Anna Margherita Russo
“Allarme” o “eccezione? Il TC spagnolo accoglie parzialmente l’incostituzionalità delle prime misure anti-pandemiche del Governo Sánchez
La forte e problematica limitazione dei diritti fondamentali (in primis la libertà di circolazione vs. il diritto alla salute) nonché la centralizzazione del potere, sia sul piano orizzontale (nel rapporto Parlamenti-Governi) sia su quello verticale (nel rapporto tra livello regionale e centrale, negli Stati composti), sono stati gli effetti più dirompenti che la pandemia da Sars-Cov2 ha generato sul piano costituzionale. Le misure anti-pandemiche adottate nei diversi ordinamenti hanno inciso su entrambe le dimensioni restringendo – secondo coordinate spazio/tempo dilatate – il pieno godimento di alcuni diritti e l’autonomia delle entità regionali con un consenso delle forze politiche non sempre unanime quanto ai limiti e agli strumenti giuridici utilizzati nel contenimento della pandemia. È il caso, questo, della Spagna dove il ‘nuovo’ partito di estrema destra di Abascal, Vox, ha messo in discussione il fondamento giuridico delle misure di confinamiento disposte dal Governo Sánchez nel periodo marzo-giugno del 2020 in conseguenza alla dichiarazione del primo estado de alarma, decretato con Real Decreto n. 463/2020 del 14 marzo, ai sensi dell’art. 116 Cost., in risposta all’emergenza da Sars-Cov2.
Nello specifico, oltre cinquanta deputati del gruppo parlamentare Vox del Congresso dei Deputati il 28 aprile del 2020 hanno presentato ricorso di incostituzionalità avverso alcune disposizioni del R.D. 463/2020 che dichiara lo stato di allarme (artt. 7, 9, 10 e 11); il R.D. 465/2020, del 17 marzo, che modifica il precedente; e i R.D. con cui si proroga lo stato di allarme (476/2020, del 27 marzo), 487/2020, del 10 aprile e 492/2020, del 24 aprile; e, inoltre, avverso l’Ordinanza SND/298/2020, del 29 marzo, che stabilisce misure eccezionali in relazione alle veglie e alle cerimonie funebri per limitare la diffusione e il contagio da COVID-19. La normativa citata violerebbe, secondo il ricorrente, gli artt. 55.1 e 116 Cost. e la Legge organica 4/1981 “sugli stati di allarme, eccezione e assedio”.
Con sentenza del 14 luglio 2021 il plenum del Tribunale costituzionale spagnolo accoglie parzialmente il ricorso di incostituzionalità limitatamente all’art. 7 del R.D. n. 463/2020 (commi 1, 3 e 5) e alcuni punti dell’art. 2 del R.D. 465/2020 (che modificava l’art. 10 del R.D. n. 463/2020).
Prima di entrare nel ‘vivo’ della decisione giudiziale è necessario fare alcune premesse.
La Costituzione spagnola, a differenza di quella italiana, prevede una disciplina specifica e ‘graduale’ degli stati di emergenza – “allarme”, “eccezione” e “assedio” – in cui il potere di azione del Governo si restringe in maniera direttamente proporzionale alla gravità della situazione emergenziale. Si passa, infatti, da un protagonismo quasi esclusivo del Governo nello “stato di allarme” (il Congresso dei Deputati viene informato e interviene solo nella autorizzazione della proroga), al tandem con il Congresso nello “stato di eccezione” (dichiarato dal Governo ma previa autorizzazione del Congresso), sino alla netta prevalenza del Congresso nello “stato di assedio” (dichiarato dalla maggioranza assoluta del Congresso dei Deputati, su proposta esclusiva del Governo). Specificazioni di limiti e condizioni sono contenuti nella citata L.O. 4/1981 “sugli stati di allarme, eccezione e assedio”. Nell’intera gestione della pandemia il Governo ha utilizzato il primo ‘gradino’ della scala emergenziale, ovvero lo stato di allarme dichiarato per tre volte: il 14 marzo 2020, valido per tutto il territorio nazionale e prorogato per 6 volte con l’autorizzazione del Congresso; il 9 ottobre 2020, valido per 9 Comuni della Regione di Madrid; il 25 ottobre 2020, esteso a tutto il territorio nazionale e terminato il 9 maggio 2021 dopo una sola proroga.
