Alessandro Dani
Beni comuni utopistici e reazionari?
Qualche nota in margine al dibattito in corso.
Nell’effervescente discussione intorno ai beni comuni, recenti interventi hanno manifestato perplessità riguardo al volumetto di Ugo Mattei Beni comuni. Un manifesto, edito da Laterza nel 2011 nei Saggi tascabili, ed in modo particolare un’articolata argomentazione critica è sviluppata nel libretto, fresco di stampa, di Ermanno Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista (2013), nella medesima collana dello stesso Editore (dunque un duello ad armi pari).
Con toni ironici l’autore mette in luce certi limiti ed ambiguità delle analisi e soprattutto delle proposte del pamphlet di Mattei, che d’altronde non sembra avesse pretese di offrire un trattato giuridico o un programma politico. Il critico ha buon gioco nel rovesciare su Mattei e sui cosiddetti “benecomunisti” un profluvio di domande che la complessità oggettiva della materia, l’incompletezza delle conoscenze – anche storiche – e delle riflessioni attuali, la magmatica situazione del nostro presente contribuiscono certamente a stimolare. Ma alcune domande – va pure detto – sarebbero state evitabili con un po’ di ironia in meno e qualche ora in più in biblioteca.
Le ombre sinistre delle comunità pre-moderne.
Da storico del diritto posso qui limitarmi solo a qualche considerazione, ad iniziare da un tema che sembra preoccupare molto i critici dei beni comuni: quello delle comunità pre-moderne e di un paventato ritorno ‘reazionario’ al loro modello, immaginato come la sede naturale di ogni prevaricazione e nefandezza. Intanto, credo, prima di indicare i difetti istituzionali di singole situazioni, magari un villaggio svizzero del Quattrocento, forse sarebbe più corretto dire che nei territori italiani sono tranquillamente esistite, per sei-settecento anni ed oltre, decine di migliaia di comunità rurali, di castello, cittadine delle più varie dimensioni, che, pur nella loro eterogeneità, dettero corpo ad un elasticissimo, elaborato – per molti versi oggi sorprendente – modello di governo locale. Nell’Italia pre-moderna probabilmente la maggioranza delle medio-piccole comunità aveva un’assemblea dei capifamiglia, la totalità o quasi aveva cariche a veloce rotazione tra i propri membri, un’organizzazione ed un diritto locale (consuetudinario o fissato in statuti), beni talvolta consistenti di fruizione collettiva. Si era lontani dalla perfetta democrazia dei Comuni attuali, governati in modo ineccepibile e trasparente dai partiti politici, ma non confondiamo le nostre comunità pre-moderne con tribù di trogloditi: qualche barlume di civiltà politica in Italia c’era anche prima dei Lumi, concediamoglielo.
Imperfette ma ben collaudate e funzionanti, quelle situazioni furono poi travolte proprio dalle riforme liberal-liberiste con esiti sociali spesso nefasti. Moltissimi beni comuni (terre, pascoli, boschi ecc.) ovunque in Europa furono ‘liquidati’ tra le proteste delle popolazioni rurali direttamente interessate e con il plauso dei grandi proprietari intenzionati a lucrare sulle loro alienazioni. Tra Settecento e Ottocento le politiche liberiste condannarono senza discernimento – sulla base delle parole d’ordine degli economisti – un sostegno essenziale alla vita dignitosa delle popolazioni rurali. Qui, in Italia, senza scomodare le enclosures inglesi.
I critici poi sembrano attribuire al modello comunitario in sé caratteristiche negative piuttosto imputabili a fattori esterni, all’azione di altre istituzioni (signorili, ecclesiastiche, sovrane o cittadine) che dalle comunità fu subìta anziché voluta, oppure ancora a retaggi della cultura complessiva dell’epoca (come il carattere patriarcale). Riguardo la povertà: ciò che nel basso medioevo e in età moderna spesso condannava i contadini alla miseria non erano i beni comuni, ma spesso proprio la loro scomparsa, dovuta ad intromissioni esterne di nobili e ricchi borghesi o agli appetiti economici dei potenti Comuni urbani, talvolta liberisti ante-litteram. Non i beni comuni, ma lo sfruttamento padronale fu la principale causa della miseria dei contadini. Dove vennero meno i beni comuni, scomparve spesso anche la piccola proprietà locale, con cui coesistevano di norma in rapporto di pacifica complementarietà, talvolta scomparvero le stesse istituzioni comunali e gli statuti. Credo di aver documentato per la Toscana senese di Antico regime che le comunità che mantenevano i beni comuni erano le più benestanti, assai più floride di quelle ‘beneficiate’ dal progresso liberista (cfr. M. Ascheri, A. Dani, La mezzadria nelle terre di Siena e Grosseto dal medioevo all’età contemporanea, Siena, Pascal, 2011). La diseguaglianza esisteva (dov’è che non esiste?), anche se non di rado quella in una comunità rurale era risibile in confronto a quelle effettive di oggi.
