La proposta di legge organica di amnistia in Spagna: un pasito pa’lante

Lo scorso 17 novembre il leader del Partido Socialista Obrero Español Perdro Sanchez ha prestato giuramento davanti al Re come Primo Ministro, dando vita al suo terzo governo.
La nomina arriva dopo mesi burrascosi di duro confronto politico e qualche azzardo strategico che a luglio ha portato alle urne gli spagnoli dopo lo scioglimento anticipato delle Cortes, voluto dallo stesso Sanchez all’indomani delle elezioni a livello comunitario. In quell’occasione si era registrata la flessione della sinistra e una crescita della destra, anche di quella estrema, assegnando al Partido Popular, per lo più in coalizione con Vox, il governo di diverse comunità autonome.
Come già accaduto in passato, l’atteggiamento del leader socialista, da molti considerato eccessivamente spavaldo, si è rivelato, alla fine, una mossa vincente, capace, al contempo, di limitare, almeno per il momento, l’ascesa dell’estrema destra e di confermare la propria investitura.
Infatti, nonostante a luglio il Partido Popular si fosse confermato il partito più votato, il declino di Vox, non ha permesso alle forze della destra spagnola di ottenere nelle Cortes l’appoggio necessario a formare il nuovo Esecutivo: mettendo in luce il progressivo isolamento del Partido Popular, nei fatti Alberto Feijóo poteva giocarsi solo la carta del possibile accordo con Siantiago Abascal di Vox, mentre va detto che dall’altra parte i socialisti avevano l’opportunità, divenuta poi opzione concreta, di ampliare la propria alleanza oltre la sinistra più radicale di Sumar, coinvolgendo le forze regionali e indipendentiste del Paese.
Non si tratta di una considerazione di poco conto: così facendo infatti, il partito socialista spagnolo ha dimostrato di essere, al momento, l’unico partito in grado di farsi promotore di un’azione politica al passo con i cambiamenti che negli ultimi anni hanno interessato il sistema dei partiti spagnolo, la cui progressiva frammentazione, seppur contenuta rispetto ad altre realtà, ha determinato significativi mutamenti per quel che concerne le dinamiche della forma di governo.
Oltre a Sumar, dunque, l’insediamento del nuovo Governo Sanchez ha potuto contare sull’appoggio dell’arco dei partiti nazionalisti, compresi i due partiti indipendentisti catalani, Esquerra Republicana (ERC) y Junts per Catalunya, la formazione guidata da Carles Puigdemont, riparatosi in Belgio dopo i fatti dell’ottobre del 2017.
Deve essere ricordato, d’altra parte, che si è trattato di un appoggio ottenuto a fronte di un patto di alleanza i cui termini hanno generato il forte dissenso di una parte dell’opinione pubblica, dal momento che puntano su un maggiore riconoscimento della specificità della nazionalità catalana, su una modifica del sistema di fiscalità della comunità e sul suo maggiore coinvolgimento a livello europeo e internazionale.
Ma a scatenare la dura opposizione della destra parlamentare e la reazione di tanti spagnoli nelle piazze è stata in particolare la decisone di vincolare l’appoggio dei partiti catalani alla concessione dell’amnistia per i delitti commessi nell’ambito del processo di indipendenza catalano, più comunemente denominato Procés.
Senza poter contare su altre armi politiche, sono stati i membri di Vox a infiammare il dibattito nelle strade dove qua e là sono comparse anche bandiere franchiste. Da parte loro i popolari hanno cercato di mantenere il più possibile un basso profilo, ma il fatto che tra loro non si sia levata nessuna voce significativa per condannare le violenze o prendere le distanze dagli atti di devastazione, la dice lunga sull’evoluzione del Partido Popular che stando dietro al suo unico potenziale alleato, Vox, si vede costretto in qualche modo a radicalizzarsi.
Lo scorso novembre è stata, dunque, presentata alle Cortes la proposta di Ley orgánica de amnistía para la normalización institucional, política y social en Cataluña, volta a estinguere la responsabilità penale, amministrativa, contabile per gli atti compiuti tra il 1° gennaio 2012 e il 13 novembre 2023 nell’ambito dell’organizzazione, promozione, svolgimento della consulta popolare del 9 novembre 2014 e del referendum indipendentista catalano del 2017.
Quando approvata, i benefici della legge potranno essere richiesti a istanza di parte e la giustizia dovrà pronunciarsi entro due mesi dalla domanda.
È probabile che l’iter legislativo giunga al termine dando vigenza a un provvedimento che secondo prime stime potrebbe beneficiare circa 400 persone tra politici, cittadini e agenti delle forze dell’ordine condannati o attualmente imputati per diversi reati tra cui quello di sedizione, più volte al centro di un ampio dibattito e infine oggetto di riforma con la legge organica n. 14/2022 entrata in vigore nel gennaio del 2023.
Nell’attesa dell’approvazione dell’amnistia, però, gli animi in Spagna non sembrano destinati a placarsi molto presto, mentre la questione ha varcato le frontiere, approdando davanti al Parlamento europeo, dove il plenum è stato chiamato a pronunciarsi sulla conformità dell’atto ai principi dello stato di diritto.
Difficile non confrontarsi con un certo grado di incertezza tentando di orientarsi nelle trame di questa vicenda che affonda le proprie radici nel passato, rimontando quantomeno al 2010 quando il Tribunal Contitucional spagnolo si pronunciò sulla legittimità dello statuto catalano approvato nel 2006 (STC 31/2010).
In particolare, non è possibile allo stato attuale stabilire se il Governo di Pedro Sanchez potrà davvero sostenersi sulle basi di questo accordo di investitura o se la richiesta di amnistia costituisca, come sostengono in molti, il primo gradino di una escalation di richieste di fatto insostenibili per l’Esecutivo. Le prime dichiarazioni di Puigdemont non fanno ben sperare, ma è davvero troppo presto per trarre delle valutazioni, ancorché provvisorie.
Non di meno, se è vero che, per ora non possiamo prevedere le sorti delle Cortes e dell’attuale Governo, restano possibili alcune considerazioni volte a valutare la bontà dell’atto di amnistia come azione politica a sé stante, tenuto conto che questo potrebbe conservare un suo valore e una sua utilità a prescindere dalle contingenze elettorali dell’attuale maggioranza di governo. Il nostro sguardo si sposta allora ad analizzare le potenzialità dell’atto di amnistia nell’ottica dell’interesse nazionale, già richiamato da Sanchez al momento di difendere la proposta di legge.
In questa prospettiva lo stato di incertezza tende quantomeno a dissiparsi. Infatti, dopo la consulta popolare del novembre del 2014 e dopo il culmine di tensione raggiunto con il referendum sull’indipendenza dell’ottobre del 2017 era difficile pensare che in Spagna si potesse tornare a tessere trame di unità senza ridare voce alla politica, che negli ultimi anni si era gradualmente riparata dietro l’azione dei giudici ordinari e costituzionali, abdicando al proprio compito di integrazione politica e gestione del conflitto.
Del resto, che la politica dovesse riprendere le redini della situazione era una consapevolezza con cui la Spagna aveva già dovuto confrontarsi quando nel giugno del 2021 il Consiglio dei ministri, presieduto dallo stesso Pedro Sanchez, aveva approvato i decreti per la concessione dell’indulto a nove dei condannati per i reati di malversazione e sedizione, commessi in Catalogna in occasione della organizzazione e realizzazione del referendum indipendentista del 1° ottobre 2017.