Il ‘nodo’ al centro della sentenza è se le limitazioni di alcuni diritti, come quello di libera circolazione, operate dal Governo con la dichiarazione dello stato di allarme (R.D. 463/2020), configurino una restrizione legittima degli stessi – limitazione o sospensione? – dal momento che la Costituzione ammette la possibilità di sospendere alcuni diritti solo in caso di dichiarazione dello stato di eccezione (art. 55.1 Cost.). In termini strettamente procedurali la differenza tra stato di “allarme” ed “eccezione” è data dal diverso ruolo giocato dal Parlamento – che solo nel caso dello “stato di eccezione” è più incisivo dovendo, il Congresso dei Deputati, autorizzare lo stesso – e dalla durata dello stesso, 15 giorni prorogabili nel primo caso e 30 giorni prorogabili nel secondo. Da un punto di vista ‘sostanziale’ sono diverse le circostanze di alterazioni della normalità che portano all’attivazione dello stato di allarme (art. 4 L.O. 4/1981) piuttosto che dello stato di eccezione (art. 13 L.O. 4/1981), nonché gli effetti che ne conseguono (artt. 11 e 12, per lo stato di allarme, e artt. 13, 16-30, per lo stato di eccezione, della L.O. 4/1981). Come si legge nella sentenza, i ricorrenti non mettono in discussione l’esistenza del presupposto che ha consentito al Governo di dichiarare lo stato di allarme con R.D. 463/2020, quindi non è in discussione la decisione politica, bensì la validità di alcune misure adottate in conseguenza di detta dichiarazione (f.j. 2).
Dopo un intenso dibattito che ha visto una dura contrapposizione tra il blocco dei giudici costituzionali conservatori e quello dei giudici progressisti, la sentenza viene adottata con una maggioranza di 6 a 5 (i giudici sono 11 dopo le dimissioni del giudice Fernando Valdés Dal-Ré avvenuta nell’ottobre del 2020 a seguito di un’inchiesta giudiziaria a suo carico) a favore della parziale incostituzionalità di alcune misure, dove il voto della vicepresidente del TC, E. Roca, ha fatto la differenza. II testo della sentenza è corredato dai votos particulares dei 4 giudici che insieme al Presidente del TC, J.J. González Rivas, hanno votato contro.
Nelle 80 pagine di sentenza non si mette in dubbio la ‘sostanza’ delle misure restrittive adottate dal Governo, ritenute necessarie, adeguate e proporzionate, comparabili a quelle adottate in altri Paesi limitrofi, bensì la ‘forma’, ovvero l’adeguatezza dello strumento giuridico utilizzato per dare ‘copertura’ legale alle restrizioni. Nel rispondere a tale quesito, il TC propende per una intepretación integradora degli stati di emergenza per cui pur se la pandemia rientrerebbe tra le cause che legittimano la dichiarazione dello stato di allarme (crisi sanitaria, art. 4 L.O. 4/1981), quest’ultimo consente solo di limitare i diritti fondamentali e non di ‘sospenderli’. La situazione di grave emergenza causata dal Covid-19 ben rientra negli efectos pertubadores che giustificano la dichiarazione dello stato di eccezione (art. 13.1 L.O. 4/1981). Citando il recente caso Terheş v. Romania della Corte EDU, il TC sottolinea la rilevanza degli “effetti” più che della “causa” della pandemia da Covid-19, la cui gravità ed estensione mettono in crisi il normale esercizio dei diritti, nonché il normale funzionamento delle istituzioni democratiche e l’ordinaria fruizione di servizi fondamentali (sanità, istruzione). Ciò significa, secondo i giudici, che l’ordine pubblico costituzionale, inteso in senso lato (comprensivo non solo degli elementi politici, ma riferito anche alla normale attuazione degli aspetti più elementari della vita sociale ed economica), risulta pienamente interessato rischiando una “grave alterazione” che giustifica pienamente la dichiarazione dello stato di eccezione (f.j.11).
