, il mio “Fluidità” dei rapporti tra le fonti e duttilità degli schemi d’inquadramento sistematico (a proposito della delegificazione), in AA.VV., I rapporti tra Parlamento e Governo attraverso le fonti del diritto. La prospettiva della giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Cocozza e S. Staiano, Torino 2001, 777 ss., spec. 792 ss.

[7] Evidente il riferimento al magistero di H. Kelsen e della Scuola da lui fondata, che anche da noi ha fatto – come si sa – non pochi proseliti.

[8] Non è di qui tornare a ragionare della distinzione tra tali specie di leggi, da taluno negata e da altri invece ammessa [indicazioni in C. Esposito, Costituzione, leggi di revisione della costituzione e “altre” leggi costituzionali, in Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, III, Milano 1962, 199 ss.; R. Tarchi, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale (1948-1993), in Comm. Cost., fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 1995, 271 ss.; M. Cecchetti, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale (1996-2006), in AA.VV., Osservatorio sulle fonti 2006, Le fonti statali: gli sviluppi di un decennio, a cura di P. Caretti, Torino 2007, 1 ss., spec. 5 ss.; F. Bertolini, Leggi di revisione costituzionale e altre leggi costituzionali, in Il Diritto, Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, V (2007), 1 ss., spec. 7 s.; A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, cit., 392 ss.]; non è, nondimeno, privo d’interesse rammentare che l’opinione favorevole alla reciproca differenziazione rinviene il terreno sul quale essa può essere colta al piano delle norme (e, specificamente, della loro funzione), non già degli atti, identici per forma.

[9] Parimenti non è di qui riprendere la vessata questione se l’unico, vero vertice del sistema sia dato dalla Costituzione, nell’assunto che essa pure sia una… fonte. Resta, nondimeno, il fatto che le leggi provviste di forma costituzionale sono dalla stessa Costituzione abilitate a derogare a quest’ultima, sia pure entro taluni limiti cui si farà subito appresso cenno.

[10] Faccio qui solo i nomi di C. Esposito, V. Crisafulli, F. Modugno e G.U. Rescigno: nell’ordine, v., del primo, La validità delle leggi (1934), rist. inalt., Milano 1964; del secondo, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 775 ss. e Lezioni di diritto costituzionale6, II,1, L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), Padova 1993; il terzo ha, poi, ripetutamente affinato e precisato la sua posizione teorica il cui impianto, nondimeno, resta quello fissato ne L’invalidità della legge, I e II, Milano 1970; del quarto, v., infine, Gerarchia e competenza, tra atti normativi, tra norme, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Napoli 2011, 2821 ss. Tra le più accurate descrizioni della operatività del criterio della competenza, segnalo qui solo quelle di L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna 1996; R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, Milano 1998; F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Padova 2009; R. Bin-G. Pitruzzella, Le fonti del diritto2, Torino 2012 e, soprattutto, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, cit. Infine, volendo, anche il mio Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Milano 1977, con gli ulteriori svolgimenti e le precisazioni che sono in Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Torino 2009.

[11] Invece la sua limitazione in nome del carattere “speciale” dell’atto anteriore fa riferimento a certi attributi strutturali ovvero sostanziali dell’atto resistente, indipendentemente dalla forma di cui esso si riveste. Quest’affermazione non è messa in discussione laddove gli atti in campo siano del medesimo grado e, perciò, astrattamente provvisti della medesima forza. L’abrogazione, tuttavia, si considera possibile anche in relazione al caso che l’atto posteriore sia gerarchicamente sovraordinato a quello inferiore, sempre che, a motivo della sua struttura nomologica, si dimostri idoneo a prenderne subito il posto e ad essere portato ad applicazione invece di quello. Nel qual caso, il canone della specialità – a quanto pare – non può più trovare il modo di farsi valere (il punto, ad ogni buon conto, richiede un supplemento di riflessione, con specifico riguardo alla conformità al canone della ragionevolezza della rimozione della lex specialis).

[12] V., part., Corte cost. n. 1146 del 1988.

[13] Una sensibile dottrina (sopra tutti, M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quad. cost., 1995, 7 ss., ma anche M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma 1991, 8 s. e passim, e L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Riv. dir. cost., 1996, 124 ss., spec. 136 ss., e U. Allegretti, Il problema dei limiti sostanziali all’innovazione costituzionale, in AA.VV., Cambiare costituzione o modificare la Costituzione?, a cura di E. Ripepe e R. Romboli, Torino 1995, 29) si è dichiarata dell’idea che, con specifico riguardo alle liberaldemocrazie, non potrebbe immaginarsi l’avvento di un nuovo potere costituente che non sia quodammodo “limitato”, siccome obbligato a far comunque salva la garanzia dei diritti fondamentali. Una tesi, questa, che nondimeno attende le sue opportune (ed auspicabili…) verifiche dalla storia, la quale piuttosto, per com’è venuta fin qui maturando, esibisce non poche testimonianze di fatti di discontinuità costituzionale; proprio, anzi, quando la guardia si abbassa, maggiore si fa il rischio che essi possano aversi, ancorchè abilmente mascherati dietro le candide vesti di una continuità di facciata. Giova pertanto rifuggire dall’innalzare a teoria giuridica (in ispecie a teoria generale) un desiderio o una speranza che credo ciascuno di noi non possa non coltivare ma che potrebbero ugualmente restare inappagati.

Resta poi da chiedersi (ma in altra sede) in applicazione di quali criteri si renda possibile riconoscere senza soverchie incertezze quando si sia in presenza di un fatto di discontinuità e quando invece di uno di continuità costituzionale (con specifico riguardo ai controlli giurisdizionali sulle revisioni costituzionali e con attenzione anche alle esperienze di altri ordinamenti, v. S. Ragone, I controlli giurisdizionali sulle revisioni costituzionali. Profili teorici e comparativi, Bologna 2011). Domanda, questa, da far tremare le vene e i polsi, sol che si consideri che ogni criterio di formale fattura mostra limiti evidenti di rendimento, di modo che deve, ancora una volta, farsi ricorso a criteri di ordine sostanziale. Per un verso, infatti, la discontinuità potrebbe non aversi a mezzo di legge di revisione costituzionale che si porti oltre la soglia per essa fissata; e ciò, anche in ragione del fatto che, salvo casi clamorosi di enunciati che fanno a pugni coi principi, non di rado le stesse leggi dotate di forma costituzionale esibiscono una struttura nomologica fatta a maglie larghe o larghissime, sicché solo al momento della loro successiva specificazione-attuazione con leggi o altri atti ancora si può tentare di stabilire se si sia avuto, o no, il superamento della soglia suddetta. Per un altro verso, la discontinuità potrebbe porsi quale l’effetto di un disegno eversivo realizzato, oltre che per via legislativa (costituzionale od ordinaria che sia), tramite pratiche politiche e comportamenti in genere non formalizzati. Insomma, solo lo storico o il politologo, ancora prima o invece del giurista, può, riguardando ex post a certe vicende, accertare se vi sia stata, o no, discontinuità e quando essa abbia preso corpo.

[14] Anche il riscontro di siffatto rapporto di strumentalità necessaria intercorrente tra principi fondamentali ed altre norme, costituzionali e non, che vi diano la prima, necessaria attuazione rimanda a criteri di ordine sostanziale (o, meglio, assiologico-sostanziale) ad oggi non puntualmente definiti e piuttosto apprezzabili con l’intuito ancor prima che col ragionamento. Ciò che solo importa è che, una volta ammessa in tesi l’esistenza di siffatto rapporto, se ne ha che anche norme di legge comune volte a dare “a prima battuta” svolgimento ai principi non potrebbero essere puramente e semplicemente rimosse neppure con legge costituzionale, il loro venir meno ridondando immediatamente in irreparabile incisione dei principi. Ancora una conferma, come si vede, del sempre possibile ribaltamento della gerarchia secondo forma a fronte di una gerarchia secondo valore o – il che è praticamente lo stesso – del fatto che il sistema è di norme, più (o anzi) che di fonti.

[15] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Interpretazione costituzionale e ragionevolezza, in Pol. dir., 4/2006, 531 ss.

[16] Il riferimento è ad una nota tesi di P. Biscaretti di Ruffìa, espressa per la prima volta nel suo Sui limiti della revisione costituzionale, in Ann. Sem. Giur. Univ. Catania, III, 1948-49, e in seguito più volte ribadita. È ancora di recente tornato a discuterla, in prospettiva giusfilosofica, S. Colloca, Revisione costituzionale. Due contributi analitici, in Studi in onore di F. Modugno, cit., II, 994 ss.

[17] Notazioni anticipatrici sul punto già nel mio Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, in Dir. soc., 1/2000, 141 ss., e quindi in altri scritti.

[18] Assai controverso non tanto se il nucleo in parola esista quanto quale possa essere il modo appropriato per individuarlo e riconoscerne i confini (su ciò, tra gli altri, A. Spadaro, in molti scritti e, spec., nel suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano 1994, nonché AA.VV., Giurisprudenza costituzionale e principî fondamentali. Alla ricerca del nucleo duro delle Costituzioni, a cura di S. Staiano, Torino 2006 e Q. Camerlengo, Contributo ad una teoria del diritto costituzionale cosmopolitico, Milano 2007).

[19] In argomento si è assistito ad una messe di scritti ormai imponente e di vario segno: riferimenti, per tutti, negli studi di C. Panzera, I livelli essenziali delle prestazioni tra giurisprudenza costituzionale e giurisprudenza amministrativa, in Fed. fisc., 2/2009, 133 ss.; I livelli essenziali delle prestazioni tra sussidiarietà e collaborazione, in Le Regioni, 4/2010, 941 ss., e I livelli essenziali delle prestazioni secondo i giudici comuni, in Giur. cost., 4/2011, 3371 ss., nonché, più di recente, in L. Trucco, Livelli essenziali delle prestazioni e sostenibilità finanziaria dei diritti sociali, relaz. al convegno del Gruppo di Pisa svoltosi a Trapani l’8 e 9 giugno 2012 su I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della giurisprudenza, in www.gruppodipisa.it.

[20] … e che induce ad una preoccupata riflessione circa l’idoneità della legge fondamentale della Repubblica a resistere ai colpi che, pressoché quotidianamente, le sono inferti (su ciò, il mio Crisi economica e crisi della Costituzione, in www.giurcost.org, 21 settembre 2012; adde l’Editoriale di G. Falcon, La crisi e l’ordinamento costituzionale, a Le Regioni, 1-2/2012, 9 ss., e, con specifico riguardo all’art. 41 ed alle sue possibili innovazioni, F. Angelini, Costituzione ed economia al tempo della crisi…, in www.rivistaaic.it. 4/2012).

