Angelo Casu
La Corte di giustizia afferma la contrarietà ai principi euro-unitari della normativa italiana sulla monetizzazione delle ferie non godute nel pubblico impiego
1. Con la sentenza C – 218/22 del 18 gennaio 2024 la Corte di giustizia si pronuncia nuovamente sul tema del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie non godute. Nell’ambito di una controversia tra un lavoratore e l’amministrazione pubblica presso cui era impiegato, il Giudice ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla conformità ai principi euro-unitari dell’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012.
Il caso di specie origina dalla domanda del lavoratore di condanna dell’Amministrazione, al pagamento dell’indennità di fine rapporto per i giorni di ferie non goduti.
La difesa della controparte faceva leva sul divieto di monetizzazione delle ferie disposto dall’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012. Invero, tale norma prevede che «le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione [...] sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età».
In particolare, in ciò rileverebbe la circostanza che il rapporto di lavoro era cessato per dimissioni volontarie del lavoratore.
I giudici lussemburghesi, investiti della questione pregiudiziale dal giudice di merito, affermavano il contrasto dell’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012 con l’art. 7, dir. 2000/78/CE e con l’art. 31, par. 2, CDFUE.
2. Al fine di una effettiva comprensione delle questioni giuridiche affrontate nella sentenza in commento, è opportuno, innanzitutto, inquadrare brevemente il diritto alle ferie nell’ordinamento italiano e sovranazionale.
Il diritto del lavoratore alle ferie annuali retribuite è garantito, insieme al diritto al riposo settimanale, dal comma 3 dell’art. 36 Cost., a cui la norma attribuisce carattere di irrinunciabilità. La finalità delle ferie è quella di proteggere le «energie psicofisiche» (C. cost. n. 66/1963) del lavoratore, consentendogli, altresì, lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato contemperamento «delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore» (art. 2109, co. 2, c.c.), anche in relazione agli artt. 2 e 32 della Costituzione (cfr. Bellomo).
Il lavoratore può ritenersi, del resto, per gli effetti dell’art. 2109, co. 2, c.c., creditore della prestazione attiva del datore di lavoro, nell’ambito dell’esercizio del potere direttivo di individuare ed assegnare il periodo di ferie.
Il diritto a un periodo di ferie annuali retribuite si rinviene altresì nelle fonti internazionali, come la Convenzione OIL n. 132, del 24 giugno 1970, nonché tra i principi dell’ordinamento euro-unitario, in forza dell’art. 31, par. 2, CDFUE. La direttiva 2003/88/CE, in materia di orario di lavoro, in attuazione degli obiettivi di politica sociale ex artt. 151 e 153 TFUE, dispone all’art. 7 che il periodo minimo di ferie annuali non possa essere sostituito da un’indennità finanziaria, «salvo in caso di cessazione del rapporto». Pertanto, la norma comunitaria, recepita pedissequamente dall’art. 10 d.lgs. n. 66/2003, conserva la assolutezza del diritto alla fruizione delle ferie in corso di rapporto, che si traduce nel divieto di monetizzazione delle ferie. L’art. 7 dir. 2003/88/CE autorizza, d’altra parte, la compensazione delle ferie non godute con una cd. «indennità sostitutiva» esclusivamente al momento della cessazione del rapporto.
3. Il caso di specie verte sull’ art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012, giacché il rapporto di lavoro oggetto del giudizio è soggetto alla disciplina del pubblico impiego. Dalla lettera della norma, si evince come il legislatore sia intervenuto in termini restrittivi, non consentendo la corresponsione dell’indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto. In questo senso, la norma sembra porre un divieto di portata generale, non selezionando eccezioni di alcun tipo.
Tuttavia, la Corte costituzionale, investita della questione di legittimità, ha offerto una lettura della norma costituzionalmente orientata con la sentenza interpretativa di rigetto C. cost. 6 maggio 2016, n. 95. Ad avviso della Consulta l’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012 rafforza, anziché violare, il diritto fondamentale alle ferie, tutelato dall’art. 36 Cost. e dalla normativa euro-unitaria.
