Arabia Saudita. Uno Stato islamico contro le donne e i diritti
L’Arabia Saudita: uno Stato contro le donne, i diritti, la democrazia? Non è facile rispondere in maniera netta e definita a un quesito del genere. Parliamo di un contesto profondamente controverso, teatro di contraddizioni sociali e politiche; si tratta di un Paese in cui la popolazione sperimenta condizioni di vita eterogenee e inique, una realtà sorprendente, dove è difficile individuare una qualsivoglia categorizzazione proprio per il suo carattere ambiguo e oscuro. Paese dai mille volti, che appare come un ambiente in evoluzione, sebbene lenta e alimentata dallo stimolo di pressioni esogene. Questa complessità pone l’Arabia Saudita in una condizione in cui si trova ad affrontare non solo sfide intestine, ma soprattutto di natura globale, legate a un’evoluzione dinamica dell’economia, all’intensificarsi dei flussi migratori, al terrorismo internazionale, alla diffusione delle armi di distruzione di massa: tutto ciò in un mutevole quadro politico e militare della regione mediorientale.
Il Regno dell’Arabia Saudita occupa una posizione economicamente, politicamente e religiosamente influente: parliamo del principale produttore di petrolio al mondo, fondatore del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) e membro del G20. Oltre alla ben nota cooperazione economica, militare e politica tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, i rapporti tra Arabia Saudita e Unione Europea, ad esempio, sono considerevoli, se si tiene conto della fitta rete di scambi e accordi commerciali che intercorrono tra le due potenze. L’Ue è il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita, con il 15% degli scambi complessivi, e il Regno dell’Arabia Saudita è lundicesimo partner commerciale per importanza dell’Unione. Un numero rilevante d’imprese dell’Ue investe nell’economia saudita, specialmente nell’industria petrolifera, e il Regno saudita rappresenta un mercato importante per l’esportazione di beni industriali dell’Ue in settori quali la difesa, i trasporti, l’industria automobilistica e le esportazioni di prodotti medici e chimici, sebbene i negoziati su un accordo di libero scambio tra l’Ue e gli Stati del Ccg, avviati vent’anni fa, non si siano ancora conclusi.
A questa grande esposizione sul piano internazionale si associa la natura di regime teocratico dell’Arabia Saudita, che pone il Paese in una condizione anacronistica rispetto ai valori di rinnovamento sociale e individuale del mondo odierno, a cui consegue una situazione insostenibile di violazione dei diritti umani.
Tutto ciò entra in contrasto con la nomina per il Paese – non l’unico a dire il vero –, ricevuta il 12 novembre 2013 e rinnovata per il periodo 2017-2019, a membro del Consiglio per i Diritti Umani a seguito delle elezioni tenutesi nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – di cui il Consiglio è organo sussidiario. Si tratta di un prodromo dell’innesto di un dialogo tra il Regno dell’Arabia Saudita e la comunità internazionale sul tema dei diritti umani che potrebbe effettivamente rappresentare un’occasione vantaggiosa per migliorare l’apertura reciproca e promuovere nuove riforme: un passo in avanti mentre il Paese registra ancora una radicata attitudine alla violazione dei diritti e delle libertà fondamentali.
In tempi recenti (in particolare durante il governo del re Abdullah bin Abdulaziz al-Saud, deceduto nel gennaio 2015) una serie di sviluppi positivi si è fatta largo nel contesto sociopolitico del Paese, specialmente in relazione alla condizione femminile; rilevanti sono anche le graduali riforme, avviate a partire dal 2007, tese alla definizione di un nuovo sistema giudiziario, che prevede altresì la creazione di una Corte suprema e di tribunali speciali commerciali, amministrativi e del lavoro. A queste azioni concrete si contrappone però un parallelo e mai formalizzato processo di riforma in altri settori strategici per l’ammodernamento dei diritti fondamentali nel Paese. I limitati sforzi intrapresi sotto il regime di Abdulaziz non hanno arginato le diffuse violazioni dei diritti dell’uomo, che si protraggono nonostante le autorità del Regno abbiano formalmente accettato numerose delle raccomandazioni avanzate nel corso della valutazione dello stato dei diritti umani avvenuta con la Revisione Periodica Universale (Upr) del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite del 2009. Rimane quindi elevata ed evidente la contrapposizione tra ciò che accade all’interno del Paese e la presunta posizione di ammodernamento di fronte alla comunità internazionale.