[21] Su di che la densa riflessione teorica di G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[22] Ad es., Corte cost. n. 45 del 2005; in dottrina, per tutti, A. Pertici, Il Giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, Torino 2010, spec. 153 ss.

[23] V. sent. n. 10 del 2010; in un non dissimile ordine d’idee sono altre pronunzie della Consulta, tra le quali la sent. n. 121 del 2010.

[24] Part., sentt. nn. 373 del 2010 e 325 del 2011.

[25] Sent. n. 214 del 1985.

[26] Il riferimento è, ovviamente, a G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[27] Altra dottrina, di contro, giudica la dignità passibile di bilanciamento (tra gli altri, M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare, a cura di G. Brunelli-A. Pugiotto-P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, Napoli 2009, 1060 ss.).

[28] Di un “effetto dell’intero processo produttivo” si discorre nel mio Sistema integrato di fonti e sistema integrato di interpretazioni, nella prospettiva di un’Europa unita, in Dir. Un. Eur., 4/2010, 885.

[29] Ex plurimis, Corte cost. nn. 311 del 2009; 93 del 2010; 80, 113 e 236 del 2011.

[30] Dal 2007, data di nascita del nuovo corso inaugurato dalle sentenze “gemelle” nn. 348 e 349 (“gemelle”, sì, ma “non… siamesi”: A. Rauti, La “cerchia dei custodi” delle “Carte” nelle sentenze costituzionali nn. 348 e 349 del 2007: considerazioni problematiche, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, a cura di C. Salazar e A. Spadaro, Milano 2009, 265), ad oggi l’indirizzo messo a punto dalla Corte in ordine al rilievo in ambito interno della CEDU ha avuto non pochi né poco significativi aggiustamenti, risultandone un quadro complessivo che appare per molti versi incompiuto, bisognoso di ulteriore affinamento. Di tutto ciò, nondimeno, non può ora dirsi, dovendo restare circoscritto il riferimento unicamente ai tratti maggiormente salienti ed espressivi dell’indirizzo stesso, specificamente rilevanti al fine della ricostruzione che si va qui facendo.

[31] Questa qualifica ha, ancora di recente, trovato conferma nella già cit. sent. n. 230 del 2012.

[32] È vero che il dettato stesso fa riferimento in modo generico alle leggi dello Stato (e delle Regioni), potendosi pertanto astrattamente prestare ad una lettura comprensiva di ogni specie di legge; è tuttavia evidente che il riparto delle materie di cui all’art. 117 riguarda le sole leggi comuni.

[33] Le uniche “deroghe” consentite ai principi fondamentali, giusta la tesi corrente, dietro richiamata, favorevole alla esistenza di limiti, apprezzabili al piano assiologico-sostanziale, alla revisione costituzionale, sono quelle stabilite dal Costituente e che danno vita alle c.d. “rotture della Costituzione”; le “deroghe” poste in essere con legge di revisione costituzionale si risolvono, dunque, immediatamente ed interamente in violazioni della Costituzione stessa. E così è per qualsivoglia altra manifestazione di potere costituito, il superamento dei principi – a stare alla tesi più accreditata al piano teorico-generale – potendo aver luogo unicamente con fatto espressivo di potere costituente (una notazione, questa, gravida di implicazioni con specifico riguardo alle norme consuetudinarie, in capo alle quali una dottrina ha riconosciuto l’attitudine alla “deroga” costituzionale). In realtà, le cose non stanno, a mia opinione, sempre e del tutto così, gli stessi principi fondamentali soggiacendo a modifica per via legale, unico limite all’innovazione costituzionale risultando – come si è dietro fatto notare – dai valori, in funzione servente dei quali i principi si pongono, valori che ancora meglio potrebbero essere appunto serviti da modifiche oculate dei principi stessi.

[34] … un bilanciamento – come si vede – a carattere interordinamentale, nelle forme e con gli esiti possibili che si è altrove tentato di descrivere meglio (ragguagli nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali, in www.rivistaaic.it, 1/2011).

[35] Attorno al canone della “intensità” della tutela è venuta formandosi una tela assai fitta di riflessioni dottrinali di vario segno ed orientamento [indicazioni in O. Pollicino, Margini di apprezzamento, art. 10, c. 1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it; C. Salazar, Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo, giudici: “affinità elettive” o “relazioni pericolose”, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, cit., 49 ss.; AA.VV., Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010; AA.VV., L’integrazione attraverso i diritti. L’Europa dopo Lisbona, a cura di E. Faletti-V. Piccone, Roma 2010; AA.VV., The National Judicial Treatment of the ECHR and EU Laws. A Comparative Constitutional Perspective, a cura di G. Martinico e O. Pollicino, Groningen 2010; AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti. Scritti degli allievi di Roberto Romboli, a cura di G. Campanelli-F. Dal Canto-E. Malfatti-S. Panizza-P. Passaglia-A. Pertici, Torino 2010; R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma 2011; G. Repetto, Argomenti comparativi e diritti fondamentali in Europa. Teorie dell’interpretazione e giurisprudenza sovranazionale, Napoli 2011; AA.VV., Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo. Nei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950-2010), a cura di L. Mezzetti e A. Morrone, Torino 2011; T. Giovannetti-P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2008-2010), a cura di R. Romboli, Torino 2011, 322 ss.; A. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto-E. Rossi, Torino 2011, 313 ss.; L. Cappuccio, Differenti orientamenti giurisprudenziali tra Corte EDU e Corte costituzionale nella tutela dei diritti, in AA.VV., La “manutenzione” della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Italia, Spagna e Francia, a cura di C. Decaro-N. Lupo-G. Rivosecchi, Torino 2012, 65 ss.; G. Martinico-O. Pollicino, The Interaction between Europe’s Legal Systems. Judicial Dialogue and the Creation of Supranational Laws, Cheltenham (Gran Bretagna) - Northampton (Stati Uniti d’America) 2012; AA.VV., Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo, a cura di L. Cassetti, Napoli 2012 (ed ivi, part., della stessa curatrice, La «ricerca dell’effettività»: dalla lotta per l’attuazione dei principi costituzionali all’obiettivo della «massima espansione delle tutele», 3 ss.); M. Mezzanotte, Legalità costituzionale e diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona, in Rass. parl., 2/2012, 379 ss.; A. Schillaci, La cooperazione nelle relazioni tra Corte di giustizia dell’Unione europea e Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.rivistaaic.it, 4/2012; G. Gerbasi, Il contesto comunicativo euro-nazionale: alla ricerca di un ruolo (cooperativo) delle Corti costituzionali nella rete giudiziaria europea, in www.federalismi.it, 20/2012; V. Manes, I principi penalistici nel network multilivello, cit., spec. 866 ss.; L. Cappuccio, Luces y sombras en la relación entre la Corte Constitucional italiana y el Tribunal Europeo de Derechos Humanos, in www.federalismi.it, 22/2012; D. Tega, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Milano 2012; AA.VV., I diritti dei lavoratori nelle Carte europee dei diritti fondamentali, a cura di S. Borelli-A. Guazzarotti-S. Lorenzon, Napoli 2012; A. Cardone, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, Milano 2012; A. Guazzarotti, I diritti sociali nella giurisprudenza CEDU, in corso di stampa in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2013; P. Caretti, I diritti e le garanzie, relaz. al Convegno dell’AIC su Costituzionalismo e globalizzazione, Salerno 23-24 novembre 2012, in www.rivistaaic.it. V., infine, dall’interno della stessa Corte, il punto di vista manifestato da F. Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, relaz. all’incontro su Applicazione della Convenzione Europea dei Diritti Umani come diritto comunitario, Bruxelles 24-26 maggio 2012, in www.cortecostituzionale.it, spec. al § 4].

[36] Spec. sent. n. 317 del 2009.

[37] Stessa cosa, mutatis mutandis, dovrebbe dirsi con riguardo all’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione, laddove parimenti si enuncia il principio – autentica Grundnorm delle relazioni interordinamentali, al piano della salvaguardia dei diritti – secondo cui l’interpretazione della Carta stessa non può risolversi in una limitazione nel godimento dei diritti per come assicurato, oltre che dallo stesso diritto dell’Unione, da norme di diritto internazionale (e, segnatamente, dalla CEDU), nonché dalle Costituzioni degli Stati membri. Molto di recente, il disposto in parola è stato fatto oggetto di una questione d’interpretazione dietro rinvio pregiudiziale da parte del tribunale costituzionale spagnolo. Al riguardo, si segnala il contrario avviso manifestato nelle sue Conclusioni dall’avvocato generale Y. Bot, presentate il 2 ottobre 2012, in causa C-399/11, a cui opinione il livello di protezione assicurato ai diritti in ambito interno non potrebbe in alcun caso comportare una violazione del diritto dell’Unione, non ostando pertanto all’applicazione di quest’ultimo pur laddove dovesse tradursi in una riduzione delle garanzie costituzionali dei diritti. Una opinione, questa, a parer mio, sorretta da argomenti alquanto gracili ed approssimativi [ragguagli nel mio Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo), in www.diritticomparati.it, 5 ottobre 2012; pure ivi, 9 ottobre 2012, un commento di G. Repetto].

[38] Ancora una volta, al pari di ciò che si è dietro veduto ragionando dei limiti alla revisione costituzionale, potrebbe considerarsi improprio discorrere di una “graduatoria” (qui, tra Convenzione e Costituzione); nei fatti, però, il risultato non cambia, una volta che la nostra legge fondamentale dovesse essere messa da canto per far posto alla fonte convenzionale. Si vedrà, tuttavia, a momenti che la soluzione maggiormente appagante è quella che riconcilia le fonti a mezzo di un uso sapiente e coraggioso delle tecniche interpretative.

[39] … che, poi, nei fatti porterebbe alla caducazione della disposizione, che quella norma esprime, in ogni suo possibile significato, dal momento che nella pratica giuridica ormai invalsa e considerata irreversibile (ancora un caso di metanorma consuetudinaria interpretativa del “sistema” di cui agli artt. 134 e 136 cost.) l’effetto di annullamento colpisce una norma data per quindi stranamente (e, a mia opinione, inammissibilmente) irradiarsi alla disposizione, facendo venir meno ogni altra norma astrattamente da essa desumibile. Una soluzione, questa, che, a tacer d’altro, fa del giudice delle leggi un organo d’interpretazione autentica, appiattisce l’effetto di annullamento rispetto all’effetto di abrogazione (segnatamente di abrogazione nominata) e, perciò, incide senza riparo sul principio della separazione dei poteri, che vuole nettamente distinto il ruolo del giudice (sia pure peculiare, qual è il giudice costituzionale) e quello del legislatore.