La norma si prefiggerebbe, così, di «reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie», incentivando «una razionale programmazione del periodo feriale, mirata a garantire una effettiva fruizione del periodo di riposo. (C. cost. n. 95/2016). In questi termini, la sola cessazione del rapporto non è giudicata di per sé un fatto idoneo ad escludere una scelta organizzativa che possa garantire il diritto in esame.
Rileva, in particolare, che la disposizione non sopprime la «tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole». In tal senso, la Consulta evidenzia che la compensazione economica a favore del lavoratore può derivare al mancato godimento delle ferie per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore.
Del resto, l’art. 5, d.l. n. 95/2012, correla il divieto di corrispondere trattamenti economici sostituitivi del godimento delle ferie, in particolare, ai casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile a una scelta del lavoratore, tra cui rientrano per espressa disposizione legislativa le dimissioni.
4. La sentenza C-218/22 si inserisce nel recente orientamento giurisprudenziale della Corte di giustizia, teso ad ampliare e a valorizzare l’effettività del diritto alle ferie, che richiama l’art. 7 della direttiva 2003/88/CE e l’art. 31 CDFUE.
I giudici lussemburghesi, in tal senso, hanno affermato che se, da una parte, la normativa di attuazione può definire le condizioni di esercizio e di attuazione del diritto alle ferie, d’altra parte, la costituzione del diritto stesso non può essere subordinato ad alcuna condizione, giacché trova la sua fonte nella direttiva 2003/88/CE. A tal proposito, la Corte di giustizia ha evidenziato che l’indennità economica costituisce un diritto connaturato al diritto alle ferie, sebbene non abbia il carattere sostitutivo del diritto al riposo effettivo.
Pertanto, la normativa nazionale potrà introdurre delle limitazioni temporali, come dei termini di prescrizione, al diritto all’indennità finanziaria, anche successivi alla cessazione del rapporto, a condizione che il lavoratore sia stato posto nella condizione di esercitare il diritto alle ferie.
Del resto, la Corte di giustizia, in relazione all’obiettivo, perseguito dal legislatore nazionale con l’art. 5, d.l. n. 95/2012, di «contenimento della spesa pubblica», ha ribadito come il livello di protezione della salute e sicurezza dei lavoratori non possa essere pregiudicato da «considerazioni di carattere puramente economico» (Considerando 4, Dir. n. 2003/88/CE).
Inoltre, facendo leva sulla nozione di “effetto utile”, con la decisione del 6 novembre 2018, Grande Sezione, Max Planck, la Corte di giustizia, ha posto a carico del datore dei precisi obblighi informativi nei confronti del lavoratore. In tal senso, quest’ultimo è tenuto a invitare, se necessario formalmente, il lavoratore a fruire delle ferie e finanche a informarlo adeguatamente “in modo accurato”, qualora la normativa comporti la perdita del diritto alle ferie al termine del periodo di riferimento. Sul datore grava, pertanto, l’onere di dimostrare di aver esercitato «tutta la diligenza necessaria» affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto (sul punto sia consentito di rinviare a Casu). In mancanza di tale dimostrazione, il lavoratore che non abbia fruito del periodo di ferie conserva il diritto all’indennità sostitutiva.
5. La sentenza commentata è di particolare interesse, giacché riduce ulteriormente l’efficacia precettiva dell’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012, ponendosi, inoltre, in contrasto con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 95/2016, che aveva giudicato la norma conforme all’art. 7, co. 2, dir. n. 2003/88/CE.
Viene così accolta l’opinione di quella parte della dottrina che aveva preconizzato la contrarietà della norma alla direttiva europea, in particolare sul presupposto che l’art. 5, co. 8, d.l. n. 95/2012 ponga un divieto di portata generale, non selezionando eccezioni di alcun tipo (da ultimo Giampà).