Il governo saudita ha assunto importanti impegni riguardo a diversi strumenti per i diritti umani, incluse la Carta araba dei diritti dell’uomo, la Convenzione sui diritti del fanciullo[1], la Convenzione contro la tortura e la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna. Malgrado la ratifica di trattati fondamentali in materia di diritti umani, mancano la sottoscrizione e la ratifica di altri accordi e trattati sostanziali quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione sulla protezione di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
Questa è la chiave di lettura a cui bisogna sottostare per poter appieno comprendere questo libro: l’universalità dei diritti umani, spesso richiamati nel testo, è lo standard su cui si deve giudicare la performance di un Paese. Non una chiave comparativa quindi, semmai una disamina di quanto il Paese è lontano dagli standard a cui lui stesso ha deciso di sottoporsi ratificando i trattati menzionati o che secondo il diritto internazionale, che è lo strumento eletto dagli Stati per regolare sia le relazioni tra essi che per garantire un modello base per poter far parte della comunità internazionale, impone a tutti per tutelare i diritti dei popoli e degli individui. La Revisione Periodica Universale delle Nazioni Unite serve proprio a misurare quanto gli Stati fanno per garantire che gli individui godano dei diritti che la Comunità Internazionale ha definito come inalienabili ed essenziali.
Persino la Carta araba dei diritti umani, da molti giudicata contraria agli standard universali, e di cui l’Arabia Saudita è tra i firmatari, non viene rispettata nella prassi. L’articolo 8 della Carta, che viene definito dalla stessa come inderogabile, e che cita «Nessuno sarà soggetto a tortura fisica o psicologica o a un trattamento crudele, degradante, umiliante o inumano» è costantemente violato dalle misure antiterroristiche nel Paese. Questo è solo uno tra gli esempi della sistematica profanazione dei diritti nel Paese.
Primo passo essenziale verso un allineamento agli standard internazionali dovrebbe essere ad esempio una riforma del sistema penale, il quale non rispetta le più elementari norme a tutela dei diritti dell’uomo e che viola sistematicamente il diritto dei detenuti a un equo processo. Manca una codificazione penale scritta che definisca il termine “reato” e che al momento, nella sua attuale formulazione, attribuisce ai giudici un forte potere discrezionale nell’interpretazione della legge islamica e delle tradizioni profetiche.
Le raccomandazioni del Consiglio dei Diritti Umani hanno suggerito di procedere all’effettiva codificazione della legge penale e di procedura penale, per garantirne l’applicazione da parte di un impianto giudiziale efficace, indipendente e imparziale, coerente con le normative di diritto internazionale vigenti. Inoltre la Comunità internazionale ha ribadito più volte la necessità di adottare leggi volte a proteggere le libertà di associazione ed espressione religiosa, che attribuiscano a ogni individuo la possibilità di istituire, senza l’ingerenza statale, associazioni e Ong, tenendo conto delle richieste e delle opinioni della società civile. L’Arabia Saudita oggi non garantisce libertà di espressione e non tutela le minoranze religiose, anzi. La persecuzione degli sciiti, così come di altre minoranze religiose nel Paese è, ad esempio, una delle chiare manifestazioni dell’incapacità di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. Che tali persecuzioni siano anche frutto di un sistema di relazioni internazionali molto teso con l’Iran e di una contrapposizione ideologico-religiosa tra wahhabismo e sciismo non può scusarne le persecuzioni.