È chiaro che ora ci troviamo di fronte a un atto giuridico di respiro generalizzato e di ben più alta portata politica, ma è altrettanto vero che si tratta di un atto essenziale, capace di porre nuovamente al centro delle tensioni tra Madrid e Barcellona le relazioni di governo, a partire da prospettive assai diverse rispetto agli ultimi anni.
L’amnistia, infatti, è un atto inesorabilmente proiettato al futuro: un futuro che si intende costruire “nonostante” i fatti del passato, piuttosto che “su” fatti del passato. Con essa, del resto, non si rinuncia affatto a esprimere un giudizio di disvalore rispetto a un comportamento; si rinuncia solo alla sua punizione, per favorire l’emersione di nuove strade attraverso le quali provare a consolidare l’unità del corpo sociale a partire da nuove basi, dal momento che, nel caso specifico della Spagna, quelle precedenti sono venute meno o sono state profondamente contaminate dal dibattito e dagli eventi sino a divenire tossiche.
La fermezza nel punire avrebbe manifestato il desiderio di costruire il futuro del Paese a partire dai medesimi presupposti che hanno prodotto la crisi. La rinuncia alla punizione (una volta ribadito il disvalore dell’atto) è, invece, prova della volontà di dare vita a un nuovo progetto politico condiviso. Si vedrà solo in seguito se questo è davvero possibile.
Il caso spagnolo sembra ricordarci che il bisogno di pacificare la società non può soccombere di fronte al desiderio di castigare, di fronte a pulsioni giustizialiste, all’emotività. Non può cedere neppure di fronte a semplicistiche comparazioni con il passato. Se è vero che gli effetti negativi della legge di amnistia del 1976 condizionano ancora pesantemente la vita politica e sociale della Spagna generando tensioni memoriali di difficile composizione, d’altra parte sarebbe sommamente sbagliato fare di tutta l’erba un fascio e non saper individuare le diffidenze strutturali, testuali e di contesto che separano queste due esperienze.
Di fronte alla più grave crisi della Spagna dopo i terribili anni del franchismo, il Governo pare aver deciso di invertire la rotta. Pare aver deciso di rompere con la spirale di rivendicazioni e di rancore che stava ormai risucchiando non solo il sistema politico, bensì l’intera società. Pare aver deciso di rinunciare al ricorso alla giustizia come strumento di vendetta o rivalsa e in questo senso poco importa quanto abbiano pesato le ambizioni di Sanchez in questa scelta.
Non sappiamo a quali esiti porterà la strada intrapresa. È opinione di chi scrive che si trattasse di una scelta necessaria. Resta vero, come ha ricordato lo stesso Primo ministro, che ci sono momenti in cui “tocca fare di necessità virtù”. Ci sono momenti nella storia di uno Stato in cui la giustizia cui possiamo aspirare è tanta quanta la pace sociale consente.


Anche la memoria pubblica ha genere

Nei giorni scorsi ha generato qualche eco mediatica l’inaugurazione della statua dedicata a Margherita Hack, nell’anniversario della sua nascita.
Non che le questioni locali che attengono alle politiche memoriali debbano animare il dibattito pubblico nazionale…possono farlo, ma non necessariamente. Non di meno, è forse possibile cogliere in questo evento un rilievo che trascende l’ambito cittadino e ci invita a una riflessione di più ampio respiro.
La statua, intitolata Sguardo fisico, è posta a Milano, in Largo Richini, nei giardini di fronte all’Università Statale. È stata promossa dalla Fondazione Deloitte, in collaborazione con la Casa degli Artisti e il Comune.
Il monumento in bronzo, alto 2,70 metri, è opera dell’artista bolognese Sissi, che ha voluto ritrarre l’astrofisica mentre «emerge dal magma della vita che pulsa dentro la crosta terrestre», con il corpo ancora incastonato nella materia grigia e le mani dorate che si protendono al cielo per mostrarle le stelle senza l’ausilio di alcuno strumento.
Si tratta, invero, ed è qui che va emergendo il nostro interesse, di una delle pochissime sculture dedicate in Italia a una donna. La prima in suolo pubblico a commemorare una scienziata.
Ciò genera o dovrebbe generare l’interesse del diritto e in particolare del diritto pubblico?
Sono convinta di sì, se partiamo dal presupposto che la memoria pubblica è un atto politico teso a ribadire su quali valori stiamo costruendo i nostri legami comunitari e a definire quali sono i principi su cui vogliamo fondare la società di domani.

Si può concordare sul fatto che lo Stato “parli” anche attraverso le politiche memoriali, di modo che possiamo affermare che la monumentalistica pubblica è divenuta una forma consueta di speech government: talmente consueta che a volte non avvertiamo neppure la potenza di questi atti di occupazione, non solo simbolica, dello spazio pubblico.
Invero, basterebbe ripartire dal recupero della dimensione spaziale e memoriale per percepire la portata di alcuni processi storici, la rappresentazione del potere sottesa, gli ordini di gerarchia della società consolidati e, dunque, le sue conflittualità, più o meno latenti.
Passeggiare nel reticolo di strade e piazze, tra mezzi busti e targhe delle nostre città diviene, infatti, occasione non solo per spostarsi geograficamente da un quartiere all’altro, ma anche per muoversi nel tempo e nelle relazioni di potere.
Lo stradario e l’apparato monumentale cittadino sono senza dubbio concepiti come occasione per agire sul presente e per costruire la nostra identità futura, servendosi pedagogicamente dell’arena memoriale. Esiste, infatti, una dimensione materiale della memoria, che opera attraverso delle “presenze” che si fanno simboli, rappresentando qualcosa che vale la pena ricordare a livello collettivo.
Viste così le cose, il monumento dedicato a Margherita Hack assume un’importanza fondamentale. Non è solo il doveroso omaggio a una grande donna italiana, ma è anche l’atto con cui un’assenza si fa presenza pubblica.
Con lei l’assenza secolare del femminile, si fa presenza nello spazio pubblico urbano.
Si proverà a dire meglio.
Negli ultimi anni, è andata crescendo la sensibilità rispetto a una parità di genere che non sia frutto di una mera produzione normativa, bensì il risultato di un genuino atto di smantellamento del sistema patriarcale, nella consapevolezza che, senza insubordinazione a un sistema consolidato dell’immaginario collettivo, non è possibile innescare un cambiamento strutturale.
La storiografia, che già da tempo aveva avviato un processo di trasformazione portando molti storici a soffermarsi più sui processi che sugli eventi, più sulle persone che sui personaggi, non si è fatta trovare impreparata all’appuntamento.
Non sono mancate, dunque, riflessioni tese a ripensare la narrazione più tradizionale in favore di percorsi non ancora battuti, nei quali risalta il discorso anticoloniale e femminista, capaci di aprire la strada a nuovi punti di vista sul passato.