[40] Ancora di recente, una sensibile dottrina ha fatto notare che “la riserva di far valere i principi fondamentali o l’intera costituzione nazionale come barriera per non permettere l’ingresso di principi estranei si sta rivelando, con il passare del tempo e lo scarso o nullo ricorso ad essi, come una forma di ‘placebo’, per mettere tranquilli i residui sostenitori della sovranità statale” (S. Cassese, La giustizia costituzionale in Italia: lo stato presente, in Riv. trim. dir. pubbl., 3/2012, 613). Sulle ragioni che hanno portato a quest’esito, da ultimo, M. Bignami, I controlimiti nelle mani dei giudici comuni, in www.forumcostituzionale.it, 16 ottobre 2012, pur in un ordine concettuale non coincidente con quello da me in altri luoghi patrocinato. Sulle prospettive che, specie col trattato di Lisbona, potrebbero aprirsi per usi originali della dottrina dei “controlimiti”, v., ora, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.

[41] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in www.rivistaaic.it, 3/2012, spec. al § 3; ivi pure la presa in considerazione di altri casi al ricorrere dei quali il giudice comune possa considerarsi legittimato a fare applicazione ovvero disapplicazione diretta della Convenzione.

[42] Su ciò ho molto insistito nelle mie più recenti riflessioni in tema di rapporti tra Carte e tra Corti (indicazioni, ancora nel mio scritto per ultimo cit.). V., inoltre, utilmente, A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, in Giur. cost., 5/2011, 3779 ss., spec. 3799 ss.

[43] Particolarmente, opportunamente sottolineato il ruolo dei giudici comuni da una sensibile dottrina (sopra tutti, R. Conti, nello scritto appena richiamato e in molti altri; diversamente, ora, A. Ciancio, A margine dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali in ambito europeo, tra luci ed ombre, in www.federalismi.it, 21/2012), peraltro in linea con la generale tendenza alla valorizzazione degli elementi di “diffusione” nell’ambito del nostro sistema di giustizia costituzionale (su di che, da ultimo e per tutti, L. Azzena, La rilevanza nel sindacato di costituzionalità, cit., spec. il cap. V). Non si trascuri, tuttavia, l’influenza culturale esercitata dalla giurisprudenza costituzionale su quella comune, persino laddove, come con riguardo alle pratiche d’interpretazione conforme, il ruolo dei giudici sembri essere singolarmente attivo e dalla stessa Consulta incoraggiato ad estese ed incisive applicazioni [ma v., su ciò, le avvertenze che sono nel mio La giustizia costituzionale italiana tra finzione e realtà, ovverosia tra esibizione della “diffusione” e vocazione all’“accentramento”, in Riv. dir. cost., 2007, 69 ss. Cfr. al mio punto di vista quello al riguardo di recente manifestato, oltre che da L. Azzena, nello scritto appena richiamato, da G. Laneve, L’interpretazione conforme a Costituzione: problemi e prospettive di un sistema diffuso di applicazione costituzionale all’interno di un sindacato (che resta) accentrato, in www.federalismi.it, 17/2011; G. Pistorio, I “limiti” all’interpretazione conforme: cenni su un problema aperto, in www.rivistaaic.it, 2/2011, e, dello stesso, ora, Interpretazione e giudici. Il caso dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Napoli 2012; G. Gerbasi, La Corte costituzionale tra giudici comuni nazionali e Corti europee alla ricerca di una più efficace tutela dei diritti fondamentali, in AA.VV., Diritti fondamentali e giustizia costituzionale. Esperienze europee e nord-americana, a cura di S. Gambino, Milano 2012, 110 ss., spec. 126 ss., ed E. Lamarque, Corte costituzionale e giudici nell’Italia repubblicana, Roma-Bari 2012, part. 109 ss.; di quest’ultima, già, La fabbrica delle interpretazioni conformi a Costituzione tra Corte costituzionale e giudici comuni, in AA.VV., La fabbrica delle interpretazioni, a cura di B. Biscotti-P. Borsellino-V. Pocar-D. Pulitanò, Milano 2012, 43 ss. e, ora, The italian Courts and interpretation in conformity with the Constitution, EU law and the ECHR, in www.rivistaaic.it, 4/2012. Lo studio più organico della nostra dottrina resta, nondimeno, quello di G. Sorrenti, L’interpretazione conforme a Costituzione, Milano 2006, con le ulteriori precisazioni che sono in La Costituzione “sottintesa”, in AA.VV., Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Milano 2010, 3 ss. V., inoltre, utilmente, A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Roma 2011, nonché, ora, A. Longo, Spunti di riflessione sul problema teorico dell’interpretazione conforme, in www.giurcost.org, 24 gennaio 2012; I. Ciolli, Brevi note in tema d’interpretazione conforme a Costituzione, in www.rivistaaic.it, 1/2012, e, con specifico riguardo alla materia penale, V. Manes, Metodi e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Arch. pen., 1/2012, e, nella stessa Rivista, P. Gaeta, Dell’interpretazione conforme alla C.E.D.U.: ovvero, la ricombinazione genica del processo penale, ed ivi altra bibl.].

[44] Sent. n. 388 del 1999.

[45] Maggiori ragguagli sul punto possono, volendo, aversi dal mio Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in www.giurcost.org, 17 marzo 2012, spec. § 7. V., inoltre, A. Guazzarotti, Precedente CEDU e mutamenti culturali nella prassi giurisprudenziale italiana, cit.

[46] Assai di recente, Corte cost. n. 230 del 2012, cit. Riferimenti di giurisprudenza risalente in R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., 214 ss. e 235 ss. e, ora, F. Vari, A (ben) cinque anni dalle sentenze gemelle, (appunti su) due problemi ancora irrisolti, in www.federalismi.it, 18/2012, 7 del paper.

La circostanza per cui la giurisprudenza EDU dev’esser tenuta tendenzialmente presente porta, ad ogni buon conto, al riconoscimento – si è fatto notare da una sensibile dottrina (C. Salazar, Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo, giudici, cit., 67) – della “inevitabilità del dialogo” tra le Corti (testuale il corsivo). Una “inevitabilità” – vorrei aggiungere – che non va vista al pari di una sorta di male incurabile bensì, all’opposto, quale risorsa che, una volta spesa in modo adeguato, può condurre alla ottimale salvaguardia dei diritti [riserve e perplessità, invece, a riguardo del “dialogo” in parola sono in G. de Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Bologna 2010, e S. Troilo, (Non) di solo dialogo tra i giudici vivranno i diritti? Considerazioni (controcorrente?) sui rapporti tra le Corti costituzionali e le Corti europee nel presente sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali, in www.forumcostituzionale.it].

[47] Da ultimo, v. il mio Corti e diritti, in tempi di crisi, in www.gruppodipisa.it, 26 settembre 2012, spec. al § 3, e già in altri scritti.

[48] … o, per dir meglio, ogni Costituzione di stampo liberaldemocratico, non escludendosi che possano darsi (così come, invero, si danno in ordinamenti espressivi di culture dalla nostra profondamente discoste) Costituzioni chiuse in modo autoreferenziale in se stesse, indisponibili a farsi permeare e rigenerare senza sosta alla luce di materiali offerti ab extra (e, segnatamente, dalle Carte dei diritti). Molto discussa, come si sa, da tempo la questione se, anche a riguardo di tali ordinamenti, possa appropriatamente ragionarsi del loro essere fondati su una “Costituzione” (su ciò, richiamo qui solo gli approfonditi studi di A. Spadaro, a partire dal suo Contributo per una teoria della Costituzione, cit., nonché da L’idea di Costituzione fra letteratura,  botanica e geometria. Ovvero:  sei diverse  concezioni “geometriche”  dell’“albero” della Costituzione e un’unica, identica “clausola d’Ulisse”,  in Aa.Vv., The Spanish  Constitution  in  the European Constitutionalism Context, a cura di F. Fernández Segado, Madrid 2003, 169 ss.; un fitto ed animato confronto su ciò che è ed a cosa serve la Costituzione si è, poi, svolto per iniziativa di Quad. cost., con contributi di R. Bin, Che cos’è la Costituzione?, 1/2007, 11 ss., seguito dal mio Teorie e “usi” della Costituzione, 3/2007, 519 ss. e, quindi, da G. Bognetti, Cos’è la Costituzione? A proposito di un saggio di Roberto Bin, e O. Chessa, Cos’è la Costituzione? La vita del testo, entrambi nel fasc. 1/2008, rispettivamente, 5 ss. e 41 ss.; A. Barbera, Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, 2/2010, 311 ss.; ancora G. Bognetti, Costantino Mortati e la Scienza del diritto, 4/2011, 803 ss. e, in quest’ultimo fasc., anche F. Di Donato, La Costituzione fuori del suo tempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella Longue durée, 895 ss. Inoltre, G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna 2008; F. Gallo, Che cos’è la Costituzione? Una disputa sulla rifondazione della scienza giuridica, in www.rivistaaic.it, 1/2011; F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Roma 2011, e, ora, I. Massa Pinto, L’istituzione di una Costituzione: una chiarificazione dei concetti, in www.rivistaaic.it, 4/2012).

[49] Quest’affermazione è gravida di implicazioni al piano della teoria delle norme, con specifico riguardo appunto alla loro prescrittività (bisognosa di essere avvalorata caso per caso), per la cui indagine deve tuttavia farsi rimando ad altri luoghi.

[50] Cfr. al mio il diverso punto di vista al riguardo espresso da C. Panzera, Il bello dell’essere diversi. Corte costituzionale e Corti europee ad una svolta, in AA.VV., Riflessioni sulle sentenze 348-349/2007 della Corte costituzionale, cit., spec. 232 ss.

[51] Una ferma difesa del giudicato, ma con specifico riguardo alla eventualità che ad esso si opponga un sopravveniente mutamento d’indirizzo giurisprudenziale maturato in ambito interno, è nella più volte cit. sent. n. 230 del 2012, dove è patrocinata una soluzione che invero, di norma, merita accoglienza ma che pure non è generalmente valida (in particolare, non lo è proprio con riferimento al caso che risulti sacrificata la libertà del soggetto).