Insomma, le comunità pre-moderne non erano il paradiso in terra, ma nemmeno quei luoghi d’ignominia che taluni oggi amano dipingere. Ho cercato di tratteggiare un profilo dei caratteri ricorrenti delle nostre antiche comunità e dei loro beni comuni nel libretto divulgativo Le risorse naturali come beni comuni (Arcidosso, Effigi, 2013), al quale debbo rinviare il lettore interessato, anche per le indicazioni bibliografiche.
Detto ciò, credo che nessuno voglia oggi riproporre come modello generale di organizzazione civile quello della piccola comunità di una volta. Si tratterebbe semmai di recuperarne certi aspetti partecipativi – travolti dall’invadente modello statale-burocratico – per ricondurre, a livello locale, il ‘pubblico’ ad una dimensione meno alienata, con maggiore coinvolgimento della popolazione nelle scelte e nella gestione di ciò che riguarda tutti. Ovviamente nel rispetto dei diritti fondamentali, evitando discriminazioni di genere, di religione, di etnia e quant’altro è meritoria conquista della cultura moderna. In altri termini, salvando di quel modello solo ciò che è compatibile con le nostre garanzie costituzionali.
Non si tratterebbe neppure, realisticamente, di accantonare la democrazia rappresentativa, ma di affiancarla in certi ambiti a plausibili forme di democrazia diretta, attraverso meccanismi precisi. I persistenti organi pubblici dovrebbero altresì ri-orientare la gestione della cosa pubblica in senso più solidale, conviviale ed ecologico, oltre la logica del mero profitto e ciò dovrebbe essere accompagnato da un’efficace azione educativa.
Tutto ciò è mancanza di realismo? Realisticamente, nell’uomo esistono tendenze egoistiche, competitive, predatorie, consumistiche – quelle a cui appunto fa costantemente appello il nostro sistema, anche con i metodi più subdoli – , ma anche altre di segno diverso, come il senso dell’onore e della giustizia, la dedizione a ideali, altruismo, compassione e amore: se mancassero del tutto la vita sociale sarebbe impossibile, come il funzionamento stesso delle istituzioni pubbliche. Allora è ragionevole, credo, indirizzare queste ultime ad un’azione educativa volta alla creazione di un nuovo senso civico. Oltre l’homo emptor e l’homo oeconomicus, verso l’homo civicus, con i suoi diritti e – è indispensabile aggiungere – i suoi doveri verso gli altri e verso l’ambiente che lo tiene in vita. Forse non si può sperare in un mondo di buoni sentimenti, ma neppure, credo, possiamo rassegnarci al predominio dei bassi istinti elevati a regola di vita.
Il fantasma inquietante dell’olismo.
Disturba, nei critici dei beni comuni, il riferimento ad una cultura olistica, nel timore di risvolti totalitari. Ma olismo indica semplicemente un approccio alla realtà che tenga conto di tutte le sue dimensioni e aspetti, con le relative connessioni. Riguardo ai beni comuni vuol dire ad esempio non considerare le risorse naturali solo come merci, ma di rendersi conto delle – disastrosamente dimenticate – valenze ecologiche, culturali, estetiche, del loro inserimento negli ecosistemi; nei bisogni umani considerare anche gli aspetti mentali, spirituali e così via. Vuol essere dunque, riguardo al nostro tema, uno sforzo di superamento del riduttivismo economicista-produttivista predominante, indicando invece i nessi indissolubili che legano tra loro i viventi. Un approccio ecologico, semplicemente ragionevole ed indispensabile se si ha intenzione di continuare ancora a vivere su questo pianeta. Limitare, in quest’ottica, l’irresponsabilità distruttiva e criminale promossa dal liberismo selvaggio non ha niente a che vedere con la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Eminenti scienziati in vari campi del sapere propongono una concezione olistica della realtà, senza alcuna inclinazione totalitaria. Lo scienziato ‘olistico’ a cui più spesso fa riferimento Mattei, il fisico austro-americano Fritjof Capra, ringraziava in apertura di un suo libro, tra i personaggi che più lo avevano influenzato culturalmente, Angela Davis, Herbert Marcuse, John Lennon e Bob Dylan (Il punto di svolta. Scienza, società e cultura emergente, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 14): non esattamente campioni del pensiero reazionario... Da profano, mi sembra di scorgere nell’olismo scientifico almeno una visione filosofica più articolata e complessa di quella che ha irresponsabilmente teorizzato un Progresso economico-produttivo illimitato ‘liberatore’, come se noi non vivessimo, invece, in un pianeta dalle risorse limitate.
Nel caos del presente: esclusività ed inclusività dei beni comuni?
Altra questione sul tappeto è se i beni comuni siano e debbano essere esclusivi o inclusivi, cioè riservati a comunità circoscritte di utenti o aperti a tutti. Secondo me beni comuni a livello locale non escludono affatto, ma devono presupporre, altri tipi di beni comuni attribuiti a comunità più ampie, regionali, nazionali, internazionale, regolati da princìpi anche diversi. Certi beni materiali delle comunità locali, ad esse indispensabili, saranno caratterizzati da esclusività (come già avviene per le proprietà collettive ed i demani civici in base alla legge 1766 del 1927), proprio perché limitati e naturalmente vocati a sostenere la vita di chi abita un determinato territorio, altri saranno del tutto inclusivi (come Internet) ad aperti a tutti, anche all’umanità intera.
