Andrea Vernata
Una falsa partenza? L’autonomia differenziata tra limiti (costituzionali) procedurali e sostanziali
L’inedita attivazione del meccanismo di cui all’art. 116, comma 3, Cost. da parte delle regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ha dato vita a un forte dibattito circa una serie di criticità che caratterizzano l’attuazione della autonomia differenziata.
Un primo aspetto che è stato portato all’attenzione della dottrina attiene alle modalità concrete che si ritiene necessario rispettare per realizzare la differenziazione, posto che tutte e tre le regioni sopra menzionate hanno tenuto a inserire, negli accordi preliminari sottoscritti col Governo Gentiloni il 28 febbraio 2018, un espresso richiamo alle prassi instaurate ai sensi dell’art. 8, comma 3, Cost. Da un punto di vista procedimentale, il comma 3 dell’art. 116 Cost. poteva ritenersi piuttosto chiaro, laddove stabilisce che le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», concernenti tutte le materia di competenza legislativa concorrente e tre materia di competenza esclusiva dello Stato (organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), possono essere attribuite ad altre Regioni «con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali», approvata a «maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Eppure proprio questo riferimento alla previa intesa è stato letto come un richiamo alle modalità attuative seguite fino ad oggi per regolare, ai sensi dell’art. 8 Cost., i rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica; con l’effetto di configurare la legge “rinforzata” che riconosce l’autonomia differenziata come una legge meramente formale non emendabile dal Parlamento e che, quindi, quest’ultimo potrebbe solamente limitarsi approvare o respingere.
È però, questa, una ricostruzione che non è apparsa del tutto in linea con il dettato costituzionale, non solo in quanto si riferisce a due soggetti radicalmente diversi tra loro (Stato-confessione acattolica e Stato-Regione) e perché porta a distogliere parte della funzione legislativa del Parlamento senza che lo stesso, quale espressione della sovranità popolare, possa definirne i termini e le modalità, ma anche perché pretende di ridurre la funzione legislativa stessa a una attività meramente ratificatoria. Nondimeno, si deve considerare che il procedimento previsto dall’art. 116, comma 3, Cost. non sembra lasciare spazio a una possibile “revoca” dell’autonomia differenziata – posto che risulta piuttosto arduo che la regione interessata addivenga a un’intesa in questo senso – costringendo, eventualmente, il Parlamento a ristabilire il carattere non-differenziato della regione “differenziata” attraverso una legge costituzionale ad hoc, ovvero una legge di revisione costituzionale che faccia venire meno il meccanismo di differenziazione tout court. In entrambi i casi i risvolti politici appaiono enormi e di difficile ricomposizione, ma, comunque, il carattere tendenzialmente irrevocabile del regionalismo differenziato sembra confermare la natura sostanziale della relativa legge, non tanto perché consente al Parlamento di “correggere” l’intesa attraverso l’inserimento di una clausola di revocabilità, ma anche perché permette alla stesso di evitare l’invocazione di quest’ultima in forza di eventuali modifiche apportate proprio durante il vaglio parlamentare; cosa che, invece, non sarebbe possibile dinanzi a una mera legge di ratifica dell’intesa.
In questa prospettiva, è appena il caso di notare che gli accordi preliminari del febbraio 2018, sottoscritti dal Governo Gentiloni e dalle tre regioni sopra richiamate, prevedevano una specifica clausola decennale dell’intesa (rinnovabile o rinegoziabile), la quale, tuttavia, è venuta meno nell’ultima versione degli schemi di intesa presentati il 16 maggio 2019.
Un altro aspetto che deve considerarsi, poi, attiene al limite posto dallo stesso art. 116, comma 3, Cost. alla legge che conferisce l’autonomia differenziata, laddove subordina la stessa «al rispetto dei principi di cui all’articolo 119» della Costituzione. Il richiamo al rispetto del principio dell’autonomia finanziaria fa eco all’art. 14 della legge n. 42 del 2009 in tema di federalismo fiscale, il quale conferma il principio della congruità fra risorse stanziate e funzioni attribuite nell’ambito del regionalismo differenziato e che, a sua volta, viene ribadito all’art. 5 degli attuali schemi di intesa. Quest’ultimi, tuttavia, si propongono di superare l’attuale metodologia di calcolo delle risorse finanziarie da assegnare – basata sui costi storici – in ragione dei (non ancora definiti) fabbisogni standard per ogni singola materia. Nelle more della definizione di questi, tuttavia, le intese prevedono l’applicazione dei costi storici per tre anni dall’entrata in vigore dei decreti attuativi della differenziazione; dopodiché, ove non siano stati ancora definiti i fabbisogni standard, le risorse assegnate alle tre regioni non potranno essere inferiori, in ogni caso, al valore medio nazionale pro capite della spesa sostenuta dallo Stato per l’esercizio delle funzioni equivalenti.