Le raccomandazioni delle Nazioni Unite – come spesso accade – sono però rimaste fino ad ora inascoltate. Il sistema penale, basato sulla Shari’a, non soddisfa minimamente le norme internazionali che disciplinano le procedure per l’arresto, la detenzione e i processi, nonché i diritti dei detenuti. È qui che si palesa l’anacronismo intrinseco nella politica del Paese: una realtà ai nostri occhi medievale, ma che appartiene a un contesto contemporaneo. Parliamo di rigide restrizioni alle libertà d’espressione, associazione e riunione, l’arresto, la persecuzione e la detenzione di individui coinvolti e impegnati nella difesa dei diritti umani, rese possibili anche per mezzo e abuso di una legge antiterrorismo adottata dal Consiglio dei Ministri del Paese il 16 dicembre 2013.
Proprio la questione del terrorismo rappresenta un elemento assai controverso nella natura delle posizioni politiche dell’Arabia Saudita: il Paese ha preso una posizione drastica nella lotta al terrorismo, attuando misure rigorose e severe in materia, contrastando anche le attività finanziare ad esso collegate per mezzo dell’elaborazione di un sistema di controllo delle transazioni finanziarie volto ad assicurare che nessun fondo sia destinato a organizzazioni terroristiche. Occorre notare però che al contempo l’Arabia Saudita svolge un ruolo di primo piano nella divulgazione a livello globale di un’interpretazione salafita/wahhabita dell’Islam particolarmente intransigente, e che proprio le più estreme manifestazioni del salafismo/wahhabismo hanno ispirato le più note organizzazioni terroristiche. Sorgono preoccupazioni circa determinate misure antiterrorismo, da ritenersi sproporzionate in quanto prevedono la detenzione segreta, in base alla quale sono stati imprigionati e detenuti con accuse di terrorismo anche dissidenti politici, e la definizione eccessivamente estensiva del termine “terrorismo”, che giustifica restrizioni arbitrarie e inique alla libertà di espressione, poiché sotto l’egida della sicurezza qualunque discorso critico nei confronti del governo o della società dell’Arabia Saudita può essere considerato reato. Nel regime di detenzione poi, tortura e altri trattamenti disumani e degradanti persistono come pratiche consuetudinarie. I processi, svolti davanti alla Corte penale specializzata – un tribunale speciale istituito per esaminare i casi giudiziari legati al terrorismo – continuano ad essere arbitrari e la pena di morte resta un’opzione a cui le autorità fanno tutt’oggi ricorso in maniera estensiva.
Altre raccomandazioni del Consiglio dei Diritti Umani non mancano di rimarcare la necessità di adottare norme per la legittimazione e l’incremento della partecipazione femminile nella sfera pubblica e l’eliminazione della violenza contro le donne. Risulta necessario pensare a misure legislative idonee ad assicurare l’effettiva abrogazione di tutte le forme legittimate di discriminazione sessuale e permettere la completa partecipazione delle donne nella società, inclusi i processi decisionali e politici (compresa quindi l’istituzione del divieto di matrimonio forzato, in linea con la Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna).
Secondo la relazione della Banca mondiale dal titolo Donne, impresa e diritto 2014: eliminare gli ostacoli al rafforzamento della parità di genere, l’Arabia Saudita è il Paese in cui il potenziale economico femminile è in maggior misura limitato dalla legge. A completare un quadro di divieti, il Regno saudita è l’unico Paese al mondo in cui alle donne non è permesso guidare e sebbene non esista una legge ufficiale che impedisca concretamente l’azione, un’ordinanza governativa del 1990 ha formalizzato tale consuetudine e le donne che violano tale divieto rischiano l’arresto. A conferma di una condizione di relegazione vi è anche l’indice della disuguaglianza di genere (Gender Inequality Index) del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), che colloca l’Arabia Saudita al 145° posto su 148 Paesi, con una partecipazione delle donne al mercato del lavoro nel Paese tra le più basse al mondo. A questo quadro di relegazione si aggiunge un ulteriore elemento di brutalità: essendo l’Arabia Saudita uno dei rari Paesi in cui sono legittime pratiche barbariche quali le esecuzioni pubbliche, spesso le donne vengono uccise per mezzo di lapidazione, in aperta inosservanza degli obblighi sanciti dalla Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione femminile.