Senonché, è possibile ritenere che il provvedimento non avrà conseguenze innovative sull’attuale portata del diritto alle ferie, come configuratesi nel diritto “vivente” italiano. Invero, la Cassazione, in una recente sentenza, è già giunta alla conclusione per cui alle dimissioni del lavoratore non possa essere attribuito di per sé «nessun valore di rinuncia all’indennità sostitutiva delle ferie» (Cass. 27 novembre 2023, n. 32807). In tal senso, la Suprema Corte ha così concluso riprendendo quanto già affermato a più riprese dalla Corte di giustizia (cfr. tra le altre CGUE 25 novembre 2021, job medium, C-233/20) sull’irrilevanza delle modalità della cessazione del rapporto di lavoro, ponendo l’attenzione sulla consapevolezza in capo al lavoratore delle modalità di esercizio del diritto, secondo i menzionati oneri procedimentali di cui alla sentenza Max Planck.
L’intervento della Corte di giustizia ha il merito, quindi, di aggiungere un elemento di chiarezza nell’interpretazione dell’art. 5, d.l., n. 95/2012, che, anche mediante i recenti interventi dei giudici di legittimità, sembra ormai assumere i caratteri di norma “apparente”.
24 Aprile 2024
di Angelo Casu
Un “message in a bottle” sul salario minimo (con uno sguardo alla proposta di legge delega). La Cassazione ribadisce la funzione di controllo del giudice in materia di giusta retribuzione
Il caso
La sentenza n. 27769/2023 della Cassazione offre una ricostruzione dei consolidati principi giurisprudenziali in tema di giusta retribuzione. Il provvedimento si segnala, altresì, per la sua attualità, in considerazione del rinnovato interesse nel dibattito pubblico per l’introduzione di un salario minimo di fonte legale.
La pronuncia dei giudici di legittimità verte sul ricorso di otto lavoratori di una cooperativa, che richiedevano l’adeguamento delle retribuzioni ai principi di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost. Invero, i ricorrenti sostenevano che i trattamenti retributivi loro corrisposti sulla base del CCNL applicato in azienda si ponessero in contrasto con la norma costituzionale, giacché financo inferiori alla soglia di povertà ISTAT (834,66 €).
La Corte d’appello rigettava le domande dei ricorrenti e dichiarava la conformità della retribuzione prevista dal CCNL all’art. 36 Cost. Il Collegio riteneva che non fosse superabile la presunzione di adeguatezza della contrattazione collettiva ai principi costituzionali, poiché dalle buste paga dei lavoratori risultava una retribuzione mensile di 930 €, superiore alla soglia di povertà. Pertanto, avverso la sentenza di secondo grado, i lavoratori proponevano ricorso con sei motivi di impugnazione, accolti dalla Cassazione.
I ricorrenti deducevano l’erroneità della sentenza impugnata per aver limitato l’accertamento di congruità del trattamento retributivo ai principi costituzionali esclusivamente al superamento della soglia di povertà. Inoltre, veniva sollevato l’error in iudicando del Collegio, laddove aveva ritenuto la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva conforme ai principi costituzionali.
La selezione della fonte…
In dottrina si è sostenuto che la giurisprudenza, piuttosto che soffermarsi su quale sia il quantum della “giusta retribuzione”, ha preferito individuare la fonte “più adeguata” a determinarla (Bavaro). Questa considerazione aiuta a comprendere le vicende ermeneutiche e di sistema che hanno caratterizzato l’art. 36, co.1, Cost., ripercorse anche dalla sentenza in commento.
