“Hotel Rwanda”: la decisione della Corte Suprema del Regno Unito sul Rwanda Plan e le sue conseguenze

Introduzione
Il 15 novembre 2023, la Corte Suprema del Regno Unito ha dichiarato unlawful il c.d. “Rwanda Plan”, costituito principalmente da un Memorandum of Understanding che prevedeva il ricollocamento e l’esame delle domande dei richiedenti asilo giunti illegalmente nel Regno Unito in Rwanda, designato dal Governo come paese sicuro”, probabilmente per via della pluridecennale stabilità politica e dell’alto tasso di crescita del PIL sotto il regime del Presidente Kagame.
L’illegittimità rilevata dalla Corte si basa sulla violazione del principio di non-refoulement, ossia il divieto di espellere e respingere un rifugiato verso paesi o territori ove i suoi diritti sarebbero minacciati, sancito dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33), nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e da altri atti di diritto internazionale incorporati nella «domestic law by a number of statutes enacted by Parliament» (parr. 26-27 e 33).
I ricorrenti erano alcuni richiedenti asilo provenienti da paesi attraversati da conflitti armati e da gravi violazioni dei diritti umani, come Siria, Iraq e Iran. Essi contestavano l’inammissibilità della decisione di espulsione adottata dal Secretary of State e il loro ricollocamento in Rwanda, sulla base degli art. 345A e 345B delle Immigration Rules allora in vigore, norme che consentivano all’Home Office di designare il Rwanda “safe third country” nelle Country Policy Information Notes (CPINs); in questo modo, il Secretary of State poteva rilasciare i certificati di espulsione dal Regno Unito al Rwanda, ove le richieste di asilo sarebbe state prese in carico. Gli stessi ricorrenti, inoltre, avevano beneficiato delle interim measures da parte della Corte EDU ai sensi dell’art. 39 del Regolamento interno della stessa, adottate su «exceptional basis, when the applicants would otherwise face a real risk of irreversible harm»; in questo modo, in Rwanda non è stato effettuato alcun ricollocamento.

L’antefatto
Nell’aprile del 2022, il Governo del Regno Unito ha siglato con il Governo del Rwanda il Migration and Economic Development Partnership (MEDP) mediante un Memorandum of Understanding (MOU) e due Notes Verbales, il c.d. “Rwanda Plan”. Ai sensi del MOU il paese africano «will process their claims and settle or remove (as appropriate) individuals after their claim is decided, in accordance with Rwanda domestic law, the Refugee Convention, current international standards […]» (MOU, par. 2); tale previsione ha posto non pochi interrogativi anche alla luce dell’obbligo di condivisione delle responsabilità con Stati terzi, laddove the «UK’s approach seeks to shift responsibility to a country already hosting many refugees». Inoltre, la House of Lords ha ampiamente criticato la mancanza di controllo parlamentare sul “Rwanda Plan”: trattadosi di un MOU, non è infatti soggetto alla procedura prevista dal Constitutional Reform and Governance Act 2010, secondo cui la ratifica di un trattato internazionale può essere completata solo se, sottoposto l’accordo ai due rami del Parlamento, non vengono sollevate obiezioni dalle Camere nei successivi 21 giorni.

Il giudizio della Corte Suprema.
Prima di tutto, merita di essere segnalato che la Corte affermi espressamente di non essere «concerned with the political debate surrounding the policy», ma di decidere la Rwanda policy considerando «the evidence and established legal principles». Si tratta, a ben vedere, di un inciso con cui esplicita la volontà di rimanere al di fuori dell’aspro dibattito sulla questione migratoria, per non politicizzare il ruolo dei giudici.
La Corte rifiuta la lettura offerta dalla Divisional Court e, in accordo con la Corte d’Appello, sostiene che l’oggetto del giudizio non fosse la titolarità o meno dell’Home Secretary di designare il Rwanda come “paese sicuro”, bensì l’esistenza di «substantial grounds for thinking that there is a real risk of refoulement» (parr. 39-40). L’argomentazione della Corte si avvale della valutazione espressa dall’UNHCR con cui, secondo l’art. 35 della Convenzione sullo status dei rifugiati, gli Stati contraenti debbono cooperare nell’applicazione della Convenzione (parr. 64-65). A tal riguardo, l’UNHCR aveva ritenuto il Rwanda Plan contrario ai principi del diritto internazionale umanitario, anche sulla scorta dell’esperienza maturata dall’UNHCR in Rwanda sin dal 1993, assieme ad altre organizzazioni non governative, nell’assistenza dei richiedenti asilo e dei rifugiati e delle deficienze lì riscontrate(parr. 65-71).
Così, l’analisi della Corte ricade sulla tutela dei diritti umani in Rwanda, sull’adeguatezza del sistema di asilo e specificamente sull’esistenza o meno di un effettivo rischio di refoulement (par. 74). A tal riguardo, la Corte rileva l’assenza di un sistema di asilo adatto a soddisfare richieste di migranti provenienti da paesi quali Iran, Iraq, Pakistan e Siria, nonché la carenza delle garanzie giurisdizionali effettive, per via di ragionevoli dubbi sull’indipendenza del sistema giudiziario ruandese. Nei paragrafi seguenti, la Corte esamina la prassi, ricordando che «UNHCR’s evidence shows 100% rejection rates at RSDC level during 2020-2022 for nationals of Afghanistan, Syria and Yemen, from which asylum seekers removed from the United Kingdom may well emanate. This is a surprisingly high rejection rate for claimants from known conflict zones» (par. 85), ove i richiedenti asilo possono essere ricollocati dalle autorità rwandesi (par. 94). Per di più, la lettura della Corte viene supportata dal precedente accordo siglato nel 2013 da Israele con il Rwanda, avente finalità omologhe e dichiarato illegittimo dalla Corte Suprema israeliana nel 2018.
In questo modo, la Corte sostiene che il sistema d’asilo rwandese non possa assicurare la tutela del principio di non-refoulement. (parr. 104 e 105). Inoltre, appare interessante segnalare come la Corte non abbia esaminato in via prioritaria la compatibilità del “Rwanda Plan” con la CEDU (par. 106); probabilmente, la scelta di vagliare la violazione del principio del non-refoulement rispetto ad altri atti di diritto internazionale è stata dettata dall’intenzione della Corte di “affrancarsi” dal dibattito nazionale sui vincoli posti dalla CEDU al legislatore del Regno Unito.