Le raccomandazioni di cui sopra si sono sempre spinte nella direzione di invitare le autorità del Regno saudita a modificare un’impostazione di stampo estremamente maschilista della società: nonostante esista una legge per la protezione delle donne dalle violenze domestiche, il sistema potestativo impedisce di fatto la denuncia degli abusi subiti.
Nonostante il tasso di alfabetizzazione femminile indichi che un elevato numero di studentesse completano gli studi fino ai più alti gradi di istruzione, soltanto un numero esiguo in età superiore ai quindici anni ha un impiego, dato appesantito dai disagi all’accesso femminile alla concessione di licenze commerciali.
È stato inoltre suggerito alle autorità di migliorare le condizioni di lavoro e il trattamento dei lavoratori immigrati, prestando particolare attenzione alla condizione delle donne che lavorano come collaboratrici domestiche, categoria particolarmente vulnerabile al rischio di violenza sessuale e che si trovano spesso in condizioni di semi-schiavitù.
Più in generale, l’emancipazione sociale e politica del Paese dovrebbe consistere nell’introdurre nel sistema riforme giudiziali e legali per contrastare l’abuso di tutti i lavoratori migranti. Migliaia sono le persone che sono state arrestate e vengono trattenute in centri estemporanei, sistemate in alloggi che non raggiungono limiti di decenza minimi o senza la garanzia di cure mediche adeguate. Il diritto del lavoro non in linea con le norme internazionali permette che avvengano contro i migranti violenze gratuite, come nel caso della repressione del novembre 2013, che si è conclusa con l’uccisione di tre cittadini etiopi, l’arresto di 33mila persone e la deportazione di circa 200mila migranti irregolari. Nel 2014 oltre un milione di etiopi, bengalesi, indiani, filippini, pakistani e yemeniti sono stati rinviati nei rispettivi Paesi a seguito di una riforma del diritto del lavoro introdotta per ridurre l’ingente numero di lavoratori migranti e contrastare così la disoccupazione dei cittadini sauditi, e l’affluenza accelerata di un ingente numero di rimpatriati ha sottoposto a una pressione straordinaria i Paesi di origine, spesso poveri e fragili[2].
Non è tanto una presa di coscienza dei propri diritti da parte della popolazione femminile ciò che serve, ma un processo di maggiore sensibilizzazione dedicato soprattutto agli uomini, perché comprendano le conseguenze sulla società del reiterato mancato rispetto dei diritti femminili. Benché il sistema giudiziario sia nelle mani di giudici uomini con una formazione religiosa, una graduale codifica della Shari’a è attualmente in corso, anche sulla base dell’importante dibattito apertosi tra le studiose dell’Islam volto all’interpretazione dei testi religiosi in una prospettiva più femminile, che ponga attenzione ai diritti delle donne e alla parità di genere.
La sensibilizzazione e l’educazione maschile rappresentano ancora oggi una sfida complessa, poiché si ha a che fare con soggetti “viziati” da secoli di privilegio, segnati da relazioni corrotte dallo status ricoperto dalle diverse figure all’interno della famiglia e della società, il tutto avallato dall’interpretazione più rigida dei precetti della religione di Stato. Se nelle aree urbane la fattibilità di tale processo sembra perlomeno possibile, nelle zone rurali bisogna tenere conto di realtà diverse, in cui i fattori povertà e analfabetismo hanno un’incidenza importante sulla cristallizzazione dei ruoli così come sono stati tramandati, sia in ragione delle opprimenti difficoltà quotidiane dovute alle circostanze di vita in tali aree, sia perché le donne non hanno consapevolezza dei propri diritti.