Capita così che anche i giuristi siano invitati a guardare con occhi nuovi ad alcuni processi storici, come per esempio la formazione dello Stato nazionale. Da una parte, essa rappresenta un punto di arrivo e al contempo di partenza, fondamentale rispetto al forgiarsi dei modelli di organizzazione politica della modernità che sono alla base dello stato costituzionale democratico contemporaneo; dall’altra è, senza dubbio, espressione di un processo che ha determinato irrimediabilmente la massiccia esclusione dall’orizzonte politico di una larga fascia di gruppi e persone non solo in termini di visibilità storica, ma anche di accesso ai diritti. Costruire una nazione significava costruire un modello ideale di cittadino i cui caratteri hanno finito con il delimitare lo spazio materiale e simbolico della cittadinanza: l’essere uomo, bianco, borghese, timorato di Dio…
Al di fuori di questo profilo c’era l’esclusione, talora la tolleranza, a volte una benigna protezione, ma mai l’accettazione della diversità come manifestazione del reale.
In questo contesto, su cui non mi soffermo perché noto, le donne, tradizionalmente, abitano la storia, ma mai come protagoniste. Se a esse uno spazio è concesso, questo le riproduce immancabilmente solo come madri di, sorelle di, amanti o spose di…. Sempre in posizione funzionale rispetto a chi quella storia non si limita ad abitarla bensì a forgiarla; sempre destinatarie di protezione o tutt’al più custodi di valori che, però, non esaltano il loro ruolo all’esterno, anzi le ingabbiano socialmente. Non è un caso se tutte le rappresentazioni degli ideali, così come delle virtù hanno fattezze femminili. Spesso, ad onor del vero, anche quelle dei peccati e dei vizi: ma in quel caso si trattava di ribadire la natura maligna e tentatrice delle donne, così confermandone il carattere inaffidabile che impedisce loro di assumere responsabilità pubbliche…

Con fatica negli ultimi anni è stato attribuito ad alcune donne di indubbia eccellenza il ruolo che meritavano, in particolare nel campo delle scienze. A partire da quelle “dure” come si è soliti chiamarle, in cui la loro presenza era rimasta in ombra. Si iniziano a vedere i frutti di questo atteggiamento nel crescere della presenza femminile nelle aule delle facoltà dove si insegnano le cosiddette discipline STEM, nei laboratori, negli uffici un tempo inaccessibili al genere femminile.
Si tratta di timide, ma evidenti conquiste conseguenza delle rivendicazioni in favore di uno smantellamento del sistema patriarcale che ha contribuito alla marginalizzazione delle donne attraverso un circolo vizioso in cui l’assenza dallo spazio politico ha generato inevitabilmente un’assenza nello spazio pubblico e simbolico, che ha finito con il legittimare ordini di potere e immaginazione delle gerarchie di ruolo percepite, infine, come “naturali”, “biologiche”.
La memoria istituzionalizzata è stata per secoli, e per certi versi lo è ancora, domaine réservé del genere maschile. Coloro che la storiografia tradizionale ha decretato essere i protagonisti del passato, si sono arrogati il diritto di essere anche protagonisti del nostro presente attraverso il palinsesto memoriale, delimitando l’immaginario futuro.
Per questo anche da qui bisogna muovere per sostenere un cambiamento, attraverso un uso energico di politiche memoriali capaci di far emergere narrazioni represse che chiedono di confrontarsi nell’arena memoriale pubblica. Nella capacità dei poteri pubblici di farsi mediatori di narrazioni memoriali a volte parallele, a volte in contrasto si può valutare la loro capacità di farsi soggetto in grado di gestire la pluralità, dal momento che la memoria pubblica è democratica quando è polifonica, non necessariamente condivisa. Ciò avviene ricontestualizzando l’esistente, risemantizzando le simbologie pubbliche come reclamano le recenti e reiterate proteste contro alcune statue, ma anche recuperando memorie rimaste al margine, domestiche non per natura, ma perché relegate dal potere nello spazio familiare.
Certo, non sarà una sola statua a cambiare il corso delle cose. Ma è necessario partire ed è necessario avere consapevolezza dei processi politici che stanno dietro a questi atti memoriali pubblici.
Non è sufficiente, infatti, dar conto di una trasformazione (già in atto da tempo, invero) che vede le donne concepite finalmente non più come “oggetti” della storia, ma come soggetti che hanno saputo lasciare un segno.
Bisogna riconoscere che i cambiamenti, pur lenti, ci sono. Ma la meta da un punto di vista politico, ossia dalla prospettiva di ciò che deve divenire lo spazio pubblico per garantire reali spazi di parità di genere, è ancora lontana. Non sarà raggiunta sino a quando le donne non si trasformeranno da soggetti ad agenti politici, capaci di elaborare strategie, consolidare pratiche sociali, sviluppare tattiche politiche. È la piena partecipazione ai processi di decisione che può rappresentare il vero punto di svolta, perché c’è differenza tra decidere in favore delle donne e decidere con le donne. C’è differenza tra la definizione di una politica memoriale definita da uomini per le donne e quella in cui le donne partecipano all’arena memoriale non solo nello spazio pubblico latamente inteso, ma anche a livello istituzionale. Solo percependo questa differenza è possibile cogliere la distanza tra l’iconografia della statua che raffigura Margherita Hack e quella che accompagna la rappresentazione della Spigolatrice di Sapri che in occasione della sua inaugurazione nel 2021, tanto aveva fatto parlare di sé, sollevando lo sdegno di gran parte del mondo femminile. Al di là dell’estro artistico dell’autore esiste una funzione che la memoria pubblica deve conservare.
Se la memoria è uno spazio di lotta politica allora è necessario essere presenti per poter fare la differenza. Presenti simbolicamente nei luoghi in cui la memoria cittadina si fa sguardo sul futuro; presenti attivamente nei luoghi in cui si decide verso dove volgerlo quello sguardo.
C’è una soggettività, oltre che una dimensione cronologica nella rappresentazione del tempo.
Anche la memoria ha un genere.


Pedro Sanchez concede l’indulto: coraggio della politica o incauto atto?

Lo scorso 22 giugno, il Consiglio dei Ministri spagnolo ha approvato i decreti per la concessione dell’indulto a nove dei condannati per i reati di malversazione e sedizione, commessi in Catalogna in occasione della organizzazione e realizzazione del referendum indipendentista del 1° ottobre 2017.
L’atto di grazia, che non riguarda la posizione di Carles Puigdemont e dei suoi più stretti collaboratori, interviene a due anni dalla sentenza di condanna del Tribunal Supremo, quando ormai alcuni dei leader imprigionati hanno scontato la maggior parte della pena loro comminata (…non così il leader di ERC, Oriol Junqueras condannato a tredici anni di reclusione…). Non di meno, rappresenta un atto di grande impatto politico, destinato a segnare una nuova tappa nell’annosa saga delle rivendicazioni secessioniste catalane.
Comunque lo si guardi, ossia a prescindere dal fatto che lo si consideri viziato nella forma o meno, strategicamente indovinato o totalmente fuori luogo, avventato o pericoloso, quel che non può essere negato è che si tratta di un atto di estremo coraggio politico che obbliga l’osservatore a riconoscere che con esso il Governo spagnolo segna una svolta nelle relazioni Madrid-Barcellona, ormai ridotte ai ferri corti.