La reazione del Governo: il Rwanda Bill e le sue (possibili) conseguenze.
Dopo il giudizio della Corte, il Governo Sunak ha continuato a perseguire comunque la politica migratoria ben esemplificata dal “Rwanda Plan”, ma ha stipulato un Trattato internazionale con il Rwanda, in sostituzione del MOU quale accordo politico; inoltre, il Governo ha presentato il Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill, approvato in terza lettura il 17 gennaio alla Camera dei Comuni. In tale contesto, sono emersi i contrasti tra i Tories più radicali, fautori della disapplicazione dello HRA, e i più moderati; ciò ha provocato le dimissioni del Ministro dell’immigrazione, Robert Jenrick, mentre, nelle explanatory notes apposte al summenzionato Bill, a destare sorpresa sono stati i dubbi sulla compatibilità con la CEDU espressi dell’attuale Home Secretary, James Cleverly (par. 1.3).
In effetti, dal Bill emergono numerose problematiche: innanzitutto, la normativa risponde alle conclusioni della Corte Suprema, facendo sì che sia il Parlamento, con una legge, a qualificare il Rwanda come paese sicuro. A questo implicito richiamo alla parliamentary sovereignty ne segue uno esplicito (S. 1, par. 4 del Bill), nelle norme cruciali del testo, a partire dalla S. 2 che obbliga ogni ente amministrativo e giudice di qualsiasi grado a considerare il Rwanda come paese sicuro; ben oltre si spinge la S. 3, che agisce in deroga rispetto alla disciplina dettata dagli artt. 2, 3, 6, 7-9 dello Human Rights Act, 1998. Si tratta di notwithstanding/ouster clauses che coinvolgono anche le misure cautelari della Corte EDU, il cui rispetto verrebbe a dipendere dalla discrezionalità del Governo britannico, mentre alle Corti è preclusa la loro considerazione nella fase processuale (S. 5). A fronte di questa estesa deroga allo HRA, va posto in evidenza che il Bill non intacca l’operatività dell’art. 4 dello HRA, che consente alle corti di dichiarare l’incompatibilità di una fonte primaria con la CEDU mediante una declaration of incompatibility; quest’ultima, come è noto, non invalida la normativa domestica che il giudice continua ad applicare, mentre il Parlamento non è obbligato ad abrogarla.
Permane, invece, la possibilità per l’ufficio amministrativo competente di decidere se il Rwanda rappresenti un paese sicuro specificamente «for the person in question», così come viene garantito il diritto di ricorrere individualmente al giudice sulla base di «compelling evidence relating specifically to the person’s particular individual circumstances» (S. 4, par. 1(a, b)). Inoltre, qualsiasi individuo ha diritto a adire direttamente la Corte EDU, proprio perché alle corti nazionali viene impedito, in ragione della deroga posta dalle ss. 2 e 3, di prendere in esame quei ricorsi che contestino la designazione del Rwanda come paese sicuro. Di qui, si evince come il Regno Unito rimanga vincolato alla CEDU e come le deroghe previste dal Bill non renderebbero immuni le norme domestiche da un esame da parte della Corte EDU, scrutinio che può essere evitato solo mediante un recesso dalla Convenzione.

Conclusioni: la parliamentary sovereignty nello scontro tra esecutivo e giudiziario.
Al di là del giudizio della Corte Suprema, tale vicenda dimostra come la sovranità del Parlamento sia stata strumentalmente invocata dai conservatori al fine di adottare misure  in contrasto con diversi atti di diritto internazionale, dalla Convenzione di Ginevra alla CEDU; inoltre, va segnalato anche che la Corte, nel dichiarare unlawful il “Rwanda Plan”, ha saputo offrire argomentazioni che potessero evitare un suo successivo coinvolgimento nel dibattito politico sulla parliamentary sovereignty.
Tuttavia, con l’approvazione del Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill il braccio di ferro tra l’esecutivo conservatore guidato da Sunak e la Corte Suprema sembra poter avere un seguito, in quanto tale normativa non risolve le numerose criticità rispetto alla compatibilità con la CEDU.
In ogni caso, la vicenda legata al “Rwanda Plan” pone diversi interrogativi sul rapporto tra ordinamento del Regno Unito e diritto internazionale, nonché sui limiti della parliamentary sovereignty e sulla separazione dei poteri. Il giudizio della Corte Suprema offre un ulteriore esempio di scontro tra le corti apicali e gli esecutivi; in merito, in chiave comparata destano interesse la recente sentenza della High Court australiana e ciò che potrà scaturire dal giudizio della Corte costituzionale albanese, sul protocollo siglato tra l’Albania e l’Italia lo scorso 6 novembre, attualmente sospeso. Si tratta di una tendenza all’esternalizzazione delle procedure per le domande dei richiedenti asilo non nuova, ma che assume contorni problematici, in ciascuno dei casi richiamati, soprattutto in materia di compatibilità tra le misure adottate e il diritto internazionale. La comparazione evidenzia altresì rilevanti differenze - ad esempio nel caso italiano va valutata anche la compatibilità con il diritto dell’Unione europea e occorre ricordare che, secondo il protocollo tra Italia e Albania, i Centri di Permanenza per il Rimpatrio saranno sotto la giurisdizione italiana – assieme alla specificità dell’ordinamento del Regno Unito. In questo caso, a “tenere banco” sono il dibattito dottrinale e la giurisprudenza attorno alla parliamentary sovereignty assieme all’essenza stessa del bilanciamento tra i poteri, come dimostra l’articolo 3 del Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill: tale disposizione, una volta in vigore, precluderebbe un rimedio giurisdizionale effettivo sulla base dello HRA comportando, allo stesso tempo, una disapplicazione senza precedenti delle sue norme fino a poter configurare una sorta di velato “opt-out” unilaterale dalla CEDU.


