Ancora su mandato d’arresto e diritti fondamentali di fronte alla Corte di Giustizia: il caso Aranyosi
È sempre più caldo il fronte dei rapporti tra Corte di Giustizia UE e stati membri in merito all’applicazione delle misure di mandato d’arresto europeo. Dopo il celebre caso Melloni, che ha segnato per molti una delle pagine meno felici della giurisprudenza di Lussemburgo in materia di diritti fondamentali nel post-Lisbona, e dopo la decisione del 15 dicembre scorso del Bundesverfassungsgericht, che ha attivato l’Identitätskontrolle rispetto a una richiesta di MAE avanzata da giudici italiani (2 BvR 2735/14), giunge un nuovo (certo non l’ultimo) capitolo della vicenda con la sentenza resa il 5 aprile 2016 dalla Grande Camera nel caso Aranyosi e Căldăraru (C-404/15 e C‑659/15 PPU: la sentenza è disponibile qui.
I fatti sono presto detti. Nei confronti di un cittadino ungherese e di uno rumeno, arrestati dalla polizia di Brema, sono emessi una serie di mandati d’arresto europei da parte dei giudici dei rispettivi paesi per reati minori. La Corte d’appello di Brema prende atto che le autorità richiedenti non erano state in grado di indicare in quali istituti penitenziari i due imputati avrebbero scontato la pena, così da non consentire una verifica sul fatto che essi, una volta tornati in patria, non sarebbero stati soggetti a condizioni detentive lesive degli standard contenuti negli artt. 3 CEDU e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La valutazione della Corte tedesca è aggravata poi dal fatto che nei confronti dell’Ungheria e della Romania esistono seri sospetti di violazioni sistemiche dei diritti dei detenuti, accertati da pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e testimoniati da documenti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura.
A questo punto, il quesito posto dal giudice nazionale alla Corte di Giustizia investe la corretta interpretazione della decisione quadro 2002/584/GAI sul MAE (modificata nel 2009), ed in particolare se l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali (art. 1, par. 3) e le condizioni per la non esecuzione facoltativa del mandato di cui all’art. 5 debbono essere interpretati nel senso che una domanda di consegna possa essere rifiutata se sussistono “gravi indizi” del fatto che l’imputato sarà sottoposto nel paese richiedente a condizioni di detenzione lesive dei suoi diritti fondamentali.
La questione pregiudiziale, come è evidente, investe i termini essenziali del principio del mutuo riconoscimento, per cui gli Stati membri sono tenuti in linea di principio a dar corso a un mandato d’arresto europeo, e, con esso, del principio della fiducia reciproca (mutual trust) circa il fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali siano in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali. A partire da questo medesimo principio, la sentenza Melloni aveva, come si sa, nettamente escluso che il rispetto della reciproca fiducia potesse essere messo in discussione in nome dell’esigenza di rispettare uno standard più elevato di tutela garantito dal diritto nazionale anche se di rango costituzionale.
Quello che si riteneva impossibile in Melloni viene invece ritenuto possibile ed anzi necessario in questo caso, considerato che l’eccezionalità delle ragioni che possono condurre gli stati a limitare il principio del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca è qualificata, nel caso di specie, dal rischio di una violazione del divieto di pene e trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 4 della Carta, che “ha carattere assoluto in quanto è strettamente connesso al rispetto della dignità umana, di cui all’articolo 1” della medesima (par. 85).
A partire dalla proclamazione di questo principio, il resto della sentenza si impegna a elencare i presupposti necessari affinché il rifiuto di consegna per le ragioni anzidette possa essere validamente espresso dalle autorità di uno stato membro.
Il primo test che il giudice nazionale è chiamato ad operare concerne la presenza di un rischio concreto di violazione basato su “elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati” relativi alle “condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione”. Elementi di questo genere “possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite” (par. 89).