Con l’indulto Pedro Sanchez sembra prima di tutto voler riportare (o almeno tentare di riportare…) la questione catalana entro l’alveo della politica. Non che essa debba dirsi estranea ad altri ambiti; bisogna riconoscere, però, che proprio lo spazio occupato da questi “altri ambiti”, quello giudiziario, per esempio, con il tempo ha finito con il crescere ipertroficamente, appiattendo il dibattito pubblico sul dilemma “è lecito” o “non è lecito” e trasformando  la politica in una mera opzione da cui è possibile (a volte auspicabile, altre necessario) prescindere, affidandole tutt’al più un ruolo di guardiano dell’ordine costituito, legittimata  in extremis a ricorrere alla giurisdizione costituzionale laddove il ruolo della giustizia ordinaria, debitamente mobilitata, non fosse sufficiente.
Si potrebbe giungere a dire che il Governo spagnolo con l’atto di Sanchez abbia voluto assumere il ruolo di “parte diligente”. In una condizione a tal punto deteriorata e destinata, rebus sic stantibus, a peggiorare ulteriormente, compromettendo ogni ipotesi di comunicazione tra le parti, il Primo Ministro ha voluto compiere il primo passo. E il primo passo, si sa, è sempre quello più azzardato, quello che attira più critiche, quello che lascia disarmati e per questo può costare caro: non di meno a un certo punto diviene necessario compierlo se si vuole uscire da una situazione di stallo, ma soprattutto se si vuole invertire la direzione di marcia per evitare lo schianto.
È un atto di coraggio, si diceva, l’aver firmato i decreti di indulto. Lo è perché è un atto compiuto pressoché in solitudine e senza poter contare su alcuna certezza per quel che concerne l’esito dell’impresa.
La decisione arriva al termine di un iter formalmente avviato dall’avvocato Francesc de Jufresa in favore dei condannati, che hanno voluto mantenersi al margine sin dalle prime battute, quasi a sottolineare la distanza che li separa dalle istituzioni spagnole. La legge consente, infatti, che l’istanza al Governo possa essere presentata da un terzo.
La richiesta di indulto è un atto tutt’altro che raro nell’ordinamento spagnolo, nonostante l’istituto sia fortemente criticato dalla dottrina, in quanto la sua disciplina è piuttosto desueta. Solo nell’ultimo trimestre del 2020 sono state depositate presso il Governo ben 1.664 richieste di indulto. Di queste solo 18 si sono chiuse positivamente. Più insolito è che essa venga portata avanti a prescindere dalle resistenze manifestate dal sistema.
Che partiti all’opposizione quali il Partido Popular, Ciudadanos e Vox dichiarassero la loro intenzione di ricorrere contro i decreti poteva darsi per scontato. Lo faranno secondo quanto previsto dalla legge rivolgendosi alla Sala de lo Contencioso-Administrativo del Tribunal Supremo, anche se la loro legittimazione è ancora tutta da dimostrare, potendo mancare un loro diretto interesse ad agire.
La via intrapresa da Sanchez, però, non trova sostegno unanime neppure all’interno del suo partito. Sin dalle prime dichiarazione, infatti, è emersa una chiara spaccatura tra la posizione assunta dai vertici del PSOE a livello territoriale e quelli che operano in ambito centrale. È possibile che non si tratti di un vero dissenso ideologico. Molto probabilmente  la contrapposizione a Sanchez emersa nelle Comunità autonomiche è frutto di strategie elettorali più che di posizionamenti politici: non si dimentichi che mentre Madrid non vede all’orizzonte imminenti appuntamenti alle urne (e dunque conta di poter ammortizzare l’eventuale contraccolpo in termini di consenso sul lungo periodo), le istituzioni autonomiche si trovano, in molti, casi nelle condizioni di dover fronteggiare in tempi più o meno brevi il disappunto degli elettori che, essendo stati fino a ieri invitati a opporsi agli indipendentisti nemici della Spagna, probabilmente affideranno al voto il loro senso di disorientamento.
Infine, la procedura prevede che la decisione del Consiglio dei Ministri intervenga dopo aver acquisito il parere obbligatorio della Procura e dell’organo giudicante che ha emesso la condanna per cui si chiede la grazia. Nel caso di specie il parere necessario era quello del Tribunal Supremo.
Orbene, anche rispetto a questo aspetto procedurale, il governo Sanchez ha proceduto solitario, mostrando con ciò tutta l’eccezionalità della vicenda. Se è vero, infatti, che i pareri da richiedere non vincolano l’Esecutivo, è altrettanto vero che non era mai accaduto che questo procedesse in aperta opposizione rispetto all’organo giudicante e alla Procura. Capita per la prima volta oggi; capita con i condannati per i fatti del 1-O…e forse non è un caso, a riprova della peculiarità e straordinarietà di quello che sta accadendo in Spagna. E’ bene ricordarlo, perché sull’eccezionalità come presupposto a quanto deciso dal Governo si tornerà a breve.
Tanto il Ministerio Fiscal, quanto il Tribunal Supremo avevano manifestato la loro contrarietà fondata in primo luogo sull’assenza dei presupposti di legge necessari.
La norma in materia prevede che l’indulto possa essere concesso laddove si ravvisino ragioni di equidad, justicia o utilidad pública. Tali presupposti devono essere esplicitati da quando nel 2013 il Tribunale Supremo ha ritenuto essenziale che il decreto di indulto fosse motivato.
Gli organi consultati ritengono che il fatto che i detenuti non abbiano mai dato mostra di ravvedimento privi di ogni possibile utilità pubblica il provvedimento di indulto, dal momento che esso non rappresenterebbe, come sostiene il Governo, un atto necessario per aprire uno spazio di conciliazione tra Madrid e Barcellona, ma solo l’occasione per riaccendere la vis oppositiva degli indipendentisti. Il pentimento, in tal senso, pur non costituendo condicio sine qua non, finirebbe con il rappresentare un passaggio obbligato al momento di dover costruire la motivazione dell’atto la cui debolezza potrebbe essere motivo di ricorso presso la Sala de lo Contencioso-administrativo.
A ciò si aggiunga che nel parere emesso dalla Procura si arriva addirittura a ipotizzare un vizio originario di legittimazione da parte del Governo a emettere i decreti di indulto: dal momento che alcuni dei soggetti che godranno dell’atto di grazia sono dirigenti di uno dei partiti che attualmente sostiene l’Esecutivo nazionale si ritiene che si possa ravvisare un conflitto tale da inficiare l’imparzialità del Primo Ministro…insomma, pareri duri che paiono voler rimarcare i confini di una questione considerata di natura giurisdizionale, rispetto alla quale la politica deve a priori  restare fuori.
In realtà, è vero che l’indulto non era l’unica via possibile per provare a iniziare a sciogliere i nodi di una matassa di cui non si trova più il bandolo.
È già stato avviato un processo di riforma del Codice penale, con l’intento di modificare i titoli che riguardano la protezione dell’ordine costituzionale, in particolare la sedizione, ma anche il reato di ribellione, disobbedienza, disordine pubblico…; allo stesso tempo si è aperto un dibattito per l’approvazione di una legge organica sull’amnistia.
Non di meno, non per ubris, ma probabilmente per senso pratico, il Governo ha ritenuto di non potersi affidare a queste soluzioni alternative per trovare una via d’uscita alla grave crisi istituzionale in cui è precipitata la Spagna. Una riforma del Codice penale nei termini presentati non avrebbe riguardato i condannati per malversazione, che per questo non avrebbero goduto dei benefici di una possibile modifica; d’altra parte, l’approvazione di una normativa di rango organico per l’amnistia, oltre che di incerta sorte, avrebbe impiegato un tempo di gestazione e approvazione difficile da quantificare. A ciò si aggiunga che i precedenti storici in tema di amnistia in Spagna non facevano ben sperare sulla possibilità che questa via potesse davvero rappresentare un cammino verso la conciliazione.
Dunque, è vero che esistevano altre vie, per così dire meno d’impatto e meno emotive. Eppure, gettando il cuore oltre l’ostacolo, è alla più “politica” tra le opzioni che Sanchez si è affidato. Un atto straordinario per far fronte a una situazione straordinaria.
Ogni altra soluzione avrebbe saputo di uscita di emergenza…quella dell’indulto assunta nonostante tutto, sa di riscatto della politica; di desiderio di riassegnarle un primato, laddove il diritto non può far altro che segnare una distanza, dal momento che, lo si voglia ammettere o no, esiste una parte del territorio spagnolo che quel diritto non lo considera più come legittimo. C’è un problema di riconoscimento politico-sociale in Spagna. Se non si restipulano le basi per un riconoscimento reciproco sul piano politico non c’è diritto che possa valere, perché è la comunicazione e l’autorevolezza che sono venuti a mancare. Con il suo gesto Sanchez si presenta inerme e nel concedere il perdono dello Stato spariglia le carte, quasi a voler ribadire, nel senso in cui di perdono parla Paul Ricoeur, che, sicuramente, le parti in gioco in questa vicenda, che ha colpito profondamente la democrazia spagnola, sono capaci di gesti migliori di quelli compiuti sinora.
Rischia di pagare un pedaggio altissimo per la strada intrapresa. L’ira politica degli spagnoli potrebbe essere più alta del previsto dopo anni in cui è stata alimentata la contrapposizione; d’altra parte, il gesto potrebbe non essere apprezzato sino in fondo nella sua portata politica dalla controparte e quindi strumentalizzato.
Sicuramente vi è consapevolezza dei pericoli cui Sanchez si è esposto.
Eppure bisognerà ammettere che la storia insegna che la pace la si fa con gli strumenti che si hanno in mano e accettando le condizioni date. Tanta pace quanto la situazione consente; tanta giustizia quanto la situazione permette…La riconciliazione sociale di una comunità politica pretende sempre l’accettazione di un’alea politica. Del resto per volontà politica si è giunti a simili estremi e solo con volontà politica, ricostruendo e tendendo ponti, come solo la politica può fare, se ne uscirà fuori.
Si può solo sperare che il rischio assunto da Sanchez sia un rischio calcolato. Le parole di Junqueras seguite all’annuncio del Governo fanno ben sperare quando, pur non rinunciando a chiedere un referendum per l’indipendenza della Catalogna, ribadisce che la via da seguire per ottenerlo deve essere quella del confronto e dell’accordo politico.
L’atto del Governo sembra dare i primi segni di distensione se è vero che la macchina politica si è già messa in moto e il dialogo tra Pedro Sanchez e il Presidente della Generalitat Pere Aragonès è ripreso.
Che si dia o meno il via libera a una consultazione popolare sulle sorti della Catalogna, la Spagna nei prossimi anni si vedrà comunque costretta a confrontarsi con la revisione della sua Costituzione…è bene iniziare a preparare sin da ora le basi sociali e politiche perché quel momento non colga impreparato nessuno.


Presidenziali in Perù: nomi più o meno nuovi per conflitti datati

Nei giorni scorsi, durante lo scrutinio delle schede per le elezioni presidenziali, in Perù è andata in scena una piece de teatre che per la regione sudamericana costituisce, ormai, un copione classico che, salvo rare eccezioni, tra cui ricordiamo quella argentina dello scorso 2019, torna ciclicamente a essere rappresentata in corrispondenza del rinnovo della carica presidenziale in quasi tutti gli ordinamenti.
Vale la pena prima di tutto richiamare qualche dato.
Dopo le elezioni dell’11 aprile, lo scorso 6 giugno si è svolto il secondo turno delle elezioni presidenziali peruviane che ha visto misurarsi Pedro Castillo, alla guida di Perù Libre, contro Keiko Fujimori, leader di Forza Popolare.
Si è trattato di un duello praticamente alla pari in cui pochi voti vedono il prevalere di Castillo che quando mancavano ancora una manciata di seggi da scrutinare, con una percentuale di preferenze attorno al 50,12%, ha rivendicato la propria vittoria mentre la sua concorrente annunciava che sarebbe ricorsa alla magistratura competente per denunciare brogli e chiedere l’annullamento di circa 200.000…quanto bastava per ribaltare il risultato elettorale.
Ci si potrebbe soffermare sulle difficoltà di un paese devastato dalla pandemia che le autorità non sono riuscite a gestire, condannando la popolazione a uno dei tassi di mortalità da Covid-19 tra i più alti del mondo (nel continente inferiore solo al Brasile); potremmo analizzare il travaglio di un sistema che negli ultimi anni ha visto lo scontro aperto tra poteri dello Stato, sino a cadere nella profonda crisi costituzionale del novembre 2020 quando nel giro di poco più di una settimana si sono succeduti tre uomini alla Presidenza: Martín Vizcarra, destituito con impeachment, Manuel Merino costretto alle dimissioni, essendo travolto da scandali di corruzione che avevano colpito anche il Legislativo, e infine Francisco Sagasti; potremmo infine soffermarci sulle fragilità di un trend di sviluppo economico positivo che ha  condotto alcuni analisti a considerare il Perù degli ultimi anni uno dei paesi più performarti dell’America Latina, senza considerare l’enorme disuguaglianza intrecciata nel tessuto sociale del Paese e le criticità di un sistema dei servizi sociali incapace di sostenere le necessità delle fasce più deboli della popolazione: ossia senza considerare l’effetto moltiplicatore che questo preteso rilancio economico del Perù avrebbe comportato rispetto alle fratture sociali già esistenti.
Interessa piuttosto provare a svolgere alcune considerazioni di contesto che mostrano come gli scontri che hanno animato le piazze nelle ore successive alla proclamazione di Castillo vincitore, in attesa della decisone delle autorità competenti a pronunciarsi sul ricorso elettorale presentato dalla concorrente, costituiscono la plastica rappresentazione di un’onda lunga che attraversa l’America Latina da qualche decennio, in particolare per quel che concerne la regione andina, e il risultato di un insoddisfacente processo di transizione alla democrazia avviato in Perù, ma mai completamente assorbito, in particolare per quel che concerne l’elaborazione di una narrazione collettiva della violenza che ha connotato lo spazio pubblico negli ultimi decenni, sino ai primi anni di questo secolo.
Maestro di 51 anni, proveniente da Cajamarca, una città dell’altopiano settentrionale del Perù, Pedro Castillo si è presentato alle elezioni del 2021, che prevedevano anche l’elezione dei 130 deputati del Parlamento, con l’intenzione di dare voce alle zone rurali, alle fasce più deboli, agli emarginati, alle popolazioni indigene. Con il suo slogan “No más pobres en un país rico. Palabra de maestro” ha impostato la sua campagna elettorale come un’occasione di lotta di classe, di battaglia alle disuguaglianze e alle élite ben rappresentate dall’avversaria Keiko Fujimori, figlia di Alberto Fujimori che ancora sconta in carcere una pena di 25 anni per corruzione, nonché per essersi reso colpevole, durante la sua presidenza, di abominevoli violazioni dei diritti umani tra il 1990 e il 2000.
Nel programma di Perù Libre (https://declara.jne.gob.pe/ASSETS/PLANGOBIERNO/FILEPLANGOBIERNO/16542.pdf) non si fa mistero delle matrici ideologiche del movimento che si definisce una «organización de izquierda socialista que reafirma su corriente ideológica, política y programática»  e che considera che per «ser de izquierda se necesita abrazar la teoría marxista», sottolineando che si tratta di «un partido forjado al interior del Perú Profundo, en los Andes del Perú, que no solo cuestiona el centralismo forjado por los partidos de derecha, sino también la indiferencia de algunos partidos de izquierda capitalina que, con su neutralidad “democrática”, permitieron la consolidación del neoliberalismo en nuestra patria. Nuestros cuestionamientos los realizamos con un espíritu constructivo, con argumentos objetivos y utilizando la herramienta de la crítica como medio y no como fin. PERÚ LIBRE es expresión contestataria de los pueblos marginados; palabra descentralista del poder político y económico; expresión de las luchas antineoliberales contra dictadura del capital o del mercado; expresión de nuestros derechos laborales; expresión del rescate de nuestras empresas privatizadas y de nuestros recursos naturales; expresión del anhelo popular de un nuevo modelo de producción; expresión de la restitución de los derechos fundamentales; expresión de los derechos comunales andinos y amazónicos; expresión de un proyecto de país y no de un proyecto de grupo empresarial; y finalmente expresión del internacionalismo latinoamericano».
Difficile non riconoscere nelle parole del programma l’eco di matrici di una estrema sinistra che per lunghi anni nelle attività di stampo terroristico di Sendero Luminoso ha mietuto vittime, senza risparmiare neppure i popoli indigeni, a onor del vero.
Come d’altra parte è evidente, direi ontologicamente evidente, il legame politico, ma non solo, di Keiko Fujimori con il progetto autoritario del padre (che lei ha dichiarato voler liberare nel caso fosse stata eletta) sfociato in gravissimi episodi diffusi di violazione dei diritti umani.
Certo cambiano i tempi e cambiano i toni e i modi. Gli uni non parlano nei programmi di lotta armata e gli altri si dichiarano pronti a giurare fedeltà ai principi democratici della Costituzione peruviana…non di meno non può non allarmare questa continuità che trascorsi circa due decenni ripropone una dicotomia che si rispecchia in una frattura che è politica, sociale e geografica perché marca un diverso modo di voler intendere lo Stato e le sue politiche in particolare per quel che concerne il piano economico e dei servizi, evidenzia una frattura profonda tra le classi sociali e segna la distanza tra le aree urbane e quelle rurali o più sperdute nella regione amazzonica.
A poco pare essere valso il lavoro della Commissione di verità e riconciliazione che operò tra il 2001 e il 2003 mettendo a disposizione delle autorità e della popolazione un esteso rapporto volto a ricostruire gli eventi che avevano travagliato il Paese dagli anni Ottanta sino al 2000. I tentativi di costruzione di una narrazione collettiva e di pacificazione sociale attraverso una spesso improvvisata attività memoriale istituzionale non hanno saputo imporre un genuino percorso di riconciliazione e quelle fratture hanno continuato a rappresentare l’orizzonte di senso delle diverse comunità e classi che abitano il Perù e ne animano la politica. L’attività della Corte Interamericana, d’altra parte, ha contribuito a elevare il livello del conflitto piuttosto che ad appianarlo come ben dimostrano le vicende che hanno interessato il monumento El Ojo que llora, nello spazio Alamedea de la memoria in Lima, dopo la sentenza Penal Miguel Castro Castro contra Perù (serie C n. 160 e n. 181) che, mostrando assai scarsa sensibilità per i percorsi memoriali che spontaneamente si stavano sviluppando nel Paese, ha alimentato il riaccendersi di scontri e di un dibattito che in fondo mostra ancora la sua vitalità nel testa a testa presidenziale.
D’altra parte, le vicende peruviane si inseriscono perfettamente in un solco già segnato: un copione classico, si diceva, che non manca dei più tradizionali elementi strutturali, quali la contrapposizione tra due modelli sociali che vedono da una parte la rivendicazione di ideali di matrice comunista di stampo latinoamericano, dall’altra l’affermarsi di politiche neoliberali, conservatrici e sostenitrici di un modello neocoloniale appoggiato dalle élite del Paese; lo scontro culturale tra tradizione indigena e modello occidentale; la trasformazione del concorrente politico in avversario giudiziario e successivamente in nemico del paese; il trascinamento della contesa elettorale nelle piazze; e infine l’irrompere del potere giudiziario che, come in altre occasioni, anche nelle presidenziali peruviane non ha frenato il proprio protagonismo, intervenendo nella scena politica e richiedendo, quando ancora i risultati non erano stati confermati, la carcerazione preventiva per Keiko Fujimori, accusata di ricettazione e altri delitti quali quello di corruzione, commessi in corrispondenza delle precedenti campagne elettorali presidenziali in connessione con il caso Odebrecht di rilievo internazionale…non si dimentichi che questa è la terza volta che la Fujimori tenta la scalata alla presidenza senza successo.
Non è difficile intravedere nel percorso di Castillo i tratti di altri leader prima di lui: Evo Morales in Bolivia, Correa in Ecuador, Chavez in Venezuela, persino Obrador in Messico. Il linguaggio popolare, la retorica della ruralità autoctona che si contrappone allo stile urbano di stampo occidentale, la propaganda antimperialista, il recupero del crittotipo indigeno per rigenerare l’apparato costituzionale.
Non è un caso che il programma del neo eletto presidente dica espressamente che è necessario «promover y lograr un cambio constitucional que incorpore un enfoque diametralmente opuesto, es decir, la brega por una Constitución solidaria, humanista, rescatista y nacionalizadora. La nueva CPP debe redactarse mediante una Asamblea Constituyente, la misma que debe concluir en el desmontaje del neoliberalismo y plasmar el nuevo régimen económico del Estado», con ciò ponendosi nel solco della dottrina del nuevo constitucionalismo latinoamericano e pertanto rischiando di cadere nelle medesime contraddizione, senza assumere gli anticorpi necessari a difendersi dal virus populista, dirompente in contesti che non lasciano spazio a soluzioni di sintesi e non tentano la gestione del conflitto limitandosi a farlo emergere. Non è problema da poco per un processo costituzionale che esaltando il momento costituente e la sua supremazia sul potere costituito ha la pretesa di incidere sulla realtà politico-sociale de Paese, radicandosi su premesse di interculturalismo sociale e ideologico che non ha la forza di radicare oltre l’enunciazione.
Non vogliamo con ciò sostenere che ci troviamo di fronte a un altro caso di “eutanasia costituzionale” annunciata. Solo mettere in evidenza alcuni elementi che, già registrati altrove, rischiano, se assunti in combinato disposto, di peggiorare le condizioni di instabilità politica del Perù, nonché inasprire le fratture sociali che affondano le radici in un passato che, come dimostrano i numeri e i percorsi elettorali dei candidati alle presidenziali, proprio passato forse non è.