La Corte Suprema irachena, il federalismo e l’illegittimità costituzionale della legge curda sugli idrocarburi

Il 14 febbraio 2022 la Corte Suprema dell’Iraq ha depositato una sentenza di cruciale importanza per le relazioni tra centro e periferia. Non è questa la sede per un’analisi più estesa sull’ambigua e incompleta Costituzione del 2005, tuttavia, con la sentenza in esame (cause riunite Ref. 59/federal/2012 e 110/federal/2019) la Corte è stata chiamata ad interpretare, senza molto successo a dire il vero, alcune tra le più controverse disposizioni della Costituzione irachena. Si tratta degli articoli 110, 111 e 112 concernenti le competenze legislative federali e la “gestione” delle ricchissime risorse petrolifere del Paese. La controversia verteva sull’illegittimità costituzionale della Oil and Gas Law of the Kurdistan Region – Iraq, Law No. (22) – 2007, per la violazione degli articoli 110, 111, 112, 115, 121 e 130 della Costituzione. La Corte Suprema ha sancito l’incostituzionalità della legislazione del Kurdistan basandosi soprattutto sulla violazione della “commerce clause” contenuta nell’articolo 110, senza fornire, però, un chiarimento sull’interpretazione delle problematiche disposizioni costituzionali relative alle risorse petrolifere. 

Il processo costituente iracheno “sotto tutela”
La controversia in commento impone il chiarimento di alcune coordinate sull’ordinamento costituzionale iracheno che è sorto successivamente allo smantellamento del regime di Saddam Hussein ad opera delle forze angloamericane nel 2003. Le vicende di natura politica sono note, ma non altrettanto può dirsi in merito al processo costituente. Gli Stati Uniti gestirono e diressero la transizione mediante la Coalition Provisional Authority (CPA) sotto la cui autorità entrò in vigore la Interim Constitution, ossia la Transitional Administration Law (TAL), nel marzo 2004. Questo passaggio del “two stage Constitution making process” risulta fondamentale perché la Costituzione ad oggi in vigore risente largamente della TAL, della quale ha conservato, su tutti, l’assetto federale, dovuto essenzialmente alla presenza della Regione autonoma del Kurdistan. La fase che poi portò all’adozione della Costituzione del 2005 fu notevolmente influenzata dalle forze di occupazione e dalla necessità di “chiudere” la fase costituente in tempi brevi, per dare una parvenza di legittimità alle neonate e fragilissime autorità irachene. Basti pensare che non si riuscì a trovare un accordo sull’istituzione della seconda Camera, questione lasciata alla speranza che la Camera bassa, il Federation Council, approvi la legge rinforzata (con la maggioranza dei due terzi), istitutiva del Senato federale (articoli 49 e 65). Ulteriore vulnus dell’incompiuto disegno costituzionale riguarda proprio la Corte Suprema, istituita sulla base della TAL e disciplinata dalla legislazione adottata prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Inoltre, si può ben parlare di ambiguità in merito a quelle disposizioni costituzionali riguardanti la gestione delle risorse petrolifere (artt. 111 e 112). In definitiva, il risultato del processo costituente favorì il Kurdistan, indusse gli sciiti ad accettare un forte decentramento, mentre venne boicottato dai sunniti che vennero non poco marginalizzati, visto il legame dei vertici del regime precedente con la corrente sunnita dell’Islam. 

La Costituzione irachena del 2005 tra ambiguità redazionale e incompiutezza istituzionale
Accanto alle carenze costituzionali riportate, si è accennato più volte all’ambiguità degli articoli sugli idrocarburi. La loro analisi deve essere collegata ad una divisione delle competenze incardinata sulla presenza di uno scarno ma significativo elenco di competenze esclusive federali (art. 110), tra cui “regulating commercial policy across regional and governorate boundaries in Iraq” e “drawing up the national budget of the State”, la commerce clause sulla cui base la Corte Suprema ha dichiarato l’illegittimità della legge curda. L’elenco delle materie concorrenti presenta una duplice particolarità: la Costituzione utilizza il termine “policy” con riferimento, ad esempio, alla sanità e all’educazione, mentre sono presenti le dizioni “formulate” e “regulate” (e non ad esempio “shall have the power to”) per delineare l’attività legislativa. La presenza del termine “policy” può suggerire che nelle materie concorrenti la cooperazione risulti essenziale nel delimitare gli “spazi” legislativi dei due livelli di governo, cooperazione che, ad onor del vero, è sostanzialmente mancata tra il Kurdistan e il Governo federale. Il quadro viene completato con i poteri residuali di regioni e governatorati (art. 115) e, ai sensi dell’art. 121, par. 2 “in case of contradiction between regional and national legislation in respect to a matter outside the exclusive authorities of the federal government, the regional power shall have the right to amend the application of national legislation”. Si tratta di un potere legislativo molto vasto, con gli enti subnazionali che hanno facoltà di incidere sulle materie concorrenti, in qualche modo in senso inverso rispetto, ad esempio, a quanto disposto dal Grundgesetz (art. 72, par. 1).
Accanto a ciò altri sono i problemi che presentano gli articoli 111 e 112 in materia di idrocarburi; il primo sancisce che “oil and gas are owned by all the people of Iraq in all the regions and governorates”, mentre il secondo risulta foriero di ambiguità interpretative. La disposizione afferma infatti che “the federal government, with the producing governorates and regional governments, shall undertake the management of oil and gas extracted from present fields, provided that it distributes its revenues in a fair manner in proportion to the population distribution in all parts of the country […] and this shall be regulated by a law. Ai fini del presente scritto si sottolinea il dovere di cooperazione e il riferimento ai “present fields”; ciò induce a ritenere che spetti alle regioni e ai governatorati il “management” dei futuri giacimenti. La fonte primaria (shall be regulated by a law) è individuata nella legislazione federale, adottata con la collaborazione delle entità subnazionali. Nulla si afferma circa il regime competenziale dei “futuri giacimenti” ma che, di converso, dovrebbe essere adottata previa leale cooperazione con il governo federale. Tuttavia, come si è già visto, non è ancora stata introdotta la Camera federale, tantomeno vi sono procedure e ulteriori sedi di raccordo (se non informali e non conoscibili) disciplinate dalla legislazione primaria. Tale stallo, dovuto tanto al drafting quanto alla mancanza di dialogo tra le anime dell’Iraq, ha reso impossibile l’adozione della legislazione nazionale sugli idrocarburi; così, il Kurdistan ha colto questa opportunità adottando la propria legislazione.

