Leggendo Comparative Constitutional Theory, ed. By G. Jacobsohn e M. Schor (Elgar, 2018)

Qual è lo stato di salute della scienza costituzional-comparatistica negli Stati Uniti? I costituzionalisti americani restano ancorati alla centralità della propria esperienza nazionale ed alla fiducia nella forza attrattiva e paradigmatica del costituzionalismo statunitense? Gli studi di Mark Tushnet hanno aperto delle brecce nella granitica convinzione che il judicial review fondato dal Chief Justice Marshall sia sempre e comunque il miglior metodo di protezione dei diritti e della Costituzione? Il lavoro di Michel Rosenfeld ha effettivamente ampliato gli orizzonti della comparazione oltre i tradizionali casi di interesse per gli studiosi americani, usualmente limitati all’America latina e ad altri Stati anglofoni? Le analisi di Vicky Jackson sono riuscite a diffondere la consapevolezza che l’esperienza giuridica statunitense sta vivendo una fase di isolamento ed “eccezionalismo” rispetto alle grandi transizioni dell’esperienza giuridica contemporanea, e che stanno progressivamente plasmando un costituzionalismo globale?
Una rassicurante risposta a queste domande viene ora dall’impegnativo volume “Comparative Constitutional Theory” curato da Gary Jacobsohn e Miguel Schor (Elgar, 2018, 539 pp.). Il volume raccoglie 24 saggi di studiosi provenienti da diversi Paesi e Università, chiamati a confrontarsi con le grandi domande della teoria costituzionale contemporanea, che i curatori nella loro introduzione vedono tutte espresse ed efficacemente sintetizzate nel Federalist.
Benché non manchino saggi dedicati ad ambiti ed esperienze specifiche, come l’America Latina o la Cina, o a temi specifici, come la libertà religiosa o la giustizia di transizione, la gran parte dei contributi converge, pur da differenti prospettive, su alcuni nodi comuni: l’emersione di concetti e tecniche globali che le pratiche di judicial dialogue diffondono oltre i confini nazionali; la problematica saldatura della tensione tra processi democratici e judicial supremacy.
Le dinamiche del costituzionalismo globale vengono analizzate da due saggi in tema, rispettivamente, di dignità (Weinrib) e proporzionalità (Ferreres Comella), che fanno il punto sullo sviluppo di queste nozioni e sulla loro diffusione su scala globale.
La tensione tra representative democracy e judicial supremacy è invece al centro di un numero maggiore di saggi, tra i quali spiccano quelli di Gardbaum e Schor. L’interesse di questi lavori dipende dal distacco critico dei due autori dal modello americano di judicial review, e dalla corrispondente valorizzazione delle sollecitazioni di Jeremy Waldron in tema di difesa della dignity of legislation, della parliamentary sovereignty e di un rinnovato popular constitutionalism. Sulla scia di queste suggestioni, vengono valorizzate le esperienze della Nuova Zelanda dopo l’adozione del Bill of Rights, del Regno Unito dopo l’approvazione dello Human Rights Act, e del Canada dopo l’adozione della Carta dei diritti e delle libertà. L’esperienza canadese, in particolare, è considerata con interesse: pur adottando un sistema di judicial review e pur avendo sviluppato tecniche di interpretazione costituzionale attiviste, anche grazie all’apprendimento comparativo da altre giurisdizioni supreme e costituzionali, la Corte Suprema canadese è inserita in una maglia di vincoli costituzionali (richieste di parere preventivo, la notwithstanding clause) che consentono ai parlamenti nazionale e territoriali di intessere un dialogo con la Corte ed opporre esigenze politiche insopprimibili alle sentenze di incostituzionalità.
Gardbaum e Schor convergono in un’analisi critica della debolezza del judicial review statunitense nel suo rapporto con il Government, ed enfatizzano le virtù dei sistemi di sindacato di costituzionalità che Tushnet ha altrove definito “deboli”: essi riescono, in un approccio dialogico e cooperativo, a favorire convergenze e rimeditazioni delle rispettive posizioni di legislativo e giudiziario, e raggiungono un punto di equilibrio più sofisticato tra istanze individuali di giustizia e valori politici generali (sul punto, v. pure il bel saggio di F. Duranti nel recente volume Ius Dicere in a Globalized World. A comparative overview, Roma TrE-Press, 2018, a cura di A. D’Alessandro e C. Marchese).
Qual è, dunque, lo stato di salute degli studi comparativi negli States? Non mi sento di condividere l’ottimismo dei curatori, che nella loro introduzione parlano di un comparative turn nella scienza giuridica statunitense; ma il volume “Comparative Constitutional Theory” segna alcuni spunti di interesse: esso fa convergere su alcuni temi tradizionali del costituzionalismo americano una massa di esperienze, visioni e riflessioni che prescindono dalla centralità del modello americano, evidenziano un dialogo transnazionale assai variegato e spesso indipendente dal canone statunitense ed enfatizzano un’esigenza culturale di dialogo ed allargamento degli orizzonti della conoscenza giuridica.