[52] Per tutti, M. Luciani, La “Costituzione dei diritti” e la “Costituzione dei poteri”. Noterelle brevi su un modello interpretativo ricorrente, in Scritti in onore di V. Crisafulli, II, Padova 1985, 497 ss. (va, tuttavia, avvertito che anche quest’a. si fa portatore di un’idea di “sistema” assai distante da quella in cui io mi riconosco).

[53] Ovvio il riferimento all’insegnamento di C. Schmitt, Die Tyrannei der Werte, Stuttgart-Berlin 1967, tr. it. La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori, Milano 2008, in merito al quale, di recente, T. Gazzolo, «Valore» e «limite» in Carl Schmitt. Per una lettura della «Tirannia dei valori», in Mat. st. cult. giur., 2/2010, 417 ss. Fuor di dubbio, come si sa, il fatto che negli ordinamenti, quale il nostro, di tradizioni liberaldemocratiche valga il “metaprincipio” – autentica Grundnorm che sta a base della composizione dei principi in sistema – secondo cui i principi stessi sono tenuti a mostrarsi “tolleranti” gli uni verso gli altri (per tutti, G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, cit., spec. 281 ss.) ed a conformarsi, nelle loro applicazioni ai casi (e perciò, in buona sostanza, nei modi della loro concreta vigenza), alla ragionevolezza, che viene così a confermarsi – secondo la felice definizione datane da L. D’Andrea, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano 2005 – quale autentico “principio architettonico del sistema”.

[54] Di recente, in Crisi economica e crisi della Costituzione, cit., spec. al § 5.


Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum

La messe copiosa di commenti venuti alla luce attorno alla pronunzia indicata nel titolo di questa nota m’induce ad alcuni ulteriori svolgimenti ed a qualche precisazione rispetto alle prime impressioni suggeritemi dalla lettura della decisione[1].
La questione cruciale è – com’è chiaro – quella del vincolo espresso dalla giurisprudenza, specificamente laddove, come qui, prenda forma attraverso un nuovo indirizzo interpretativo inaugurato dalla Cassazione a sezioni unite, sì da giustificarsene o meno l’assimilazione a quello che propriamente (e, a dire della Consulta, esclusivamente) discende dal “diritto legislativo”. Il giudice delle leggi, al riguardo, coglie la palla al balzo per far luogo ad una pronunzia “dotta”, che si dilunga in un articolato ragionamento nel corso del quale risolutamente nega che possa, in alcun caso o modo, darsi l’assimilazione suddetta. Un ragionamento – si badi – che non resta legato al caso specificamente sottoposto al suo esame ma che piuttosto rivela l’ambizione di contenere affermazioni dotate di generale valenza. La qual cosa appare invero essere sommamente rischiosa, tanto più se si considera che, portando fino ai suoi ultimi e conseguenti svolgimenti le premesse del discorso, se ne ha che esso dovrebbe valere non soltanto per altre vicende processuali di rilievo penale ma per ogni altra vicenda ancora: quasi che il giudicato possegga uno statuto invariante per i vari tipi di processo e non piuttosto – così com’è – uno peculiare per ciascuna specie di esperienza giudiziaria[2].
Questa notazione preliminare, a riguardo della quale a me sembra che non si possa non convenire, consente di rivedere sotto la giusta luce (perlomeno, quella che tale ai miei occhi appare) il caso di oggi: un caso che – tengo subito ad avvertire – non si presta ad indebite o forzate estensioni oltre l’hortus conclusus nel quale è giunto a maturazione davanti alla Consulta.
Vorrei ora soffermarmi, con la massima rapidità qui consentita, unicamente su un paio di punti, ad integrazione di quanto ho avuto modo di dire nella mia nota sopra già richiamata, svolgendo alcune notazioni a riguardo delle condizioni e del fondamento del vincolo riconducibile al mutamento di giurisprudenza, sempre che se ne predichi l’esistenza, ovverosia nel presupposto che il vincolo stesso possa esservi (non dico che sempre vi sia ma, appunto, che possa talvolta esservi).
Il primo punto.
Condizione obbligata perché si possa a buon titolo predicare l’esistenza del vincolo in parola è che esso sia – come dire? – autoriflessivo, vale a dire che, ancora prima che verso gli altri giudici, valga per lo stesso giudice da cui promana il verdetto che quel vincolo vorrebbe (condizionale non casuale) esprimere. È infatti di tutta evidenza che il suo riconoscimento male riuscirebbe ad accordarsi col difetto in tesi dello stesso per il giudice della legittimità, difetto che subito ridonderebbe con identità di connotati per ogni altro giudice. Proprio sul punto della instabilità, che – a dire della Consulta – sarebbe propria dei verdetti giudiziari in genere al confronto con la stabilità delle leggi, fa infatti leva la sent. n. 230 per tipizzare la natura (e, di conseguenza, gli effetti), rispettivamente, degli atti legislativi e degli atti giudiziari.
Per la verità, anche su questo punto non poco potrebbe dirsi, sol che si acceda all’ordine di idee (come si sa, tuttavia non incontrastato) secondo cui il legislatore presente non può mai porre vincoli al legislatore futuro (in realtà, per una tesi finemente argomentata ma non perciò persuasiva, ciò varrebbe solo ordinariamente o a certe condizioni: ad es., i disposti di legge con cui si fa divieto a legge futura della loro abrogazione o modifica se non in modo espresso, per alcuni, dovrebbero essere osservati[3]; si sa però che nella pratica così molte volte non è stato e non è, senza che poi si riesca a sanzionare efficacemente questa “disobbedienza”).
Insomma, la dichiarata stabilità delle leggi è pur sempre tutta da verificare, l’esperienza in molti campi piuttosto avvalorando l’esito opposto. Non è, ad ogni buon conto, su dati meramente statistici che possiamo costruire una solida teoria costituzionale della funzione legislativa o, più largamente, delle fonti.
Ora, si può ragionare di un vincolo espresso dalla Cassazione e autoriflessivo, nel senso sopra precisato?
A questa domanda, una nutrita schiera di autori, affezionati ad antiche e pur sempre solide categorie teoriche, rispondono seccamente di no, facendo poggiare la tesi preferita su strutturali differenze degli ordinamenti di civil rispetto a quelli di common law, per quanto il muro innalzato in tempi ormai andati tra siffatti modelli presenti lunghe e profonde fenditure[4], per non dire che sembri pronto a crollare, anche grazie ai colpi infertigli da una coraggiosa ed intraprendente giurisprudenza di matrice europea, verso la quale volge lo sguardo una sensibile giurisprudenza di diritto interno[5].
È interessante notare come la tesi di questa dottrina sia molte volte argomentata astraendo dal quadro costituzionale. La qual cosa, invero, si capisce (ma, a mia opinione, non si giustifica), sol che si pensi che storicamente la contrapposizione tra i modelli suddetti ha avuto modo di affermarsi in contesti ai quali risultava estranea la rigidità della Costituzione.
Altri autori, di contro, si fanno portatori di un indirizzo (non dico opposto ma) diverso, prefigurandosi dunque un esito assai lontano da quello patrocinato dalla Consulta con la decisione in commento. Una speciale attenzione, in particolare, mi pare debba prestarsi all’opinione[6], secondo cui il vincolo discenderebbe in modo diretto, obbligato, dal principio di eguaglianza. Con molto buon senso e in modo franco, quest’a. pone un inquietante quesito, che chiama il giudice, ogni giudice, a misurarsi con la propria coscienza: chi mai – ci si chiede – si discosterà dal nuovo indirizzo della Cassazione e condannerà coloro che, per quest’ultimo, meriterebbero piuttosto di andare assolti?
Come si vede, qui si scivola dal piano delle condizioni a quello del fondamento, la questione ambientata all’uno naturalmente e necessariamente convertendosi e risolvendosi nella questione posta all’altro.
Condivido l’esito ma mi pare che si possa dire ancora qualcos’altro a suo sostegno.
Del fondamento, infatti, si può, a mia opinione, ragionare da due angoli visuali diversi e in relazione a due punti parimenti diversi, avuto riguardo alla situazione di fatto ed ai valori da essa implicati.
Facciamo, solo per un momento, un passo indietro, chiedendoci perché mai il vincolo dovrebbe avere carattere autoriflessivo.
Qui, il discorso rischia di farsi troppo lungo, rimandando ad antiche e cruciali questioni la cui adeguata considerazione non può essere racchiusa e – vorrei dire – banalizzata nelle poche righe di una scarna riflessione. Mi limito solo a dire che il rispetto del precedente da parte dello stesso giudice non è affatto – come invece comunemente si pensa – tratto esclusivo e distintivo delle esperienze processuali di common law (ancora una di quelle fenditure cui facevo cenno poc’anzi…). Piuttosto, esso rimanda all’essenza stessa dello jus dicere, alla sua caratterizzazione rispetto all’attività di produzione normativa, cui sono tipicamente preposti gli organi della direzione politica. Questi ultimi possono infatti, volendo, cancellare con un colpo di spugna quanto dapprima da loro stessi scritto sulla lavagna in cui sono rappresentati i testi di legge, proprio perché decisori politici e sempre che, ovviamente, si conformino ai parametri ed ai vincoli discendenti da norme superiori indisponibili. Non devono, per la tesi tradizionale[7], dare alcuna motivazione di ciò che fanno; o, meglio, la motivazione è insita nell’attività svolta e traspare dagli enunciati (l’obbedienza al canone della ragionevolezza, poi, è fuori discussione, per quanto risulti circondato da un alone di intrinseca, non superata e non superabile, vaghezza). Di contro, il giudice è sempre tenuto a rendere conto di ciò che fa e del perché lo fa; e, già solo per ciò, la sua attività è soggetta ad un vincolo, ad un freno, cui – sempre a stare all’opinione tradizionale – non va invece incontro l’attività del legislatore.
Il giudice è obbligato a dare certezza del diritto e certezze ai diritti; e può farlo ad una sola condizione: che renda prevedibile il proprio operato, appunto alla luce dei precedenti.
Quand’è, allora, che il giudice è legittimato a discostarsi da se stesso o, diciamo pure, a contraddirsi? La risposta è semplice, secca: mai.
È solo un’apparenza (una sorta di effetto ottico) quella (o quello) che si ha in presenza di un “mutamento” di giurisprudenza. In realtà, il giudice può (ed anzi deve) battere strade diverse da quelle precedentemente percorse, ogni qual volta però si sia in presenza di una diversa “situazione normativa”, come a me piace, ormai da quasi un quarto di secolo, chiamarla[8]. Con una corta espressione, può dirsi che il vincolo vale rebus sic stantibus. Alle volte, è sufficiente un mutamento non già di diritto, di disciplina giuridica, bensì di mero fatto, negli elementi o condizioni a contorno, per caricare di significati nuovi un enunciato dapprima diversamente letto; e gli esempi, ovviamente, potrebbero farsi col moltiplicatore[9].
In congiunture siffatte, non mi parrebbe appropriato discorrere di un “mutamento” di indirizzo giurisprudenziale[10], termine che evoca l’idea della sia pur parziale continuità[11]. Direi, piuttosto, che si è in presenza di un indirizzo nuovo, legittimamente e doverosamente nuovo, siccome chiamato ad assecondare un’alterazione sostanziale di quadro, conformandosi pertanto ad una “situazione normativa” parimenti nuova, nel segno della discontinuità insomma.
L’esito suona quasi paradossale, perlomeno a stare entro la cornice teorica disegnata alla Consulta con la decisione in commento: v’è, o meglio dovrebbe esservi[12], una maggiore stabilità nella giurisprudenza rispetto alla legislazione, proprio perché l’una ha il vincolo della motivazione, di cui l’altra è invece priva e proprio perché il legislatore dispone del potere, politico nella sua ristretta e propria accezione, di sradicare in ogni tempo dal terreno dell’ordinamento, dove – come si vede – non è conficcata con buone e salde radici, la pianta legislativa; un potere di sradicamento di cui sono, come si sa, strutturalmente privi i giudici[13].
Sta tutta qui – se ci si pensa – l’essenza della separazione dei poteri, la sua perdurante, ineliminabile attualità. Al piano della teoria delle fonti, essa si specchia nella nota distinzione, per la quale la scienza costituzionalistica nutre un debito ancora non del tutto assolto nei riguardi del magistero di Vezio Crisafulli[14], tra disposizione e norma. È del legislatore forgiare gli enunciati, le disposizioni appunto; del giudice e dei pratici in genere, le norme. L’uno non può mai, per suo limite invalicabile, passare dal piano al quale istituzionalmente si muove a quello su cui tipicamente si svolge l’ufficio del giudice, e viceversa. Persino quando dà vita ad una legge d’interpretazione autentica, il legislatore non può infatti prendere il posto del giudice, dal momento che deve limitarsi a confezionare nuovi enunciati, a loro volta comunque soggetti – come si sa – ad interpretazione.
Non è tuttavia unicamente al solo piano del “fatto”, del raffronto tra “situazioni normative”, che possono valutarsi in modo appropriato queste vicende e cogliersene i tratti più immediatamente espressivi. Lo sguardo ha da volgersi, simultaneamente e congiuntamente, oltre che verso il basso, l’esperienza, con l’umanità dolente che in essa reclama giustizia per diritti inappagati, anche verso l’alto, la Costituzione e i suoi valori, da cui sola può attingersi la luce che consenta di mettere a fuoco in modo adeguato il “fatto” stesso.
La sensibile dottrina cui ho fatto poc’anzi richiamo sollecita – come si diceva – a tener conto dell’eguaglianza[15]. Ma non c’è però solo questa. L’eguaglianza – è stato dimostrato con fini argomenti da altra dottrina[16] – fa tutt’uno con la libertà, entrambe alimentandosi e rigenerandosi semanticamente a vicenda. I veri principi fondanti l’ordine repubblicano sono quelli espressi, con formule che ad oggi considero mirabili, dagli artt. 2 e 3 della Carta[17]; gli altri principi sono quodammodo rispetto a questi serventi o, comunque, da essi implicati, componendo essi la coppia assiologica in cui nel modo più immediato e fedele si specchia la dignità della persona umana: l’unico, vero Grundwert (o, in termini kelseniani, la Grundnorm) dell’ordinamento, anche nelle sue proiezioni esterne, vale a dire nei rapporti con altri ordinamenti o sistemi di norme, quali quelli che fanno capo alle Carte dei diritti[18].
Dove va a parare questo discorso, che potrebbe apparire meramente astratto e, forse, pure banale?
Riferito al caso nostro, esso porta a riconoscere una peculiare capacità di vincolo ai “mutamenti” – se vogliamo seguitare a chiamarli così – di giurisprudenza della Cassazione, avuto specifico riguardo a quelli che attengono alla libertà della persona nel suo fare tutt’uno con l’eguaglianza. Forse, si dirà, non appare corretto che il vincolo stesso sia accostato in tutto e per tutto a quello che tipicamente discende dagli atti legislativi. E sia. Resta nondimeno il fatto che la Cassazione, al pari per questo verso di ogni altro giudice, se vuol dare – come deve – certezze (di diritto in senso oggettivo e di diritti soggettivi), è obbligata a restare coerente con se stessa, rebus sic stantibus, restando cioè immutata la “situazione normativa” in presenza della quale emette i propri verdetti.
E gli altri giudici?
Libertà ed eguaglianza, a mia opinione, non lasciano loro scampo. Perché sono il solo terreno su cui possono in modo appropriato svolgersi i bilanciamenti di ordine assiologico, il punto fermo da cui essi si tengono, pur nella strutturale, incessante mobilità delle combinazioni di valore e dei relativi esiti. Ancora la dottrina poc’anzi richiamata ha fatto, in altra occasione[19], efficacemente notare che la dignità non è un diritto o un valore “bilanciabile” al pari di ogni altro bensì la “bilancia” su cui si dispongono i beni bisognosi di ponderazione. Una conclusione, questa, che è, a mia opinione e malgrado il diverso orientamento manifestato da altri studiosi[20], da tenere ferma, sempre.
Dunque, non qualunque giudicato può “saltare” per effetto di un sopravveniente indirizzo interpretativo del giudice della legittimità; la stella polare che consente di discernere caso da caso è la dignità, al cui ottimale appagamento si volge la ricerca, non di rado affannosa e sofferta, che porta a fissare ogni volta il più in alto possibile, alle condizioni oggettivamente date (in relazione cioè alla singola “situazione normativa”), il punto di sintesi dei valori in campo.
Chi patrocina una soluzione diversa è obbligato – a me pare – ad interrogarsi su cosa vuol fare della dignità della persona, qual è l’ordine assiologico in cui si riconosce, quale l’idea di Costituzione di cui vuol farsi portatore ed alla quale comunque restare fedele.

