Alessandro Stiano
Per la Corte europea dei diritti dell’uomo l’Italia ha violato simultaneamente le garanzie convenzionali in materia di ragionevole durata del processo e diritto di accesso a un tribunale: un primo sguardo alla sentenza Petrella c. Italia
Con la sentenza Petrella c. Italia del 18 marzo 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) si è pronunciata nuovamente per la violazione, da parte dell’Italia, delle garanzie convenzionali previste dall’art. 6 CEDU (nella duplice dimensione della ragionevole durata del processo e del diritto di accesso a un tribunale) e dall’art.13 CEDU (diritto ad un rimedio effettivo).
La sentenza appare particolarmente rilevante perché riprende e in un certo senso estende la portata della pronuncia Arnoldi c. Italia (Corte EDU, Arnoldi c. Italia, 7 dicembre 2017) con cui la Corte, accogliendo una nozione sostanziale di parte processuale, ha ritenuto che tale qualifica sia riferibile anche alla parte danneggiata che non si costituisca parte civile nel processo penale, purché abbia esercitato uno dei diritti o delle facoltà previste dall’ordinamento interno (par. 40 della sentenza Arnoldi, per un commento si rimanda qui).
Prima di addentrarci nel merito della questione, è necessario esporne brevemente i fatti.
La vicenda Petrella ha avuto inizio nel luglio del 2001 quando il ricorrente, avvocato e, all’epoca dei fatti, presidente della società calcistica “Casertana F.C.”, era stato accusato dei reati di frode e corruzione sulle pagine del quotidiano “Corriere di Caserta”.
Il 28 luglio dello stesso anno, Petrella presentava denuncia per diffamazione aggravata a mezzo stampa in quanto gli articoli avevano leso il suo onore e la sua reputazione. Nell’atto di denuncia il ricorrente precisava che intendeva costituirsi parte civile e chiedere un risarcimento dei danni pari a dieci miliari di lire (circa cinque milioni di euro).
Successivamente il procedimento veniva iscritto nel registro dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Salerno e nel 2007 – su richiesta del Pubblico ministero – il Giudice per le indagini preliminari ne disponeva l’archiviazione per intervenuta prescrizione del reato.
Con il ricorso alla Corte EDU, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 6 (sia rispetto al diritto a un processo equo entro un termine ragionevole sia con riferimento al diritto di accesso a un tribunale) e dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo), giacché l’eccessiva durata del procedimento penale, che aveva comportato l’archiviazione per intervenuta prescrizione, gli aveva impedito, da un lato, di avere accesso a un tribunale per far valere la propria pretesa risarcitoria e, dall’altro lato, di beneficiare di un’equa riparazione secondo quanto disposto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), che accorda tale beneficio al soggetto che abbia assunto la qualità di parte civile nel processo penale (sul punto, inoltre, è recentemente intervenuta la Corte costituzione con la sentenza n. 249 del 2020, con la quale ha dichiarato non fondata la questione di legittima costituzionale sollevata in merito all’art. 2, comma 2 bis, per un commento si rinvia qui).
Come anticipato, la Corte ha deciso per la violazione sia del diritto ad un equo processo entro un termine ragionevole (all’unanimità) sia del diritto di accesso a un tribunale (a maggioranza di cinque voti contro due), nonché del diritto a un rimedio effettivo (all’unanimità).
Nelle righe che seguono saranno svolte delle brevi considerazioni sugli aspetti più significativi della pronuncia.
In merito alla violazione del diritto ad un equo processo entro un termine ragionevole, è agevole notare come la Corte non abbia fatto altro che applicare la sentenza Arnoldi al caso di specie. E infatti essa sottolinea che il dies a quo per il computo della ragionevole durata inizia a decorrere dal momento in cui il danneggiato esercita uno dei diritti e delle facoltà espressamente riconosciutele dalla legge, a nulla rilevando la qualifica formale di parte civile (par. 39 della sentenza Petrella). Ancora una volta, dunque, i giudici di Strasburgo non paiono tenere conto delle prerogative specifiche attribuite, nel nostro ordinamento, alla parte civile, alla persona offesa e al danneggiato e soprattutto delle differenze che intercorrono tra tali figure (sul punto si veda, nuovamente, qui).
La questione più interessante, però, attiene alla coeva violazione del diritto di accesso ad un tribunale e del diritto a una ragionevole durata del processo. La soluzione cui giunge la Corte solleva qualche perplessità sia rispetto all’uso improprio dei precedenti (come ampiamente sottolineato nella opinione parzialmente dissenziente del giudice Sabato, a cui si rinvia) sia per le determinazioni effettuate sulla base del caso concreto.
