Art. 3 CEDU: l’Italia condannata nuovamente per tortura. Brevi appunti sul caso Bolzaneto e sul nuovo art. 613bis c.p.
Il 26 ottobre 2017 la Corte di Strasburgo ha pubblicato tre nuove decisioni concernenti gli ormai noti fatti inerenti la repressione delle contestazioni no-global durante il G8 che si tenne a Genova nel 2001.
In particolare, le sentenze Azzolina ed altri c. Italia e Blair ed altri c. Italia – riguardanti i casi di tortura nella caserma-carcere di Bolzaneto – hanno rappresentato «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni» (così il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale nel comunicato stampa del 26 ottobre 2017) rappresentando una rilevante occasione per tornare a ragionare sul necessario incremento della lotta alle condotte di tortura che hanno caratterizzato (e potrebbero in futuro ancora caratterizzare) l’azione delle forze di polizia anche in paesi comunemente ritenuti civilizzati e rispettosi dei diritti fondamentali come l’Italia.
In primo luogo, è da rammentarsi come l’art. 3 CEDU, rubricato “Proibizione della tortura” e privo di qualsivoglia possibilità di deroga (oltre che escluso dalla possibilità di sospensione prevista dall’art. 15 CEDU), vieti due diverse tipologie di condotta: da un lato è posto a tutela dei soggetti che si trovino costretti da una condizione – non solo di reclusione – “inumana o degradante”; ancor prima sancisce, in maniera volutamente perentoria, come “nessuno può̀ essere sottoposto a tortura”.
Storicamente, la giurisprudenza convenzionale – che pure ha fatto un larghissimo uso dell’art. 3 – ha fatto ricorso con assai maggior facilità (dovuta certamente alla vastità dello spettro fattuale che ricomprende le condotte vietate dalla seconda parte dell’art. 3) al divieto di “pene o trattamenti inumani o degradanti”, individuando un rilevante e fondamentale solco di distinzione fra quel tipo di condotta e quello di “tortura”, del quale ha invece fatto un uso assai più accorto (dovuto alla sua maggior gravità), fondato sull’approfondita analisi del caso concreto oggetto di giudizio.
In questo senso, ed in modo particolare, rileva come per la Corte di Strasburgo la tortura non abbia mai rappresentato una condotta codificata su parametri stabiliti ab origine, bensì sull’elasticità del giudizio in merito a condotte che possono a seconda della loro intensità, gravità ed intenzionalità rientrare nella seconda ovvero nella prima parte del disposto dell’art. 3 (come sin da subito la Corte provò a spiegare nella sentenza Irlanda c. Regno Unito del 1978).
Tale interpretazione è strettamente legata alla particolare lettura che, da sempre, a Strasburgo è stata data del concetto di “tortura”: non invero una condotta isolata a danno dell’integrità fisica, psicologica o mentale della vittima, bensì una forma assai più grave, intensa e/o intenzionale di trattamento inumano e degradante. In questa chiave di lettura, peraltro particolarmente acuta ed efficace, la “tortura” non sarebbe quindi una condotta scorporata dal contesto, bensì l’apice di gravità di azioni comunque illecite e deprecabili.
Prima di entrare nel merito delle condanne emesse contro il nostro paese, una riflessione più approfondita merita la questione dell’assenza nell’ordinamento italiano all’epoca dei fatti (e per oltre quindici ulteriori anni) del reato di tortura. La Legge 110/2017 ha dato seguito al perentorio invito della Corte di Strasburgo del 2015 a dotarsi di strumenti idonei ed efficaci per il contrasto di tutte le possibili condotte in violazione dell’art. 3 CEDU che in Italia ancora non erano qualificabili come autonomo reato di tortura. In effetti, a causa di tale vulnus, quelli che per la Corte erano episodi indiscriminati di tortura, finivano nel nostro paese per restare ciclicamente impuniti. Proprio in tale ottica la legge ha tentato di porre rimedio a quella che poteva essere a buon titolo definita una vera e propria “aporia” del sistema italiano, fondato su principi che nulla concedevano a condotte assimilabili alla tortura ma incapace di combatterle in quanto privo di strumenti idonei a farlo. In conseguenza, è accaduto di frequente che, come nel caso di specie, le condotte astrattamente sussumibili nella nozione di tortura siano rimaste impunite sia per l’assenza della fattispecie incriminatrice, sia per effetto di provvedimenti di clemenza (come, nel caso de quo, l’indulto), ovvero ancora per effetto della prescrizione applicabile alle più miti fattispecie di reato ascritte (lesioni, percosse, violenza privata, minacce, abuso d’ufficio) richiamando le particolarmente gravi critiche dalla Corte europea. Oggi, ad ogni modo, come ha ben ricordato il Garante nazionale dei detenuti nel comunicato stampa già citato, «l’introduzione del reato di tortura nel codice penale consente al nostro paese di rispondere in maniera adeguata a gravi violazioni dei diritti umani come quelle avvenute nei casi delle due sentenze» Azzolina ed altri e Blair ed altri c. Italia.