La salma di Francisco Franco lascia il Valle de los Caidos. Riflessioni per una memoria istituzionale

Nella giornata di oggi, le spoglie del generale Francisco Franco hanno lasciato il Valle de los Caidos alla volta del cimitero di Mingorrubio-El Pardo, dove troveranno sepoltura privata accanto a quelle della moglie. L’esumazione e il trasferimento della salma giungono al termine di un lungo percorso politico e giudiziario, durato circa un anno e mezzo, che, con grande attenzione della stampa nazionale e internazionale, ha visto contrapporsi, con toni duri, da una parte il governo di Pedro Sanchez, dall’altra la famiglia Franco, sostenuta pubblicamente, tra gli altri, dalla Fundación Nacional Francisco Franco, dalla Asociación de defensa del Valle de los Caidos; da alcune forze politiche, tra cui la giovane Vox; nonché dal priore benedettino che è amministratore della Basilica, in cui era stato sepolto il dittatore.
L’avvenimento potrebbe essere ormai archiviato come felice conclusione di una vicenda che ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica ferite dolorose e ancora sanguinanti della storia spagnola: non di meno si tratta senza dubbio di un’occasione importante che, anche per la sua portata storica, ci invita ad alcune riflessioni, tanto sull’azione memoriale messa in campo dalle istituzioni spagnole, quanto, più in generale, sulle politiche di memoria istituzionali, che, effettivamente, spesso sono chiamate a una faticosa funzione di bonifica dei luoghi prima di proporre spazi di confronto e gestione del conflitto tra memorie divise.
Se per lungo tempo si è parlato dell’esperienza spagnola come di un modello paradigmatico di buona politica nell’affrontare il difficile passaggio dalla dittatura allo Stato di diritto costituzionale, va rilevato che a partire dalla fine degli anni Novanta, il mito della Transiciόn democrática ha cominciato a essere scalfito, mettendo in luce una serie di effetti collaterali prodotti dalla strategia del silenzio, degenerato progressivamente in oblio. Bisogna attendere l’anno 2000 perché la dimensione pubblica del concetto di memoria storica trovi definitivamente spazio nel linguaggio politico, mediatico e sociale spagnolo, allorquando l’Asociaciόn para la Recuperaciόn de la Memoria Histόrica, guidata dal suo fondatore Emilio Silva, intraprende una battaglia pubblica per il recupero dei corpi degli uomini e delle donne uccisi dalla repressione franchista e ancora ammassati, senza nome, nelle fosse comuni.
Da allora il lavoro delle associazioni è andato crescendo e l’opinione pubblica ha cominciato a interrogarsi: quei racconti sussurrati a mezza voce in famiglia, quelle foto sparse nelle case, testimonianza di una vita desaparecida, cominciano a materializzarsi concretamente nelle ossa e nei resti che vengono portati via via alla luce e invitano a una riflessione collettiva.
È in questo contesto di crescente dibattito e attenzione pubblica che anche i partiti sono stati chiamati a uscire allo scoperto, abbandonando quella confortevole zona franca che il pacto de olvido ha garantito loro per anni.
Il confronto politico e mediatico che ha preceduto l’approvazione della cosiddetta Ley de Memoria Histόrica (rectius: della Ley 52/2007, por la que se reconocen y amplían derechos y se establecen medidas a favor de quienes padecieron persecución o violencia durante la guerra civil y la dictadura), nel dicembre del 2007, ben racconta del clima di tensione e rivendicazione che ha accompagnato sin dai primi passi l’azione memoriale del legislatore spagnolo e mette in luce, drammaticamente, la difficoltà del Paese a guardare il suo passato dritto negli occhi.
E’ il luglio del 2018 quando il Presidente Sanchez rende nota la volontà del Governo di avviare le procedure per l’esumazione del generale Franco e si assiste, forse per la prima volta, a una azione concreta dello Stato centrale per dare un seguito risoluto alle previsioni di una legislazione ai cui limiti strutturali è andata sommandosi la resistenza politica rispetto a una applicazione intensificata delle disposizioni.
Nell’agosto dello stesso anno con Real Decreto, ossia con un atto governativo d’urgenza, confermato dalle Cortes seppure non all’unanimità, l’Esecutivo modifica l’art. 16 della legge di memoria storica, stabilendo esplicitamente che nel sito monumentale del Valle del los Caidos “podrán yacer los restos mortales de personas fallecidas a consecuencia de la Guerra Civil española, como lugar de conmemoraciόn, recuerdo y homenaje a las víctimas de la contienda” e dichiarando conseguentemente la volontà di riesumare e dare nuova sepoltura al corpo di Franco, lontano dal memoriale.
La decisione, come dimostrano i tempi lunghi di attuazione, ha trovato immediatamente opposizione da parte della famiglia e di alcune associazioni, come era facile immaginare, ma anche da parte di ampi settori della politica e dell’opinione pubblica: il che appare più difficile da comprendere se si pensa che l’azione del Governo ha di fatto voluto correggere una situazione che, nel panorama europeo (dove non si registrano altri casi in cui la salma di un dittatore riposa in uno spazio di commemorazione nazionale), rappresenta una anomalia, già più volte stigmatizzata anche dagli stessi organi competenti delle Nazioni Unite, ancora nel rapporto presentato all’Assemblea generale  il 7 settembre 2017 dal gruppo di lavoro in tema di sparizioni forzate.
A bloccare per mesi l’esumazione della salma di Franco e il suo trasporto nella tomba di famiglia situata nel cimitero di Mingorrubio, oltre  all’atteggiamento di aperto ostruzionismo mantenuto dalle autorità religiose che amministrano la Basilica del Valle de los Caidos, è stata, dunque e soprattutto, l’incalzante opposizione giudiziaria della famiglia Franco, che ancora da ultimo ha presentato recurso de amparo al Tribunale Costituzionale, consapevole che se pure le possibilità di accoglimento delle istanze presentate sono pressoché nulle, l’azione apre la strada al successivo ricorso alla Corte EDU.
La volontà di contrastare la decisione del Governo, la famiglia Franco l’aveva manifestata sin da subito, rivolgendosi al Tribunale Supremo al fine di impugnare il decreto reale con cui si muovono i primi passi legislativi per predisporre l’esumazione. Rigettata l’istanza una prima volta, l’alta Corte è stata di nuovo investita del caso quando il Governo, il 15 febbraio 2019, ha emesso l’ordine di esumazione, chiedendo ai congiunti di indicare il luogo dove si intendeva dare nuova sepoltura al dittatore. Questa volta i giudici, ritenendo che esistesse un concreto pericolo di violazione irreparabile di un diritto, sospendono l’esumazione, determinando una situazione di stallo che si è protratta sino alla fine di settembre quando con sentenza assunta all’unanimità (24 settembre) si dichiara legittima la volontà del Governo di trasferire la salma di Francisco Franco per poi chiarire (30 settembre) che le opere necessarie per realizzare l’esumazione non necessitano di alcuna autorizzazione né da parte delle autorità municipali, né da parte di quelle religiose presso la Basilica, situata nel Valle: “al fin y al cabo”, sottolinea il Tribunale “se trata de levantar una losa, extraer los restos y reponer el solado original, reviertiendo así el pavimento de la Basílica a su estado anterior a 1975”.