 

[1] … e che ho avuto modo di rappresentare nel mio Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale (“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012), in www.diritticomparati.it, 15 ottobre 2012, e www.giurcost.org, 16 ottobre 2012.

[2] Più in genere, le difficoltà che ostano al reciproco accostamento, oltre una certa misura, dei varî modelli ed esperienze processuali hanno costituito oggetto, dal peculiare angolo visuale della giurisprudenza costituzionale, di ripetute analisi che vi sono state dedicate dal Gruppo di Pisa (in particolare, v. i contributi di AA.VV. che sono sotto i titoli I principi generali del processo comune ed i loro adattamenti alle esperienze della giustizia costituzionale, a cura di E. Bindi - M. Perini - A. Pisaneschi, Torino 2008; Il diritto penale nella giurisprudenza costituzionale, a cura di E. D’Orlando e L. Montanari, Torino 2009, e I modelli processuali nella giurisprudenza costituzionale, a cura di G. Serges, Torino 2010).

[3] Sopra tutti, P. Carnevale, Il caso delle leggi contenenti clausole di “sola abrogazione espressa” nella più recente prassi legislativa. Per un tentativo di rimeditazione organica anche alla luce della problematica degli autovincoli legislativi, in AA.VV., Le trasformazioni della funzione legislativa. I “vincoli” alla funzione legislativa, a cura di F. Modugno, Milano 1999, 3 ss. e, dello stesso, più di recente, Dialogando con Franco Modugno sul fondamento dell’abrogazione e … dintorni, in Studi in onore di Franco Modugno, I, Napoli 2011, 581 ss., spec. 599 ss.

[4] La più avvertita dottrina ha da tempo e con stringenti argomenti fato notare come la linea divisoria tra i due modelli si faccia sempre più sfumata e tolleri frequenti e rilevanti passaggi da una parte all’altra (per tutti, A. Pizzorusso, Delle fonti del diritto2, Bologna-Roma 2011, spec. 710 ss.).

[5] Leggo in questa prospettiva la pregevole ordinanza del tribunale di Torino, sez. giudici per le indagini preliminari, del 30 gennaio 2012 (a firma S. Recchione), relativa ad un caso del tutto analogo a quello che ha costituito oggetto della pronunzia del giudice delle leggi qui annotata [in argomento, ora, V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 19 ottobre 2012, ed ivi, 5 in nt. 12, ulteriori richiami di lett.]. In essa il mutato indirizzo della Cassazione è subito portato ad effetto, specie facendo leva sull’argomento, attinto dalla giurisprudenza europea, secondo cui il novum giurisprudenziale fa tutt’uno con l’enunciato normativo al quale si riferisce, dando pertanto vita ad un unicum inscindibile nelle sue parti.

[6] … ancora di recente patrocinata da F. Viganò, nella sua Nota introduttiva allo scritto sopra cit. di V. Napoleoni.

[7] … una tesi che pure meriterebbe di essere nuovamente discussa, ma in un luogo a ciò espressamente dedicato.

[8] Ho iniziato a discorrerne nel mio Le attività “conseguenziali” nei rapporti fra la Corte costituzionale e il legislatore (Premesse metodico-dogmatiche ad una teoria giuridica), Milano 1988, 55 ss., precisando e mettendo quindi a punto il concetto in più studi successivi.

[9] Si pensi solo a quanto abbia inciso, e quotidianamente incida, lo sviluppo scientifico e tecnologico nella riconsiderazione di enunciati costituzionali e testi normativi in genere anche molto risalenti, i mutamenti del contesto obbligando a rileggerli in modi inusuali.

[10] Con riguardo al nostro caso, rivisto però da una prospettiva diversa da quella qui adottata ed a finalità ricostruttive parimenti non coincidenti, anche V. Napoleoni, Mutamento di giurisprudenza in bonam partem, cit., § 5, giudica improprio qualificare come “mutamento” l’indirizzo venutosi a formare presso la Cassazione.

[11] Esattamente, allo stesso modo con cui nel segno della continuità si presentano le revisioni della Carta costituzionale che di quest’ultima lasciano nondimeno integra l’essenza, consentendole appunto di trasmettersi sempre identica a sé nel tempo, pur nella riscrittura dei suoi disposti e nei limiti alla stessa segnati.