La norma costituzionale, che, come è noto, assoggetta ai principi di sufficienza e proporzionalità alla qualità e alla quantità del lavoro la retribuzione, disancora la stessa da una funzione meramente “corrispettiva” e le attribuisce una funzione “sociale”, volta a garantire al lavoratore una vita dignitosa. La Corte costituzionale, già nelle sue pronunce più risalenti, ha escluso una riserva normativa o contrattuale per la determinazione della retribuzione (C. cost. 106/1962). In ogni caso, la giurisprudenza ha assunto come riferimento consolidato il parametro fornito dalle tabelle salariali della contrattazione collettiva. Invero, l’istituto della retribuzione è sensibile – per sua stessa natura – allo stato dei rapporti di forza nei diversi settori produttivi, che contribuiscono a individuare il “costo del lavoro”. È opportuno precisare che, stante l’inattuazione dell’art. 39 Cost. – e la conseguente impossibilità di estendere l’efficacia della contrattazione collettiva erga omnes –, la Consulta ha dichiarato la diretta precettività dell’art. 36 Cost. Per gli effetti, secondo un’elaborazione giurisprudenziale della Corte di legittimità granitica – al punto da poterla considerare alla stregua di “diritto vivente” (Biasi) – la norma costituzionale è direttamente invocabile in giudizio tramite gli artt. 1419 c.c., utile alla dichiarazione di nullità della clausola individuale contenente la retribuzione costituzionalmente illegittima, e 2099, co. 2, c.c., per la determinazione giudiziale della stessa.
Nel provvedimento in esame, la Corte ribadisce la presunzione di costituzionalità del trattamento retributivo contenuto nella contrattazione collettiva. Del resto, può osservarsi come la fonte collettiva contenga solitamente al suo interno un’articolazione della retribuzione oraria (quantità del lavoro), connessa al livello di inquadramento (qualità), che maggiormente si adatta nella forma a quanto richiesto dal principio di proporzionalità. Sono frequenti nella casistica giurisprudenziale, inoltre, esempi di scostamento dal parametro della contrattazione collettiva nazionale di categoria applicabile (par. 23.1). Il fenomeno si è acuito con le problematiche legate al cd. “dumping contrattuale”, su cui influiscono la frammentazione della rappresentanza e le forti dinamiche ribassiste delle relazioni industriali contemporanee (Bellomo).
La presunzione di costituzionalità è da ritenersi iuris tantum, potendo il giudice accertare la contrarietà della retribuzione all’art. 36 Cost. avvalendosi di altri parametri con puntuale e adeguata motivazione. A tal proposito, la Corte ricorda come la giurisprudenza di merito abbia talvolta utilizzato come parametro di riferimento “l’importo della Naspi o della CIG” (par. 23.2).
In questo quadro si inserisce la decisione dei giudici di legittimità, che non hanno ritenuto la soglia di povertà Istat un parametro idoneo a determinare di per sé la giusta retribuzione. In altri termini, la Cassazione esclude che la norma costituzionale limiti il proprio spazio di tutela alla garanzia di una vita “non povera” (par. 13), essendo la retribuzione proiettata alla garanzia di una vita libera e dignitosa. A sostegno di tale interpretazione vengono richiamate le fonti di diritto internazionale ed euro-unitario sui minimi salariali. Con particolare riferimento alla dir. UE 2022/2041 (su cui De Giuli) – che orienta l’interpretazione del giudice ancor prima dell'attuazione nell’ordinamento nazionale (par. 24.1.) – si menziona il rilievo attribuito all'adeguatezza della retribuzione, volta al conseguimento di condizioni di vita e di lavoro dignitose. Appare problematico il richiamo tra i criteri di giudizio al considerando 28 della medesima direttiva, che propone di attenersi al “rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50% o il 60% del salario netto medio”. Oltre a essere inconferente, giacché riferibile alla nozione di salario minimo legale, nel contesto supra delineato, caratterizzato da un ampio spazio di discrezionalità riservato al giudice, un simile rimando potrebbe determinare un abbassamento delle tutele, a scapito della contrattazione collettiva più garantista sotto questo profilo.
… e la sua adeguatezza
La Cassazione, avendo ritenuto la soglia di povertà Istat un parametro inidoneo a determinare la conformità costituzionale della retribuzione, è chiamata a giudicare la legittimità del trattamento salariale contenuto nel CCNL Vigilanza Privata Servizi Fiduciari, applicato ai rapporti di lavoro dei ricorrenti.