 La mossa curda: la oil and gas law del 2007
Proprio questo aspetto dimostra come il Kurdistan abbia agito sul piano normativo a fronte della massima debolezza delle istituzioni federali irachene nel 2006. Infatti, sono numerose le differenze tra la proposta legislativa del 2006 e la legge poi approvata nel 2007, che ha conferito un ruolo di preminenza al Kurdistan rispetto al governo federale. Ciò è dimostrato dalla presenza di una lunga lista di definizioni di termini essenziali come “present” e “future fields”, laddove i primi sono individuati in quelli “that has been in Commercial Production prior to 15 August 2005”, mentre i secondi riguardano quelli not in Commercial Production o scoperti dopo il 15 agosto 2005. Accanto a ciò, appaiono meritevoli di menzione alcune disposizioni a partire dall’articolo 2 della legge del Kurdistan, secondo cui “no federal legislation, and no agreement, contract, memorandum of understanding or other federal instrument that relates to Petroleum Operations shall have application except with the express agreement of the relevant authority of the Region”. Altra disposizione di cruciale importanza è l’articolo 3 (par. 1), secondo il quale il Governo regionale “is entitled to a share from the revenues from producing fields”, mentre il secondo paragrafo, più problematico, assegna al Kurdistan “a share of the revenues from oil and gas production in future fields”. Non potevano mancare, quindi, una serie di imprese ed enti regolatori pubblici ad hoc, con compiti amministrativi e di gestione delle petroleum operations, individuate dall’art. 1, par. 18, e dal richiamato articolo 2 che menziona anche le attività ad esse connesse. Tra le imprese pubbliche regionali spiccano la Kurdish Exploration and Production Company (KEPCO), la Kurdish National Oil Company (KNOC) e la Kurdish Oil Marketing Organisation (KOMO) (Artt. 15-16-17). Alla prima è assegnato il mandato di “compete with other companies to obtain Authorisations regarding Future Fields” e di “create operating subsidiaries for particular Petroleum Operations in respect of Future Fields”, mentre la seconda ha sostanzialmente le stesse funzioni sui present fields. Infine, per comprendere l’ampiezza del raggio d’azione delle imprese pubbliche del Kurdistan assumono importanza i compiti della KOMO, ossia “to regulate market or regulate the marketing” nonché il raggiungimento di accordi con gli appaltatori per la commercializzazione degli idrocarburi. Queste imprese sono saldamente connesse con le autorità governative curde, che possiedono ampi poteri contrattuali, di autorizzazione e di sviluppo dei giacimenti di idrocarburi. Abbiamo così richiamato, seppur sommariamente, le finalità della legge del Kurdistan dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema, seppur questa non si sia soffermata sulla costituzionalità delle singole disposizioni.

 Il ricorso del Governo e la difesa del Kurdistan
Avverso tale legge, il Governo federale ha promosso, nel 2012, il ricorso in via principale ai sensi dell’art. 93 par. 3 e 4 della Costituzione, che non pone limiti temporali al ricorso né mai è stata adottata una legislazione sul funzionamento dell’organo. Il ricorrente lamentava la produzione e la commercializzazione autonoma da parte del Kurdistan e quindi la violazione dell’articolo 111 ma soprattutto dell’articolo 112 par. 1. A livello di legislazione ordinaria, la violazione riguardava le leggi di bilancio annuali, che prevedono la quantità di barili che il Kurdistan deve consegnare al Governo federale e la Legge n. 101/1976 ancora in vigore, in forza del principio di continuità dell’ordinamento giuridico (art. 130 Cost.).
La difesa del Kurdistan si fondava sull’assenza della competenza esclusiva statale in materia di idrocarburi. Se da un lato per il Kurdistan la competenza ricade tra quelle regionali, bisogna sottolineare che, vista la complessità della “materia”, in non pochi Stati federali essa appartiene al governo centrale o ricade tra le materie concorrenti, come nel caso del Canada, dove le risorse naturali sono disciplinate dall’articolo 92A, che stabilisce una concorrenzialità con prevalenza della Federazione. Oltre a ciò, si riteneva che l’articolo 110 “was not a regulatory article for the management of oil and gas affairs” e che non fosse un parametro di costituzionalità delle leggi, ma soprattutto si contestava l’interpretazione del ricorrente circa l’articolo 112 perché la Regione non aveva present fields “attivi”; di qui la legittimità della legislazione del Kurdistan in materia, perché riguardava i “future fields”. Infine, l’invalidità della Legge n. 101/1976 era fondata sulle stesse basi costituzionali precedenti, ossia il tipo di Stato federale e la divisione delle competenze legislative.