Il mito della rivoluzione e gli studi costituzionali. A proposito del volume Rivoluzione fra mito e costituzione

Il libro Rivoluzione fra mito e costituzione. Diritto, società e istituzioni nella modernità europea (Sapienza University Press, 2017), curato da Giuseppe Allegri e Andrea Longo, è un’opera che non dovrebbe mancare tra le letture di chi si avvicini agli studi costituzionali. I curatori del volume – Andrea Longo, associato di diritto costituzionale alla Sapienza, e Giuseppe Allegri, saggista politico e ricercatore a piede libero – hanno raccolto un gruppo variegato di studiosi, appartenenti a diverse generazioni e diverse aree di ricerca (prevalentemente costituzionalisti e storici o storici del pensiero), proponendogli di ragionare su alcuni dei temi più affascinanti, e al contempo complessi, per la teoria della costituzione: rivoluzione, potere costituente, democrazia. Per questo obiettivo ambizioso, e per la qualità degli autori coinvolti, il libro si colloca al centro della tradizione degli studi costituzionali, cui contribuisce con il necessario apporto di saperi filosofici, giuridici, storici e politico-sociali.
I temi centrali dell’opera sono tutti affrontati nel saggio di Andrea Longo. Già nel volume Tempo, interpretazione, costituzione (2016) Longo aveva dedicato un’ampia riflessione al rapporto, paradossale e dunque fecondo, tra costituzionalismo e democrazia, seguendo la scia degli studi di Holmes. Qui, l’analisi è condotta ad un livello di astrazione ancora maggiore: la rivoluzione democratica legittima e costituisce l’ordine politico, di cui la costituzione è il più evidente risultato; al contempo, la costituzione esprime la pretesa di conservare, regolare e limitare lo stesso potere democratico che l’ha espressa. La costituzione vive dunque un rapporto contraddittorio con il tempo. Essa è contemporaneamente scintilla fondativa di un tempo nuovo (il calendario rivoluzionario è perciò forse il più radicale gesto costituente nella vicenda francese) e atto positivo destinato a vincolare il futuro. Paine in America e Condorcet in Francia sono gli autori che più degli altri compresero la grandezza di questo paradosso, basandovi alcuni grandi traguardi del costituzionalismo moderno (su Condorcet vale la pena vedere P. Persano, La catena del tempo, 2007).
Nella riflessione di Longo sembrano avere un ruolo determinante gli studi di Reinhard Koselleck. Se la lotta politica in America e in Francia può farsi rivoluzionaria, e può esprimere la pretesa di innovare l’ordinamento e la società, non limitandosi dunque ad essere rivolta, è perché sono frattanto mutati i canoni condivisi circa la percezione del tempo. Il tempo ciclico e indisponibile della socialità antica e medievale è sottoposto, con le rivoluzioni scientifiche della modernità, ad un ripensamento, che lo proietta verso il futuro.
Sono temi e problemi cruciali per gli studi costituzionali, che nel saggio di Francesco Rimoli vengono ripensati nella prospettiva della teoria luhmanniana dei sistemi. La rivoluzione – che nella storia moderna e contemporanea dell’occidente ha rappresentato un mito politico frutto di un processo di secolarizzazione di concetti religiosi – può infatti essere letta, nella prospettiva luhmanniana, come scossa di assestamento del sottosistema giuridico, solo apparentemente guidato da ideologie volontaristiche di radicale mutamento, in realtà diretto da esigenze profonde di assestamento del sottosistema.