[12] Non sono infatti così ingenuo da non sapere come vanno non di rado le cose nell’esperienza. La circostanza però che essa si discosti dal modello nulla toglie alla validità di quest’ultimo ove si ammetta – come devesi – che esso risponda a principi di struttura dell’ordinamento.

[13] La sola eccezione a quest’esito teorico-ricostruttivo parrebbe esser data dalle pronunzie del giudice costituzionale, segnatamente – come si sa – da quelle ablative, usualmente assimilate, quanto agli effetti, agli atti legislativi (o, addirittura, “superlegislativi”), secondo un indirizzo teorico dalle nobili e salde ascendenze, che muove dal magistero kelseniano e perviene al nostro Calamandrei (e ad altri). Un’eccezione che è tuttavia, a mia opinione, meramente apparente, sol che si consideri la diversa, peculiare ed irripetibile, natura che è propria del tribunale costituzionale e che non ne consente l’accostamento a quella del giudice comune. È pur vero che, per prassi consolidata (diciamo pure, per consuetudine), si reputa cadere, con la norma specificamente fatta oggetto di sentenza di accoglimento, anche la disposizione che quella norma sostiene ed esprime: né più né meno, come si vede, di ciò che è proprio dell’abrogazione nominata. In altri luoghi (e, tra questi, nel mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Milano 1990, spec. 77 ss., ma passim), tuttavia, mi sono dichiarato fermamente avverso a quest’esito che: 1) fa della Corte costituzionale un organo d’interpretazione autentica (ma – si faccia caso – solo… a metà, non pure stranamente con riguardo alle pronunzie di rigetto) sia della Costituzione che, appunto, delle leggi, quasi che la norma desunta in sede di giudizio di costituzionalità sia l’unica sempre e comunque estraibile dalla disposizione; 2) opera una indebita assimilazione tra l’effetto di annullamento e l’effetto di abrogazione; 3) incide senza riparo sulla separazione dei poteri, assegnandosi ad un giudice, sia pure peculiare ma appunto “giudice”, un compito che dovrebbe considerarsi esclusivamente proprio del legislatore; 4) indebitamente converte la decisione su un oggetto puntualmente determinato (la norma, quale prospettata dal giudice a quo ovvero, in caso di sentenza interpretativa, per come riformulata dal giudice ad quem) in una estesa ad ogni altro possibile oggetto astrattamente riferibile alla disposizione data.

Come che sia di ciò, proprio perché la Corte è organo – come suol dirsi – di “chiusura” del sistema (tale essendo comunemente considerato in forza del disposto di cui all’art. 137, ult. c., secondo una sua lettura che però non tiene oggi conto dei vincoli ai quali la stessa Corte può andare incontro per effetto di non coincidenti pronunzie delle Corti europee), ancora di più avvalorata risulta la tesi che vuole le decisioni della Consulta sempre sorrette da un congruo apparato di motivazione ed esse per prime, dunque, obbligate a prestare ossequio ai propri precedenti, ferma la “situazione normativa” di partenza. Senza di ciò, non può esservi né certezza del diritto costituzionale né certezza dei diritti costituzionali.

[14] … del quale mi limito qui a rammentare la nota voce Disposizione (e norma), per l’Enc. dir., XIII (1964), 195 ss.

[15] V., nuovamente, lo scritto dietro cit. di F. Viganò.

[16] V., part., G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari 2009.

[17] … nel loro fare “sistema” coi principi restanti (e, segnatamente, per ciò che ha specifico riguardo alla tutela dei diritti, col principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale, di cui agli artt. 10 e 11, seguiti dal I c. dell’art. 117).

[18] Della dignità come valore “supercostituzionale” si discorre già in A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in AA.VV., Libertà e giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Angiolini, Torino 1992, 221 ss. (e in Pol. dir., 1991, 343 ss.). Ha di recente ripreso questa indicazione C. Drigo, La dignità umana quale valore (super)costituzionale, in AA.VV., Principî costituzionali, a cura di L. Mezzetti, Torino 2011, 239 ss. Sulla dignità, da ultimo, A. Pirozzoli, La dignità dell’uomo. Geometrie costituzionali, Napoli 2012.

[19] G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[20] … e, tra questi, M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare, a cura di G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e dell’eguaglianza, Napoli 2009, 1060 ss.


Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale

(“a prima lettura” di Corte cost. n. 230 del 2012)

Con la decisione fatta qui oggetto di talune scarne notazioni “a prima lettura” la Corte costituzionale, a mo’ di novella Penelope, mostra di voler tessere e sfilare, secondo occasionali convenienze, la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU; e lo fa attraverso un articolato ragionamento che contiene spunti plurimi di largo interesse, meritevoli di essere riguardati da angoli visuali parimenti plurimi ed a varie finalità ricostruttive. Riduttiva sarebbe tuttavia una conclusione che veda il quid proprium della pronunzia in esame circoscritta al solo piano delle relazioni tra le due Corti (o, se si preferisce, tra CEDU e diritto interno). In realtà, il ragionamento in parola va ben oltre ed affronta – riprendendo, con non secondarie precisazioni, schemi teorici collaudati (e però, temo, almeno in parte invecchiati) – questioni riguardanti la struttura stessa dell’ordinamento, le sue dinamiche interne, gli equilibri che si intrattengono e senza sosta rinnovano tra le istituzioni che lo compongono.

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Alla ricerca del retto significato dell’art. 53 della Carta dei diritti dell’Unione (noterelle a margine delle Conclusioni dell’avv. gen. Y. Bot su una questione d’interpretazione sollevata dal tribunale costituzionale spagnolo)*