Considerando l’importante ruolo che l’Arabia Saudita svolge come custode delle due sacre moschee dell’Islam di La Mecca e Medina, il Regno dovrebbe anche assicurare il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le minoranze religiose e garantirne la libertà di culto, promuovendo la tolleranza e una pacifica coesistenza tra i gruppi religiosi. Tuttavia, le tensioni nei confronti del gruppo sciita, come si accennava poc’anzi, sono ancora molto radicate.
Il ruolo del Regno dell’Arabia Saudita in campo internazionale non rileva minori problemi. Il sostegno finanziario e politico offerto da alcuni cittadini del Regno dell’Arabia Saudita ad alcuni gruppi religiosi e politici nel Nord Africa, in Medioriente, in Asia e in particolare in Asia meridionale (segnatamente in Pakistan e in Afghanistan), in Cecenia e in Daghestan, facilita un potenziamento delle forze fondamentaliste e oscurantiste che minano gli sforzi volti a incentivare un governo democratico e che si oppongono alla partecipazione delle donne alla vita pubblica.
Limitare l’ascesa del terrorismo e all’estremismo violento come fenomeni di rilievo internazionale è una priorità non solo per le potenze occidentali, ma anche per il Medio Oriente e, nello specifico, per lo stesso Regno dell’Arabia Saudita. La cooperazione internazionale a tal fine è essenziale, ma per essere efficace deve esigere il rispetto dei diritti umani e delle libertà civili fondamentali. In più occasioni la comunità internazionale ha esortato le autorità saudite a rafforzare il controllo esercitato sul finanziamento dei gruppi militanti radicali all’estero da parte dei cittadini sauditi e delle organizzazioni benefiche del Paese. In tale direzione è stato firmato l’accordo relativo al contributo per l’istituzione del centro antiterrorismo delle Nazioni Unite, sottoscritto dalle Nazioni Unite e dal Regno dell’Arabia Saudita il 19 settembre 2011, e la decisione del Regno dell’Arabia Saudita di finanziare il centro per tre anni; come fare l’accordo tra gli Stati Uniti e la Russia volto a eliminare le armi chimiche in Siria evitando nel contempo uno scontro militare.
Porre un freno al commercio globale delle armi, specialmente nelle regioni di conflitto e in Paesi in cui la situazione di diritto è precaria come in Arabia Saudita, costituirebbe una scelta volta a una soluzione di lungo termine che tuttavia eccede i tempi dei cicli elettorali delle democrazie occidentali. Optare per tale audace presa di posizione comporterebbe dei costi e si porrebbe in competizione con gli interessi economici dei maggiori gruppi di influenza dello scacchiere internazionale. Se affrontata seriamente, una drastica diminuzione delle esportazioni avrebbe indubbiamente ripercussioni sconvenienti sulle economie nazionali dei Paesi esportatori, pesando in particolar modo sul mercato del lavoro nazionale. Sorgono dubbi sull’effettiva possibilità che i governi europei, e ovunque in Occidente, possano trovare l’ardire e la volontà/capacità politica per assumersi le responsabilità derivanti da tale scelta.
In poche righe si è descritto uno scenario complesso, multisfaccettato, caratterizzato da luci sul piano internazionale ed economico e ombre nella sua contestualizzazione interna nella tutela dei diritti, in particolare in relazione alla tutela delle donne. Fare pronostici circa le direzioni future risulta assai complesso, proprio per il ruolo di intercapedine mediorientale che l’Arabia Saudita ricopre. Da un lato potenziale (e potente) partner occidentale, se solo si avviasse un serio e valido processo di ammodernamento e democratizzazione dei diritti, dall’altro attore di rilievo in tutte le dinamiche geostrategiche del Medioriente. Quale sia l’evoluzione futura del Paese è di difficile pronostico: essenziale è un processo di riammodernamento della concezione religiosa, della cognizione dell’importanza dei diritti umani, della parificazione di genere.