Se per Longo e Rimoli la tensione tra rivoluzione e costituzione è anzitutto fonte di un paradosso che interroga il diritto sul piano della sua coerenza sistemica, per Allegri la tensione tra questi due poli è piuttosto creatrice di una prassi critica dei poteri e immaginativa dei diritti, che vivifica e riattualizza le istanze popolari nello svolgimento della vita costituzionale. Allegri, in questo modo, recupera le intuizioni negriane sul concetto di potere costituente come risorsa inesauribile, che persiste anche oltre il momento rivoluzionario, come potenza dispiegata e ostile, di vigilanza e pretesa. Queste coordinate di senso sono peraltro sviluppate con specifico riferimento ad un contesto, quello della rivoluzione del 1848 in Francia, particolarmente idoneo a descrivere il multiforme linguaggio del potere rivoluzionario del popolo e la mutazione degli stessi soggetti costituenti, rispetto all’ambiente, più noto, delle rivoluzioni di fine settecento. Perché nell’848 la questione sociale entra a pieno titolo nel nucleo dell’istanza rivoluzionaria, e perché le forme dei movimenti rivoluzionari assumono aspetti originali e creativi, investendo direttamente le arti. Al termine di un affascinante affresco di storia delle arti, Allegri può dunque concludere che «i tentativi di trasformazione del canone artistico-letterario si affiancano e procedono insieme con i movimenti che chiedono cambiamenti negli assetti istituzionali e riconoscimento di nuovi diritti» (123). È, quella di Allegri, un’apertura sul rapporto tra vita artistica e vita costituzionale, che mette a frutto e radicalizza la lezione häberliana sul rapporto tra cultura e diritto, e dischiude scenari suggestivi per gli studi costituzionali. Allegri proietta poi il medesimo metodo su altri esperimenti rivoluzionari: la Comune parigina, la repubblica romana, l’impresa dannunziana a Fiume, confermando la validità dell’intuizione metodologica.
In continuità con questo approccio, che valorizza la dimensione del diritto costituzionale quale scienza della cultura (Häberle), Antonio Cervati ricostruisce la tradizione italiana degli studi costituzionali, enfatizzando gli orientamenti più attenti alla contestualizzazione del diritto scritto nelle coordinate storiche e sociali in cui esso prende forma. Orientamenti marginalizzati a seguito della svolta formalistica orlandiana. L’invito a studiare il testo costituzionale nel contesto sociale e culturale in cui esso prende forma esibisce una forza critica degli assetti di potere consolidati e promotrice di mutamento costituzionale: «Quel che si deve respingere – spiega infatti Cervati – è l’idea che il diritto costituzionale sia pura espressione di chi detiene il potere politico al momento dell’esercizio del potere costituente, quando viene approvato, promulgato e pubblicato un testo costituzionale» (158). Come già nella prospettiva di Allegri, dunque, il mito del potere costituente rivoluzionario riduce il significato sociale e culturale del mutamento costituzionale, associandolo alle azioni e alle ideologie delle sole élites, mentre la costituzione – anche se cristallizzata in un testo – è anzitutto prodotto