A mio avviso, uno Stato democratico di tipo federale, a sua volta inserito in contesti federali più ampi potrebbe consentire una strutturazione sociale di questo tipo. Comunità e beni comuni a più livelli, dunque, con Stati che riducano le loro funzioni alla garanzia di istanze fondamentali (giustizia, difesa, gestione di beni e servizi necessariamente da gestire da livello nazionale per le loro caratteristiche).
Personalmente intendo il concetto di beni comuni in senso ampio, legato alle necessità insopprimibili dell’uomo, ma lo ritengo altresì bisognoso di necessarie specificazioni che richiedono regimi giudici diversi, e qui hanno ragione i critici quando richiamano la necessità di concretezza, di indicare soluzioni giuridiche e istituzionali precise, oltre le formule vaghe ed i luoghi comuni ideologici. Tutto o quasi, alla fine, può essere inteso come bene comune, ma una cosa è un bosco di proprietà collettiva di una Regola alpina, altra l’acqua potabile, altra un teatro dismesso occupato, altre ancora l’assistenza sanitaria, Internet e così via. Sono, volendo, tutti beni comuni, e sono tuttavia beni molto diversi tra loro. Oltre una pur proficua parola d’ordine che è piuttosto una protesta contro un modo di governare che monetizza perfino l’aria che respiriamo, contro una cultura disumana idolatra del profitto, l’espressione “beni comuni” deve incarnarsi in progetti, prassi, soluzioni giuridiche chiare a tutti.
E qui, riconosco, il lavoro da compiere è tanto, richiede uno sforzo congiunto, interdisciplinare. Certamente presuppone una grande cultura non solo giuridica, ma anche storica, filosofica, sociologica, ecologica, economica. E’ probabile che si debbano percorrere vie diverse, a seconda delle situazioni e dei contesti (un villaggio montano e lo spazio urbano di una metropoli sono mondi completamente diversi), ma orientate nella medesima direzione. Di qui la possibile coesistenza di diverse concezioni del ‘comune’, di diverse filosofie, di diversi approcci ed itinerari, che possono non escludersi a vicenda ma condurre nella medesima direzione.
Nei dubbi esistenziali: che senso ha una nuova categoria di “beni comuni”?
Per concludere, dobbiamo ancora rispondere alla domanda più importante che pongono i critici: ha senso introdurre il nuovo concetto di ‘beni comuni’, o non sarebbe meglio utilizzare quello di ‘beni pubblici’, entro cui queste situazioni potrebbero farsi rientrare, con minori problemi di inserimento nel nostro ordinamento? Certo, i beni comuni non si collocano a metà strada tra quelli pubblici e quelli privati, ma inclinano assai più sul versante del pubblico. In molti casi si tratta effettivamente oggi di beni pubblici demaniali.
Perché allora complicarsi la vita con il ‘comune’, se c’è già il ‘pubblico’?
Il problema, il grosso problema, è che i beni pubblici sono stati intesi di regola esclusivamente come proprietà dello Stato-Ente o di altri Enti, che li hanno gestiti in modo burocratico, inefficiente e dispendioso, al punto che oggi irresponsabilmente si ritiene proficuo addirittura sbarazzarsi di questi beni svendendoli a speculatori privati. Il ‘pubblico’, etimologicamente del popolo, ha perduto la sua fisiologica relazione con la collettività, di qui la necessità di un concetto più forte, che richiami in evidenza quel legame pericolosamente venuto meno.
Il ‘comune’ vuol essere soprattutto un ‘pubblico’ non statalistico-burocratico, gestito in modo da corrispondere veramente all’interesse dei cittadini ed in modo più democratico e partecipato. Qualcosa che può collegarsi per certi aspetti – ma non per altri – alla dimensione del ‘pubblico-comunitario’ della nostra lunga tradizione europea pre-moderna.
Se riflettiamo su cosa sia divento spesso il ‘pubblico’ statalistico nella realtà del nostro tempo, la proposta del ‘comune’ è a mio avviso più che legittima, non ha assolutamente nulla di reazionario, ma anzi vuol emancipare la nostra società da certi errori del passato, tra cui quelli di coloro che ritenevano bastasse a risolvere tutto la ‘mano invisibile’ del mercato o, all’estremo opposto, uno Stato omnipervasivo. Le anime timorose liberali prima di preoccuparsi dei pericoli reazionari dei beni comuni – a mio avviso piuttosto immaginari – dovrebbero forse meditare sui disastri – ben reali e forse irreparabili – compiuti in nome del liberismo selvaggio e dello statalismo (in fondo, due buoni vecchi amici).
6 Maggio 2013