A tal proposito, la Corte ribadisce la centralità della contrattazione collettiva come parametro per l’individuazione della giusta retribuzione, dal quale il giudice può discostarsi solo “con grande prudenza e rispetto” (richiamando Cass. 2245/2006 e 546/2021). Tuttavia, tenendo conto della crisi della rappresentanza sindacale e dei rischi sociali di una concorrenza al ribasso tra contratti collettivi, la Cassazione chiarisce che la presunzione di conformità della contrattazione collettiva alla norma costituzionale non operi in senso assoluto. Il potere giudiziale di determinazione della giusta retribuzione, pertanto, trova applicazione non solo “in mancanza”, ma “nonostante” una specifica contrattazione di categoria. Il principio è di particolare interesse, giacché si applica a una società cooperativa, nell’ambito, quindi, della l. n. 142/2001 e del d.l. n. 248/2007, che prevedono come ai soci lavoratori debbano corrispondersi trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. In tal caso, il minimo retributivo è individuato dalla legge mediante un rinvio alla contrattazione collettiva. La Cassazione afferma che la parte retributiva del contratto collettivo selezionato dalla legge è, ad ogni modo, sottoposta al vaglio giudiziale di conformità ai principi di proporzionalità e sufficienza. D’altronde, sostenere, diversamente, che il giudice sia vincolato ad adottare come parametro il trattamento retributivo della contrattazione collettiva, equivarrebbe ad attribuirgli efficacia erga omnes, esponendo la norma di rinvio a un giudizio di costituzionalità per violazione dell’art. 39 Cost.
Considerazioni conclusive
La Corte, coerentemente con quanto argomentato nelle motivazioni, rinvia al giudice del merito la valutazione sul quantum della giusta retribuzione. I principi di diritto enunciati vincolano la Corte d’appello a utilizzare come parametro, in primis, la contrattazione collettiva nazionale di categoria a cui rinvia la legge, in subordine, i trattamenti retributivi stabiliti in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe e “all’occorrenza” (par. 55) indicatori economici e statistici.
Comprensibilmente, quindi, la Cassazione non sconfina nel merito della determinazione quantitativa della giusta retribuzione, bensì si preoccupa di indicare i parametri su cui basare la decisione. Ferma la natura immediatamente precettiva dell’art. 36 Cost., appare ineliminabile lo spazio di discrezionalità affidato al giudice, anche in presenza di una legge che determinasse il minimo retributivo attraverso un rinvio alla contrattazione collettiva. Pertanto, con un obiter dictum – dal contenuto enigmatico – la Cassazione auspica l’individuazione di un “quid pluris”, rispetto al solo “quantum parametrico” costituito dalla sola contrattazione.
L’invito, tuttavia, non sembra essere stato raccolto dal legislatore nella proposta di legge delega A.C. 1275, approvata dalla Camera lo scorso 6 dicembre, che investe la fonte collettiva del ruolo di garantire l’attuazione del diritto dei lavoratori ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell'art. 36 Cost. (art. 1, co.1). In proposito, si consenta una breve notazione critica sulla scelta di avvalersi della – insidiosa – nozione di “contratti collettivi nazionali maggiormente applicati” (art. 1, co. 1 e co. 2, lett. a), b), g), al fine di determinare i trattamenti retributivi minimi. L’abbandono del – pur problematico – concetto di rappresentatività delle parti sociali nella selezione della contrattazione, rischia di favorire l’applicazione di contratti collettivi non effettivamente negoziati o sottoscritti da sindacati poco o nulla rappresentativi, contenenti condizioni più sfavorevoli per i lavoratori. Ne risulterebbe così pregiudicata la funzione sociale della retribuzione.
18 Dicembre 2023
di Angelo Casu
La Corte costituzionale corregge la riforma Fornero sull’articolo 18 (con uno sguardo al Jobs Act?)