sociale. Nell’interpretazione costituzionale, il testo riceve linfa e pluralità di significati attraverso la consapevolezza di questo humus da cui il testo ha poi preso forma («l’interpretazione dei testi costituzionali è anch’essa un momento creativo al pari della scrittura e non può perciò ridursi a un’operazione di irrigidimento di alcune clausole testuali», 160). È da questo pluralismo di valori e progettualità costituzionali, e dal loro progressivo utilizzo ai fini della interpretazione della costituzione, che prende le mosse il mutamento costituzionale.
Franco Modugno partecipa al volume attraverso un’intervista condotta dagli stessi curatori, che invitano il giurista, oggi giudice costituzionale, a riflettere sui temi di fondo dell’opera. In pagine molto dense, Modugno ricostruisce la sua formazione e il significato che assume nella sua visione il tema del mutamento e dell’interpretazione della costituzione. Come per Cervati – con il quale Modugno condivide diverse influenze culturali e percorsi formativi – il mutamento del diritto avviene nella storia e all’esito di processi interpretativi, piuttosto che nella meccanica dei processi rigenerativi, rivoluzionari o di riforma. Tuttavia, mentre in Cervati la politica è elemento essenziale della società aperta degli interpreti, perché la cultura costituzionale è espressione di movimenti politici e trova nel processo politico “momenti di maturazione”, in Modugno la politica occupa una posizione più marginale; essa, perfino, distorce e impedisce la necessaria neutralità dell’interpretazione costituzionale. La società aperta degli interpreti di Modugno è dunque lontana, e perfino separata dalla politica e dalle istanze sociali; e dialoga piuttosto con concordanze ideali.
A questi contributi, che impostano il problema sotto il profilo della teoria della costituzione, si affiancano una serie di contributi scritti nella prospettiva della storia del costituzionalismo. Fabrizio Politi si confronta con il pensiero di Vincenzo Cuoco, a partire dalle valutazioni che l’intellettuale napoletano sviluppò attorno al progetto di costituzione della Repubblica napoletana, redatto da Mario Pagano; Augusto Cerri ricostruisce lo sviluppo storico del socialismo riformista, e la convergenza dei suoi ideali e obiettivi con la dimensione progettuale delle costituzioni del Novecento, e con la vicenda della costituzione italiana in particolare; Giuseppe Ugo Rescigno propone un percorso simile con riferimento al comunismo, al suo ruolo nella stagione del ’68 in Italia, e alla sua attualità nella società contemporanea.
La seconda parte del volume raccoglie i contributi di Andrea Marchili, Alessandro Guerra, Enrico Zanette, Catia Papa, Federica Castelli, Carolina Antonucci, Carlo Ricotti, ed è dedicata a studi di taglio storico e di storia del pensiero politico, anch’essi focalizzati su alcune potenti mitologie rivoluzione della modernità (il legislatore rousseauiano, il patriottismo), o su episodi rivoluzionari archetipici (la Comune di Parigi, Fiume e la carta del Carnaro, i fatti di Torino del 1917). In coerenza con l’approccio metodologico del volume, aperto e interdisciplinare, i saggi di taglio storico e quelli di taglio giuridico avrebbero potuto essere intervallati e raggruppati per temi o periodi, piuttosto che separati in due sezioni.