 La decisione della Corte Suprema e l’illegittimità della legge del Kurdistan
La Corte Suprema ha accolto i motivi presentati dallo Stato, vista l’esportazione autonoma del greggio da parte del Kurdistan verso la Turchia sulla base della Oil and Gas Law No. 22 of 2007, obbligando il Kurdistan “to hand over the entire oil production from oil fields in the Kurdistan Region”. La Corte ha così sancito l’illegittimità della Legge regionale.
Le motivazioni della Corte si fondano, prima di tutto, sull’unità dell’Iraq, ma il riferimento costituzionale non è all’articolo 1, secondo cui l’Iraq è “a single federal, independent and fully sovereign state […] and the Constitution is a guarator of the unity of Iraq”, bensì all’articolo 116, parte della Section FivePowers of the Regions”, ove vi si afferma che la Repubblica d’Iraq è costituita (made up) dalla Capitale, le regioni, governatorati e amministrazioni locali (equiordinazione degli enti costitutivi della Repubblica), probabilmente per “alleggerire” il peso dell’incostituzionalità. Infatti, la Corte prosegue ricordando che la Costituzione conferisce alle entità subnazionali il diritto di esercitare il potere legislativo ai sensi dell’articolo 121. Tuttavia, tra le competenze legislative federali, figurano “formulating fiscal and customs policy; regulating commercial policy across regional and governorate boundaries in Iraq; drawing up the national budget of the State […]”, parametri di costituzionalità che la Corte ha ampiamente enfatizzato, una volta appurate la commercializzazione in via autonoma del greggio e la conseguente violazione delle leggi di bilancio annuali. Circa l’articolo 111, la Corte offre un’esegesi del testo ricordando che gli idrocarburi e le risorse da essi derivate appartengono a tutti i cittadini iracheni senza distinzione su base regionale, etnica o religiosa. La Corte, invece, non fornisce alcun chiarimento sulla formulazione del testo dell’art. 112, con riferimento ai giacimenti “presenti” e “futuri”; ugualmente debole è il richiamo alla collaborazione tra Kurdistan e Governo federale. Più semplice, invece, è apparso il riferimento all’articolo 130 e alla continuità dell’ordinamento. Così, accertata la violazione degli articoli 110, 111, 112, 115, 121 e 130 della Costituzione, la Corte ha obbligato il Kurdistan a contribuire al bilancio federale e ha dichiarato nulli i contratti stipulati dal Kurdistan ai sensi della legge regionale oppure soggetti a revisione da parte dello Stato.
Vista l’illegittimità della legge curda, ci si sarebbe potuto aspettare qualche riferimento puntuale a detta legislazione, che avrebbe in qualche modo fornito non poche indicazioni sull’interpretazione dei present e future fields. Inoltre, avrebbe potuto richiamare al dovere di leale cooperazione il Governo federale e del Kurdistan, che purtroppo continua a mancare. Ciò che resta di questo giudizio è solamente un debolissimo e implicito richiamo alla necessità di adottare una legislazione su questo settore, che possa fornire certezza giuridica circa i contratti stipulati con gli investitori.


La Building Bridges Initiative (BBI) “saga” kenyota: problematiche, peculiarità e importanza di due giudizi cruciali (in attesa della Corte Suprema)

L’Alta Corte e la Corte d’Appello del Kenya si sono espresse, rispettivamente il 13 maggio 2021 e il 20 agosto 2021, sulla legittimità costituzionale del progetto di revisione “The Constitution of Kenya (Amendment) Bill 2020, che apporterebbe 74 modifiche alla Costituzione kenyota del 2010. Le problematiche del progetto di revisione sono connesse ai limiti alla revisione costituzionale e, più specificamente, all’emendabilità dei principi fondamentali in assenza di limiti espliciti. Entrambe le Corti hanno accolto i ricorsi, sancendo l’applicabilità della basic structure doctrine in Kenya come limite implicito alla revisione costituzionale, che include i principi e diritti fondamentali dell’ordinamento e la separazione dei poteri. 