Dopo più di un mese dalla camera di consiglio, cui era seguito il comunicato stampa del 24 febbraio 2021, la Corte ha depositato la sentenza n. 59 del 2021 che ha rilevato una illegittimità costituzionale parziale del co. 7° dell’articolo 18 della l. n. 300 del 1970 (cd. Statuto dei lavoratori), come modificato dalla cd. legge Fornero (n. 92 del 2012). La questione, affrontata in via incidentale, è stata portata all’attenzione dei giudici della Consulta con l’ord. del 7 febbraio 2020 del Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, il quale dubitava della costituzionalità della norma nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non debba – disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Le vicende processuali prendevano il via dall’opposizione del datore di lavoro all’ordinanza con cui il giudice aveva disposto la reintegra del lavoratore per manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La successiva scelta del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva, nell’opinione del giudice rimettente, accolta dalla Corte, non scalfirebbe la rilevanza del giudizio incidentale di costituzionalità, in quanto l’applicazione della citata norma appare caratterizzante la natura della tutela apprestata (reintegratoria, pur sostituita da indennità, o meramente indennitaria, ex art. 18, co. 3, St. lav.).
La decisione della Corte costituzionale interviene in una questione che molto aveva impegnato dottrina e giurisprudenza. Già tra i primi commentatori si era rilevata come problematica la discrezionalità del giudice in ordine alla scelta tra tutela reale o risarcitoria. Infatti, mentre il comma 4° dell’art. 18 prevede l’automatismo della reintegrazione nei casi dell’insussistenza del fatto, per quanto concerne i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o giusta causa («annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione»), il comma 7° affida al giudice la mera possibilità di apprestare la tutela reale alle ipotesi della manifesta insussistenza del fatto alla base del motivo oggettivo («può altresì applicare…»), senza dotarlo di alcun riferimento ermeneutico sul quale basare la propria scelta.
La dottrina maggioritaria aveva sin dal principio ritenuto che l’espressione «può» dovesse interpretarsi nel senso di «deve», ponendosi questa come l’unica interpretazione costituzionalmente legittima in applicazione del principio di certezza del diritto (Maresca, Vallebona, Carinci). Interpretazione avallata dalle prime pronunce della Suprema Corte, la quale aveva affermato che la «giuridica inesistenza del fatto obiettivo presupposto (a base del licenziamento), valutate altresì le circostanze del caso concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del giudice» (Cass. 14 luglio 2017, n. 17528). In seguito, tuttavia, la stessa Corte di cassazione aveva modificato il proprio orientamento, individuando nel principio civilistico dell’eccessiva onerosità – ex art. 2058 c.c. – il criterio ermeneutico determinante per la decisione del giudice, escludendo, di conseguenza, la tutela reintegratoria nel momento in cui essa «sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), orientamento affermatosi poi come maggioritario, al di là di alcuni ripensamenti (es. Cass. 13 marzo 2019, n. 7167; in senso conforme Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930, Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366).
A tal proposito, il giudice a quo argomenta in favore di quest’ultimo orientamento, sostenendo come l’interpretazione costituzionalmente orientata (che legge il «può» come un «deve») finisca per risolversi in «una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di costituzionalità. In tal modo il giudice rimettente supera i paletti dell’ammissibilità della questione (l’obbligo di interpretazione conforme), ritenendo giuridicamente impercorribile la via dell’interpretazione adeguatrice. Tale interpretazione, come sosterrà la Consulta, sarebbe in contrasto, oltre che con il dato testuale, anche con la ratio legis desumibile dalla lettura dei lavori parlamentari, in cui la «disarmonia» tra le situazioni giuridiche in oggetto è apparsa ben chiara al legislatore.