Nonostante la complessità dei temi trattati, il libro è scorrevole e di piacevole lettura. Il compito più difficile, per il recensore, è perciò risultato la sua collocazione negli scaffali della libreria. In questo caso, la collocazione è risultata molto complicata, per via della ricchezza dell’opera e del suo porsi all’intersezione tra diversi saperi e diversi problemi. Per ora, ha trovato posto tra Bronislaw Bazcko, Giobbe amico mio, e Antonio Cervati, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, dove mi pare si trovi molto a suo agio. Ma spero in realtà di poterlo presto suggerire e prestare a qualche amico, pur consapevole che i buoni libri raramente tornano indietro…
Una postilla: il volume è dedicato ad Elisabetta Canitano, ricercatrice alla Sapienza e comune amica dei curatori, di molti degli autori, e del recensore. La sua prematura scomparsa continua a interrogarci e intristirci; con lei se ne sono andati tempi avvincenti di scoperte e discussioni, nell’età della nostra formazione, che Betta ha vissuto con passione e potenza. Il libro di Allegri e Longo è giustamente dedicato a Betta, perché porta a compimento riflessioni nate in quello spazio condiviso di pensiero.


Leggendo N. Lupo – C. Fasone (Ed.), “Interparliamentary Cooperation in the Composite European Constitution” (Hart 2016)

È di recente pubblicazione, per l’editore Hart, il primo volume di una nuova collana dedicata agli studi sulla “Parliamentary democracy in Europe”. La collana, diretta da Nicola Lupo e Robert Schütze, pone il tema della democrazia parlamentare al cuore delle transizioni che stanno attraversando gli assetti istituzionali dell’Unione Europea. Si tratta di una scelta certamente condivisibile: sin dalle prime riflessioni sul deficit democratico delle istituzioni comunitarie l’attenzione dei commentatori si concentrò sui problemi della loro debole parlamentarizzazione; lo sviluppo delle teorie della legittimazione parlamentare indiretta, tanto rilevante nella giurisprudenza costituzionale tedesca, ha sottolineato il rilievo dei Parlamenti nazionali nella legittimazione della politica europea; e il Trattato di Lisbona ha sviluppato il tema della vita democratica dell’Unione articolando su piani eterogenei un rafforzamento della democrazia parlamentare e dei partiti, così come forme e strategie alternative di rappresentanza e partecipazione coinvolgenti anche i Parlamenti nazionali. Pertanto, i grandi nodi che si incontrano nello studio degli assetti parlamentari dell’Unione sono al contempo tradizionali rispetto alle categorie del diritto costituzionale, e innovativi rispetto agli scenari che si stanno dischiudendo.

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La distanza (troppo) breve dalla Consulta al Quirinale

Sono tanti i nomi di giuristi – soprattutto costituzionalisti e magistrati – che circolano in questi giorni di bollente “toto-nomine” per la successione di Giorgio Napolitano al Quirinale. L’opinione pubblica si rivolge alla scienza giuridica ed agli uomini di legge alla ricerca di competenze e rigore morale da contrapporre alla deludente stoffa della classe politica: la Costituzione è considerata dalla gran parte degli italiani come patrimonio da custodire, ed il Capo dello Stato come suo supremo garante. Ma gli stessi partiti aspirano ad eleggere al Quirinale una figura capace di maneggiare un codice neutrale rispetto alla contesa politica, vuoi in chiave di garanzia reciproca, vuoi per scongiurare intromissioni nel merito delle politiche di governo e maggioranza.

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Il «Free Marketplace of Ideas» verso il Far West. La Corte Suprema prosegue nello sgretolamento delle garanzie del processo elettorale (McCutcheon et al. v. Federal Election Commission)

Dopo l’imbarazzante sentenza della scorsa estate Shelby County c. Holder, con cui i giudici conservatori della Corte Suprema, a stretta maggioranza, hanno abbattuto due disposizioni del Voting Rights Act poste a presidio del divieto di discriminazione razziale nei procedimenti elettorali negli Stati del Sud, si registra oggi un altro passo indietro della Corte Suprema nella tutela della trasparenza del processo elettorale.

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Pubblico Ministero Europeo: va in scena la lotta sulla sussidiarietà tra Commissione e Parlamenti nazionali

Con una Comunicazione che rappresenta un ampio documento di analisi, la Commissione europea ha replicato alle osservazioni avanzate da un nutrito gruppo di Parlamenti nazionali avverso la Proposta di regolamento che istituisce l'Ufficio del Pubblico Ministero europeo.