Il passaggio merita due brevissime considerazioni.
La prima attiene alla modalità di calcolo delle risorse da assegnare a fronte delle «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia». Le tre regioni che richiedono maggiore autonomia presentano, tradizionalmente, un residuo fiscale in attivo e, cioè, versano allo Stato più di quanto ricevono da esso. Ciò significa che l’applicazione del criterio del valore medio nazionale pro capite, dopo tre anni senza la definizione dei fabbisogni standard, per il calcolo delle risorse finanziarie che lo Stato dovrà trasferire per fare fronte alla maggiore autonomia avrà l’effetto di riconoscere alle regioni interessate risorse maggiori rispetto a quelle che riceverebbero in ossequio al criterio della spesa storica, dando luogo, quindi, a una quantificazione degli oneri del tutto apodittica e irrazionale e che comunque sembra aprire a quelle «alterazioni stabili e profonde degli equilibri di finanza pubblica» rispetto alle quali la stessa Corte costituzionale (sent. 118/2015) metteva in guardia dichiarando costituzionalmente illegittimi cinque dei sei quesiti referendari promossi dal Veneto sulla propria autonomia.
La seconda considerazione si ricollega alla prima e concerne l’impatto macroeconomico che il regionalismo differenziato si rivela in grado di avere rispetto al principio dell’equilibrio di bilancio sancito all’art. 81 Cost. Il complessivo aumento della spesa statale, infatti, non sembra derivare solamente dalla metodologia di calcolo delle risorse da trasferire, ma anche da quell’aumento dei costi che, nell’ottica di un’economia di scala, si viene a ingenerare laddove le risorse che oggi lo Stato impegna per espletare funzioni nei confronti di 15 regioni vengano decurtate per trasferire l’espletamento delle stesse in capo a delle singole regioni. Un passaggio del tutto antitetico rispetto all’efficientamento della spesa – che pure è stato proclamato – e che rischia di mettere a repentaglio il funzionamento complessivo dello stato in ragione della differenziazione.
Un altro aspetto che può richiamarsi attiene al quantum di autonomia che è stato richiesto dalle tre regione interesse. Delle ventitré materie disponibili, l’Emilia-Romagna ne ha chieste sedici, la Lombardia venti e il Veneto tutte e ventitré. Pur non volendo considerare gli effetti, in termini di unità e indivisibilità della Repubblica, che potrebbero derivare dal riconoscimento di una simile autonomia e di quelli derivanti da – pure probabili – analoghe richieste presentate da altre regioni, è appena il caso di notare che la ratio del regionalismo differenziato poggia, appunto, sul principio di differenziazione: non l’autonomia fine a se stessa, ma l’autonomia in ragione di specifiche peculiarità che ne costituiscano il fondamento.
Ad ogni modo, le rassicurazioni contro il possibile effetto disgregativo insito nel regionalismo differenziato portato alle estreme conseguenze vengono indicate, da parte di tutte e tre le regioni, nella possibilità di esercitare il potere sostitutivo dello Stato previsto dall’art. 120 Cost. e, cioè, laddove esigenze di tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica lo rendano necessario. Uno strumento certamente farraginoso, di utilizzo incerto e che non sembra in grado di sopperire a tutte le possibili distorsioni che pure possono derivare dall’attuazione dell’autonomia differenziata: in che modo lo Stato può intervenire, in concreto, per sopperire a una eventuale carenza di strutture ospedaliere in una regione che abbia ottenuto ulteriori forme e condizioni di autonomia? Non solo. Se si considera che, ancora oggi, manchi del tutto una definizione legislativa dei «livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», in che modo e quando è possibile stabilire che l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato sia necessario per ripristinare la garanzia degli stessi, che, peraltro, vengono richiamati anche dallo stesso art. 120 Cost.? Una maggiore autonomia in materia di istruzione, che consenta alle regioni “virtuose” di investire nel settore e garantire i relativi servizi in maniera qualitativamente migliore, in che modo non influisce sui diritti di cittadinanza e non rischia di tradurre le diseguaglianze economiche che caratterizzano il territorio nazionale in diseguaglianze anche di tipo culturale?
Sono questi interrogativi che, più che l’art. 120 della Costituzione, sembrano chiamare in causa lo stesso principio di eguaglianza, di solidarietà e di unità e indivisibilità della Repubblica e che la nostra Carta costituzionale si preoccupa di cristallizzare, da subito, nei propri principi fondamentali. In altre parole, è alla luce di questi, e non delle sole esigenze dell’autonomia, che l’intero processo di differenziazione sembra dover essere accompagnato, vagliato ed, eventualmente, attuato.
11 Luglio 2019