Il “continuo” Constitution-making kenyota tra potere costituente e di revisione costituzionale
La vicenda in esame non deve cogliere alla sprovvista, anzi, probabilmente è la cartina tornasole dei processi costituenti e di revisione costituzionale in atto in Africa Subsahariana dal 1990. Criticamente, è possibile affermare che l’esperienza kenyota rappresenti la prova della lettura erronea di questi processi, spesso ricondotti a tendenze del costituzionalismo globale (come le “ondate”). L’aspetto dinamico del passaggio ordinamentale richiede particolare attenzione, vale a dire il processo di sostituzione delle fondamenta dell’ordinamento costituzionale mediante un “mega” emendamento costituzionale. Già da questa introduzione emerge la fluidità di tali processi che tanto rendono difficile l’utilizzo del termine “transizione” costituzionale, visto che ciò presupporrebbe un punto d’arrivo di tale processo dinamico.
Infatti, in Kenya, si assiste a un continuo processo costituente/di revisione a partire dal 1992, quando vennero introdotti i limiti ai mandati presidenziali e rimossa la disposizione che vietava il multipartitismo. Da quel momento l’aspirazione dei kenyoti fu verso un processo costituente “people driven”. Il primo, iniziato nel 1997, deragliò dal 2003 e fallì nel 2005, dopo un referendum che rigettò la Proposed New Constitution, fortemente plasmata dal presidente in carica Mwai Kibaki. Il secondo, ben più noto e che ha portato all’adozione della Costituzione del 2010 attualmente in vigore, avvenne dopo le elezioni del 2007 e le violenze interetniche che seguirono. Bisogna, a tal riguardo, sottolineare le analogie con la attuale proposta di revisione poiché, allora come oggi, quest’ultima segue contestate elezioni e gravi disordini. Infatti, nel marzo 2008, l’accordo tra Odinga e Kibaki venne suggellato dal National Accord and Reconciliation Act 4 of 2008, emendamento costituzionale approvato all’unanimità dal Parlamento che rese possibile un governo di unità nazionale. La dottrina, incluso Yash Ghai che prese parte ad entrambi i processi costituenti, considerò questo accordo un modo per rilegittimare il sistema politico mediante la promessa di una nuova costituzione. Ciò nonostante, la narrazione del processo costituente inclusivo del wanjiku – il cittadino comune in Kenya –, non cessò, anche grazie agli sforzi del Committee of Experts che, nel proporre la nuova costituzione al parlamento, consultò associazioni di cittadini, stakeholders e comunità rurali nel paese. La Costituzione venne poi approvata nel 2010 con il 68.5% dei consensi, senza, tuttavia, che il contributo della partecipazione dei cittadini fosse risultato decisivo nella fase di drafting della Costituzione.
Non sorprende l’attenzione della Costituzione verso la partecipazione del wanjiku, in particolare nelle disposizioni relative alla revisione e mediante l’inclusione della partecipazione tra i principi e valori costituzionali (art. 10). Infatti, specialmente l’articolo 257 – considerato “one of the most interesting constitutional provisions, prevedendo ben dieci fasi per il procedimento di revisione costituzionale – rappresenta il cuore della Costituzione kenyota. La ragione risiede nel significato della revisione in una realtà costituzionale che tenta di rispondere alla patologia delle “imperial presidencies”, per mezzo di un procedimento che preveda una significativa partecipazione popolare come checks and balances verso le élite o gli esecutivi. Lo scopo rimane quello di una formale e sostanziale partecipazione dei cittadini; quindi, la Costituzione gioca un ruolo sostanzialmente inclusivo delle masse, la cui influenza sulla sostituzione di un ordine costituzionale è stata minima se non nulla fin dall’indipendenza. Il significato ultimo di questa particolare procedura di revisione costituzionale risiede nella funzione della Costituzione come argine alla concentrazione del potere e come strumento di integrazione per mezzo di una complessa architettura procedurale di revisione. La revisione costituzionale appare essere un momento di profondo dialogo tra cittadini e istituzioni rappresentative, ove i primi detengono un ruolo sostanziale e procedurale. A mio parere, un salto qualitativo di natura procedimentale rispetto ai processi costituenti (e di revisione) che hanno caratterizzato il paese. 

I fatti: l’accordo (handshake) tra il Presidente Kenyatta e Raila Odinga
La peculiarità di questo “mega” emendamento costituzionale deriva dall’essere stato promosso dalla riconciliazione post-elettorale tra Uhuru Kenyatta e Raila Odinga, i due principali leader politici del Kenya. Le analogie con gli eventi del 2007/2008 non sono poche; la differenza risiede, questa volta, nella via dell’ampia revisione costituzionale anziché del processo costituente. Le elezioni dell’agosto 2017, seguite da antagonismi e violenze tra i sostenitori dei due leader, furono annullate dalla Corte Suprema e ripetute il successivo ottobre. Kenyatta risultò nuovamente vincitore in quanto Odinga decise di non partecipare alla seconda tornata e il paese rimase fortemente polarizzato, tanto che l’opposizione dichiarò Odinga “People’s President”. Di lì a poco, i due leader ebbero modo di trovare un accordo (handshake), che non fu mai reso pubblico, e ciò ben si inserisce nella scia degli accordi tra élite volti a modificare profondamente l’assetto costituzionale. L’accordo venne formalizzato con la nomina presidenziale della Building Bridges Initiatives to Unity Advisory Taskforce (BBI Taskforce), tra i cui compiti figurava “make practical recommendations and reform proposals that build lasting unity e outline the policy, administrative reform proposals”. Successivamente venne nominato lo Steering Committee cui spettava, in special modo, di “propose administrative, policy, statutory or constitutional changes that may be necessary for the implementation of recommendations contained in the Task Force Report”. Fu tale Commissione che diede vita al progetto di revisione costituzionale, poi divenuto The Constitution of Kenya (Amendment) Bill 2020. Non deve sorprendere che questo progetto di revisione risulti ampio e contenga proposte care a Odinga, come l’introduzione della carica di Primo Ministro. Questa è solo una delle molte novità che apporterebbero le 74 modifiche: tra esse si menzionano l’introduzione della carica di due viceministri, l’incremento dei collegi elettorali e dei membri del Parlamento e la creazione della figura del Leader of Official Opposition nell’Assemblea Nazionale. Oltre all’ampio impatto sull’architettura costituzionale, si aggiungono anche alcune problematiche connesse alla costituzionalità della procedura di revisione, legate al ruolo dell’esecutivo. 