Il Tribunale Supremo, intervenendo a chiusura di una vicenda giudiziaria lunga e articolata, non ha lasciato dubbi sulla correttezza dell’operato del governo Sanchez smontando uno per uno gli impedimenti avanzati dai familiari.
In questo senso, il Giudice ha dichiarato, innanzitutto, che nell’azione governativa non si rileva alcuna violazione dei diritti fondamentali della famiglia Franco: non c’è violazione del diritto alla libertà religiosa, né di quello alla riservatezza dal momento che i resti “se encuentran en un lugar relevante de una Basilica monumental que tiene el carácter de bien de interés cultural protegido y es de titularidad pública estatal” e che l’esumazione non “supone negar o desconocer las creencias de nadie”. Ancora, intervenendo sul diritto dei familiari ad avere l’ultima parola circa il luogo di sepoltura del generale ricorda, inoltre, che “no gozan los familiares de una facultad incondicionada de elecciόn del lugar de enterramiento”, soprattutto quando la loro libertà deve essere bilanciata con esigenze di ordine pubblico, come nel caso di specie: riconoscendo un reale pericolo di sicurezza nella tumulazione di Franco, come richiesto dai familiari, nella cattedrale dell’Almudena, in pieno centro a Madrid, il Tribunale Supremo dichiara legittima la scelta del Governo di imporre il trasporto della salma nel cimitero più periferico di Mingorrubio. Ciò a prescindere da ogni altra considerazione di opportunità morale e simbolica, che potrebbe scaturire dalla decisione di accogliere le spoglie di Franco nel cuore storico della capitale spagnola.
Il Tribunale, inoltre, non ha ritenuto che vi sia traccia di discriminazione nei confronti della famiglia Franco nelle decisioni assunte dall’Esecutivo negli ultimi mesi: l’esumazione del dittatore rappresenta, secondo il Giudice supremo, un “caso unico” di rilevanza pubblica che difficilmente può essere ricondotto alla mera sfera privata. Anche per questo, rispondendo ai dubbi di legittimità avanzati dai ricorrenti in merito all’uso di un atto d’urgenza da parte del Governo per incidere su una vicenda di portata storica, sottolinea come il proposito dell’Esecutivo sia stato quello di “poner fin sin más demora a una situaciόn prolongada durante décadas, en sintonía con el que el Gobierno entiende que es el sentir mayoritario de la sociedad”.
Effettivamente è da anni che, a fasi alterne, i riflettori si sono accesi e poi spenti per riaprire e sopire un confronto sul valore memoriale del Valle de los Caidos e sull’inopportuna presenza della tomba del generale Franco in uno spazio monumentale nazionale.
A fronte delle tante critiche mosse in merito alla gestione di un luogo di memoria che, così come è concepito, risulta incapace di contribuire a costruire una visione del passato rispettosa dei principi costituzionali su cui si fonda oggi la Spagna e di restituire dignità e verità alle vittime della guerra civile e del franchismo, non sono mancate proposte, tra le più svariate, anche orientate a procedere all’abbattimento del Valle, per estirpare definitivamente ogni traccia di un indegno momento della storia spagnola, nella convinzione che per chiudere i conti con il passato, distruggere le tracce di ciò che è stato sia la strada per garantire giustizia e per tutelare il futuro.
Non di meno, se è vero che la memoria, anche quella istituzionale, è il risultato di un alchemico processo di bilanciamento tra ricordo e oblio, bisognerà riflettere sulle conseguenze, a volte gravi e collaterali, che la distruzione come azione del dimenticare può comportare. Soprattutto quando messa in campo dai pubblici poteri.
Il giudizio circa l’opportunità politica e la legittimità giuridica che in ambito pubblico si possa procedere a distruggere, abbattere, rimuovere monumenti e statue resta, in effetti, aperto, dal momento che i diritti in gioco sono molti e diversi e il bilanciamento tra loro si fa difficile.
Approfondire il tema dal punto di vista della funzione della memoria istituzionale impone, per esempio, una riflessione sul piano temporale, che ci porterebbe a distinguere gli atti di rimozione che accompagnano moti rivoluzionari alla base di radicali cambiamenti dell’ordinamento, dalle politiche di rimozione adottate dai pubblici poteri in tempo di stabilità democratica. I valori collettivi che nei processi di transizione si pretende tutelare in termini assoluti, anche attraverso condanne di damnatio memoriae del passato, con il tempo finiscono con il dover essere bilanciati con altri e nuovi principi, come quello di garantire alla generazioni future di avere accesso diretto alla storia anche attraverso la conservazione di spazi artistici e architettonici che rappresentano occasioni di  contatto e, dunque, di ricostruzione di un racconto coerente del passato, che divenendo intellegibile si fa presente e memoria.
È per questo che il ruolo giuridico-istituzionale dei pubblici poteri in contesti di costituzionalismo democratico impone che l’atto di oblio imposto attraverso l’ordine di abbattimento o rimozione di un monumento/sito/statua...sia il frutto di un ponderato giudizio, assunto e motivato come extrema ratio.
Dai pubblici poteri infatti, in un sistema democratico, si deve pretendere prima di tutto la capacità di affrontare il passato, non di rimuoverlo; di conoscerlo e di raccontarlo, fino a farlo diventare esso stesso strumento per rafforzare i valori costituzionali in cui si basa il presente.
È nella definizione di questa narrazione del passato che si misura il grado di elaborazione proattiva della memoria raggiunto da una comunità: nella capacità di bonificare i luoghi, di scegliere i personaggi, di selezionare gli episodi, di ricontestualizzare il dolore patito in opportunità per il presente, trasformando spazi che sono stati scene di violenza, traumi, ingiustizia in luoghi di commemorazione di valori come la pace, la dignità e la giustizia.
Sino a quando il corpo di Franco è stato custodito nel Valle, ogni tentativo di fare di questo luogo, simbolo di una grande tragedia collettiva, un luogo di memoria nazionale è stato del tutto vano. Ci sono presenze scomode; i luoghi per accogliere e gestire il conflitto latente tra memorie divise devono essere bonificati da quelle scomode presenze che inibiscono e offendono. Scomode presenze come quella costituita dal corpo di un dittatore, cui ancora lo Stato concede onori.
Da oggi, con il trasferimento della salma di Franco, si apre per la Spagna una grande occasione. Da oggi non si tratterà più di interrogarsi sul significato che il Valle de los Caidos ha avuto in passato; da oggi si apre una nuova sfida per i pubblici poteri sul senso che a quel sito si vuole dare per trasformarlo in un luogo di memoria istituzionale, per riconciliare un popolo che ancora stenta a far pace con il suo passato. La parola d’ordine diviene ricontestualizzare.
Davanti alle difficoltà che sta attraversando in queste ore la Spagna ci si potrebbe interrogare se dopo tanti decenni fosse davvero questo il momento più adatto per procedere con un’operazione tanto delicata e tanto divisiva… ma forse proprio quello che sta accadendo ci ricorda che non c’è mai un momento giusto per guardare in faccia il passato e che ogni momento è quello giusto quando si tratta di affrontare i demoni della memoria. Purché lo si faccia.