Del warning avanzato dai Parlamenti nazionali avevamo dato notizia in un procedente post, notando che si trattava del secondo caso di veto dei Parlamenti nazionali ad una proposta della Commissione, dopo quello che aveva affossato la Proposta di regolamentazione del diritto di sciopero. In quell'occasione, la proposta della Commissione era di fatto decaduta. In questo caso, invece, la Commissione opta per il mantenimento della propria Proposta di regolamento, senza accogliere nemmeno prospettive di parziale modifica della normativa. Sembra chiaro, dalla lettura della Comunicazione, che la Commissione intenda incanalare la misura all'interno di un sistema di cooperazione rafforzata, aggirando le resistenze degli Stati.

La ferma posizione della Commissione va ricondotta alla volontà di procedere verso l'istituzione di un Ufficio che risponde all'esigenza di tutelare anzitutto gli interessi dell'Unione rispetto a reati di frode comunitaria. Ma non c'è dubbio che sul suo fermo convincimento abbia influito anche l'intenzione di non avallare la trasformazione dello strumento del Warning sulla sussidiarietà in un potere di veto assoluto, nelle mani dei Parlamenti nazionali, in grado di ostacolare l'indirizzo della Commissione. Ne è una testimonianza l'enfasi posta dalla Commissione sulla natura dello strumento del Warning, che, ricorda la Commissione, dovrebbe servire soltanto ad evidenziare le violazioni del principio di sussidiarietà,  e non anche ad avanzare obiezioni di ordine generale sulle misure contenute nelle Proposte normative.

Ma ovviamente, la stessa Commissione è consapevole che, così come è stato congegnato dal TUE, specie con riferimento al suo affidamento alle istituzioni parlamentari, lo strumento del Warning, lungi dal rappresentare un mero contributo tecnico sul rispetto dei canoni della sussidiarietà (ammesso che sia davvero possibile formalizzarli...), finisce per coinvolgere valutazioni di opportunità circa l'intensità dello strumento normativo, l'opportunità della regolazione, il livello di ingerenza nella struttura interna degli Stati.

Nel caso di specie, se le reazioni dei Parlamenti nazionali dovessero trovare sponde nel Parlamento europeo, la sorte della Proposta di Regolamento non sarà delle migliori anche nella forma della cooperazione rafforzata ristretta a un minor numero di Stati. Ma la battaglia sull'intepretazione e sull'efficacia politica dello strumento del Warning, senz'altro il più innovativo introdotto dal Trattato di Lisbona, appare davvero entusiasmante. Personalmente, resto convinto che il Warning, anche quando rappresenterà, come in questo caso, un strumento di resistenza rispetto a condivisibili avanzamenti dell'integrazione europea, contribuirà comunque alla maturazione di una opinione pubblica europea e di un dialogo politico sui temi reali dell'agenda europea, fino ad ora abbandonati alla retorica populista antieuropea.


Un delicato bilanciamento. La sentenza 278 della Corte costituzionale

Con una sentenza dalla motivazione chiara e concisa, la Corte costituzionale torna su di una norma che coinvolge il bilanciamento tra diritti fondamentali delicatissimi. La questione verteva sulla norma di legge che esclude che il figlio adottivo possa accedere alle informazioni sulle proprie orgini nel caso in cui il genitore naturale abbia deciso di non rendere note le proprie generalità ai fini degli atti di stato civile. A detta del giudice a quo, la norma, non contemplando la possibilità che tale scelta del genitore venga modificata col passare degli anni, comportava una lesione del diritto fondamentale alla identità personale, alla salute (con riferimento all'accesso ad informazioni mediche relative al genitore naturale), oltre che una discriminazione rispetto alla situazione di altri figli adottivi ed una violazione dell'art. 117 Cost., sotto il profilo della violazione dell'art. 8 Cedu.