Il caso è spinoso, per molti versi inquietante; francamente, non vorrei essere nei panni della Corte dell’Unione il giorno in cui sarà chiamata ad esprimere il proprio verdetto su di esso. Conciliare i diritti fondamentali dei singoli con l’interesse generale dell’Unione stessa è sempre assai problematico, anche perché – non si dimentichi – dietro l’interesse in parola stanno altri diritti, sia dei singoli che dell’intera collettività. Così è, appunto, nel caso nostro, dove a fronteggiarsi sono il diritto del condannato in absentia e l’interesse alla sicurezza, sotteso alla disciplina del mandato di arresto europeo.
Confesso un’impressione che ho subito avvertito, forte, a prima lettura delle Conclusioni cui si dirige questo breve commento; ed è che il caso, la posta in palio (dar seguito, o no, al mandato di arresto), abbia lasciato un segno sulla linearità del ragionamento svolto dall’avvocato generale Y. Bot, di solito – come si sa – stringente e largamente persuasivo. Non me ne sorprendo, tuttavia. In fondo è sempre (o quasi…) così. È però assai rischioso farsi prendere la mano dalla vicenda processuale, specie laddove – come qui – la posta in palio è costituita dall’interpretazione da dare ad un disposto normativo suscettibile di generale valenza, trattandosi di una metanorma provvista di una formidabile capacità di escursione di campo, siccome idonea a distendersi sopra ogni questione relativa ai diritti, alle forme della loro protezione, alla “intensità” della protezione stessa.
Qui, è il punctum crucis della questione oggi portata alla cognizione del giudice dell’Unione. Come si misura il “grado” di tutela apprestato da questo o quell’ordinamento e da questa o quella norma ad un diritto? Qual è, dunque, il criterio in applicazione del quale possa farsi luogo, senza soverchie incertezze ed approssimazioni, a siffatta misurazione? E ancora: chi è abilitato a stabilirla? E infine: il raffronto va circoscritto alle sole norme relative al singolo diritto di volta in volta in gioco (come non di rado sono portate a fare le Corti europee, specialmente quella di Strasburgo) ovvero all’intero sistema dei diritti (come, ad es., consiglia di fare Corte cost. n. 317 del 2009)?
Un grumo di questioni estremamente complesse; tanto più, se si pensa che, mentre le Carte dei diritti (la Carta di Nizza-Strasburgo al pari della CEDU o di ogni altra Carta) si fanno cura appunto dei soli diritti, le Costituzioni nazionali contemplano, unitamente ai diritti stessi, altri beni o valori, non di rado bisognosi di comporsi coi primi a mezzo di complesse operazioni di ponderazione assiologica, all’esito delle quali si rende possibile (alle volte, per vero, solo in parte) conseguire sintesi giuridicamente apprezzabili.
Le notazioni appena svolte spiegano come possa essere legittimamente diverso il punto di vista rispettivamente adottato dalle Corti europee e dalle Corti nazionali: per le une, il “sistema” si riduce ai soli diritti consacrati dalle Carte di cui esse sono chiamate a farsi garanti, ferma restando la considerazione che va comunque prestata anche ad altri documenti normativi, cui le Carte stesse fanno espresso richiamo (la Carta dell’Unione rimanda, come si sa, alla CEDU, così come questa a quella, ed entrambe alle Costituzioni nazionali); per le Corti nazionali, di contro, il “sistema” si compone altresì di beni della vita che diritti non sono (perlomeno, in ristretta accezione), beni dei quali va nondimeno tenuto conto. È poi vero che nessun enunciato può, metodicamente, essere correttamente inteso nel “chiuso” del sistema positivo di appartenenza: i sistemi sono ormai a tal punto reciprocamente intrecciati da rendersi impossibile, se non col costo di palesi forzature, alcuna operazione di ricognizione semantica di un enunciato che non faccia, a un tempo, capo ad altri enunciati, quale che sia la fonte, interna ovvero esterna, che li esprime. È persino banale dover qui nuovamente insistere sul rapporto di mutua alimentazione semantica che senza sosta s’intrattiene tra le Carte (e perciò, in buona sostanza, sul mutuo soccorso che si danno le Corti); eppure, gli svolgimenti argomentativi presenti nelle Conclusioni cui si dirigono queste notazioni e, prima ancora, l’impostazione metodica che li sorregge obbligano a far riferimento a concetti che ormai appartengono al comune bagaglio culturale di studiosi ed operatori. Del tutto assente dall’orizzonte preso di mira da Y. Bot sembra invero essere il rilievo che va comunque assegnato alle Costituzioni nazionali al fine della opportuna messa a punto dei significati della Carta dei diritti dell’Unione. Trovo singolare, davvero stupefacente, l’affermazione fatta al punto 84 delle Conclusioni, laddove Bot, discostandosi da un indirizzo più volte avvalorato dalla giurisprudenza dell’Unione, enuncia il convincimento che “la Corte non possa fondarsi sulle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri per applicare un livello di protezione più esteso”; e singolare è altresì la motivazione addotta a sostegno di quest’idea.
Per un verso, si fa richiamo alla circostanza per cui la decisione-quadro 2009/299 è “frutto dell’iniziativa di sette Stati membri” ed è “stata adottata dalla totalità di essi”: come dire che un atto politico sovranazionale, frutto di una decisione parimenti politica che ha visto la convergenza della volontà degli Stati, è condizione necessaria e sufficiente della ricognizione di una “tradizione costituzionale comune”, senza che allo scopo si dia o possa darsi rilievo alcuno all’orientamento dei giudici, specie di quelli che, a motivo della loro natura costituzionale, sono elettivamente chiamati a definire e mettere costantemente a punto quelle tradizioni e, alla bisogna, sanzionare gli atti politico-normativi che non vi si conformino.
Per un altro verso, poi, il rigetto dell’idea, problematicamente avanzata dal tribunale rinviante, favorevole alla presa in considerazione delle norme interne al fine di stabilire dove si appunti la più “intensa” tutela ai diritti è argomentato con un sibillino richiamo al “contesto”, rilevandosi (punto 110) che siffatta considerazione “equivarrebbe, di conseguenza, a ignorare che la determinazione del livello di protezione dei diritti fondamentali da conseguire dipende strettamente dal contesto nel quale essa viene compiuta”. Un’affermazione persino banale (chi ha mai negato il peso del “contesto” – salvo a precisare come quest’ultimo vada inteso – in sede di ricognizione semantica degli enunciati?), che nondimeno non si capisce perché mai debba sempre e comunque (verrebbe da dire: per sistema) risolversi nella considerazione del diritto dell’Unione come “chiuso” in se stesso, in modo autoreferenziale. Piuttosto, anche sotto questo profilo le cose parrebbero andare diversamente; e, a seconda della posta in palio, il richiamo al “contesto”, in ispecie a quello nazionale, può rivelarsi prezioso, conducente al fine della determinazione della norma o del “sistema” di norme in cui si appunta la più “intensa” tutela. D’altro canto, proprio al contesto spagnolo lo stesso Bot volge opportunamente lo sguardo, nel fare preciso riferimento ai fatti di causa…
Il vero è che all’autore delle Conclusioni preme dimostrare che ciò che solo conta è quanto è stabilito dal diritto dell’Unione: la tutela più “intensa” è, e non può che essere, quella offerta da quest’ultimo, senza alcun riguardo per un’eventuale, diversa tutela stabilita a livello nazionale, la quale potrebbe acquistare rilievo nel solo caso – dice Y. Bot – che a livello di Unione non si dia una definizione del grado di protezione che dev’essere accordata a un certo diritto (punto 124 ss.).
Qui, si tocca con mano quanto si segnalava poc’anzi a riguardo del non coincidente punto di vista che potrebbe essere, legittimamente, adottato in ambito europeo e in ambito nazionale. Il timore nutrito da Bot è che, all’esito del confronto col diritto interno, il diritto “eurounitario” – come a me piace chiamarlo – possa uscirne perdente, venendo pertanto meno il principio del primato del diritto sovranazionale, interamente soppiantato dal primato dell’ordinamento nazionale (v., spec., al punto 97). Dall’angolo visuale di quest’ultimo ordinamento, di contro, un uguale esito non potrebbe che portare all’attivazione dei “controlimiti”, facendosi dunque “non applicazione” del diritto eurounitario che offra una tutela meno avanzata (altra cosa è se la messa da canto del diritto sovranazionale consegua di necessità al previo accertamento da parte del giudice delle leggi ovvero se possa, perlomeno in taluni casi, subito aversi da parte del giudice comune; ma, di ciò in altra sede). Naturalmente, è vero anche l’inverso; e in non pochi casi potrebbero rinvenirsi norme sovranazionali che, persino in deroga rispetto a principi fondamentali di diritto interno, offrano una miglior tutela a libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità, dov’è la giustificazione e il fine degli stessi principi che stanno a fondamento sia dell’ordine positivo interno che del diritto sovranazionale: si rammenti, per tutti, il caso Omega). La qual cosa, come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi, dimostra che ragionare in astratto – come fanno dottrina e giurisprudenza corrente – di “controlimiti”, sempre e comunque opponibili all’ingresso in ambito interno di norme dell’Unione, è cosa priva di senso alcuno, non escludendosi – come si viene dicendo – il caso che si diano norme di origine esterna incompatibili con questo o quel principio costituzionale e tuttavia parimenti bisognose di essere portate ad applicazione, sempre che – è questa l’unica condizione che ne giustifica il vigore in ambito interno – si dimostrino appunto “coperte” dai principi di libertà ed eguaglianza, in ragione del caso ed alla luce della sua considerazione nel “contesto”. E, poiché da tali principi potrebbero essere altresì “coperte” norme nazionali incompatibili con norme di origine esterna, ecco che alla fin fine si tratta di far luogo ad operazioni di bilanciamento su basi assiologicamente connotate ed a carattere interordinamentale, stabilendosi di volta in volta dove si appunta la più adeguata tutela ai diritti in campo.
Per altro verso, l’eventualità che a Bot incute timore, secondo cui il diritto dell’Unione potrebbe non sempre ed in ogni sua parte ricevere uniforme applicazione nei territori degli Stati membri, è per tabulas riconosciuta in uno dei principi fondanti l’ordine “eurounitario”, laddove si fa carico all’Unione stessa di mostrarsi appieno rispettosa delle identità costituzionali di ciascuno Stato membro (art. 4 TUE). Come mi è venuto di dire altrove, la qual cosa equivale a dire che i “controlimiti” sono ormai da considerare quodammodo “europeizzati”, il principio del primato del diritto dell’Unione considerandosi pertanto, dal punto di vista dell’Unione stessa, condizionato al rispetto dei principi di base dell’ordinamento di ciascun Stato membro. Ma, ci si consoli: per strano che possa, per più versi, apparire, la stessa Costituzione è una fonte sub condicione, potendo per sua stessa ammissione – ancora un richiamo ai principi di libertà ed eguaglianza – trovare applicazione unicamente laddove sia in grado di dimostrare di dare una più “intensa” tutela rispetto a quella offerta da altre Carte.
Ancora una volta, s’impone dunque una lettura a tutto campo dei principi che stanno a base dell’ordinamento dell’Unione, il principio del primato essendo obbligato a fare “sistema” col principio (nazionale ed “eurounitario” a un tempo) dell’integrale, incondizionato rispetto delle identità costituzionali degli Stati membri. Se ne ha che quello che Y. Bot vede come un male da fugare ad ogni costo, vale a dire la “creazione di un sistema a geometria variabile” (punto 103), può e deve, all’inverso, esser visto come un’autentica risorsa da preservare e trasmettere: perlomeno, laddove appunto riferita ai principi costitutivi dell’identità dei singoli Stati, non già ovviamente a norme che quell’identità non danno. Qui, sarebbe da fare un lungo ed articolato discorso a riguardo dei modi e delle sedi giuste in cui far luogo al riconoscimento dei principi in parola, in ispecie se esso esclusivamente competa ai soli organi nazionali (e, per questa ipotesi, a quali: solo ai tribunali costituzionali? Anche ai giudici comuni? Ora agli uni ed ora agli altri, a seconda dei casi?). Ma, di ciò nulla può ora dirsi.
Frutto di una riduttiva (e, forse, pure, a dirla tutta, distorta) visione dei rapporti tra le Carte (e gli ordinamenti in genere) è poi il rilievo secondo cui dar fiato ad un’interpretazione dell’art. 53 della Carta dell’Unione, quale quella sia pur problematicamente prospettata dal tribunale spagnolo, nel senso che in tale disposto sarebbe fissato unicamente uno standard minimo di tutela suscettibile d’innalzamento in ambito interno, per ciò solo comporterebbe un’incisione del principio della certezza del diritto (punto 104). Il richiamo alla certezza è, come si sa, per vero ricorrente, nell’ordine sovranazionale così come in quello interno, e non di rado caricato d’indebite valenze, che si fanno talvolta riportare ad un’idea mitica e quasi sacrale della certezza stessa, che pure – non si dubita – è valore fondamentale e però, al pari di ogni altro valore, soggetto a bilanciamento. Se n’è avuta, ancora non molto tempo addietro, palmare conferma ad opera della nostra giurisprudenza proprio sul terreno delle relazioni intersistemiche (e, segnatamente, delle relazioni tra diritto interno e diritto CEDU). Dichiarando esser possibile (ed anzi doveroso) il superamento del giudicato anticonvenzionale in presenza di pronunzie della Corte EDU che lo accertino, la Consulta sembra dare ad intendere di voler posporre la certezza del diritto, sottesa al giudicato stesso, alla certezza dei diritti (sent. n. 113 del 2011). In realtà, a mio modo di vedere, questa contrapposizione tra una certezza in senso oggettivo ed una in senso soggettivo è palesemente forzosa. La storia delle Costituzioni di tradizioni liberali sta tutta qui sotto i nostri occhi ad ammaestrarci che l’unico significato possibile della certezza del diritto è nella sua congenita vocazione a naturalmente convertirsi ed interamente risolversi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela: quella senza questa non è niente, con questa è tutto (si rammenti il magistrale, attualissimo insegnamento consegnatoci dai rivoluzionari francesi e lapidariamente espresso nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789).
Nel momento in cui una Carta costituzionale (in accezione materiale, siccome riferita ad ogni Carta, interna o esterna, che dia riconoscimento ai diritti) si piega davanti ad altra Carta, assumendo che in essa è la più “intensa” tutela, si dà a un tempo appagamento, il massimo consentito alle condizioni oggettive di contesto, alla certezza del diritto e alla certezza dei diritti ed anzi si assiste alla loro stessa immedesimazione. Solo così, come mi sono sforzato di mostrare in altri luoghi, la certezza del diritto realizza appieno se stessa, la propria incontenibile vocazione a salvaguardare libertà ed eguaglianza, nelle mutue, inscindibili implicazioni che tra di esse s’intrattengono: la coppia assiologica fondamentale che sta a base sia di un ordinamento autenticamente costituzionale e sia pure delle sue relazioni con altri ordinamenti parimenti costituzionali.
La certezza del diritto, insomma, non è preservata con la chiusura, che – mi si consenta di dire con franchezza – giudico sterile e persino insensata, di un sistema di norme relativo ai diritti rispetto ad altro sistema. Proprio l’idea di “sistema” verrebbe, infatti, senza riparo pregiudicata nel momento in cui dovessero sbarrarsi le porte al servizio che può esser dato ab extra a presidio dei diritti. Nella presente congiuntura, caratterizzata da una integrazione sovranazionale ormai avanzata, il sistema è perciò – se così può dirsi –, per sua natura, “intersistematico”, al pari della Costituzione che o è una “intercostituzione” oppure semplicemente non è.
Su ciò, se ci si fa caso, converge il punto di vista sia delle Carte europee che della Carta costituzionale. V’è di più. Le une Carte non soltanto si fanno – come si rammentava poc’anzi – esplicito rimando a vicenda ma fanno altresì rimando alla tutela apprestata ai diritti dalle Costituzioni nazionali. Queste ultime, poi, non sempre menzionano in modo esplicito le Carte europee; ciononostante, il riferimento ad esse può con sicurezza desumersi dai principi di libertà ed eguaglianza (e, risalendo, dignità), nel loro fare “sistema” col principio dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale. Così, è appunto da noi; e a darcene sicura conferma è una risalente (e però non datata) giurisprudenza, che in un suo felicissimo e noto passo segnala che la Costituzione e le Carte internazionali dei diritti “si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”. Una giurisprudenza alla quale invero non è stato, a mia opinione, dato da parte della giurisprudenza successivamente venuta a maturazione quel lineare svolgimento che avrebbe richiesto, ponendosi tuttavia egualmente quale sicuro punto di riferimento al piano delle relazioni interordinamentali, specie nella presente congiuntura caratterizzata dall’infittirsi dei vincoli di solidarietà alla cui osservanza gli Stati sono chiamati dall’Unione e dalla Comunità internazionale.
Ora, questo discorso può apparire duro da digerire – ne convengo – a quanti seguitano a guardare con malcelato “nazionalismo” o “patriottismo” costituzionale alla Carta dei diritti dell’ordinamento di appartenenza, nel suo porsi davanti (o sopra…) ogni altra Carta: sia esso l’ordinamento interno e sia pure, appunto, quello “eurounitario” o quello convenzionale. Si tratta però di un atteggiamento mentale a mio modo di vedere contestabile in radice, al piano metodico ancor prima che a quello teorico-ricostruttivo, che risente – mi si consenta di esprimermi con franchezza – di una sorta di trasporto emotivo incontrollabile: un atteggiamento, cioè, comprensibile alla luce di una tradizione culturale fortemente radicata ed invero ancora oggi non poco diffusa, e tuttavia – come qui pure si è venuti dicendo – in alcun caso o modo ormai più giustificabile. E ciò, ove si convenga – come devesi – che del DNA dell’ordinamento di volta considerato fa parte integrante il principio fondamentale dell’apertura, in via “sussidiaria”, agli altri che, a motivo del riconoscimento in essi ugualmente dato ai diritti, entrano pertanto a comporre la struttura stessa dell’ordinamento richiamante, senza per ciò veder rinnegata la propria origine ovvero smarrita o, come che sia, incisa la propria identità, che, all’inverso, ne risulta vieppiù valorizzata, siccome idonea a fecondare beneficamente pratiche ed esperienze di diritto formatesi in luoghi diversi da quello di provenienza.
È un discorso, poi, che si rivela essere ancora più duro da digerire con riguardo a talune vicende processuali, quale quella che ha dato lo spunto a queste sparse e disorganiche notazioni, nelle quali si fa questione di apprestare tutela a beni della vita nel tessuto sociale profondamente avvertiti.
Quando però si ragiona attorno al modo migliore, a quello giusto, con cui Costituzione e Carte dei diritti si pongono l’una davanti alle altre e tutte assieme fanno “sistema”, non possono farsi sconti teorici, patrocinandosi soluzioni ricostruttive preorientate in forza di occasionali convenienze, pur se meritevoli della massima considerazione. Il rischio, infatti, come si avvertiva dianzi, è quello della eterogenesi del fine, vale a dire che, imboccata la strada sbagliata, questa possa poi rivelarsi senza uscita e senza neppure possibilità di ritorno, in relazione ai casi in cui si faccia questione della salvaguardia di diritti o beni della vita diversi da quello con riguardo al quale si è formato (o, meglio, potrebbe formarsi) un indirizzo preclusivo di quel “dialogo” interordinamentale che invece è la linfa vitale che dà modo sia alla Costituzione che alle Carte dei diritti (e perciò, in buona sostanza, alle rispettive Corti) di alimentarsi e rigenerarsi senza sosta, offrendosi al servizio dei bisogni elementari e più intensamente avvertiti dell’uomo.
* Il riferimento è alle Conclusioni relative alla causa C-399/11 (in materia di mandato di arresto europeo), presentate il 2 ottobre 2012, alla cui data questo commento è aggiornato.