Sulla base di tali argomentazioni, il Tribunale costituzionale annulla le misure previste nei commi 1, 3 e 5 dell’art. 7 del R.D. 463/2020 che vietavano la libera circolazione dei cittadini e dei veicoli privati (salvo per le attività tassativamente elencate, come l’acquisto di alimenti, prodotti farmaceutici o beni di prima necessità) e che consentivano al ministro dell’Interno di chiudere strade, o tratti di esse, alla circolazione per motivi di salute pubblica (art. 7 R.D.). Risultano violati il diritto fondamentale di circolare liberamente su tutto il territorio nazionale e il diritto di scegliere liberamente la residenza (art. 19 Cost.) poiché le restrizioni straordinarie imposte dall’art. 7 del R.D. 463/2020 ai diritti menzionati eccedono l’ambito d’azione costituzionalmente e legislativamente riconosciuto allo stato di allarme. La sentenza annulla, inoltre, l’autorizzazione al Ministro della Sanità di “modificare o ampliare” le misure di contenimento delle attività commerciali, alberghiere etc. (art. 10 R.D. 463/2020) mentre rigetta la violazione di altri diritti fondamentali invocati dai ricorrenti quali il diritto di manifestare, il diritto di partecipare alle riunioni dei partiti politici o dei sindacati, il diritto all’istruzione, la libertà d’impresa e il diritto alla libertà religiosa. In questo caso, le limitazioni introdotte, per quanto intense, non hanno comportato, secondo i giudici, una sospensione dell’esercizio dei diritti menzionati, bensì restrizioni eccezionali, proporzionate alle circostanze straordinarie derivate dalla crisi sanitaria, dalla necessità di preservare il diritto alla vita e alla salute di tutti i cittadini e di evitare il possibile collasso del sistema sanitario. Con riferimento agli effetti della declaratoria di incostituzionalità si esclude la responsabilità patrimoniale dello Stato nonché la possibilità di riesaminare i processi conclusi con sentenza passata in giudicato o le situazioni decise da atti amministrativi definitivi o altre situazioni giuridiche generate dall’applicazione dei precetti annullati, salvo lA possibilità di revisione di procedimenti penali o contenziosi-amministrativi riferiti ad un procedimento sanzionatorio in cui, per effetto della nullità della norma, risulta una riduzione della pena o della sanzione, ovvero un’esclusione, esenzione o limitazione di responsabilità (f.j. 11).
Al di là di ogni tecnicismo giuridico, la ‘chiave di volta’ è l’eccezionalità dell’emergenza pandemica che ha fatto saltare i limiti temporali e territoriali che normalmente giustificano restrizioni anche incisive dei diritti fondamentali in situazioni emergenziali. Stiamo parlando, infatti, di una emergenza “speciale” che non ha colpito un territorio circoscritto (almeno nelle prime ondate) e non ha un tempo di estinzione limitato o prevedibile. Il connubio tra gravità dell’emergenza, necessità di sospendere alcuni diritti fondamentali e, di conseguenza, l’esigenza di bilanciare tale situazione con garanzie più forti quali il ruolo più incisivo del Parlamento (come previsto nello “stato di eccezione”), sembra essere la motivazione alla base di questa sentenza che rimettere in discussioni strumenti sì giuridici ma con importanti riflessi in termini di scelte politiche, non facili, operate da un Governo ancora alla ricerca di una sua precisa identità. Siamo dinanzi al rischio, l’ennesimo, di una lettura politica di una sentenza (le sentenze sul processo di indipendenza catalano docet!)? Ciò avviene in una società che registra profonde divisioni e in un contesto partitico incandescente in cui le forze politiche da anni sembrano aver abdicato alla loro funzione delegando ai giudici, del più alto livello, decisioni che richiedono, invece, intese e negoziazioni da assumere nell’arena politica. D’altra parte, il dibattito appena apertosi in Italia sulla possibilità di rendere obbligatorio il green pass per l’accesso in luoghi pubblici dà conto dell’estrema ‘delicatezza’ di alcune scelte che implicano uno stretto bilanciamento tra diversi diritti in cui le scelte dei singoli devono fare i conti con l’interesse collettivo.
27 Luglio 2021
Una pieza más nel puzzle del procés sobiranista catalano: la dichiarazione di indipendenza “sospesa”
Martedì 10 ottobre il Presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, ha posto un ulteriore tassello nel complesso puzzle del desafío indipendentista catalano.
Nel plenum del Parlament catalano, riunito su richiesta del Presidente della Generalitat (ex art. 169 del Regolamento del Parlamento catalano) per dar conto dei risultati della consultazione indipendentista della settimana scorsa, Puigdemont assume il “mandato” di dichiarare l’indipendenza catalana – la Catalogna come Stato indipendente con forma repubblicana – come risultato della consultazione catalana, salvo poi proporre che il Parlamento catalano ne sospenda gli effetti per favorire il dialogo con il Governo spagnolo e con l’Unione Europea e giungere, in tal modo, a una “soluzione concordata”.