Nella sentenza 278 del 2013, la Corte ribalta il proprio precedente sul punto (sent. 425 del 2005), anche in ragione della giurisprudenza frattanto maturata a Strasburgo (Godelli c. Italia, 25 settembre 2012). In quella sentenza, infatti, la Corte europea aveva censurato la normativa italiana, pur in presenza di una forte divergenza in seno agli Stati membri sul punto: lo Stato che intenda tutelare la privacy e l'anonimato del genitore naturale è comunque chiamato a garantire procedure idonee a verificare la reversibilità della decisione di anonimato assunta a suo tempo dal genitore (sul punto, Butturini, in Forum di Quaderni Costituzionali).

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The Last of The Fathers. James Madison e le origini dell’originalismo

Il bel post di Alessandra Di Martino – che recensisce il volume di Jack Balkin, Living Originalism – offre l’occasione per tornare a parlare di originalismo. Non v’è dubbio che il dibattito sul tema si sia in massima parte concentrato sulla versione prospettata da Antonin Scalia, il quale nel suo A Matter of Intepretation, ma anche in diverse Opinions redatte da giudice della Corte Suprema, ne ha offerto un’accezione estrema, strettamente correlata con un’interpretazione testualista della Costituzione (… e con una lettura conservatrice delle posizioni dei Fathers che è, comunque, storicamente discutibile: ma di questo, semmai, in altra sede).

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Stasburgo, scortesie per gli ospiti

Che la Corte europea dei diritti dell’uomo sia vittima del suo stesso successo è cosa nota. Il costante incremento dei ricorsi individuali ha infatti costretto la Corte a dotarsi di un sistema di filtro in grado di consentirle di operare con modalità e tempi ragionevoli.

Così, il Protocollo 14, approvato nel 2004, estendeva l’area dell’irricevibilità e snelliva la fase di verifica sommaria della ricevibilità: sotto il primo profilo, l’art. 12 del Protocollo introduceva tra le cause di irricevibilità la formula del mancato «significativo pregiudizio» (art. 35, co. 3, lett. b) della Cedu); sotto il secondo profilo, l’art. 7 modificava l’art. 27 della Convenzione, affidando il giudizio sommario di ricevibilità ad un giudice unico.

Benché il Protocollo sia entrato in vigore soltanto nel 2010, già dal 2006 il Regolamento di procedura aveva recepito il meccanismo, con una riformulazione degli artt. 49, co. 1 e 52A, co. 1). Peraltro, il Regolamento non offre alcuna ulteriore indicazione tecnica che orienti la valutazione del giudice unico, né prevede forme di ricorso avverso la decisione del giudice unico, che è definitiva.

Queste modalità di verifica preliminare della ricevibilità dei ricorsi individuali hanno suscitato diverse perplessità, tanto in dottrina quanto tra gli avvocati.

Informazioni ulteriori sulle modalità con cui la Corte utilizza questo filtro, sulle forme di comunicazione degli esiti del controllo e sulle conseguenze tecniche della decisione di irricevibilità si ricavano dalla lettura di una «lettera» inviata dalla cancelleria della Corte ad un ricorrente respinto, conformemente al Regolamento di procedura. Si tratta, infatti, di un formato standard di interlocuzione con i ricorrenti in questi casi. Eccone il testo, depurato dai riferimenti al caso specifico.

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Primi appunti per una recensione condivisa di L. Mezzetti - A. Morrone, Lo strumento costituzionale dell'ordine pubblico europeo

È di recentissima pubblicazione, per i tipi dell’editore Giappichelli, il volume “Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo”, curato da Luca Mezzetti e Andrea Morrone, che raccoglie gli Atti del Convegno internazionale di studi tenutosi a Bologna il 5 marzo 2010 in occasione dei sessant’anni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Si tratta di un volume ponderoso, che raccoglie circa trenta contributi relativi pressoché ad ogni ambito dell’attuale dibattito sulla Convenzione, dal rapporto con l’ordinamento interno alla giurisprudenza maturata con riferimento ai singoli diritti.

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