Amleto a Strasburgo, post scriptum

Nel suo post, dal titolo Il tratto (in)umano della giurisprudenza della Corte dei diritti umani?, Roberto Conti, profondo conoscitore e sensibile studioso della giurisprudenza europea, svolge alcuni rilievi che sollecitano un’attenta valutazione, sia per gli argomenti che per i riferimenti addotti a loro sostegno. Conti ha ragione da vendere quando rileva in partenza del suo articolato e fine ragionamento la necessità di “filtri” per la Corte di Strasburgo chiamata a gestire domande vieppiù numerose e pressanti che provengono da territori anche molto distanti tra di loro, espressivi di culture parimenti varie e differenziate.

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Amleto a Strasburgo, ovverosia la Corte EDU allo specchio: essere o non essere “giudice”?

Andrea Buratti, nel suo post dal titolo Strasburgo, scortesie per gli ospiti, apparso il 18 giugno ’12 su www.diritticomparati.it, offre un quadro edulcorato di una questione cruciale, che va acuendosi sempre di più e che, alla fin fine, rischia di rimettere in discussione l’essenza stessa della giurisdizione europea, l’essere appunto la Corte EDU un… giudice. Una questione che, dunque, non è di mero galateo – come il garbato titolo dato da B. alla sua riflessione farebbe pensare – ma di struttura e funzione e, a conti fatti, di natura giuridica dell’organo cui i cittadini di ben 47 paesi europei affidano la loro ultima speranza di giustizia, di quella giustizia giusta che, per l’uno o per l’altro verso, reputano di non aver ottenuto entro i confini nazionali.

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La Corte costituzionale, i parametri “conseguenziali” e la tecnica dell’assorbimento dei vizi rovesciata (a margine di Corte cost. n. 150 del 2012)

Palese è l’obiettivo avuto di mira dalla pronunzia qui annotata “a prima lettura”, che è di guadagnare tempo, con la non recondita speranza che le questioni di costituzionalità originariamente proposte sulla legge 40 non siano quindi nuovamente portate al giudizio della Consulta. La tecnica processuale messa in atto allo scopo di centrare l’obiettivo appare essere alquanto originale e – diciamo pure – ardita, ma non per ciò – come si tenterà di mostrare – persuasiva.
La Corte si guarda bene dal dichiarare che la pronunzia della Grande Camera del novembre scorso sia, in tutto e per tutto, da assimilare allo ius superveniens; è, però, qualcosa che gli somiglia molto (se non pure nella natura giuridica) al piano degli effetti, tant’è che, al pari di ciò che si ha in presenza di norme sopravvenienti ed idonee ad alterare i termini della questione, esso giustifica appunto la restituzione degli atti alle autorità remittenti. La Corte non chiarisce in cosa propriamente consista il “fatto” nuovo costituito dal mutamento di giurisprudenza: si limita a qualificarlo come “un novum che influisce direttamente sulla questione di legittimità costituzionale così come proposta”. Poco prima, d’altronde, aveva rammentato quali sono i fattori determinanti la restituzione in parola, individuati in modifiche della norma costituzionale assunta a parametro ovvero della disposizione che integra il parametro stesso o, ancora, in “considerevoli modifiche” del “quadro normativo”. Insomma, la sopravveniente pronunzia della Corte EDU comporta pur sempre un’alterazione di “situazione normativa” – come a me piace chiamare l’oggetto del giudizio di costituzionalità –, in presenza della quale si giustifica (e, anzi, s’impone) una nuova verifica della rilevanza della questione da parte dei giudici remittenti.

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La Corte di giustizia marca la distanza tra il diritto dell’Unione e la CEDU e offre un puntello alla giurisprudenza costituzionale in tema di (non) applicazione diretta della Convenzione (a margine di Corte giust., Grande Sez., 24 aprile 2012)

Nel titolo dato a questa succinta riflessione sono descritti i due versanti lungo i quali può dispiegarsi l’indicazione di principio data dal giudice dell’Unione con la decisione ora annotata: quello dei rapporti tra l’Unione stessa e la CEDU e l’altro dei rapporti tra quest’ultima e il diritto interno, due versanti che poi finiscono con l’incontrarsi “a valle”, dal momento che è pur sempre nello stesso ordinamento interno che finiscono con lo scaricarsi talune tensioni che dovessero registrarsi “a monte”, al piano dei rapporti sovranazionali.
La pronunzia presenta non poco interesse sotto più profili; qui, mi soffermerò su uno solo di essi, quello evocato dal titolo stesso a riguardo della vessata questione concernente l’applicazione diretta della CEDU da parte dei giudici, per il caso che leggi nazionali vi contrastino. Sul punto, su cui a mio modo di vedere le Corti (quelle europee e quelle nazionali, Corte costituzionale in testa) dovranno tornare, specie a seguito della prevista adesione dell’Unione alla CEDU, non indugerò qui né a riassumere il pensiero del giudice delle leggi, a tutti noto, né gli argomenti addotti da quanti in esso, in maggiore o minor misura, non s’identificano: si va, infatti, dalla opinione di coloro che vorrebbero che ogni caso di antinomia sia risolto direttamente ed esclusivamente dai giudici comuni all’opinione di chi si dichiara dell’idea che alcuni casi possano essere trattenuti ai giudici stessi ed altri invece portati alla cognizione della Consulta (indicazioni in quest’ultimo senso possono, volendo, aversi dal mio Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in www.giurcost.org, 21 aprile 2012). Mi limiterò solo a ragionare sulle possibili implicazioni connesse alla presa di posizione del giudice dell’Unione e, perciò, su taluni scenari che potrebbero anche a breve delinearsi per effetto di essa, specie nella prospettiva dell’adesione dell’Unione stessa alla Convenzione.

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