L’intervento del Presidente catalano, iniziato con un’ora di ritardo per la mancanza di accordo con la CUP (Candidatura d’Unitat Popular) circa l’efficacia differita della DUI (Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza) e caratterizzato da evidenti acrobazie retoriche, ripercorre alcuni passaggi cruciali della “umiliazione” subita dalla Catalogna nella recente storia costituzionale spagnola, il cui punto di “non ritorno” sembra essere la “frustrazione” del testo di riforma dello Statuto di autonomia nel 2006 (LO 6/2006), operata dalle Cortes Generales e dal Tribunale costituzionale.
Si tratta di un discorso assolutamente in linea con le profonde contraddizioni che hanno caratterizzato gli eventi accaduti negli ultimi giorni all’indomani del “voto” per l’indipendenza catalana a partire del quale già si è delineato un “antes” y un “después” del 1-O.
Domenica 1 ottobre (il cd. “1-O”, interpretato erroneamente come l’1 a zero di Barcellona su Madrid!), abbiamo assistito a quella che in molti definiscono la ‘farsa’ del referendum catalano che ha dato avvio a una commedia romantica, per alcuni (l’afflato romantico del nazionalismo catalano), un film d’azione, per altri (scontri della guardia civil con i votanti e contrasti della forza dell’ordine statale con la polizia regionale), o forse, semplicemente, a un film d’animazione con suspense finale! Dopo una settimana si sono aggiunte molte altre “scene” che rendono sempre più lontana e incerta la risoluzione della grave rottura che si sta consumando non solo sul piano giuridico-costituzionale ma anche sociale ed economico.
È ormai accertato che gli ultimi atti normativi adottati dal Parlament catalano in preparazione del referendum dell’1-O (Llei del referèndum d’autodeterminació de Catalunya, del 6 settembre e Llei de transitorietat jurídica i fundacional de la República, dell’8 settembre) abbiano definitivamente prodotto una duplice rottura nello stato di diritto, infrangendo sia la legalità costituzionale e le basi fondative della democrazia costituzionale spagnola sia la legalità, per così dire, “regionale”, al cui apice si trova lo Statuto di autonomia catalano. Sul piano squisitamente giuridico, l’utilizzo dello strumento referendario da parte di una Comunità Autonoma (regione) per dichiarare unilateralmente l’indipendenza dallo Stato spagnolo è inammissibile, per lo meno nel sistema costituzionale vigente. L’intero processo messo in atto dalla Generalitat (governo) catalana si pone, quindi, in palese contrasto con la Costituzione, contravvenendo alle decisioni degli organi giudiziari, incluso il Tribunale costituzionale che aveva sospeso lo stesso referendum. Sarebbe sterile fermarsi al solo piano delle “regole del diritto”; non si può prescindere dal contesto politico-sociale ed economico della “questione catalana” per provare a capire la sua rapida evoluzione. Non si tratta, infatti, di un mero scontro tra due diversi livelli (centrale e periferico) del sistema giuridico spagnolo ma tra due “pezzi” della società catalana, in primis, e spagnola in generale, con evidenti echi a livello europeo. La “questione catalana” non è solo un problema catalano o spagnolo ma europeo. È uno scontro tra due diversi modi di concepire la democrazia, lo stato di diritto, i diritti fondamentali, le libertà e i doveri dei cittadini, il patto sociale, la solidarietà, l’integrazione delle diversità.
Quel consenso e quel patto di convivenza tra forze politiche e territori, che ha consentito alla Spagna di transitare abbastanza velocemente verso la democrazia e una forte regionalizzazione (sarebbe più corretto parlare di federo-regionalizzazione), si è incrinato e la crisi economica, con la connessa politica di austerità, insieme alla crisi dei partiti tradizionali (l’avversione all’establishment) ne hanno accelerato i tempi.
Chi ha in mano la “tabella di marcia” del sovranismo catalano? La potente forza civile indipendentista? Eppure i numeri dicono altro. I risultati definitivi del referendum, annunciati venerdì dal Governo catalano (senza nessun tipo di controllo da parte di un’autorità terza), registrano il 90,18% di “si” (a uno Stato indipendente in forma di Repubblica) con una partecipazione del 43% degli aventi diritto al voto (di cui il 38% si è espresso favorevolmente). È sufficiente un siffatto livello di partecipazione per dichiarare l’indipendenza di una parte del territorio dallo Stato?
È evidente che la sola forza del diritto non basta a risolvere la questione. Il “dialogo” a colpi di sentenze messo in atto dal Governo Rajoy non ha prodotto i risultati sperati. Aver preferito il ricorso ai soli meccanismi giudiziari, pur necessari, rispetto ad altri strumenti di natura politica, previsti dalla stessa Costituzione (es. la sospensione dell’autonomia ex art. 155 Cost. o lo stato di emergenza ex art. 116 Cost.) o dalla legislazione (Ley de Seguridad Nacional approvata nel 2015), ha contribuito ad alimentare uno scontro che ormai a fatica cammina sui binari della legalità costituzionale. Le decine di sentenze adottate dal Tribunale costituzionale, insieme alle centinaia di sanzioni comminate ai diversi organi istituzionali e amministrativi catalani, non sono state supportate dal confronto politico, esponendo il più alto organo di giustizia costituzionale al rischio di una progressiva e dannosa politicizzazione della sua attività super partes.
Non pare aver sortito molti effetti il duro intervento di condanna del re Felipe VI: un discorso inedito nella forma e nel contenuto, scrive la stampa spagnola, che ricorda quello tenuto dal padre, Juan Carlos I, in occasione del colpo di stato del 23-F (23 febbraio 1981). Una comparazione poco fortunata. Tuttavia, in questa occasione, Felipe VI qualifica giuridicamente i fatti e le loro conseguenze, sintetizzabili nell’accusa di una condotta sleale, irresponsabile e inaccettabile, tenuta dalle istituzioni catalane che rappresentano lo Stato nella regione catalana. Né le dichiarazioni rese dalle istituzioni UE, formalmente incompetenti su questioni relative all’organizzazione interna degli Stati membri, sono state in grado di far rinsavire la Generalitat sulla presunzione di un’automatica membership europea della nascente Repubblica catalana, trattandosi di un processo illegale di separazione.
La risposta catalana al Re non si è fatta attendere. Dopo 24 ore Puigdemont conferma che la Catalunya va diritta verso la Dichiarazione unilaterale di indipendenza. Ancora un braccio di forza tra i due governi, scandito dall’ennesimo intervento, in tempi record, del Tribunale costituzionale che giovedì ha disposto la sospensione, in via cautelare, della sessione plenaria del Parlamento catalano prevista per il lunedì 9 ottobre, sulla base di un recurso de amparo (ricorso) presentato dal Partito socialista catalano. Come spiegano i giudici, si tratta di un caso di “urgenza eccezionale” con una “ripercussione sociale ed economica rilevante e complessiva”: se il plenum del Parlamento catalano adottasse la Dichiarazione di indipendenza esisterebbe un rischio di grave violazione della Costituzione e di “annullamento” dei diritti dei deputati (di minoranza), per cui qualsiasi atto adottato in violazione a tale sospensione sarebbe completamente nullo e privo di efficacia. Nel frattempo, come già avevano annunciato diversi economisti, è iniziata la ‘diaspora finanziaria’ sullo sfondo dell’allarme lanciato dal FMI e della ‘mano’ tesa da Madrid. Ai due grandi istituti bancari (la Caixabank e Sabadell) che hanno spostato la loro sede sociale fuori dalla Catalunya si aggiungono diverse imprese storiche della regione (Gas Natural, Eurona, Dogi, Oryzon Genoma), mosse dal rischio che comporterebbe l’uscita dall’Eurozona. Il Governo di Rajoy non ha perso tempo adottando venerdì un decreto legge che agevola tale trasferimento, a garanzia del principio costituzionale della libertà di impresa. Il deterrente economico, forse, potrebbe sortire qualche effetto considerato che la Catalunya, pur presentando valori molto positivi del Pil pro capite (è quarta tra le regioni spagnole), è la Comunità autonoma con il più alto debito di cui i 2/3 nei confronti dello Stato.
Nel frattempo la società civile risponde. È emblematico che all’assenza di dialogo tra i due governi le piazze delle principali città spagnole, sabato 8 a Madrid e domenica 9 ottobre a Barcellona, si siano riempite di manifestanti uniti dallo slogan “Parlem-hablamos” (parliamo) e da bandiere simbolicamente bianche. La “maggioranza silenziosa” dei non-indipendentisti è scesa in piazza a Barcellona presenziata da due diverse figure, il socialista Josep Borrell (ex ministro ed ex presidente del Parlamento Europeo) e lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, premio nobel alla letteratura. Entrambi sottolineano la necessità di difendere il pluralismo politico dalle degenerazioni della passione nazionalista, decostruendo l’immagine della Catalunya come colonia oppressa dal Governo centrale, vittima, invece, di una “congiuntura golpista” del governo indipendentista catalano (Vargas Llosa). In tale direzione sembrerebbe procedere il Documento, non datato, Enfo CATs Reenfocant el procés d´independencia per un resultat exitó rinvenuto giorni fa dalla Guardia Civil dove emerge con chiarezza la strategia politica che il governo catalano avrebbe seguito all’indomani delle elezioni del 2015: generare un conflitto democratico ampiamente appoggiato dai cittadini, finalizzato a creare instabilità politica ed economica in modo da forzare lo Stato ad accettare la negoziazione per una separazione o un referendum forzato. Fino a questo momento la strategia dell’indipendentismo sembra essere stata messa in atto in ogni punto; lo Stato è stato sufficientemente provocato per costringerlo a reagire e se questo dovesse intervenire utilizzando gli strumenti pur previsti in Costituzione, tale intervento certamente andrebbe ad alimentare le reazioni sovversive già manifestate nella “mobilitazione” del 1-O…un circolo vizioso, dunque, ma fino a che punto? Fino a che punto si può proseguire in questo gioco al rialzo senza correre il rischio che il patto costituzionale si ‘rompa’ realmente?
Dopo la dichiarazione (implicita?) di indipendenza, i deputati catalani del blocco indipendentista Junts pel Sí e del CUP si sono riuniti nell’Auditorio del Parlamento catalano per firmare un documento dove si dichiara la costituzione della Repubblica Catalana, come Stato indipendente e sovrano, di diritto, democratico e sociale. Si tratta di un atto chiaramente privo di valore giuridico (non è stato votato nel plenum del Parlamento) dove non si menziona la sospensione degli effetti della Dichiarazione ma, piuttosto, l’entrata in vigore della Llei de transitorietat jurídica insieme alla volontà di aprire negoziazioni con lo Stato spagnolo in condizioni di uguaglianza e di far conoscere alla comunità internazionale e alle istituzioni dell’UE la ‘nascente’ Repubblica. Inizia, dunque, il “processo costituente” catalano, se pur formalmente in “sospensione” (un ultimatum per il Governo di Rajoy?), rispetto al quale il Governo spagnolo ha già convocato un Consiglio dei Ministri straordinario, mercoledì 11 ottobre, nel quale sono state discusse le possibili soluzioni costituzionalmente e legalmente percorribili. Sul tavolo di discussione vi era in primis l’art. 155 Cost. conosciuto come la norma della “coazione statale” (cumplimiento forzoso), una disposizione che richiama, in ambito comparato, l’istituto della “coazione federale” sancito dall’art. 37 della GG tedesca di cui condivide la ratio legis: strumento straordinario da utilizzare come extrema ratio in difesa dell’unità dello Stato. Di fronte all’indipendentismo diviso, come apparso martedì in occasione della dichiarazione “implicita” di indipendenza, la prima ‘mossa’ del Governo di Rajoy è stata quella di trovare il consenso, quanto più vasto, delle altre forze politiche, PSOE e Ciudadanos, prima di adottare una risposta ufficiale. La decisione del Governo centrale, dopo la riunione straordinaria, va nella direzione di presentare una richiesta formale al Presidente della Generalitat circa la conferma che quanto dichiarato ieri sia una reale dichiarazione di indipendenza. Si tratta, quindi, dell’avvio della “fase preliminare” prevista dal citato art. 155 Cost.
L’evoluzione del procès sobiranista catalano è, probabilmente, uno degli esempi più evidenti degli effetti prodotti dalla strategia politica, demagogica e manipolativa, della “post-verità” in cui si sovrappone la volontà del “popolo”, catalano, con quella di un “cartello politico” alla guida del governo regionale; in cui si confonde il diritto a decidere con l’indipendenza, il diritto di voto con la democrazia tout court.
12 Ottobre 2017