Le due sentenze: l’approdo della Basic Structure Doctrine in Kenya
L’importanza dei due (per ora) giudizi dell’Alta Corte e della Corte d’Appello del Kenya deriva, come anticipato, dall’oggetto, ossia la vexata quaestio degli emendamenti costituzionali, questione strettamente connessa al ruolo dell’esecutivo nella determinazione delle finalità e nella conduzione dei progetti di revisione. Infatti, tale “saga”, di assoluto rilievo comparatistico per il tema trattato - gli unconstitutional constitutional amendments e le eternity clauses – è meritevole di un’analisi approfondita anche per l’aggiramento di alcuni vincoli normativi di tipo procedurale. Aspetto non sfuggito alle due corti. Infatti, l’Alta Corte e la Corte d’Appello hanno sancito non solo l’incostituzionalità delle norme del progetto di revisione, ma hanno colto il significato ultimo dello stesso, vale a dire il “patto” tra élite come momento costituente, in contrasto con una visione olistica e “originalista” della giovane Costituzione kenyota, il cui fine rimane quello della partecipazione del “wanjiku”.
Tra i vari temi trattati dalle sentenze, se ne segnalano alcuni, per ragioni di brevità ma soprattutto per la loro incidenza sull’ordinamento kenyota e, più in generale, per il costituzionalismo dell’Africa sub-sahariana. Essi sono: la “migrazione” del concetto della basic structure doctrine dall’India in Kenya; l’insoluta questione dell’abuso degli emendamenti costituzionali e del ruolo degli esecutivi; la partecipazione e “educazione” costituzionale come pilastro e obiettivo del costituzionalismo; i collegi elettorali e il malapportionement; la legislazione in tema di referendum costituzionale e abrogativo e l’attuazione costituzionale.
Il giudizio della High Court è stato definito, sin da subito, “an instant classic” da importante dottrina, non solo per aver “importato” la basic structure in Kenya, ma per aver protetto i fondamenti del costituzionalismo specificandone alcuni tratti “autoctoni”. Come noto, la basic structure doctrine è stata elaborata dalla Corte Suprema indiana, che ha sancito dei limiti impliciti alla revisione costituzionale, identificabili nei principi fondamentali, la forma di governo e, sempre in India, il tipo di Stato.
In via preliminare, nell’analisi dei giudizi va osservata la determinazione, da parte dell’Alta Corte, di alcuni canoni interpretativi strettamente legati alla natura “trasformativa” della Costituzione del Kenya. Il passaggio merita di essere riportato (Alta Corte, par. 399): “One of the imports of recognition of the nature of the transformative character of our Constitution is that it has informed our methods of constitutional interpretation”. I criteri interpretativi utilizzati dalla High Court e dalla Corte d’Appello poi sono stati l’interpretazione olistica, sostanziale volta alla protezione dei valori e scopi della Costituzione e “non-legal considerations”, che hanno costituito il “Canon of constitutional interpretation principles to our Transformative Constitution”. La natura trasformativa e partecipativa contraddistingue la Costituzione kenyota, elemento fortemente enfatizzato dalle corti. Forse in modo eccessivo, visto che il processo costituente terminato nel 2010 è stato generato vieppiù da un compromesso politico, a fronte di un minore impatto di forme ed istituti volti a favorire la partecipazione popolare. Bisogna tuttavia sottolineare che il processo costituente e la Costituzione adottata costituiscono un passo in avanti rispetto alle precedenti esperienze costituzionali kenyote e finanche dell’Africa Subsahariana, pervase da una “culture of hyper-amendment” (Alta Corte, par. 406). Infatti, le sentenze delle due corti altro non dimostrano che la “resistenza” dell’architettura costituzionale kenyota all’eversione costituzionale per mano degli esecutivi.
Le argomentazioni addotte dall’Alta Corte a supporto dell’esistenza della basic structure, confermate dalla Corte d’Appello, sono connesse ai principi interpretativi enunciati in precedenza. Come anticipato, il significato risiede nella volontà dei kenyoti, con il processo costituente del 2010, di preservare la basic structure dagli emendamenti costituzionali. Secondo le corti, il rapporto tra potere costituente e potere costituito rappresenta il cuore delle decisioni: il processo costituente kenyota è stato caratterizzato da alcuni tratti fondamentali, ossia, civic education; public participation; Constituent Assembly plus referendum (Alta Corte, par. 472). Solamente nel rispetto di queste condizioni è possibile proporre la revisione dei fondamenti costituzionali (basic structure), limitando ciò il potere di revisione costituzionale top down - “the desire of Kenyans to barricade it against destruction by political and other elites” (Alta Corte, par. 473). Il progetto di revisione, citando, in questo caso, la Corte d’Appello, è considerato un constitutional dismemberment, concetto coniato da Richard Albert (par. 285), in quanto altera la separazione dei poteri e l’indipendenza del potere giudiziario, così come ampiamente specificato dall’Alta Corte (par. 474). Così, il progetto di revisione costituzionale è considerato dalle corti come unconstitutional constitutional amendment. Probabilmente tale interpretazione è fornita, oltre che da un’interpretazione olistica, da una forte accentuazione del combinato disposto tra le disposizioni costituzionali che sostengono un cittadino “attivo” e non passivo rispetto alle vicende della comunità cui appartiene.
Invero, ed è bene sottolinearlo, la basic structure può essere soggetta a “revisione” (quindi revisione totale della Costituzione) per mezzo di questa scansione procedimentale: partecipazione e iniziativa popolare di revisione, dibattito in Assemblea costituente e referendum. Secondo le corti queste fasi costituiscono il primary constituent power, mentre il secundary constituent power viene esercitato mediante le procedure di revisione presenti negli articoli 255-257 della Costituzione, così come il potere costituito che consiste nel potere di emendamento, invero molto limitato, di cui dispone il parlamento. Ciò significa che il ruolo del popolo kenyota è sostanziale in tutte le fasi del primary constituent power e del secundary constituent power, e non solo nella fase ascendente referendaria. Forse è in questi passaggi che si scorge l’importanza delle sentenze: per la prima volta la basic structure doctrine è stata introdotta non solo per dichiarare l’illegittimità costituzionale degli emendamenti ma questi ultimi sono ammissibili fintantoché vengano riprodotte le “founding conditions”.
Appurata dal punto di vista sostanziale la presenza di limiti impliciti alla revisione costituzionale, le Corti hanno sancito l’illegittimità procedurale del progetto di revisione, in quanto di iniziativa presidenziale. Infatti, è risultato abbastanza agevole dichiarare illegittima la procedura avviata a seguito dell’accordo tra i due leader politici e, in special modo, dall’esecutivo, mediante l’istituzione della BBI Taskforce e dello Steering Committee, quest’ultimo proprio con il compito di proporre riforme costituzionali, essendo ciò precluso dalla Costituzione negli articoli 256-257 (Corte d’Appello, par. 312).
Forse, però, è un altro l’aspetto che rende merito alle due corti, ossia l’incostituzionalità della creazione di 70 nuovi collegi elettorali, ancora una volta legata a ragioni di carattere sostanziale e procedurale. Nuovamente, la questione ricade sulla basic structure doctrine; nuovi collegi elettorali possono essere creati solo seguendo la lettera della Costituzione (art. 89) e garantendo l’indipendenza della Independent Electoral Boundaries Commission (IEBC) – una Fourth Branch Institution, che detiene il compito di revisionare le dimensioni dei collegi ma secondo specifici criteri. Il progetto di revisione, dettando nuovi criteri alla IEBC differenti da quelli sanciti dalla Costituzione, altera non solo la natura indipendente della IEBC ma proprio la normativa costituzionale in materia. L’Alta Corte, poi seguita pedissequamente dalla Corte d’Appello, ha affermato così che i nuovi collegi sono creati mediante “an attempt to amend the Constitution by stealth because it has the effect of suspending the operation of Article 89 without textually amending it”.
Infine, l’ultimo aspetto, che coinvolge tanto l’esecutivo quanto il legislatore: la mancanza della legislazione attuativa in materia di referendum ex art. 82 (si noti che la Costituzione non specifica la tipologia della consultazione referendaria) ha lasciato un vacuum normativo che l’esecutivo, nella proposta di revisione, ha cercato di colmare con le disposizioni contenute nell’Elections Act. Entrambe le corti, però, hanno affermato che ciò che ostacola un ipotetico referendum sarebbe la mancanza di trasparenza ed opacità dell’intero procedimento di revisione. Forse, in questo caso avrebbero potuto “osare” di più: la Corte d’Appello è giunta ad affermare che la Costituzione, l’Elections Act e la normativa sulla IECB, costituiscano una base normativa sufficiente per la regolamentazione del referendum, assumendo un “compito positivo” mediante una sorta di integrazione normativa. Ciò non convince, come non convince la mancanza di un monito più pesante verso il legislatore, su una materia, quella del referendum, così importante se letta in connessione con il ruolo della partecipazione popolare nell’ordinamento kenyota. Questo avrebbe potuto bilanciare tal discutibile interpretazione costituzionalmente orientata di normative diverse. Sono questi, probabilmente, i motivi alla luce dei quali ambedue le corti hanno rinunciato a ciò che potrebbe essere considerato un eccessivo attivismo giudiziario. 