Con riferimento a quest’ultimo aspetto, la sentenza Petrella muove dalla constatazione per cui è riscontrabile una violazione del diritto di accesso a un tribunale allorquando l’archiviazione del procedimento penale, e il conseguente mancato esame della pretesa civilistica, dipenda da circostanze attribuibili principalmente alla negligenza delle autorità giudiziarie (par. 51). E, nella specie, proprio i ritardi nell’avvio delle indagini imputabili alle autorità giudiziarie non avevano consentito al ricorrente di costituirsi parte civile nel processo penale e lo avevano privato della possibilità di chiedere il risarcimento del danno nella sede che aveva scelto. Secondo la Corte, l’archiviazione del caso non determina in capo al ricorrente un obbligo di intentare un’azione civile, dal momento che la proposizione di una tale azione comporterebbe la necessità di raccogliere nuove prove e l’eventuale accertamento della responsabilità si rileverebbe particolarmente difficile in virtù dell’eccessivo tempo trascorso dal verificarsi dei fatti (par. 53).
A ben vedere, e come evidenziato nell’opinione parzialmente dissenziente del giudice Sabato, la Corte ha utilizzato il principio di diritto stabilito in Arnoldi per affermare la violazione anche del diritto di accesso ad un tribunale (par. 108 dell’opinione parzialmente dissenziente). Senonché, sotto questo aspetto, il ragionamento della Corte non convince a pieno e denota una scarsa attenzione alle peculiarità dei singoli ordinamenti, in particolare di quello italiano. L’orientamento prevalente della Corte, infatti, è nel senso di escludere la possibilità che possa simultaneamente verificarsi la violazione delle due garanzie sopra menzionate, a meno di specifiche situazioni dettate dalle peculiarità dell’ordinamento del foro. Sul punto, la Corte pare nuovamente “dimenticare” che il ristoro economico per l’offeso, nell’ordinamento italiano, può essere conseguito attraverso una “doppia via”: i) tramite l’esercizio dell’azione civile nel processo penale; ii) in sede civile con un giudizio del tutto indipendente rispetto a quello penale. In effetti il sistema italiano vigente, proprio perché ispirato all’idea della separazione dei giudizi, esclude ogni automatica incidenza dell’esito delle indagini preliminari (di eccessiva durata) sul diritto di carattere civile del danneggiato da reato, che è sempre tutelabile con la proposizione dell’azione restitutoria o risarcitoria dinanzi al giudice civile (come si evince dagli artt. 75, 651 e 652 del cod. proc. pen.).
Ora, se è vero, come afferma la Corte, che il ricorrente non è obbligato a iniziare un processo civile è altrettanto vero che l’ordinamento italiano gli riconosce tale diritto. A nulla rilevano le considerazioni della Corte in merito alle difficoltà probatorie presumibilmente riscontrabili dalla parte in sede civile soprattutto se si considera che il bene tutelato in quella sede è la reputazione, per cui non risulta particolarmente complicata la dimostrazione dei fatti.
Le considerazioni fin qui svolte appaiono rilevanti anche con riferimento al ragionamento della Corte in merito alla violazione del diritto a un rimedio effettivo (art. 13 CEDU).
Sul punto, i giudici di Strasburgo hanno osservato che il rimedio previsto dall’art. 2, co.2 bis, della c.d. legge Pinto non è azionabile dal ricorrente, in quanto – stando alla lettera della norma – ai fini del computo della irragionevole durata del processo è necessario aver assunto la qualifica di parte civile nel processo penale. In questa prospettiva, si assisterebbe dunque a una violazione del principio di cui all’art. 13 CEDU, non essendo riconosciuto al ricorrente un rimedio del quale potersi valere. In merito a questo aspetto, la decisione della Corte EDU si pone in netto contrasto con la già richiamata sentenza della Consulta (n. 249 del 2020). Quest’ultima, infatti, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, co.2 bis, c.d. legge Pinto, dal momento che l’ordinamento italiano riconosce in ogni caso alla parte offesa un rimedio alternativo, che consiste nella possibilità di iniziare il giudizio in sede civile. Ed è proprio in virtù di questo sistema di doppia tutela che non può condividersi il ragionamento della Corte EDU.
Infine, a leggere le conclusioni della sentenza Petrella si potrebbe pensare che la Corte EDU abbia effettivamente apprestato maggiore tutela “al danneggiato” rispetto all’ordinamento italiano, attraverso l’ampliamento della nozione di parte processuale e l’estensione delle garanzie sottese al diritto di accesso al tribunale. Tuttavia, questa impressione si attenua se ci si confronta con la parte motiva della sentenza.
8 Aprile 2021
Ancora sui «fratelli minori» di Contrada. Il caso Genco e l’(in)efficacia ultra partes del giudicato di Strasburgo
Starting from the decision of the Italian Supreme Court No. 8544/2019, this paper critically investigates the ultra partes effects of the judgment rendered by European Court of Human Rights in the Contrada case. The argument is put forward whereby while the said judgment does not fall under the category of the «pilot judgment» procedure, it highlights the existence of an invisible structural problem in the Italian criminal justice system.
22 Gennaio 2021