Questo volume raccoglie le voci, le aspirazioni e le esigenze di donne saudite le cui esperienze sono diverse e molteplici, proprio come lo è il loro atteggiamento nei confronti della condizione che si trovano a vivere e degli altissimi livelli di discriminazione esistenti che compromettono i diritti e la dignità della donna come essere umano compiuto. Ma fa anche di più: mette in luce una realtà spesso sconosciuta, la quotidianità della società saudita e la contestualizza con conoscenza sia nel panorama delle diverse realtà locali che in quello più ampio delle relazioni internazionali. Ma questo non è solo un libro sulle donne saudite e sulla loro condizione. È un volume che analizza la cruda realtà del Paese e delle condizioni in cui la popolazione è costretta a vivere, e lo contestualizza anche rispetto allo scenario internazionale in cui l’Arabia Saudita e il potere wahhabita cercano di portare avanti un progetto egemonico molto preoccupante. Liisa Liimatainen riesce a travolgerci con schiettezza, semplicità e passione e a trasmetterci un senso di appartenenza a questa lontana e spesso dimenticata terra. Le sfaccettature della società saudita non sono poi diverse da quelle di qualsiasi altra società, ma la sensazione che si ha leggendo questo libro è quella di ritrovarsi a voler essere dalla parte di quelle donne e uomini, giovani e anziani che Liisa ha incontrato nel suo peregrinare in questo Paese. È un libro di denuncia, ma anche un libro di profondo amore verso un Paese che ha nelle sue donne e nei suoi giovani la voglia di rinnovarsi e rinnovare la società islamica. Un rinnovamento difficile, arduo e oltremodo ostacolato dalla paura e dal terrore di un governo dinastico spesso soggiogato dalla grande forza delle autorità religiose, da una società prettamente maschilista e da una povertà dilagante frutto di un sistema economico troppo condizionato dal petrolio e dalla sua industria in declino. L’Arabia Saudita vive un momento di incertezza e instabilità regionale e interna, le guerre lontane e vicine sono però solo parte del problema, così come il terrorismo. La società saudita ha bisogno di un governo aperto al rinnovamento dell’economia del Paese, all’instaurazione di un sistema giuridico equo e all’affermazione dei diritti civili e politici fondamentali per affrontare il futuro evitando il pericolo di collassare o isolarsi nello scacchiere internazionale. Il metro per affrontare la lettura di questo libro non è quello di avvicinarsi a esso come a un racconto di una donna occidentale che giudica le condizioni di vita in un Paese mediorientale e ne compara gli stili, bensì si plasma e si consolida su quella che è una salda conoscenza degli standard minimi di rispetto dei diritti umani, permettendo di evidenziarne l’abuso, il sopruso e il mancato rispetto. La persecuzione sistematica dei difensori dei diritti umani, che Liisa Liimatainen ha conosciuto e intervistato nel corso della sua vita e della preparazione di questo volume, si delinea come uno degli indicatori più significativi di una assenza di tutela nella realtà odierna del Paese. L’Arabia Saudita rimane un sistema estremamente complesso, e troppi sono i tasselli da aggiungere per arrivare a un giudizio complessivo: il libro però rappresenta un passo aggiuntivo nel tentativo di intraprendere questo percorso.
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[1] A tal proposito occorre menzionare la ratifica, da parte del Regno dell’Arabia Saudita, di alcune delle principali convenzioni dell’Oil, in particolare la Convenzione n. 182 sull’eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile; plaude all’adesione del Paese al Protocollo delle Nazioni Unite inteso a prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini (Protocollo di Palermo); si attende che siano attuate le riforme giuridiche e politiche necessarie onde garantire l’esecutività di tutti i suddetti trattati internazionali.
[2] Risoluzione del Parlamento europeo sull’Arabia Saudita: il caso di Raif Badawi (2015/2550 (RSP)) http://bit.ly/2cGjKmM
Grazie della segnalazione e della recensione.