Alcune considerazioni conclusive e altrettante aperte
In definitiva, queste due pronunce suscitano numerose riflessioni, proprio a partire dalla migrazione della basic structure doctrine e dalla presenza di limiti impliciti alla revisione. Il perno della sentenza rimane un originalismo costituzionale fortemente ancorato al tranformative constitutionalism, che viene protetto dalla limitazione del potere di revisione costituzionale. Inoltre, può affermarsi che la partecipazione politica come valore costituzionale costituisca un freno ai tentativi di eversione costituzionale degli esecutivi e delle élite. Infatti, ciò che stupisce, ad una lettura delle due sentenze, è la mancata menzione dei partiti politici – invero incarnati nei due leader, mentre il riferimento alla contrapposizione tra interessi è riferito ai detentori del potere politico e al resto dei kenyoti. Non differentemente, poca attenzione è stata data alle istituzioni rappresentative. Sul punto, risulta doveroso riportare il primo paragrafo della sentenza della Corte d’Appello: “That the Constitution of Kenya, 2010 is a transformative one has never been in dispute at all. Its implementation has, however, not been without considerable challenges, mainly because of competing interests among three categories of Kenyans: the holders of political power; aspirants for political power; and the majority of Kenyans who are apolitical […]. Si può così giungere ad asserire che la funzione della Corte nell’accogliere la basic structure doctrine sia quella di tutelare la partecipazione e “educazione” costituzionale dei cittadini sottoponendoli a quelle costrizioni procedurali e sostanziali a fondamento dell’ordinamento costituzionale del 2010. Forse è proprio questo l’aspetto che merita maggiormente attenzione in chiave futura. Se, in questo caso, l’origine del progetto di revisione appare chiara, come sarà possibile discernere in futuro sulla bontà e “indipedenza” dal potere esecutivo di associazioni portatrici di interessi o stakeholders? In breve, quanto sarà ampio lo scrutinio delle corti rispetto a eventuali “proxies”? Saranno quindi i giudici a definire di volta in volta perimetro e parametri di singoli progetti di revisione? In attesa della Corte Suprema, che dovrà tener conto di questi interrogativi, si può affermare che questo è un precedente fondamentale nell’arginare futuri e simili tentativi di revisione top-down. L’intento dell’introduzione della basic structure doctrine è proprio quello di garantire l’effettività dei checks and balances e quindi la partecipazione politica verso la quale la Costituzione dedica molta attenzione.
Nei prossimi mesi, il BBI verrà sottoposto al giudizio della Corte Suprema, la cui importanza si riflette anche sullo scontro attorno all’ammissione di alcuni noti accademici come amici curiae. Allo stesso tempo, l’Alta Corte ha depositato un ulteriore importante giudizio, che intima al Presidente Kenyatta di provvedere alla nomina di sei giudici verso i quali, in giugno, aveva apposto il suo rifiuto. Che le corti kenyote abbiano intrapreso un percorso simile all’attivismo sudafricano?
Non bisogna dimenticare, infine, che la delicatezza del giudizio della Corte Suprema, infine, è acuita dall’avvicinarsi delle prossime elezioni presidenziali, previste per l’agosto 2022.