Con riferimento al merito della questione, l’ordinanza del giudice a quo solleva dubbi di legittimità costituzionale con riferimento a diversi parametri: dapprima per un contrasto con l’art. 3, primo comma, in quanto la differenza di tutela esperibile dal giudice sarebbe «determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto esplosivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso». Altro parametro costituzionale richiamato dal rimettente è l’art. 41, primo comma, in quanto la norma in oggetto doterebbe il giudice di poteri para-imprenditoriali, violando in questo modo la libertà di iniziativa economica. Quanto rilevato in merito al principio di eguaglianza ex art. 3 confliggerebbe infine anche con i diritti di azione e difesa del lavoratore, nonché con i principi del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost).
La Corte costituzionale ha invero ritenuto sufficienti – e quindi assorbenti gli ulteriori profili, della cui sostenibilità, con riferimento soprattutto all’art. 41 è possibile, a parere di chi scrive, dubitare – i motivi riguardanti la violazione dei principi ricavabili dall’art. 3 Cost. Innanzitutto, la Corte effettua una disamina della propria giurisprudenza evidenziando come, sulla base dei principi costituzionali del diritto al lavoro (art. 4, primo comma) e della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), la stessa abbia da tempo fondato l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie del licenziamento, tali da evitare che il lavoratore possa essere «estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente».
Tali garanzie, tuttavia, per quanto costituzionalmente obbligate, sarebbero riconducibili «nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela […] anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili». La Corte ha poi ribadito come la reintegrazione non rappresenti «l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali», potendo la tutela esplicarsi in una pluralità di rimedi parimenti idonei. Ciò detto, tuttavia, i giudici costituzionali hanno ribadito che, nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, sia vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza desumibili dall’art. 3. Ed è proprio sulla scorta di tali parametri che la Corte riscontra problematicità nella normativa impugnata: il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivelerebbe infatti una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, lesiva del principio di eguaglianza.
Non sarebbe infatti giustificabile, secondo la Consulta, una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole, in base alla valutazione del legislatore, del rimedio della reintegrazione. Tenendo poi conto che per il licenziamento economico è richiesto «finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta», la facoltatività della tutela reale per i soli licenziamenti economici sarebbe a maggior ragione priva «di una ragione giustificatrice plausibile».
Sarebbe poi «sprovvisto di un fondamento razionale» anche il menzionato orientamento giurisprudenziale legato alla valutazione sull’ eccessiva onerosità: i licenziamenti economici, secondo la Corte, «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Il criterio dell’eccessiva onerosità non sarebbe poi in grado di evitare quella «irragionevolezza intrinseca» caratterizzante la norma, dovuta alla totale mancanza di criteri applicativi idonei ad orientare il giudice, provocando «ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento». Tale criterio, inteso come «incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa», appare configurarsi «indeterminato e improprio», poiché, da un lato, legato all’attività dell’autore dell’illecito e, dall’altro, anche «privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento» e con gli altri elementi suscettibili di valutazione da parte del giudice, essendo lo stesso provocato da accadimenti successivi causalmente slegati.
È da notare come la Corte non connoti negativamente la discrezionalità del giudice di per sé, bensì solamente in quanto scollegata da «puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento» e non orientata all’adattamento della tutela alle specificità del caso concreto (cfr. sentt. n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, in cui è stata valorizzata la discrezionalità del giudice, prima imbrigliata entro limiti risarcitori obbligati).
La sentenza in commento appare particolarmente significativa nella parte in cui afferma che i licenziamenti economici «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Di conseguenza, sembrano non potersi più sostenere quelle tesi che giustificano una differenziazione di tutele tra l’illegittimità del licenziamento disciplinare, da una parte, ed economico, dall’altra, sulla base della ragione per cui solo il primo coinvolgerebbe direttamente «la dignità della persona del lavoratore» (Pisani). Invero, una conclusione simile potrebbe aprire la strada a dubbi di costituzionalità che investono la disciplina dei licenziamenti contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 e, in particolare, nel suo art. 3, in cui la differenza dei regimi sanzionatori è ancora più marcata (che, come noto, disciplina le assunzioni a decorrere dal 7 marzo 2015).
26 Aprile 2021