Ad una valutazione sulla sussistenza di violazioni sistemiche deve poi accompagnarsi l’esame, da svolgersi in concreto sulla base delle risultanze emergenti dallo scambio di informazioni con l’autorità richiedente, sulla sussistenza di motivi gravi e comprovati che facciano ritenere che, a seguito della consegna, la persona imputata “corra un rischio concreto di essere sottoposta nello Stato membro di cui trattasi a un trattamento inumano o degradante” (par. 94).
Di per sé, il rilievo attribuito al divieto di pene inumane e degradanti quale legittima ragione di rifiuto di esecuzione di un ordine di consegna e, con esso, la necessità di operare un doppio test (in astratto e in concreto) sul rischio cui si espone l’imputato non sono una novità, essendo stati fatti propri in passato da alcune giurisdizioni nazionali (v. il commento di A. Di Martino, La sentenza Torreggiani come argomento per negare l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo [ https://www.diritticomparati.it/2014/04/la-sentenza-torreggiani-come-argomento-per-negare-lesecuzione-di-un-mandato-darresto-europeo.html#sthash.mnH2oPmu.dpuf]).
La Corte di Giustizia, con questa sentenza, ha invece fatto il punto rispetto alla situazione precedente laddove, portando a compimento il disegno avviato da Melloni, ha chiarito una volta per tutte che i principi del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca, in quanto posti a fondamento del meccanismo del mandato d’arresto europeo, richiedono per essere messi in discussione che a venire in gioco sia sì un valore riconoscibile come equiparato o superiore ad essi, purché però – e questo pare il punto centrale – questo riconoscimento sia operato dallo stesso diritto dell’Unione e non autonomamente dai singoli diritti nazionali. È emblematico, sul punto, il fatto che un simile processo di “europeizzazione” dei limiti da porre all’esecuzione del MAE poggi sulla combinazione tra il richiamo ad un valore guida altamente inclusivo come quello della dignità umana nell’accezione di cui all’art. 1 della Carta e, accanto ad esso, del divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte EDU. Entrambi i richiami espressivi, quindi, del nucleo di valore più elevato posto a presidio delle due realtà sovranazionali.
Proprio il richiamo alla dignità appare, poi, evidentemente strategico per mandare un messaggio al Tribunale costituzionale federale tedesco che anche e soprattutto alla Menschenwürde si è richiamato, nel richiamato caso R. del dicembre scorso, per far valere un’ipotesi di mancata esecuzione di un ordine di MAE avanzata da un giudice italiano a seguito di un giudizio penale svoltosi in contumacia. In quell’occasione, infatti, i giudici di Karlsruhe ritennero che la necessità di salvaguardare l’ambito intangibile delle garanzie apprestate dalla Legge fondamentale per il tramite dell’Identitätskontrolle non rendeva doveroso il coinvolgimento della Corte di Giustizia. Il rinvio pregiudiziale ad essa, infatti, era da ritenersi superfluo in omaggio alla dottrina dell’acte claire, non dovendosi ravvisare un contrasto tra il quadro normativo europeo e il principio di tutela della dignità di cui all’art. 1, par. 1, della Legge fondamentale (§ 125). Oggi, si può dire che quella “presunzione di consonanza” fatta orgogliosamente propria dal Tribunale costituzionale federale sia in larga misura smentita proprio dalla sentenza Aranyosi: il richiamo alla dignità vale eccezionalmente a giustificare un rifiuto all’esecuzione di un MAE solo quando esso si combini (secondo la logica di funzionamento propria dell’art. 1 della Carta) alla violazione di un’altra garanzia apprestata dalla Carta stessa, come nel caso di specie il divieto di trattamenti inumani e degradanti, rivelandosi così espressione di valori riconosciuti a livello sovranazionale.
Insistere sulla “sola” lesione della Menschenwürde, per di più in un giudizio che aveva sullo sfondo la violazione di garanzie processuali relative al giudizio contumaciale, rende probabilmente, agli occhi dei giudici europei, la pronuncia del BVerfG molto più simile al caso Melloni che a quello appena discusso.