Già nella sentenza Cestaro c. Italia del 2015, fra l’altro, la Corte EDU aveva fatto presente che la tutela degli individui rispetto a condotte assimilabili alla tortura imponesse di garantire loro forme di ristoro concreto, cioè in nessun caso meramente economico bensì sempre fondato prima di tutto sul perseguimento dei colpevoli. Anche in questo caso, l’ordinamento italiano era stato condannato a causa di una lacuna grave ed inaccettabile, data dal già richiamato contrasto tra i principi radicalmente contrari a condotte di tortura e la colpevole assenza di norme adatte alla loro repressione.
Nelle recenti sentenze oggi in commento, la Corte ha voluto sottolineare la particolare ed inaudita gravità dei fatti in giudizio in ragione del loro svilupparsi a danno di soggetti posti sotto il diretto controllo delle forze di polizia (in questo senso era già stato ampiamente chiarito – e la Corte lo ha nuovamente ribadito citando direttamente i principi già espressi – che in casi simili non possono mai essere previste forme di tolleranza o giustificazione alla luce del particolare ruolo ricoperto dalle forze di sicurezza dello Stato e dalla necessaria affidabilità che deve caratterizzare il rapporto fra esse e il soggetto coinvolto, cfr. sentenza Bouyid c. Belgio del 2015 e Bartesaghi Gallo ed altri c. Italia del 2017). Quindi, ripercorsi dettagliatamente gli abusi ai quali le vittime sono state sottoposte, i giudici di Strasburgo si sono soffermati sull’inefficienza repressiva del sistema italiano: anche dinanzi a fatti ampiamente comprovati in sede giudiziale, il nostro ordinamento non era stato capace di portare a termine un iter processuale che conducesse alla condanna dei colpevoli, i quali avevano invece potuto beneficiare della prescrizione (i reati a loro ascritti erano sostanzialmente un gran numero di reati di lieve entità vista come già ricordato l’assenza di un reato ad hoc, e pertanto i termini di prescrizione erano decorsi in tempi assai brevi) ovvero della concessione dell’indulto. La Corte ha inoltre voluto stigmatizzare la grave responsabilità di tutta la catena di comando coinvolta: non solo è stato specificamente confermato quanto già statuito dalla Corte di Cassazione italiana (Cass. pen., sez. V, sent. n. 3708813/2013) in merito alla responsabilità diretta quantomeno in forma omissiva (ex art. 40 c.p.) di coloro i quali erano transitati all’interno della caserma di Bolzaneto, ma è stato soprattutto sottolineato come le forze di polizia italiane abbiano violato il proprio dovere di proteggere i soggetti sottoposti alla loro giurisdizione garantendone non solamente i diritti strettamente procedurali, ma ancor di più tutelandone e garantendone la dignità. In questo senso, infine, la Corte ha voluto rappresentare la violazione dell’art. 3 CEDU non solamente quale effetto delle gravi violenze dirette sulle vittime ma, in aggiunta a ciò, quale conseguenza dell’ulteriore violazione del dettato convenzionale attraverso l’esposizione all’uso incontrollato e illegittimo della violenza anche nei confronti delle altre vittime degli stessi abusi, fattore che ha definitivamente certificato il superamento della linea di confine esistente fra “trattamenti inumani o degradanti” e “tortura”.
Si aggiunga inoltre che, nelle sentenze in commento, la condanna subita dall’Italia non è stata semplicemente legata a riprovevoli azioni compiute dagli organi di sicurezza dello stato, o a colpevoli mancanze dell’ordinamento giurisdizionale, quanto ancor più gravemente all’apparente atteggiamento di impunità dovuto all’intervento della prescrizione che, come ribadito dalla Corte di Strasburgo e dal Garante nazionale, non può in alcun caso essere tollerato.
È necessario a questo proposito prendere atto di come, ancora una volta (si veda il caso delle sentenze Sulejmanovic c. Italia del 2009 e Torreggiani ed altri c. Italia del 2013 in materia di sovraffollamento carcerario), l’ordinamento italiano aveva avuto necessità di una forte spinta dall’ordinamento convenzionale (e quindi sovranazionale) per giungere a modificare il diritto interno conformandolo a principi di tutela della persona, nonostante tali stessi principi siano chiaramente contenuti anche nella Carta costituzionale italiana come ha da ultimo ricordato la Corte costituzionale nella sentenza n. 258 del 25 ottobre-8 novembre 2017, laddove ha ribadito che: «l’art. 2 Cost., nell’imporre alla Repubblica il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili (…) delinea un fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona».